Newsletter T&P N°95

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N°95 Ottobre 2015 1 Newsletter N° 95 Ottobre 2015 Trifirò & Partners Avvocati Diritto del Lavoro Attualità 1 Le Nostre Sentenze 9 Cassazione 12 Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo Assicurazioni, Locazioni, Responsabilità 13 Il Punto su 15 Eventi 18 R. Stampa 19 Contatti 20 Cassa Integrazione: i primi chiarimenti dell’INPS Con il messaggio n. 5919 del 24 settembre 2015, l’INPS ha fornito le prime istruzioni applicative relative alle modalità attuative del nuovo decreto legislativo n. 148 del 2015, in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro. Le domande per gli eventi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa precedenti al 24 settembre 2015 (data di entrata in vigore del decreto), potranno continuare ad essere presentate dalle aziende con le consuete modalità, previste nella previgente disciplina. Le domande per gli eventi di sospensione o riduzione verificatisi a partire dal 24 settembre 2015 dovranno, invece, seguire la nuova disciplina. In particolare: le domande devono essere corredate dall’elenco dei nominativi dei lavoratori interessati alla sospensione/riduzione di orario, nonché dal numero dei lavoratori mediamente occupati nel semestre precedente distinti per orario contrattuale. A tal fine, i datori di lavoro dovranno allegare un file in formato CSV contenente alcuni dati sugli addetti alla Unità Produttiva interessata; i dati che devono essere indicati per ciascun addetto sono riportati nel documento presente sul sito INPS, servizi online, servizi per aziende e consulenti, CIG Ordinaria, “Flusso web”, link “Documentazione” alla voce “Tracciato per invio beneficiari”; per quanto riguarda i Fondi di Solidarietà: link “Invio domande fondi di solidarietà - “area di download”, nella cartella .zip “allegati in formato .pdf”, documento: “Tracciato per invio beneficiari”. Al fine di consentire alle aziende di poter presentare le domande senza soluzione di continuità, l’elenco degli addetti alla Unità Produttiva potrà essere fornito anche in una fase successiva all’invio della domanda. Con successive circolari l’Istituto illustrerà gli altri aspetti operativi relativi alla nuova disciplina, ivi compreso il passaggio tra vecchia e nuova normativa, le nuove modalità di presentazione della domanda, nonché le ulteriori disposizioni innovative contenute nella riforma. Damiana Lesce Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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Newsletter Trifirò & Partners Avvocati N°95 Ottobre 2015

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N°95 Ottobre 2015 !1

Newsletter N° 95 Ottobre 2015

Trifirò & Partners Avvocati

Diritto del Lavoro

Attualità 1

Le Nostre Sentenze 9

Cassazione 12

Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo

Assicurazioni, Locazioni, Responsabilità 13

Il Punto su 15

Eventi 18

R. Stampa 19

Contatti 20

Cassa Integrazione: i primi chiarimenti dell’INPS Con il messaggio n. 5919 del 24 settembre 2015, l’INPS ha fornito le prime istruzioni applicative relative alle modalità attuative del nuovo decreto legislativo n. 148 del 2015, in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro. Le domande per gli eventi di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa precedenti al 24 settembre 2015 (data di entrata in vigore del decreto), potranno continuare ad essere presentate dalle aziende con le consuete modalità, previste nella previgente disciplina. Le domande per gli eventi di sospensione o riduzione verificatisi a partire dal 24 settembre 2015 dovranno, invece, seguire la nuova disciplina.

In particolare: ✦le domande devono essere corredate dall’elenco dei nominativi dei

lavoratori interessati alla sospensione/riduzione di orario, nonché dal numero dei lavoratori mediamente occupati nel semestre precedente distinti per orario contrattuale. A tal fine, i datori di lavoro dovranno allegare un file in formato CSV contenente alcuni dati sugli addetti alla Unità Produttiva interessata;

✦i dati che devono essere indicati per ciascun addetto sono riportati nel documento presente sul sito INPS, servizi online, servizi per aziende e consulenti, CIG Ordinaria, “Flusso web”, link “Documentazione” alla voce “Tracciato per invio beneficiari”; per quanto riguarda i Fondi di Solidarietà: link “Invio domande fondi di solidarietà - “area di download”, nella cartella .zip “allegati in formato .pdf”, documento: “Tracciato per invio beneficiari”.

Al fine di consentire alle aziende di poter presentare le domande senza soluzione di continuità, l’elenco degli addetti alla Unità Produttiva potrà essere fornito anche in una fase successiva all’invio della domanda. Con successive circolari l’Istituto illustrerà gli altri aspetti operativi relativi alla nuova disciplina, ivi compreso il passaggio tra vecchia e nuova normativa, le nuove modalità di presentazione della domanda, nonché le ulteriori disposizioni innovative contenute nella riforma.

Damiana Lesce Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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Newsletter T&P Social network e licenziamenti A cura di Valeria De Lucia

Il tema è già da qualche anno oggetto di disamina da parte dei Tribunali italiani. Con le novità del Jobs Act in materia di controlli a distanza, questo tema diviene nuovamente di stretta attualità.

Vediamo quali sono i principi già delineati dalla giurisprudenza e quali sono i temi che attendono ancora una risposta.

Fermo restando che le aziende saranno chiamate ad “anticipare” le prossime mosse della giurisprudenza: se vorranno sfruttare a pieno gli spazi aperti dal Jobs Act in materia di controlli a distanza (anche tramite pc, tablet, smartphone ed altri strumenti elettronici, ed anche con riguardo alle condotte sui Social Media) dovranno, infatti, redigere policy aziendali (o emendare quelle esistenti) conformi alle linee guida tracciate dalla novella legislativa.

1) Il comportamento tenuto dal lavoratore sui social può essere sanzionato dal datore di lavoro?

