Newsletter T&P N°79

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N°79 Maggio 2014 1 Newsletter N° 79 Maggio 2014 Trifirò & Partners Avvocati Diritto del Lavoro Attualità 4 Le Nostre Sentenze 8 Cassazione 12 Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo Le Nostre Sentenze 13 Assicurazioni 14 Il Punto su 16 R. Stampa 18 Contatti 20 Le novità introdotte dalla legge 16 maggio 2014 n. 78 Il 20 maggio scorso è entrata in vigore la Legge 16 maggio 2014, n. 78, di conversione del decreto legge 20 marzo 2014, n. 34 (c.d. Jobs Act) che a detta di alcuni rappresenta una svolta “epocale” soprattutto per quanto attiene agli interventi sulla disciplina del contratto a tempo determinato. In questa sede ci limiteremo a segnalare le principali novità introdotte dalla suddetta normativa in quanto approfondimenti specifici dei singoli istituti verranno fatti nei prossimi numeri della newsletter. La novità più eclatante (e discussa) è l’abolizione dell’obbligo di indicare nel contratto le ragioni tecnico-organizzative o produttive giustificatrici del termine (art. 1, comma 1, DLgs 368/2001), sia per i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, che per i contratti di somministrazione a tempo determinato. L’assunzione a termine non è liberalizzata in termini assoluti ma è tuttavia soggetta a specifici limiti quantitativi. Più precisamente la durata complessiva non può comunque essere superiore a 36 mesi. All’interno di tale durata complessiva devono essere incluse tutte le eventuali proroghe, nonché gli eventuali ulteriori (o precedenti) contratti a termine intercorsi, ma soprattutto anche dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti fra i medesimi soggetti nell’ambito di contratti di somministrazione. Altro limite introdotto è il contingentamento, nel senso che possono essere effettuate assunzioni a tempo determinato nei limiti del 20% dei dipendenti assunti a tempo indeterminato. Per l’individuazione del numero occorre far riferimento al 1° dell’anno a cui si riferisce l’assunzione. Esulano dal contingentamento (ma non dalla durata complessiva dei 36 mesi) i contratti a termine stipulati: per l’avvio di nuove attività, per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità; per spettacoli radiofonici o televisivi per i lavoratori di età superiore ai 55 anni. Esulano anche dal limite di durata i contratti a tempo determinato stipulati tra enti di ricerca - pubblici o privati - con lavoratori addetti in via esclusiva ad attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica, ovvero di direzione e coordinamento a questa. In tale ipotesi il contratto può avere durata pari al progetto di ricerca al quale si riferiscono.

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Newsletter Trifirò & Partners Avvocati N°79 Maggio 2014

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Newsletter N° 79 Maggio 2014

Trifirò & Partners Avvocati

Diritto del Lavoro

Attualità 4

Le Nostre Sentenze 8

Cassazione 12

Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo

Le Nostre Sentenze 13

Assicurazioni 14

Il Punto su 16

R. Stampa 18

Contatti 20

Le novità introdotte dalla legge 16 maggio 2014 n. 78Il 20 maggio scorso è entrata in vigore la Legge 16 maggio 2014, n. 78, di conversione del decreto legge 20 marzo 2014, n. 34 (c.d. Jobs Act) che a detta di alcuni rappresenta una svolta “epocale” soprattutto per quanto attiene agli interventi sulla disciplina del contratto a tempo determinato. In questa sede ci limiteremo a segnalare le principali novità introdotte dalla suddetta normativa in quanto approfondimenti specifici dei singoli istituti verranno fatti nei prossimi numeri della newsletter. La novità più eclatante (e discussa) è l’abolizione dell’obbligo di indicare nel contratto le ragioni tecnico-organizzative o produttive giustificatrici del termine (art. 1, comma 1, DLgs 368/2001), sia per i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, che per i contratti di somministrazione a tempo determinato.L’assunzione a termine non è liberalizzata in termini assoluti ma è tuttavia soggetta a specifici limiti quantitativi. Più precisamente la durata complessiva non può comunque essere superiore a 36 mesi.All’interno di tale durata complessiva devono essere incluse tutte le eventuali proroghe, nonché gli eventuali ulteriori (o precedenti) contratti a termine intercorsi, ma soprattutto anche dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti, svolti fra i medesimi soggetti nell’ambito di contratti di somministrazione.Altro limite introdotto è il contingentamento, nel senso che possono essere effettuate assunzioni a tempo determinato nei limiti del 20% dei dipendenti assunti a tempo indeterminato. Per l’individuazione del numero occorre far riferimento al 1° dell’anno a cui si riferisce l’assunzione. Esulano dal contingentamento (ma non dalla durata complessiva dei 36 mesi) i contratti a termine stipulati: • per l’avvio di nuove attività, • per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità;• per spettacoli radiofonici o televisivi• per i lavoratori di età superiore ai 55 anni.Esulano anche dal limite di durata i contratti a tempo determinato stipulati tra enti di ricerca - pubblici o privati - con lavoratori addetti in via esclusiva ad attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica, ovvero di direzione e coordinamento a questa. In tale ipotesi il contratto può avere durata pari al progetto di ricerca al quale si riferiscono.