Talune condotte sui social possono sicuramente rivestire rilevanza disciplinare. La casistica più nutrita è certamente quella legata alla pubblicazione di commenti offensivi nei confronti dell'azienda e di chi la amministra, o dei colleghi. Bisogna partire dal presupposto che il diritto di critica del lavoratore è costituzionalmente tutelato, in quanto espressione del diritto di manifestazione del pensiero con parola, scritto, altro mezzo di diffusione, riconosciuto dall’art. 21 della Costituzione a chiunque. Lo stesso diritto è, poi, attribuito in maniera specifica ai lavoratori dallo Statuto dei Lavoratori, che sono dunque liberi di manifestare il proprio pensiero nei luoghi in cui prestano la loro opera, nel rispetto dei principi della Costituzione e dello stesso Statuto (art. 1). È, però, altrettanto meritevole di tutela costituzionale anche la reputazione dell'azienda e l'immagine delle persone che la rappresentano o che vi lavorano, sicché è inevitabile dover contemperare i due diritti per raggiungere un equo bilanciamento. Ciò premesso, le linee guida per valutare la liceità delle critiche espresse dal lavoratore tramite social media sono quelle già tracciate da tempo dalla giurisprudenza, seppure con riferimento ad altri mezzi di comunicazione o diffusione, vale a dire la continenza sostanziale e quella formale del messaggio veicolato dal lavoratore. Non conta, quindi, solo l'aspetto sostanziale e la veridicità dell'informazione diffusa, ma anche le modalità espressive ed i toni della comunicazione. Se la valutazione sulla continenza formale è piuttosto semplice in caso di utilizzo di espressioni indiscutibilmente volgari e offensive, è assai più difficile tracciare il confine tra lecito ed illecito quando la critica si esprime in maniera più sottile attraverso il cd. "sottinteso sapiente", o attraverso accostamenti “suggestivi” tra un dato “fatto aziendale” ed altri fatti, al fine di connotare negativamente il primo fatto, oppure mediante la pubblicazione di immagini poco “lusinghiere”.

Certo è che l'uso di taluni social network (si pensi in particolare a Twitter e Facebook, che hanno le potenzialità per raggiungere un numero assai rilevante di utenti, anche del tutto estranei all’azienda) pone un nuovo tema: è o non è di per sé scorretto e contrario al dovere di fedeltà il pubblicare commenti,

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Newsletter T&P quando la finalità della pubblicazione sia esclusivamente quella di screditare il datore di lavoro e non vi sia, da parte del lavoratore, un legittimo interesse sotteso alla diffusione della notizia? Ad esempio, pubblicare un post in cui (pur in maniera veritiera e con toni "pacati") si descriva nei dettagli un diverbio avuto con i colleghi, o un dubbio espresso in una riunione sulla efficacia di un nuovo prodotto in fase di lancio? È evidente che, in questi casi, la ampiezza della platea dei fruitori del post, l'entità del potenziale danno di immagine per l'azienda, il grado di riservatezza dell'informazione diffusa, oltre che la volontà lesiva dell'autore, divengono determinanti per valutare la legittimità della condotta del dipendente.

2) Al di là dei casi di ingiuria o diffamazione, quali altre condotte sono state sottoposte al vaglio della giurisprudenza, con riguardo all'utilizzo dei social da parte dei dipendenti?

L'utilizzo dei social network in orario di lavoro può avere una rilevanza "di per sé", sotto il profilo del tempo sottratto alla attività lavorativa, specie quando sfoci in un accesso smodato alla rete, che va al di là dei limiti della normale tollerabilità, secondo i criteri generali di correttezza e buona fede. In tale caso, la condotta potrebbe concretare una violazione dei doveri di diligenza del lavoratore, che può formare oggetto di una sanzione conservativa oppure, nei casi più gravi, espulsiva. La valutazione di gravità sarà ovviamente legata, oltre che al fattore tempo, anche ai danni che tale condotta possa aver creato, ad esempio provocando un ritardo nella produzione o nella tempestiva evasione di un ordine di un cliente. Altri casi statisticamente piuttosto ricorrenti sono quelli del lavoratore, magari in malattia o in aspettativa per esigenze di cura di familiari, che pubblichi foto o post che denotino come egli si stia dedicando nel contempo ad altra attività lavorativa o, comunque, ad attività che facciano dubitare delle effettive esigenze di cura, abusando quindi del suo diritto ad assentarsi per giustificati motivi. Anche questi casi dimostrano scarsa attenzione da parte di alcuni utenti dei social ad un monito espresso dalla giurisprudenza di merito, sin dai primi casi in materia, e cioè che taluni social siano equivalenti ad una piazza pubblica. Già nel 2011, in una delle prime sentenze aventi ad oggetto la diffamazione “a mezzo facebook”, la magistratura lanciava un chiaro messaggio ai fruitori dei social, stabilendo che “coloro che si iscrivono a facebook sono ben consci delle grandi potenzialità offerte dal sito ma anche delle potenziali esondazioni dei contenuti che vi inseriscono”.

3) Fino a che punto il datore può spingersi nell'accertamento di condotte quali quelle che abbiamo descritto?

Già prima del Jobs Act, la giurisprudenza aveva ritenuto leciti i cosiddetti "controlli difensivi", anche con riguardo agli strumenti tecnologici di lavoro, quando gli stessi venissero attuati a fronte del fondato sospetto della commissione di illeciti. Ancora, con riguardo alla diffamazione a mezzo social, la giurisprudenza aveva fatto osservare che, in caso di profilo aperto al pubblico o agli "amici di amici", non si potesse neppure parlare di “controllo a distanza o occulto” in ragione del fatto che il post, in quel caso, dovesse ritenersi alla stregua di una dichiarazione pubblica. A fronte della riforma dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, le possibilità di controllo si estendono ulteriormente, posto che la nuova normativa “liberalizza” il controllo tramite strumenti tecnologici (compresi pc aziendali, tablet, smartphone) assegnati al lavoratore per finalità lavorative, purché sia preceduto da una idonea informativa sui limiti di utilizzo degli strumenti di lavoro e sui possibili controlli. Sarà sicuramente oggetto di disamina in un futuro prossimo la liceità o illiceità di strumenti di controllo (ad esempio, attraverso il backup dei dati del tablet o l'utilizzo di specifiche applicazioni che registrino i contenuti caricati sul dispositivo) che possano comportare la registrazione anche di conversazioni private

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Newsletter T&P del dipendente. Spetterà alla giurisprudenza delineare la nuova linea di demarcazione tra controllo lecito ed illegittima invasione del diritto alla riservatezza della persona lavoratore, trovando un punto di equilibrio tra i due interessi contrapposti. E, alle aziende, spetterà il compito di prevenire contestazioni sul punto con policy in linea con le linee guida dettate dal Jobs Act.

4) I social vengono sempre più utilizzati anche in fase pre-assuntiva. Responsabili delle risorse umane e head hunter, a quanto pare, si informano talvolta sui candidati, "indagando" sui Social. Ci sono dei limiti a questa attività di indagine?