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Newsletter T&PIn caso di violazione del limite percentuale, è prevista una sanzione amministrativa, pari al 20% della retribuzione del lavoratore, per ogni mese o frazione di mese superiore ai 15 giorni, ove si tratti di un solo lavoratore e pari al 50% della retribuzione, ove si tratti di più di un lavoratore.La legge di conversione, con disciplina transitoria, ha stabilito che in fase di prima applicazione, conservano efficacia le diverse previsioni dei CCNL di settore, in ordine al limite percentuale al ricorso ai contratti a tempo determinato, fermo che il datore di lavoro, ove superi il limite del 20%, dovrà adeguarsi alla nuova disciplina entro il 31 dicembre 2014, salvo che il contratto collettivo applicato in azienda preveda un limite percentuale o un termine più favorevole. In caso contrario, invece, il datore di lavoro non potrà più fare nuove assunzioni fino a quando non sarà rientrato nel limite percentuale fissato dal medesimo decreto.Altra novità introdotta è la possibilità di prorogare il contratto (nel predetto limite complessivo dei 36 mesi) per ben 5 volte, senza che sia necessaria alcuna motivazione (fermo restando il necessario consenso del lavoratore), a condizione che resti invariata l’attività lavorativa prevista dal contratto iniziale.Altra importante novità riguarda l’aspetto formale del contratto che deve essere redatto per iscritto (sebbene senza più l’indicazione delle ragioni) come in precedenza, ma deve contenere l’espresso richiamo al diritto di precedenza che, lo ricordiamo spetta ai lavoratori che abbiano lavorato per più di sei mesi in forza di uno o più contratti a termine presso la stessa azienda in caso di assunzioni a tempo indeterminato effettuate nei 12 mesi successivi alla scadenza del contratto con riferimento alle mansioni già espletate. In proposito sono state introdotte nuove disposizioni a favore delle lavoratrici il cui congedo di maternità intervenga durante l’esecuzione di un contratto a termine: tale periodo concorre a determinare quello utile ai fini del diritto di precedenza anche per le successive assunzioni a tempo determinato effettuate nei 12 mesi successivi con riferimento alle mansioni già espletate. Resta invariato il diritto di precedenza già previsto per gli stagionali in caso di nuove assunzioni per le medesime attività stagionali.Il nuovo Governo con la legge n. 78/2014 è nuovamente intervenuto anche con riguardo al contratto di apprendistato, introducendo modifiche di rilievo, dirette fondamentalmente a semplificare l’adozione dell’istituto. Il Testo Unico sull’apprendistato demandava agli accordi interconfederali o ai contratti collettivi, la disciplina specifica del contratto fermi restando alcuni requisiti indispensabili quali: la forma scritta del contratto, del patto di prova e del relativo piano formativo individuale, da definire anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o degli Enti bilaterali. La nuova disciplina dopo una iniziale modifica, ha mantenuto l’obbligo della forma scritta sia per il contratto che per il patto di prova, mentre, per quanto riguarda il piano formativo individuale questo deve essere indicato nel contratto, anche se in forma sintetica, utilizzando se del caso formulari e moduli stabiliti della contrattazione collettiva e da Enti bilaterali.

È stata invece abrogata la possibilità per la contrattazione collettiva di prevedere forme e modalità per la conferma in servizio, senza nuovi maggiori oneri per la finanza pubblica, al termine del percorso formativo, al fine di ulteriori assunzioni in apprendistato. Sono state poi modificate le disposizioni che subordinano l’assunzione di nuovi apprendisti alla avvenuta conferma di una percentuale di contratti analoghi conclusi in precedenza. Più precisamente, salva diversa regolamentazione contenuta nella contrattazione collettiva, per i datori di lavoro che occupano almeno 50 dipendenti l’assunzione di nuovi apprendisti è comunque condizionata dalla prosecuzione (con contratti di lavoro a tempo indeterminato) nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20% degli apprendisti dello stesso datore di lavoro. Per il computo di tale percentuale non si deve tenere conto dei rapporti cessati per dimissioni, licenziamento per giusta causa o mancato superamento della prova.

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Newsletter T&PUlteriore importante novità riguarda l’ambito del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale dove, fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva ed in considerazione della componente formativa del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione nella misura del 35% del monte ore complessivo. Cioè viene stabilita nella misura del 35% della retribuzione del livello contrattuale di riferimento, la retribuzione dell’apprendista per la parte relativa alla formazione.

Infine, è stato ridimensionato (nel contratto di apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere) l’obbligo per il datore di lavoro di integrare la formazione interna di tipo professionalizzante e di mestiere con l’offerta formativa pubblica interna o esterna all’azienda, finalizzata all’acquisizione di competenze di base trasversali. Luca D’Arco

Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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Trasferimento di ramo di azienda e art. 2112 c.c. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, IX Sezione, 6 marzo 2014, causa C-458/12 A cura di Jacopo MorettiLa Corte di Giustizia dell’Unione Europea con sentenza del 6 marzo 2014, causa C-458/12 è tornata a pronunciarsi in tema di trasferimento di azienda, statuendo, in relazione in particolare ad un caso di cessione di ramo di azienda ex art. 2112 c.c. tra una società controllante e una sua controllata, i seguenti significativi principi:

1. non è in contrasto con la Direttiva 2001/23/CE del Consiglio del 12 marzo 2001 - concernente il ravvicinamento della legislazioni degli Stati membri relativi al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti - una normativa come quella italiana la quale, in presenza di un trasferimento di ramo di azienda, consenta la successione del cessionario nei rapporti di lavoro del cedente, senza necessità del consenso dei lavoratori ceduti, anche qualora il ramo di azienda oggetto del trasferimento non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma già preesistente al trasferimento;

2. non è in contrasto con la summenzionata Direttiva una normativa come quella italiana che consenta all’impresa cedente di esercitare, dopo il trasferimento del ramo di azienda, un intenso potere di supremazia nei confronti della cessionaria.

La fattispecie

Un’azienda italiana operante nel settore delle telecomunicazioni procedeva ad una riorganizzazione interna in forza della quale suddivideva una sua struttura unica, che integrava le attività operative di innovazione, progettazione, realizzazione, esercizio applicativo ed esercizio infrastrutturale delle soluzioni informatiche, in una decina di sottostrutture, tre delle quali venivano inglobate nel ramo “IT Operations”. Il suddetto ramo, successivamente, veniva trasferito dalla società ad una propria controllata mediante un conferimento in natura nel capitale di quest’ultima. I lavoratori addetti al ramo proseguivano, senza prestare il proprio consenso, il loro rapporto di lavoro con la controllata, ai sensi dell’art. 2112, co. 1, c.c. I lavoratori ceduti proponevano ricorso innanzi al Tribunale di Trento, ritenendo che tale conferimento non potesse essere qualificato come trasferimento di parte di azienda ai sensi dell’art. 2112, co. 5, c.c., e, pertanto, era inefficace nei loro confronti, con la conseguenza che il loro rapporto di lavoro continuava a sussistere con la controllante/cedente. I ricorrenti, a supporto delle loro domande, sostenevano che, prima del suo conferimento nel capitale della controllata/cessionaria, il ramo IT Operations non costituiva una suddivisione funzionalmente autonoma nella struttura della controllante/cedente. Inoltre, detto ramo non sarebbe stato preesistente al trasferimento. Peraltro, anche il potere preponderante esercitato dal cedente sul cessionario avrebbe impedito di qualificare tale conferimento come trasferimento d’azienda. Non da ultimo, in seguito al conferimento del ramo IT Operations, la controllata/cessionaria aveva continuato a realizzare una parte nettamente preponderante della propria attività a favore della controllante/cedente. Il Tribunale di Trento, ravvisando un possibile contrasto con la Direttiva 2001/23 (e, in particolare, con l’art. 1, par. 1, lett. a) e b)) rinviava alla Corte di Giustizia sottoponendo due questioni pregiudiziali.

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Newsletter T&PSulla prima questione. In ordine alla prima questione, relativa alla preesistenza o meno del ramo di azienda come entità economica funzionalmente autonoma, in via preliminare la Corte di Giustizia ha ripercorso il proprio consolidato orientamento secondo il quale:a) per stabilire se sussista un «trasferimento» dell’impresa, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2001/23, il criterio decisivo è quello di accertare se l’entità in questione conservi la propria identità dopo essere stata rilevata dal nuovo datore di lavoro (v. in tal senso, in particolare, sentenza del 6 settembre 2011, Scattolon, C-108/10, Racc. pag. I-7491, punto 60 e la giurisprudenza ivi citata);b) tale trasferimento deve riguardare un’entità economica organizzata in modo stabile, la cui attività non si limiti all’esecuzione di un’opera determinata. Costituisce un’entità siffatta qualsiasi complesso organizzato di persone e di elementi, il quale consenta l’esercizio di un’attività economica che sia finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (v. sentenze del 10 dicembre 1998, Hernández Vidal e a., C-127/96, C-229/96 e C-74/97, Racc. pag. I-8179, punti 26 e 27; del 13 settembre 2007, Jouini e a., C-458/05, Racc. pag. I-7301, punto 31, nonché Scattolon, cit., punto 42);c) ne consegue che, ai fini dell’applicazione di detta direttiva, l’entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di un’autonomia funzionale sufficiente, là dove la nozione di autonomia si riferisce ai poteri, riconosciuti ai responsabili del gruppo di lavoratori considerato, di organizzare, in modo relativamente libero e indipendente, il lavoro in seno a tale gruppo e, più specificamente, di impartire istruzioni e distribuire compiti ai lavoratori subordinati appartenenti al gruppo medesimo, e ciò senza intervento diretto da parte di altre strutture organizzative del datore di lavoro (sentenza Scattolon, cit., punto 51 e la giurisprudenza ivi citata).

Ciò premesso, la Corte ha concluso che:✦poiché il considerando 3 della direttiva 2001/23 afferma che occorre adottare le disposizioni necessarie

per proteggere i lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, in particolare per assicurare il mantenimento dei loro diritti;

✦e, pertanto, il citato considerando evidenzia il rischio rappresentato, per il mantenimento dei diritti dei lavoratori, dalla situazione di subentro di un nuovo imprenditore, nonché la necessità di tutelare i lavoratori dinanzi a tale rischio mediante l’adozione di opportune disposizioni;

La semplice mancanza di autonomia funzionale dell’entità trasferita non può, di per sé, costituire un ostacolo a che uno Stato membro garantisca nel proprio ordinamento interno il mantenimento dei diritti dei lavoratori dopo il cambiamento dell’imprenditore. Tale conclusione, peraltro, è corroborata dall’articolo 8 della direttiva 2001/23, il quale dispone che quest’ultima non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre disposizioni legislative. In considerazione di quanto sopra, la Corte, in ordine alla prima questione, ha risposto che l’art. 1, par. 1, lett. a) e b), della direttiva 2001/23 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento.

Sulla seconda questione. In merito alla seconda questione, relativa all’indipendenza o meno del cessionario rispetto al cedente, la Corte ha affermato che:

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Newsletter T&Pa) non risulta da alcuna disposizione della direttiva 2001/23 che il legislatore dell’Unione abbia voluto che l’indipendenza del cessionario nei confronti del cedente costituisse un presupposto per l’applicazione della direttiva stessa;b) Inoltre, già con la direttiva 77/187, come modificata dalla direttiva 98/50, e in sostanza abrogata e sostituita dalla direttiva 2001/23, si è inteso disciplinare qualunque mutamento giuridico della persona del datore di lavoro, qualora siano per il resto soddisfatte le altre condizioni da essa stabilite, e che pertanto detta direttiva può essere applicata ad un trasferimento tra due consociate di uno stesso gruppo, che costituiscono persone giuridiche distinte ognuna delle quali ha contratto rapporti di lavoro specifici con i rispettivi dipendenti. A questo proposito è irrilevante il fatto che le società di cui trattasi abbiano non soltanto gli stessi proprietari, ma anche la stessa direzione e gli stessi locali e siano impegnate nell’esecuzione della stessa opera (vedasi sul punto sentenza della Corte del 2 dicembre 1999, Allen e a., C-234/98, Racc. pag. I-8643, punto 17); c) nulla giustifica che, ai fini dell’applicazione della citata direttiva, l’unità del comportamento tenuto sul mercato dalla capogruppo e dalle consociate prevalga sulla separazione formale tra queste società aventi personalità giuridiche distinte. Infatti, una soluzione del genere, che porterebbe ad escludere dall’ambito di applicazione della direttiva in parola i trasferimenti tra società di uno stesso gruppo, si porrebbe precisamente in contrasto con l’obiettivo di tale direttiva, che è di garantire, per quanto possibile, il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore, consentendo loro di rimanere al servizio del nuovo imprenditore alle stesse condizioni pattuite con il cedente (sentenza Allen e a., cit., punto 20).