In Italia, a differenza di altri Paesi dove le indagini pre-employment sono vietate (ad esempio in Finlandia) o regolate, o legittimate solo a fronte di una precedente informativa fornita ai candidati (ad esempio in Francia) non abbiamo una regolamentazione ad hoc. Il riferimento normativo fondamentale in materia rimane, in assenza di una nuova disciplina, l'art. 8 dello statuto dei lavoratori che vieta al datore di lavoro di compiere indagini, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto, sulle opinioni religiose, politiche o sindacali del lavoratore (c.d. dati sensibili) nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale.

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JOB24 – Il Sole 24 Ore: 12/10/2015

VIDEO: Jobs Act – Social network e licenziamenti

Intervista a Valeria De Lucia

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Newsletter T&P Lavoro accessorio e prestazioni di sostegno al reddito: cumulabilità A cura di Damiana Lesce

Il Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 ha ridefinito il campo di applicazione e la disciplina del lavoro accessorio, abrogando la previgente normativa.

Per prestazioni di lavoro accessorio (art. 48 del decreto) si intendono attività lavorative che non danno luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 7.000 euro nel corso di un anno civile, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati. Fermo restando il limite complessivo dei 7.000 euro, per anno civile, nei confronti di committenti imprenditori o professionisti, le attività lavorative rese col sistema dei buoni lavoro possono essere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro, anche essi rivalutati annualmente.

I carnet di buoni orari, numerati progressivamente e datati, possono essere acquistati dai committenti esclusivamente attraverso modalità telematica. Il valore nominale dei buoni orari è fissato con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali. Nelle more dell’emanazione del decreto, il valore nominale del buono orario è fissato in 10 euro; nel solo settore agricolo il valore è pari all'importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata, individuata dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

L’articolo 48 del d.lgs. n. 81 del 2015, al secondo comma, prevede che prestazioni di lavoro accessorio possano essere rese, “in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di 3.000 euro di compenso per anno civile, anche essi rivalutati, da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito. L’INPS provvede a sottrarre dalla contribuzione figurativa relativa alle prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito gli accrediti contributivi derivanti dalle prestazioni di lavoro accessorio”.

La disciplina, che fa riferimento a redditi percepiti nel corso dell’intero anno civile (dal 1 gennaio al 31 dicembre), deve essere interpretata come applicabile anche alle fattispecie già sorte già nel periodo del 2015, vale a dire prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo.

Il tema della cumulabilità tra le prestazioni di sostegno al reddito e il lavoro accessorio è frutto di un recente intervento dell’INPS con la circolare n. 170 del 13 ottobre 2015.

1) Compatibilità e cumulabilità del lavoro accessorio con l’indennità di mobilità.

Dal 1 gennaio 2015 l’indennità di mobilità è interamente cumulabile con i compensi derivanti dallo svolgimento di lavoro accessorio, nel limite complessivo di euro 3.000 per anno civile, rivalutati annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati. Per i compensi che superano detto limite, fino a 7.000 euro per anno civile (limite massimo annuale rivalutabile di reddito percepibile nell’ambito del c.d. lavoro accessorio), il reddito derivante dallo svolgimento del lavoro accessorio sarà compatibile e cumulabile con l’indennità di mobilità nei limiti previsti dall’articolo 9, comma 9, della legge n. 223 del 1991 (cfr. circolare Inps n. 229 del 1996).

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Newsletter T&P Il beneficiario dell’indennità di mobilità è tenuto a comunicare all’INPS, entro cinque giorni dall’inizio dell’attività di lavoro accessorio o, se questa era preesistente, dalla data di presentazione della domanda di indennità di mobilità, il reddito presunto derivante dalla predetta attività nell’anno solare, a far data dall’inizio della prestazione di lavoro accessorio.

2) Compatibilità e cumulabilità del lavoro accessorio con la NASpI.

Sul punto, la circolare n. 170 del 13 ottobre 2015 rinvia a quanto già precisato con la precedente circolare INPS n. 142 del 29 luglio 2015: l’indennità NASpI è interamente cumulabile con i compensi derivanti dallo svolgimento di lavoro accessorio nel limite complessivo di 3.000 per anno civile. Per i compensi che superano detto limite e fino a 7.000 euro per anno civile la prestazione NASpI sarà ridotta di un importo pari all’80 per cento del compenso rapportato al periodo intercorrente tra la data di inizio dell’attività e la data in cui termina il periodo di godimento dell’indennità o, se antecedente, la fine dell’anno. Il beneficiario dell’indennità NASpI è tenuto a comunicare all’INPS entro un mese rispettivamente dall’inizio dell’attività di lavoro accessorio o, se questa era preesistente, dalla data di presentazione della domanda di NASpI, il compenso derivante dalla predetta attività.

3) Compatibilità e cumulabilità del lavoro accessorio con la cassa integrazione guadagni.

Anche le integrazioni salariali sono interamente cumulabili con i compensi derivanti dallo svolgimento di lavoro accessorio nel limite complessivo di euro 3.000 per anno civile, rivalutabile annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati. Per i compensi che superano detto limite, fino a 7.000 euro per anno civile (limite massimo annuale rivalutabile di reddito percepibile nell’ambito del c.d. lavoro accessorio), si applicherà quanto previsto dall’articolo 8, commi 2 e 3, del decreto legislativo n. 148/2015: le remunerazioni da lavoro accessorio che superino il limite dei 3.000 euro non sono integralmente cumulabili; ad esse dovrà essere applicata la disciplina ordinaria sulla compatibilità ed eventuale cumulabilità parziale della retribuzione (cfr. circolare Inps n. 130 del 2010). Conseguentemente, per il caso di emolumenti da lavoro accessorio che rientrino nel limite dei 3.000 euro annui, il lavoratore non sarà obbligato a presentare all’INPS la comunicazione preventiva di cui all’art. 8, comma 3, decreto legislativo n. 148/2015. Viceversa, la suddetta comunicazione preventiva andrà resa prima che il compenso determini il superamento del predetto limite dei 3.000 euro, anche se derivante da più contratti di lavoro accessorio stipulati nel corso dell’anno, pena la decadenza dalle integrazioni salariali.

4) Compatibilità e cumulabilità del lavoro accessorio con la disoccupazione agricola.