La Corte ha, pertanto, concluso che, una situazione come quella oggetto del procedimento principale, in cui l’impresa cedente esercita nei confronti del cessionario un intenso potere di supremazia, che si manifesta attraverso uno stretto vincolo di committenza ed una commistione del rischio di impresa, non può costituire, di per sé, un ostacolo all’applicazione della direttiva 2001/23. Peraltro, una diversa interpretazione permetterebbe di eludere facilmente l’obiettivo perseguito da detta direttiva, mirante, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte, ad assicurare la continuità dei rapporti di lavoro esistenti nell’ambito di un’entità economica, indipendentemente dal cambiamento di proprietario (sentenza Klarenberg, cit., punto 40 e la giurisprudenza ivi citata).

Alla luce di quanto sopra, la Corte ha risposto alla seconda questione sollevata dichiarando che l’art. 1, par. 1, lett. a) e b), della direttiva 2001/23 deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale la quale consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell’ipotesi in cui, dopo il trasferimento della parte di impresa considerata, tale cedente eserciti un intenso potere di supremazia nei confronti del cessionario.

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Dipendente "stacanovista": risarcibile il danno alla saluteA cura di Antonio CazzellaCon la recente sentenza n. 9945, pubblicata in data 8 maggio 2014, la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla responsabilità del datore di lavoro per il danno alla salute arrecato al dipendente oberato da un eccessivo carico di lavoro. Nel caso di specie, il lavoratore - deceduto per infarto del miocardio - aveva operato, negli ultimi mesi del suo rapporto di lavoro, in condizioni insostenibili di straordinario aggravio fisico e ritmi di lavoro; in particolare, il dipendente - con qualifica di quadro - aveva lavorato continuativamente per circa undici ore al giorno e spesso continuava a lavorare a casa sino a tarda sera. Inoltre, nel corso dell’istruttoria era emerso che al lavoratore erano stati affidati svariati e complessi progetti, con gestione diretta e senza l’affiancamento di collaboratori.La difesa del datore di lavoro ha sostenuto che i ritmi di lavoro “serratissimi” erano imputabili ad una personale attitudine del dipendente a lavorare con grande impegno, coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi; inoltre, è stato dedotto che il datore di lavoro non era a conoscenza delle modalità con le quali il dipendente esplicava la sua attività lavorativa, fermo restando che quest’ultimo non aveva mai espresso alcuna doglianza o manifestato disagi fisici.Inoltre, il datore di lavoro non aveva imposto l’osservanza di ritmi di lavoro usuranti, né - tantomeno - stabilito termini di consegna dei progetti o, comunque, sollecitato la definizione dei lavori in corso.La Suprema Corte ha condiviso le argomentazioni della Corte di merito, secondo cui la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro è riconducibile al datore, il quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi sull’integrità fisica e morale dei lavoratori - che possano derivare dall’inadeguatezza del modello organizzativo - adducendo l’assenza di doglianze da parte del dipendente o, comunque, sostenendo di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate vengono in concreto svolte. Nel caso di specie, pur in assenza di sollecitazioni dirette, il lavoratore aveva dovuto conformare i propri ritmi di lavoro all’esigenza di realizzare lo smaltimento nei tempi richiesti dalla natura e molteplicità degli incarichi affidatigli. In particolare, dall’istruttoria era emerso che l’oggettiva gravosità del lavoro non era in alcun modo riconducibile ad iniziative volontarie del lavoratore di addossarsi compiti non richiesti e/o di svolgere gli incarichi con modalità non coerenti con la natura e l’oggetto degli stessi.La Suprema Corte ha precisato, altresì, che l’affermazione del datore di lavoro - secondo cui il ritmo di lavoro elevato sarebbe dipeso dall’attitudine del dipendente a lavorare con grande impegno - deve ritenersi priva di fondamento logico e giuridico, in quanto gli effetti della conformazione della condotta lavorativa del dipendente agli obblighi di diligenza di cui all’art. 2104 cod. civ., coerentemente al livello di responsabilità proprio delle funzioni ricoperte ed in ragione del soddisfacimento delle ragioni dell’impresa, non può mai integrare una colpa del lavoratore.Peraltro, la Suprema Corte aveva già affermato che i beni dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore tutelati dall’art. 2087 cod. civ. sono indisponibili, con la conseguenza che non esclude la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro il consenso dato dal dipendente alla prestazione di lavoro straordinario in misura usurante, ove la predetta prestazione abbia poi determinato l’insorgere di un danno alla salute (Cass. 8 marzo 2011, n. 5437).Nella sentenza in esame la Suprema Corte ha ribadito l’orientamento secondo cui, sebbene l’art. 2087 non configuri un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ove il lavoratore abbia fornito la prova del danno e del nesso di causalità con l’ambiente e/o le condizioni di lavoro, spetta al datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Cass. 29 gennaio 2013, n. 2038).Con particolare riferimento al nesso di causalità, si ricorda che la Suprema Corte ha recentemente rigettato la domanda risarcitoria svolta dagli eredi di un lavoratore deceduto a causa di infarto, rilevando che non poteva addebitarsi il decesso alla condotta tenuta dall’azienda, in quanto l’attività stressante era stata svolta per circa sei mesi ed era collocata temporalmente a distanza di circa due anni e mezzo dal momento in cui il lavoratore era stato colpito da infarto (Cass. 23 aprile 2014, n. 9200).