Anche per i trattamenti di disoccupazione agricola è confermata la compatibilità con lo svolgimento di attività di lavoro occasionale accessorio. Il diritto di cumulo dell’indennità con il reddito derivante dal lavoro accessorio svolto nell’anno di riferimento della prestazione è possibile nel limite complessivo annuale di 3.000 euro netti di compenso, rivalutati sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati. Per quanto riguarda l’applicazione della norma in argomento, precisa la Circolare n. 170, in considerazione del fatto che l’indennità di disoccupazione agricola viene richiesta ed erogata nell’anno successivo a quello in cui si è verificato lo stato di disoccupazione, la cumulabilità con tale prestazione deve essere valutata con riferimento all’eventuale attività di lavoro accessorio svolta nell’anno di competenza della prestazione.

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Newsletter T&P Licenziamento disciplinare: legittimi gli accertamenti tramite Gps collocato sull’autovettura aziendale A cura di Antonio Cazzella

La tematica dei controlli a distanza del lavoratore - e la conseguente possibilità di utilizzare i dati raccolti ai fini disciplinari - è, da lungo tempo, oggetto di un’intensa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, che ha il suo fulcro nell’interpretazione dell’art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori).

Con la recente sentenza n. 20440 del 12 ottobre 2015 la Corte di Cassazione, nell’esaminare la questione dei c.d. controlli “difensivi” (che, secondo quanto riportato in motivazione, sono quelli “intesi a rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa nonché illeciti”), ne ha affermato la legittimità “quando il lavoro dev’essere eseguito, al di fuori dai locali aziendali, ossia in luoghi in cui è più facile la lesione dell’interesse all’esatta esecuzione della prestazione lavorativa e dell’immagine dell’impresa, all’insaputa dell’imprenditore”.

Partendo da tali premesse, la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare intimato sulla base di prove acquisite, tra l’altro, mediante un sistema satellitare GPS (global positioning system), collocato sull’autovettura aziendale affidata al dipendente per svolgere il suo incarico (consistente nel coordinamento di un gruppo di addetti alla nettezza urbana). Nell’ambito della tematica dei controlli a distanza, si osserva che la possibilità di dotare i lavoratori (nel caso di specie, addetti alla distribuzione di materiale pubblicitario) di un apparecchio portatile GPS, da utilizzare per trasmettere informazioni alla banca dati aziendale, è stata oggetto di esame nella nota n. 4848 del 5 gennaio 2015 emanata dal Ministero del Lavoro, il quale - rispondendo al quesito di un’azienda - ha rilevato la necessità di valutare attentamente la tutela del lavoratore, anche a scapito delle esigenze produttive e di sicurezza, dovendosi verificare, ad esempio, se gli apparecchi GPS consentano di risalire all’identità del lavoratore e, quindi, consentire un controllo a distanza. Peraltro, con provvedimenti del 3 novembre 2014 il Garante della Privacy ha affermato la liceità nell’utilizzo di nuove tecnologie di geolocalizzazione del dispositivo mobile in dotazione dei dipendenti, a condizione che siano rispettate una serie di garanzie per il trattamento dei dati, posto che l’utilizzo di tali apparecchi è necessario a soddisfare esigenze organizzative e produttive, non riconducibili a finalità di controllo.

La tematica dei controlli a distanza è destinata, peraltro, ad essere oggetto di un incessante dibattito, in quanto l’art. 4 Stat. Lav. è stato recentemente modificato con il d.lgs. 14 settembre 2015 n. 151, entrato in vigore il 24 settembre 2015. Infatti, l’art. 4, comma 1, prevede, tra l’altro, che gli strumenti dai quali derivi la possibilità di un controllo a distanza dei lavoratori possono essere installati anche per la tutela del patrimonio aziendale, previo accordo collettivo con le RSA/RSU ovvero, in alternativa, con l’autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro.

La necessità di un accordo con le rappresentanze sindacali o dell’autorizzazione rilasciata dalla Direzione Territoriale del Lavoro è espressamente esclusa, dal secondo comma dell’art. 4 Stat. Lav., per gli “strumenti” utilizzati dal dipendente per rendere la prestazione lavorativa. Pertanto, una delle questioni da approfondire riguarderà certamente i casi di esclusione dalle limitazioni imposte dal primo comma (fermo restando che la possibilità di utilizzare le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 anche ai fini del procedimento

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Newsletter T&P disciplinare è ora espressamente prevista dal terzo comma del citato art. 4).

Con specifico riferimento alla fattispecie esaminata dalla Suprema Corte, si osserva che l’autovettura aziendale ben può essere considerato uno “strumento” di lavoro; si potrà semmai discutere se un sistema di controllo (nel caso di specie, il GPS), che non sia “connaturato” allo strumento di lavoro (cioè, ne costituisca parte integrante ab origine), debba essere sottoposto, o meno, alle prescrizioni stabilite dal primo comma (ovvero, accordo sindacale o autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro).

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LA SENTENZA DEL MESE LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO SE IL FATTO CONTESTATO FU COMMESSO ALLE DIPENDENZE DEL DATORE DI LAVORO CEDENTE (Corte di Cassazione, 9 ottobre 2015, n. 20319) “Affinché l’affidamento riposto dal datore di lavoro nelle qualità morali e nelle capacità professionali del lavoratore possa venire meno e possa giustificare il licenziamento, non è necessario che il comportamento lesivo sia tenuto durante lo svolgimento del rapporto, ma può esser sufficiente un fatto che, non ancora conosciuto o non sufficientemente accertato quando il rapporto iniziò, sia divenuto palese successivamente, durante lo svolgimento del rapporto”. Con questa motivazione la Corte di Cassazione ha riformato la sentenza della Corte d’Appello di Milano, che, disattendendo la decisione del Tribunale, aveva ritenuto non sussistente la giusta causa ed illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore - a cui era stato contestato di aver riportato una sentenza di condanna per concussione, divenuta irrevocabile - dichiarando risolto il rapporto, ma condannando la società a pagare l’indennità risarcitoria nella misura massima di 24 mensilità. Il lavoratore era stato dipendente di un Comune, che, in seguito, lo aveva distaccato presso una società sua partecipata. Questa, ricevuta comunicazione di una condanna per concussione ex art. 317 c. p. per fatti commessi allorché il lavoratore era alle dipendenze del Comune, lo aveva sospeso dal servizio. Il rapporto di lavoro del dipendente era poi definitivamente passato alla società partecipata, nell’ambito di una cessione di ramo d’azienda dal Comune. Intervenuta la sentenza di condanna definitiva - conseguente a patteggiamento - la datrice di lavoro aveva proceduto al licenziamento, previa contestazione disciplinare. I Giudici d’appello, nel riformare la sentenza di primo grado, avevano ritenuto non realizzata la previsione del contratto collettivo di categoria (CCNL Acqua e gas), che prevedeva il licenziamento senza preavviso per condanne definitive a pena detentiva, che ledessero “la figura morale” del lavoratore, perché - a dire dei Giudici - le condotte illecite a cui era conseguita la condanna erano state commesse alle dipendenze del Comune e non avevano perciò alcun legame con l’attività svolta presso il nuovo datore: in sostanza, il mutamento del datore di lavoro e delle mansioni escludevano la giusta causa. La Corte di Cassazione, rilevato che, nel caso di trasferimento di azienda ex art. 2112 cod. civ., i mutamenti di titolarità non interferiscono con i rapporti di lavoro intercorsi con il cedente, che continuano a tutti gli effetti con il cessionario, il quale subentra nella stessa posizione del cedente e può esercitare il potere disciplinare per fatti precedenti la cessione dell’azienda, ha affermato che ben poteva la società cessionaria intimare il licenziamento per fatti illeciti commessi dal lavoratore allorché era alle dipendenze del cedente, in base al più generale principio che, quando il fatto illecito, di natura penale, incide sulla figura morale del lavoratore e sia previsto dal contratto di lavoro come causa di licenziamento - come nel caso giudicato - il recesso è legittimo anche se la condotta sia commessa durante un precedente rapporto, intercorso con altro datore. La Cassazione ha poi sottolineato che il requisito dell’affidabilità morale deve essere valutato più severamente quando il reato di cui il lavoratore si è reso responsabile riveli una scarsa attitudine all’imparzialità ed alla cura del buon andamento dell’ufficio, requisiti questi particolarmente richiesti ai dipendenti di una società con partecipazione pubblica al capitale (quale era la datrice di lavoro). Con la sua decisione la Suprema Corte ha così accolto integralmente la tesi della società ed ha, nel contempo, respinto il ricorso incidentale del lavoratore, confermando, con riferimento ai vizi della

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sentenza impugnata lamentati da quest’ultimo, due importanti principi, che vale la pena ricordare: i) è legittima la contestazione per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale a carico del lavoratore, per fatti rilevanti anche disciplinarmente, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell’interessato, risultando in tal modo rispettati i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio; ii) qualora il contratto collettivo preveda quale causa di licenziamento la condanna ad una pena detentiva con sentenza passata in giudicato, la sentenza di patteggiamento è equiparabile alla sentenza definitiva emessa in seguito a dibattimento. Causa seguita da Marina Olgiati

ALTRE SENTENZE

IL SOCIO DI COOPERATIVA ESCLUSO DEVE IMPUGNARE, A PENA DI DECADENZA, SIA LA DELIBERA DI ESCLUSIONE CHE IL SOTTOSTANTE LICENZIAMENTO (Tribunale di Milano, ordinanza 19 ottobre 2015)

Un socio lavoratore è stato escluso da una cooperativa con delibera del Consiglio di Amministrazione. In seguito alla risoluzione del rapporto associativo, con separata lettera raccomandata, la cooperativa ha comunicato al lavoratore la conseguente risoluzione anche del sottostante rapporto di lavoro subordinato. Il socio lavoratore ha impugnato la delibera di esclusione innanzi al Giudice Civile, chiedendone l’annullamento, ma non ha impugnato la comunicazione di interruzione del rapporto di lavoro subordinato entro 60 giorni dalla ricezione della stessa. Con ordinanza cautelare, peraltro poi revocata dal Collegio in sede di reclamo, il Giudice Civile ha sospeso la delibera di esclusione, dichiarando il diritto del socio lavoratore di riprendere servizio in pendenza della causa civile. Preso atto di tale ordinanza cautelare (nelle more del reclamo che, poi, è stato accolto), la cooperativa ha intimato al socio lavoratore il licenziamento per giusta causa, richiamando i motivi che ne hanno determinato l’esclusione. Questa volta il lavoratore ha impugnato il licenziamento, chiedendo al Giudice del Lavoro di Milano, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92/2012 (legge Fornero), di essere reintegrato nel posto di lavoro. Con l’ordinanza in commento, il Giudice del Lavoro di Milano ha dichiarato che la (prima) comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, successiva all’esclusione del socio lavoratore, costituisce - sotto il profilo sostanziale - un licenziamento e, come tale, avrebbe dovuto essere impugnata a pena di decadenza entro 60 giorni. In mancanza di tale impugnazione e del deposito del ricorso nei successivi 180 giorni, il rapporto di lavoro subordinato deve intendersi definitivamente cessato a prescindere dall’impugnazione della delibera di esclusione e dall’intimazione del (secondo) licenziamento, intervenuto a rapporto di lavoro già cessato. Causa seguita da Tommaso Targa

RIPARTIZIONE DELL’ONERE DELLA PROVA NEI PROCEDIMENTI DISCIPLINARI (Corte d’Appello di Milano, n. 431, 12 ottobre 2015)

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 431 del 12 ottobre 2015, ha chiarito in modo esauriente la ripartizione dell’onere della prova, nel caso di impugnazione di procedimenti disciplinari. Il caso riguarda una lavoratrice che aveva accusato il suo superiore di molestie (inviando mail al Responsabile del settore e dichiarandolo avanti a più persone), che, in realtà, non risultavano in alcun modo dimostrate, per cui la società aveva contestato alla lavoratrice di aver diffamato il suo superiore.

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La Corte ha ritenuto, da un lato, che la società aveva dettagliatamente specificato i fatti contestati, peraltro non negati dalla lavoratrice, e, dall’altro, che la lavoratrice si era limitata ad addurre genericamente molestie molto risalenti nel tempo, mentre, secondo la Corte, “era onere della lavoratrice offrire alla società idonei elementi di prova per verificare la veridicità di quanto denunciato”, oltre a “denunciare tempestivamente i fatti” (ovvero non quasi 10 anni dopo). Di conseguenza, in assenza di un minimo elemento a supporto delle di lei affermazioni e considerata anche la gravità delle accuse mosse, la Corte ha ritenuto integrata la diffamazione, tale da ledere l’elemento fiduciario, si da giustificare un licenziamento, per cui la massima sanzione conservativa, irrogata dalla società, era sicuramente legittima. Fermo, quindi, che al datore di lavoro compete la prova dei fatti contestati, la Corte di Milano ha anche affermato il corretto principio, di cui non si reperiscono molti precedenti in giurisprudenza (V., però, Cass. sez. lav. 8 gennaio 2000  n. 143, in fattispecie analoga a quella sottoposta alla Corte d’Appello), che è onere del lavoratore provare i fatti che adduce a giustificazione del proprio comportamento. Causa seguita da Anna Maria Corna