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LA SENTENZA DEL MESENON INTEGRA UNA CONDOTTA ANTISINDACALE IL COMPORTAMENTO DELLA SOCIETÀ CONCRETIZZATOSI NEL COMUNICARE ALLE OO.SS. - IN CORRELAZIONE CON IL RECESSO DALLA ASSOCIAZIONE DATORIALE DI CATEGORIA - LA PROPRIA DECISIONE DI NON CONTINUARE AD APPLICARE IL CCNL DA QUESTA FIRMATO OLTRE LA SCADENZA.NEPPURE INTEGRA CONDOTTA SINDACALE LA SOSTITUZIONE DEI FONDI DI ASSISTENZA SANITARIA CONTRATTUALE CON ALTRI FONDI SANITARI AZIENDALI, RAPPRESENTANDO TALE IPOTESI LEGITTIMO ESERCIZIO DI UNA FACOLTÀ RICONOSCIUTA DAL CCNL TERZIARIO DISTRIBUZIONE E SERVIZI.(Decreto del Tribunale di Milano, 24 aprile 2014)

La vicenda sottoposta all’esame del Tribunale di Milano trae origine dal recesso di Federdistribuzione, organizzazione datoriale rappresentativa del settore della Distribuzione Moderna Organizzata, e delle aziende associate da Confcommercio - Imprese per l’Italia, con conseguente uscita dal sistema contrattuale collettivo realizzato e gestito dalla suddetta confederazione e avvio di un percorso negoziale volto alla stipulazione di un nuovo CCNL, per il settore della Distribuzione Moderna Organizzata.Con ricorso ex art. 28 Stat. Lav. la UILTUCS - UIL di Milano ha proposto ricorso nei confronti di una Società iscritta a Federdistribuzione, chiedendo di accertare l’antisindacalità della condotta posta in essere dalla stessa e consistente nel volere accreditare e legittimare la propria organizzazione di categoria, in concorso con altre imprese della Distribuzione Moderna Organizzata, quale nuova parte contrattuale e nell’avere, in tale contesto, tra l’altro, cessato di applicare ai suoi dipendenti il CCNL Terziario Distribuzione e Servizi, in violazione della norma sulla ultravigenza e di avere predisposto una disciplina unilaterale di assistenza integrativa a favore dei propri dipendenti, alternativa a quella contrattuale. Il Tribunale di Milano con il decreto sopra citato ha rigettato integralmente il ricorso evidenziando, preliminarmente, come, a seguito del recesso di Federdistribuzione da Confcommercio, per i sindacati dei lavoratori deve ritenersi mutato l’interlocutore sindacale con riferimento alle aziende della Distribuzione Moderna Organizzata associate a Federdistribuzione avendo le stesse conferito a tale organizzazione il potere di rappresentanza.Tanto premesso, il Tribunale ha ritenuto non antisindacale la comunicazione inviate alle OO.SS., tra le quali la O.S. ricorrente, con la quale veniva comunicato, con congruo anticipo (25/1/2013), il mutamento dell’interlocutore sindacale e la volontà delle aziende della Distribuzione Moderna Organizzata di non continuare ad applicare il CCNL Terziario Distribuzione e Servizi oltre la data di scadenza (31/12/2013).Il Tribunale ha escluso l’attualità della condotta antisindacale in relazione alla denunciata violazione del principio di ultrattività, essendo stato dimostrato l’impegno di Federdistribuzione e delle aziende associate a continuare ad applicare il CCNL Terziario Distribuzione e Servizi, sia per la parte normativa che retributiva, “fino a nuova determinazione e comunque sino al 31 maggio 2014”. Per quanto riguarda la contestata sostituzione dei fondi contrattuali di assistenza sanitaria (Fondo EST e Cassa Qu.A.S.) con altri fondi di costituzione unilaterale aziendale, il decreto ha posto in luce come questa rappresenti il legittimo esercizio di una obbligazione facoltativa riconosciuta al datore di lavoro dal contratto collettivo. Richiamando gli artt. 95 e 115 del CCNL Terziario Distribuzione e Servizi del 2011, il Tribunale ha sottolineato come tali disposizioni stabiliscano, a carico del datore di lavoro, una vera e propria

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obbligazione facoltativa (ex artt. 1285 e 1286 cod. civ.) che “si configura quando la prestazione permane unica, ma il debitore ha facoltà di liberarsi eseguendo una diversa prestazione (è infatti stabilito che <<l’azienda che ometta il versamento delle quote agli enti bilaterali “è tenuta alternativamente” o a versare in busta paga un elemento distinto della retribuzione o ad assicurare le medesime prestazioni garantite>>). Cosicché, ove il datore provveda, come nel caso sottoposto all’esame del Tribunale, ad assicurare ai lavoratori, attraverso altri fondi, le prestazioni sanitarie già garantite dai fondi contrattuali, il datore di lavoro è liberato dall’obbligo di versare i contributi ai Fondi e Casse previsti dal CCNL e non può ritenersi sussistente alcun inadempimento contrattuale o condotta antisindacale.Causa seguita da Giacinto Favalli, Giorgio Molteni, Claudio Ponari e Marina Tona

ALTRE SENTENZE“RITO FORNERO” E PROCEDIMENTO D’URGENZA NEL PUBBLICO IMPIEGO(Tribunale di Busto Arsizio, 27 dicembre 2013)

Con un unico ricorso ai sensi degli artt. 700 e 414 cod. proc. civ., una lavoratrice ha convenuto in giudizio l’azienda pubblica presso cui aveva operato al fine di ottenere la dichiarazione di illegittimità del recesso in prova con conseguente condanna della convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro.Il Tribunale di Busto Arsizio ha rigettato la domanda ritenendola infondata sotto vari profili processuali e sostanziali. Il Giudice ha riconosciuto l’ammissibilità in astratto dell’azione cautelare ex art. 700 cod. proc. civ., per le controversie aventi ad oggetto il licenziamento, qualora, nonostante il rito speciale introdotto dalla legge 92/2012,“si possa profilare un pregiudizio grave ed irreparabile così imminente da non poter essere evitato nel tempo occorrente per celebrare il processo con il rito speciale”. Il Tribunale ha ritenuto che il trascorrere di oltre due mesi e mezzo dal licenziamento al deposito dell’istanza cautelare escludesse la sussistenza di un pregiudizio imminente e irreparabile (periculum in mora). Secondo il Giudice del lavoro, la semplice allegazione di difficoltà economiche tali da non consentire di far fronte al mutuo sull’immobile ed alle spese condominiali non può configurare quel fondato e concreto pericolo di pregiudizio che attiene a situazioni giuridiche soggettive non patrimoniali.Riconosciuta l’applicabilità del c.d. rito Fornero anche ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, il Tribunale ha, quindi, ritenuto possibile il mutamento del rito da ordinario a speciale, osservando che l’art. 4, primo comma, del D. Lgs. 150/2011 - secondo cui “quando una controversia viene promosso in forme diverse da quelle previste dal decreto 150/2011, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza” - opera quale principio generale di conservazione degli atti giudiziari finché è possibile attribuire loro effetti giuridici e nei limiti in cui siano idonei a raggiungere lo scopo loro affidato. Disposto il mutamento del rito, il Giudice non ha ritenuto necessaria l’integrazione degli atti, considerato che il deposito di un unico ricorso, oltre che ex art. 700 cod. proc. civ. anche ai sensi dell’art. 414 cod. proc. civ., è stato ritenuto di per sé sufficiente ad integrare i requisiti di cui all’art. 125 cod. proc. civ., come richiesto dall’art. 1, comma 48, L. 92/2012 per l’atto introduttivo del rito speciale.Pertanto, preso atto della sostanziale difesa della resistente nella memoria di costituzione nel giudizio cautelare, la domanda è stata rigettata in considerazione della ritenuta assenza, nella fattispecie, di alcuna discriminazione, né di alcun carattere ritorsivo del licenziamento.Causa seguita da Stefano Beretta e Diego Meucci

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INTEGRA GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO LA FALSIFICAZIONE DI UN DOCUMENTO AZIENDALE AL FINE DI OTTENERE UN FINANZIAMENTO(Tribunale di Napoli, 28 gennaio 2014)

Un operaio chiedeva al proprio datore di lavoro di rilasciargli una dichiarazione attestante il suo stato di servizio e la sua retribuzione, da presentare ad una finanziaria per richiedere un prestito con cessione del quinto dello stipendio. Il datore di lavoro rilasciava la dichiarazione, firmata dall’Amministratore Delegato, precisando nella stessa che il lavoratore era sospeso in cassaintegrazione. Qualche mese dopo la finanziaria contattava l’azienda ed in tale occasione veniva alla luce che la “dichiarazione aziendale” presentata dal lavoratore divergeva da quella effettivamente rilasciata dall’azienda: in particolare, era “scomparso” ogni riferimento alla cassaintegrazione. La finanziaria, del resto, dichiarava anche sul proprio sito internet di non accettare richieste di finanziamento da dipendenti sospesi in cassaintegrazione. Probabilmente era questa, quindi, la motivazione che aveva indotto il lavoratore a “modificare” il contenuto della dichiarazione aziendale. Il Giudice, in accoglimento delle difese formulate dall’azienda da noi assistita, riteneva innanzitutto che le prove testimoniali avessero confermato la sussistenza del “fatto contestato”, da intendersi come “il fatto giuridico ossia la condotta imputabile e colposa, nelle sue componenti soggettive ed oggettive”. Pertanto, in applicazione dell’art. 18 l. 300/70 come modificato dalla legge 92/2012 - anche considerato che il contratto collettivo non prevedeva i fatti addebitati tra quelli puniti con sanzioni conservative - veniva escluso il diritto del ricorrente alla reintegrazione in servizio. Successivamente, il Giudice passava a valutare la proporzione tra fatto e licenziamento, la cui mancanza avrebbe potuto astrattamente comportare la condanna della Società alla liquidazione di una indennità da 12 a 24 mensilità, escludendo tuttavia che potesse concedersi al lavoratore la tutela indennitaria, per le seguenti ragioni: “va evidenziata la gravità della condotta consistente nel consapevole utilizzo di un documento aziendale falso al fine di procurarsi un vantaggio economico, il finanziamento, altrimenti non dovuto, integrante un illecito di rilevanza penale. Inoltre non è seriamente dubitabile che i fatti commessi dal ricorrente, pur se esulanti dal rapporto di lavoro in quanto estranei in senso stretto alla sua posizione lavorativa, siano ad esso connessi. Milita a favore di tale considerazione la circostanza che la falsificazione concerne un documento di provenienza del datore di lavoro la cui utilizzazione avrebbe radicato un rapporto trilaterale a cui il datore avrebbe partecipato quale delegato al pagamento delle rate mensili di finanziamento”.Causa seguita da Damiana Lesce e Valeria De Lucia

LA RICHIESTA TARDIVA DI ASPETTATIVA NON PRECLUDE AL DATORE DI LAVORO DI INTIMARE IL LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL COMPORTO(Tribunale di Novara, ordinanza 1 novembre 2013)

Con ricorso ex art. 1, comma 48, della L. 18 giugno 2012 n. 92 (cosiddetta “riforma Fornero”), un lavoratore ha impugnato il licenziamento per superamento del periodo di comporto, lamentando: a) la pretesa violazione, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di buona fede, avendo intimato il licenziamento dopo aver ricevuto una richiesta di aspettativa non retribuita per ragioni di salute; b) l’insussistenza del giustificato motivo addotto; c) l’illegittimità del licenziamento, non essendo stato preceduto dal tentativo di conciliazione ex art. 7 della l. n. 604/1966 (come modificato dalla “riforma Fornero”). La società si è costituita rilevando che il lavoratore è stato lungamente mantenuto in organico, pur proseguendo l'assenza per malattia anche dopo il superamento del periodo di comporto, ed invitato