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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONE A cura di Stefano Beretta e Antonio CazzellaLICENZIAMENTO DISCIPLINARE: FATTISPECIE VARIECon sentenza n. 21017 del 16 ottobre 2015 la Corte di Cassazione ha affermato che usare termini offensivi ed ingiurie con valenza discriminatoria nei confronti di un collega - che ha manipolato la realtà, riferendo ad un superiore fatti non corrispondenti al vero (nel caso di specie, di aver ricevuto un ordine dal dipendente licenziato) - non legittima il licenziamento per giusta causa, in quanto impartire ordini ad un collega senza averne i poteri è cosa differente, come accertato in causa, da quella di chiedere la collaborazione per l’espletamento di un servizio e, dunque, la reazione verbale del lavoratore licenziato è conseguenza di una provocazione. Con sentenza n. 19921 del 6 ottobre 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento del condannato in sede penale per abuso d’ufficio; nel caso di specie, si trattava di un dipendente con mansioni di infermiere presso la sala mortuaria dell’ospedale – ove operava, quindi, in veste di incaricato di un pubblico servizio – il quale, abusando del suo potere, non apriva tempestivamente le porte della camera mortuaria impedendo agli addetti delle ditte di pompe funebri la vestizione e preparazione della salma; per evitare tali “inconvenienti” chiedeva ai titolari delle predette ditte di corrispondergli una somma di denaro. Al fini del licenziamento ha assunto rilevanza, a prescindere dal vantaggio economico, non solo la minaccia implicita nel contegno ostruzionistico del dipendente, ma anche gli inconvenienti conseguenti al rifiuto di pagare, ovvero, tra l’altro, il ritardo nella preparazione e consegna della salma, così compromettendo il fondamentale presupposto operativo di un’impresa funebre, che riposa proprio sulla rapidità ed efficienza del servizio prestato ai familiari. Con sentenza n. 20087 del 7 ottobre 2015 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente che, nell’ambito delle sue mansioni, aveva agevolato alcuni soggetti a sottrarre all’azienda carburante, attraverso la fraudolenta alterazione della tara dell’autocisterna.

RECESSO PER GIUSTA CAUSA NEL RAPPORTO DI AGENZIA: FATTISPECIE VARIECon sentenza n. 19742 del 2 ottobre 2015 la Corte di Cassazione ha affermato che è legittimo il recesso per giusta causa dell’agente commerciale nei cui confronti il committente ha tenuto un rapporto non collaborativo, procrastinando il pagamento di quanto dovuto, tanto da ingenerare dubbi sull’adempimento degli obblighi contrattuali. Nel caso di specie, è accaduto che, dopo un litigio con il committente, all’agente veniva impedito l’accesso ai documenti ed agli uffici, con pretesa di scomputare dal dovuto per provvigioni ingenti somme non dovute dall’agente, così procrastinando il pagamento di quanto spettante. Con sentenza n. 19300 del 29 settembre 2015 la Corte di Cassazione ha affermato che, ove il preponente (nel caso di specie, un istituto di credito) receda dai contratti procurati dall’agente, non si configura una giusta causa di recesso laddove quest’ultimo receda, a sua volta, dal rapporto di agenzia per una presunta lesione all’immagine professionale. Infatti, sebbene la nozione di giusta causa nell’ambito del rapporto di agenzia possa comprendere anche fatti di minore gravità rispetto al rapporto di lavoro subordinato, nella fattispecie il promotore non aveva dimostrato la pretesa lesione dell’immagine professionale e la mala fede del preponente, posto che quest’ultimo non aveva alcun obbligo di mantenere i contratti procurati dall’agente.

RISARCIMENTO DEL DANNO DA DEMANSIONAMENTO: FATTISPECIE VARIECon sentenza n. 19930 del 6 ottobre 2015 la Corte di Cassazione ha affermato che non spetta il risarcimento del danno da demansionamento, laddove il lavoratore - a seguito della soppressione dell’attività lavorativa da lui svolta e per evitare un trasferimento - abbia espressamente accettato, per iscritto, di svolgere mansioni non rispondenti ai canoni della qualifica ricoperta, essendo stato peraltro accertato che, mancando l’accettazione allo svolgimento delle nuove mansioni, il rifiuto del dipendente di trasferirsi avrebbe comportato il trasferimento ovvero la risoluzione del rapporto di lavoro per ragioni organizzative. Con sentenza n. 18431 del 23 settembre 2015 la Corte di Cassazione ha affermato che il protrarsi nel tempo di una situazione illegittima, quale il demansionamento di un lavoratore, non integra acquiescenza da parte di quest’ultimo; la Suprema Corte ha ritenuto corretti i parametri utilizzati per quantificare il risarcimento da parte della Corte di merito, che aveva considerato anche la parte variabile della retribuzione ai fini del danno patrimoniale, nonché il danno non patrimoniale consistente, tra l’altro, nella perdita di considerazione e di prestigio nell’ambito lavorativo, con riflessi anche sulle altre relazioni interpersonali.

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Newsletter T&P ASSICURAZIONI, LOCAZIONI, RESPONSABILITÀ

A cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

LOCAZIONE AD USO

ABITATIVO

Ai sensi dell’art. 13, comma 1, della l. n. 431 del 1998, in ipotesi di locazione ad uso abitativo registrata per un canone inferiore al reale, il contratto resta valido per il canone apparente, mentre l'accordo simulatorio relativo al maggior canone è affetto da nullità, insanabile dall’eventuale registrazione tardiva.(Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n.18213)

LOCAZIONE AD USO

ABITATIVO - FORMA

SCRITTA

Il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta richiesta dall’art. 1, comma 4, della l. n. 431 del 1998 è affetto da nullità assoluta, rilevabile d’ufficio, attesa la “ratio” pubblicistica di contrasto all’evasione fiscale, eccettuata l’ipotesi in cui la forma verbale sia stata imposta dal locatore, nel qual caso l’invalidità è una nullità di protezione del conduttore, solo da lui denunciabile. (Cassazione, Sez. Unite, 17 settembre 2015, n.18214)

DIRITTO DI SURROGA

DELL’ASSICURATORE

La surrogazione ex art. 1916, c.c., determina la successione a titolo particolare (totale o solo parziale) dell'assicuratore nei diritti dell'assicurato verso il terzo responsabile, talché nella relativa azione non viene in considerazione il rapporto assicurativo di carattere pubblicistico concernente gli infortuni sul lavoro, ma soltanto la responsabilità aquiliana dell'autore dell'atto illecito, obbligato a risarcire il danneggiato o, in sua vece, l'assicuratore che gli abbia anticipato l'indennizzo, sicché il responsabile non è legittimato ad opporre all'assicuratore eccezioni concernenti il contenuto del rapporto, salvo che esse incidano sulla misura del risarcimento del danno cui egli sarebbe tenuto nei confronti del danneggiato. (Cassazione, 18 settembre 2015, n.18304)

IMPUTAZIONE DI

PAGAMENTO

In base al combinato disposto di cui agli artt. 1193 e 2697 c.c., ove il convenuto eccepisca il pagamento del debito, dimostrando di aver già corrisposto all'attore una somma idonea alla sua estinzione, l'attore, il quale controdeduca che l'eseguito pagamento è da imputare ad un debito diverso da quello dedotto in giudizio, ha l'onere di provare l'esistenza di tale altro suo credito, nonché la sussistenza delle condizioni necessarie per l'allegata diversa imputazione. (Cassazione, 21 settembre 2015, n.18471)

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LOCAZIONE

FINANZIARIA

In tema di locazione finanziaria, ove i vizi della cosa siano emersi prima della consegna, il concedente deve sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore, nei cui confronti può agire per la risoluzione del contratto di fornitura o la riduzione del corrispettivo, mentre, se si siano rivelati dopo la consegna, l'utilizzatore ha azione diretta verso il fornitore. In ogni caso, lo stesso utilizzatore può agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni e la restituzione dei canoni già pagati al concedente. (Cassazione Sez. Unite, 5 ottobre 2015, n. 19785)

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IL PUNTO SU A cura di Vittorio Provera

IL RUOLO DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE NELLA COMPRAVENDITA IMMOBILIARE

Come molti avranno sperimentato personalmente, l’acquisto di un immobile non avviene di frequente attraverso la semplice stipula del rogito con trasferimento del bene preceduta, tutt’al più, da un contratto preliminare con cui le parti si impegnano alla futura conclusione del contratto definitivo ed ove sono individuati i contenuti e le condizioni dell’atto conclusivo.

Soprattutto nelle grandi realtà metropolitane - ove è radicata la presenza di mediatori immobiliari che svolgono assistenza nella ricerca dell’immobile e nella messa in contatto dalle parti - l’operazione può essere resa più complessa dall’attività di questi ultimi, laddove adottano la prassi di fare incontrare i potenziali contraenti solo dopo la sottoscrizione, separata, di intese scritte nelle quali sono fissati i punti chiave dell’operazione (identità dei soggetti, individuazione del bene, condizioni di vendita, ecc.). Il mediatore agisce attraverso l’utilizzo di modulo prestampato (generalmente predisposto dalla Società di intermediazione a cui sono affiliati), che integra una vera e propria proposta irrevocabile di acquisto, che verrà firmata dal potenziale acquirente. Il mediatore, poi, inoltrerà detta proposta al potenziale venditore (proprietario dell’immobile), il quale entro un determinato periodo di tempo potrà sottoscrivere la stessa, in modo da poter perfezionare l’intesa.

È agevole rilevare, attraverso la disamina di tali atti e modulistica, che sia prevista anche la stipula di un successivo preliminare (il cosiddetto compromesso). Si tratta, in molti casi, di un escamotage che ha uno scopo fondamentalmente “cosmetico”, al fine di tranquillizzare le parti (soprattutto il potenziale acquirente), in ordine alla effettiva portata della modulistica che è stata compilata e firmata, quasi sempre accompagnata dal pagamento di un acconto, qualificato anche come caparra.

Infatti, prevedendo in tale sede la stipula di un successivo contratto preliminare prima del rogito (laddove non si registrano sostanziali necessità) si può indurre gli interessati a credere che abbiano sottoscritto un atto meno formale, meramente “transitorio” e non vincolante; mentre solo alla stipula del successivo contatto preliminare, accompagnato dal versamento di un ulteriore acconto, i contraenti sarebbero effettivamente impegnati al perfezionamento della successiva compravendita.

Ma vi è di più, attraverso la compilazione e la firma della citata modulistica, il mediatore può agevolmente sostenere di aver concluso la sua attività con diritto al compenso provigionale. Il tutto, peraltro, senza assumersi la responsabilità di curare la stipula del contratto preliminare, con conseguenti oneri di individuazione del bene, accertamento di eventuali vincoli, ecc. che vengono sostanzialmente demandati al Notaio. E ancora, nella predetta modulistica, peraltro, è prevista la disciplina della provvigione a carico del potenziale acquirente ed in favore del mediatore, qualora il venditore accetti l’offerta.

In tal modo si ottiene, con immediatezza, l’espresso riconoscimento del compenso in un atto scritto e firmato da un soggetto che, in quei momenti, è sicuramente più concentrato sulla parte sostanziale della sua proposta, non avendo neppure diretta conoscenza, del proprietario.

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Newsletter T&P Viene così anche ridotto il rischio che, una volta messe in contatto le parti, si eluda il pagamento della provvigione. Infine, non bisogna dimenticare che, acquisendo più proposte, lo stesso mediatore potrebbe presentare, nonché “sponsorizzare”, al potenziale venditore quella più conveniente sotto il profilo della maggior provvigione in suo favore. In definitiva, vi sono molteplici ragioni che stanno alla base dell’uso (e talvolta abuso) di questa sorta di preliminare del preliminare, che non ha sostanziali giustificazioni in interessi oggettivi delle parti coinvolte, ma risponde ad un’esigenza di un terzo soggetto.