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dal responsabile del personale ad usufruire di ferie arretrate, permessi e ROL; che la richiesta di aspettativa è stata presentata a mani, molti mesi dopo il superamento del comporto, sebbene il CCNL di categoria (terziario) preveda che debba essere formulata a mezzo raccomandata, prima del superamento del comporto; e che il licenziamento è stato intimato prima che il lavoratore si sottoponesse ad un delicato intervento chirurgico che lo esponeva ad un rischio concreto di sopravvivenza, onde consentire ai familiari di percepire immediatamente le spettanze di fine rapporto (senza dover attendere i tempi della eventuale successione ereditaria).Il Tribunale di Novara ha ritenuto il licenziamento pienamente legittimo, ritenendo il comportamento aziendale pienamente in buona fede. L’ordinanza ha evidenziato che il datore di lavoro non ha alcun onere di segnalare al dipendente l’imminente superamento del comporto, né è obbligato a concedere ferie, aspettative o permessi che non siano stati chiesti ritualmente, secondo le disposizioni di legge e di contratto, motivando espressamente la richiesta con l’intenzione di evitare il superamento del comporto. Ciò premesso l’ordinanza ha escluso che l’azienda fosse tenuta ad accogliere la tardiva richiesta di aspettativa, tanto più che aveva già suggerito al dipendente (pur non essendo tenuta a farlo) di godere di ferie, permessi e ROL. L’ordinanza ha, poi, escluso l’applicabilità, al caso di specie, dell’art. 18, comma 7, St. Lav. (come novellato dalla “riforma Fornero”). Tale norma, riferendosi ai licenziamenti intimati in violazione dell’art. 2110 cod. civ., si applica nel caso di licenziamento intimato prima del superamento del comporto, cosa che nel caso di specie non si è verificata. Infine, l’ordinanza ha escluso l’applicabilità al superamento del comporto dell’art. 7 della l. n. 604/1966 (come novellato dalla “riforma Fornero”) poiché tale norma si applica solo alla differente fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (e tale non è quello di cui si discute). Inoltre, a parte l’intervento chiarificatore della circolare Ministeriale 16 gennaio 2013, il d.l. 28 giugno 2013 n. 76 ha previsto espressamente che la norma in commento non si applica al comporto, e tale intervento normativo deve essere inteso come una interpretazione autentica della norma della “riforma Fornero”.Causa seguita da Tommaso Targa

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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONEA cura di Stefano Beretta e Antonio CazzellaL’ACCERTAMENTO DELLA VOLONTÀ DI RASSEGNARE LE DIMISSIONI DEVE ESSERE RIGOROSOCon sentenza n. 8361 del 9 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che, nell’interpretazione degli atti unilaterali, come le dimissioni, non essendo utilizzabile il criterio della comune volontà delle parti né quello del loro comportamento complessivo, il canone ermeneutico di cui all’art. 1362 cod. civ., primo comma, impone di accertare esclusivamente l’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, ferma l’applicabilità, in base al rinvio operato dall’art. 1324 cod. civ., ai criteri generali del senso letterale delle parole, dell’interpretazione complessiva delle clausole nonché del prevalente rilievo da attribuire al contenuto sostanziale dell’atto rispetto al nomen juris utilizzato. Nella fattispecie in esame, la lavoratrice, assunta con contratto a termine, aveva inviato al datore una comunicazione - avente ad oggetto le “dimissioni” - dichiarando la propria impossibilità a svolgere un lavoro in trasferta stante la necessità di accudire i propri figli e manifestando, altresì, la disponibilità a prestare la propria attività presso la sede di assegnazione. Avendo poi impugnato il contratto a termine per chiedere la sussistenza di un rapporto subordinato a tempo indeterminato, il datore di lavoro aveva eccepito la risoluzione del rapporto per dimissioni. La Suprema Corte ha affermato che, nell’interpretare la volontà della lavoratrice, assume valore preminente, a prescindere dal  termine “dimissioni” utilizzato nella comunicazione inviata al datore, la disponibilità a proseguire la propria attività presso la sede di assegnazione.

LICENZIAMENTO DEL DIPENDENTE INVALIDO PER AGGRAVAMENTO DELLE CONDIZIONI DI SALUTECon sentenza n. 8450 del 10 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore invalido, in quanto il provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro era stato adottato sulla base di un giudizio di idoneità espresso dal Comitato Tecnico Provinciale per l’inserimento dei disabili e dal medico competente aziendale. La Suprema Corte ha precisato che il licenziamento dell’invalido può seguire le regole comuni solo nell’ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, mentre, nel caso in cui si verifichi un aggravamento delle condizioni di salute, il datore di lavoro -ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge n. 68/1999 -  può chiedere che vengano accertate le condizioni di salute del disabile alla Commissione di cui all’art. 4 della legge n. 104/1992 e ciò al fine di verificare se, a causa delle minorazioni, egli possa continuare ad essere utilizzato presso l’azienda;  nel caso di specie l’accertamento non era stato eseguito dalla predetta Commissione e, dunque, il licenziamento non poteva ritenersi legittimo.

CONTRATTO IN FRODE ALLA LEGGE: IL CONSULENTE È UN LAVORATORE SUBORDINATOCon sentenza n. 9196 del 24 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che il contratto stipulato con un consulente - che, in realtà, svolge attività di lavoratore subordinato - deve ritenersi in frode alla legge in quanto volto ad evitare il pagamento dei contributi previdenziali.  Nel caso in esame, a seguito di un’ispezione dell’Inps, è stato accertato che il consulente dell’impresa, che gestiva un supermercato, era presente quotidianamente alle casse e si occupava della direzione del personale, coordinando le varie attività ed impartendo disposizioni; inoltre il consulente, pur non essendo vincolato ad un orario di lavoro, risultava inserito nell’organizzazione aziendale, in quanto, tra l’altro, presenziava a tutte le riunioni, coordinando i capi reparto ed assegnando anche gli obiettivi da raggiungere. La Corte ha rilevato che le dichiarazioni rilasciate dal consulente agli ispettori dell’Inps (“non ho superiori”) assumono valore confessorio rispetto all’esercizio di funzioni dirigenziali, invece di escludere l’assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro e, dunque, la natura subordinata del rapporto di lavoro.