In questo quadro di interessi socio economici, si inserisce una recente decisione della Suprema a Corte a Sezioni Unite (Cassazione sentenza del 6 marzo 2015 n. 4628), intervenuta a dirimere una controversia in materia di preliminare di preliminare, chiarendo entro quali limiti sia giuridicamente rilevante un accordo negoziale con cui le parti si obbligano a stipulare un successivo contratto, avente esclusivamente effetti obbligatori (appunto il preliminare del preliminare). La decisione è stata provocata dal ricorso proposto da due promittenti venditori di una porzione di fabbricato, i quali avevano sottoscritto con i promissari acquirenti un accordo di natura preparatoria intitolato “dichiarazione preliminare d’obbligo”. Nel medesimo erano stati inseriti gli elementi essenziali del futuro negozio e l’impegno a stipulare un successivo regolare preliminare di vendita, subordinato alla liberazione del fabbricato da un’ipoteca iscritta in favore di un istituto di credito. Si conveniva, quindi, che in seguito all’avvenuta estinzione dell’ipoteca, i soggetti avrebbero concluso il vero preliminare, fissando le modalità di pagamento del futuro rogito. Tuttavia gli aspiranti acquirenti si rifiutavano di procedere alla conclusione del compromesso ed a fronte di azione giudiziaria dei promittenti venditori (con cui si chiedeva - in base alla dichiarazione preliminare - una sentenza costitutiva che producesse gli effetti traslativi del contratto definitivo) i giudici di merito - Tribunale di Avellino e Corte d’Appello di Napoli - respingevano le domande, asserendo che il cosiddetto preliminare di preliminare doveva considerarsi nullo, per mancanza di causa e quindi non meritevole di tutela.

La Suprema Corte a Sezioni Unite - intervenuta sul punto - ha sostanzialmente stabilito il principio in forza del quale, in presenza di “contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che si è scandita in due fasi, con la previsione di stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il Giudice di merito deve innanzitutto verificare se tale accordo costituisca già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex artt. 1351 e 2932 c.c., ovvero anche e soltanto effetti obbligatori, ma con esclusione dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento”. A fronte di tale accertamento: “Riterrà produttivo di effetti l’accordo denominato come preliminare, con il quale i contraenti si obbligano alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto, basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare”.

In sintesi, secondo le Sezioni Unite, si possono presentare due possibilità:

A) Un preliminare che preveda l’impegno delle parti di continuare la contrattazione e di addivenire ad un secondo preliminare di contenuto parzialmente diverso dal primo, in quanto vi sono ulteriori ed anche diverse intese da raggiungere successivamente alla stipula del primo accordo.

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Newsletter T&P In questo caso entrambi gli impegni sono da considerarsi validi.

B) Un preliminare che - pur contenendo già tutti gli elementi essenziali dell’intesa - preveda un obbligo di stipulare successivamente un ulteriore identico accordo obbligatorio (come può accadere nel caso della modulistica sopra descritta). In questa seconda ipotesi, la clausola che impone la stipula di un secondo preliminare sarebbe nulla, mentre sarebbe valido e vincolante il restante contenuto dell’intesa già perfezionata nella modulistica, con tutte le relative conseguenze ed obblighi (in pratica si considera concluso il compromesso di vendita). Si tratta di una statuizione importante, che impone alle parti contraenti di effettuare una attenta disamina degli impegni assunti in fase di trattativa, anche attraverso l’attività dei mediatori, poiché potrebbero determinarsi conseguenze immediate a loro carico (assoggettamento delle parti contraenti a tutti gli effetti propri di un preliminare).

Inoltre gli stessi Notai, eventualmente poi coinvolti nella stipula di un eventuale secondo preliminare o del rogito, potrebbero trovarsi in situazioni critiche in quanto, se i futuri acquirenti e venditori hanno già stipulato un preliminare di preliminare, che contiene tutti gli elementi fondamentali della compravendita, sarebbe inutile a dar corso ad ulteriori intese, prima del definitivo.

È immaginabile, infine, una modifica delle condizioni - attualmente riportate in talune modulistiche utilizzate dai mediatori - con l’obiettivo di distinguerle dagli impegni propri dei contratti preliminari.

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Eventi

✦Milano, 23 e 30 Novembre 2015, ore 17.30 – 19.30ALDAI, via Larga n. 31Incontro ALDAI: Il dirigente e il suo contratto di lavoro oggi Come cambia il rapporto di lavoro dei manager alla luce delle nuove norme legislative ✦23 Novembre 2015: Svolgimento del rapporto di lavoro ✦30 Novembre 2015: Cessazione del rapporto di lavoro Relatori: Salvatore Trifirò e Stefano Trifirò

Archivio Eventi ✦ Bergamo, 27 Ottobre 2015 Seminario Confimi Apindustria: I nuovi decreti attuativi del Jobs Act Relatori: Orazio Marano, Tommaso Targa, Valeria De Lucia, Diego Meucci

✦Cremona, 28 Ottobre 2015 Incontro Associazione Industriali Cremona: Il controllo a distanza dei lavoratori e la disciplina delle mansioni Relatori: Anna Maria Corna e Giorgio Molteni

Unione Parmense degli Industriali - Parma, 16 Ottobre 2015

Convegno UPI: Jobs Act. Riforma del lavoro.

Relatori: Stefano Beretta, Giorgio Molteni, Luca Peron, Damiana Lesce

✦Gazzetta di Parma: 17/10/2015

Jobs act, strumento utile ma ancora troppo complesso

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Rassegna Stampa

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 27/10/2015 Legittimo il licenziamento se il fatto contestato fu commesso alle dipendenze del datore di lavoro cedentedi Marina Olgiati

CorrierEconomia – Corriere della Sera: 26/10/2015 Licenziamenti e demansionamenti: non c’è deregulation, i confini sono chiariIntervista a Stefano Trifirò

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 22/10/2015 Il socio di cooperativa escluso deve impugnare, a pena di decadenza, sia la delibera di esclusione che il sottostante licenziamentodi Tommaso Targa

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 19/10/2015 Licenziamento disciplinare: legittimi gli accertamenti tramite Gps collocato sull’autovettura aziendaledi Antonio Cazzella

Gazzetta di Parma: 17/10/2015 Jobs act, strumento utile ma ancora troppo complesso

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 15/10/2015 Legittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto anche in caso di lamentato strainingdi Claudio Ponari e Anna Minutolo

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 13/10/2015 Ripartizione dell’onere della prova nei procedimenti disciplinaridi Anna Maria Corna

JOB24 – Il Sole 24 Ore: 12/10/2015 VIDEO: Jobs Act – Social network e licenziamentiDr Job – Social network, controlli e licenziamenti: in 4 domande cosa si può (e non si può) fareIntervista a Valeria De Lucia

Diritto24 - Il Sole 24 Ore: 05/10/2015 L’abuso dello stato di dipendenza economica da parte di imprese produttrici distributrici verso imprese clientidi Vittorio Provera

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