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Civile, Commerciale, Assicurativo

LE NOSTRE SENTENZEONERI PROBATORI DELL’ASSICURATO CHE AGISCE NEI CONFRONTI DELL’ASSICURATORE PER L’ILLECITO DELL’AGENTE (Tribunale di Lecco, 1 marzo 2014)

Due assicurati citavano in giudizio la compagnia di assicurazione lamentando l’illecita appropriazione, da parte dell’agente, dei premi versati - asseritamente pagati in contanti ed a mani dell’agente - per la stipulazione di polizze che non risultavano ritualmente emesse chiedendo, ex art. 2049 c.c., la condanna solidale dell’assicuratore al risarcimento dei danni commisurati ai premi versati per la stipulazione delle polizze. La Compagnia si difendeva affermando l’inopponibilità delle polizze dedotte in causa - in quanto false - e, comunque, la carenza di prova dell’effettivo versamento dei premi allegati. L’assicuratore sosteneva altresì che gli attori erano stati acquiescenti all’illecito posto in essere dall’agente con il quale intrattenevano stretti rapporti di fiducia e confidenza o, quanto meno, avessero colposamente concorso al danno asseritamente subito.Il Tribunale, valutate le suddette circostanze, respingeva le domande formulate dagli attori per carenza di prova del danno subito; in particolare, il Giudice evidenziava che la prova testimoniale richiesta dagli attori non era idonea a dimostrare gli asseriti pagamenti in contanti in quanto i capitoli di prova relativi alle modalità di dazione del denaro - dagli assicurati all’agente - erano estremamente generici mancando di ogni debita contestualizzazione anche temporale; inoltre gli attori non avevano dedotto alcuna circostanza idonea a dimostrare le modalità di custodia e trasporto delle somme di denaro da parte dell’agente. Il Giudice evidenziava altresì che il pagamento di ingenti somme di denaro in contanti, oltre ad essere in violazione della normativa antiriciclaggio e dell’art. 47, co. 3, del regolamento Isvap n. 5/2006, costituiva altresì una forma negoziale assolutamente inconsueta che avrebbe dovuto indurre gli attori alla massima cautela.Di conseguenza il Giudice trovava che gli assicurati avevano posto in essere una condotta imprudente/negligente tale da escludere la responsabilità ex art. 2049 c.c. della convenuta, anche alla luce del fatto che gli stessi: i) avevano accettato di ricevere semplici copie fotostatiche di polizza prive delle condizioni generali solitamente allegate e della sottoscrizione della società agente; ii) non avevano contestato gli estratti conto periodici inviati loro dalla compagnia dai quali non risultavano esistere le polizze in forza delle quali avevano agito in giudizio; iii) avevano intrattenuto con il delegato assicurativo una serie di rapporti servendosi di “fogli di fortuna” su cui non risultavano le causali dei singoli pagamenti; iv) avevano asseritamente pagato i premi prima della formale emissione delle polizze. Causa seguita da Bonaventura Minutolo e Francesco Torniamenti

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Newsletter T&PAssicurazioniA cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

AssicurazioniA cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

AGENZIA - ESCLUSIVA

Poiché il diritto di esclusiva costituisce un elemento naturale, non già essenziale, del contratto di agenzia, esso può essere validamente oggetto di deroga ad opera della volontà delle parti, deroga che può desumersi anche in via indiretta, purché in modo chiaro ed univoco, dal regolamento pattizio del rapporto, ove in concreto incompatibile con il suddetto diritto.(Cassazione, 23 aprile 2014, n. 9226)

APPALTO

L'art. 2049 c.c. prevede una ipotesi di responsabilità indiretta in capo all'imprenditore appaltatore, che organizza il lavoro altrui e subisce i rischi connessi ad una non buona organizzazione; non è escluso che tale responsabilità si possa estendere, in casi particolari, anche al committente, e tuttavia tale estensione costituisce una eccezione alla regola, al verificarsi di determinati presupposti che consistono nella scelta inadeguata della ditta esecutrice da parte del committente, o nell'essersi questi intromesso nella gestione dei lavori, direttamente o tramite tecnici incaricati, fino a far assumere all'appaltatore il ruolo di mero esecutore materiale; la configurabilità di detti presupposti rientra nell'onere probatorio di chi richiede tale applicazione estensiva della norma.(Cassazione, 10 aprile 2014, n. 8410)

ASSICURAZIONE

CONTRO I DANNI -

PERIZIA CONTRATTUALE

Nella clausola di un contratto di assicurazione che prevede una perizia contrattuale, è insita la temporanea rinunzia alla tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal rapporto contrattuale: prima e durante il corso della procedura contrattualmente prevista, quindi, le parti stesse non possono proporre davanti al giudice le azioni derivanti dal suddetto rapporto. L'obbligo della rinunzia alla tutela giurisdizionale, inoltre, non può non ritenersi cessato quando l'espletamento della perizia non sia più oggettivamente possibile per essere definitivamente venuto meno l'oggetto indispensabile ai fini dell'accertamento peritale da espletare.(Cassazione, 1 aprile 2014, n. 7531)

TRA LE NOSTRE

SENTENZE:

Responsabilità ex

art. 2049 c.c.

Tribunale di Avellino, 17 aprile 2014 Con ricorso per decreto ingiuntivo, Alfa chiedeva l’emissione, nei confronti della Compagnia Omega, di un decreto ingiuntivo per l’importo di euro X, assumendo di aver stipulato, tramite un agente della stessa, una polizza vita, versando il relativo premio in contanti. Successivamente, avrebbe appreso che il contratto non si era mai perfezionato in quanto l’agente non aveva mai rimesso l’importo percepito dal cliente alla Compagnia, ma si era appropriato delle somme.

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Pertanto, Alfa deduceva la responsabilità ex art. 2049 c.c. della Compagnia e chiedeva emettersi l’ingiunzione di pagamento sia nei confronti dell’agente, sia nei confronti di Alfa. Quest’ultima proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo, eccependo l’inammissibilità e infondatezza delle domande formulate nei suoi confronti e chiedendo, in subordine, di essere autorizzata alla chiamata in causa dell’agente. Depositate le memorie ex art. 183 c.p.c., respinte tutte le istanze istruttorie, ad eccezione dell’interrogatorio formale dell’agente (che non compariva a renderlo), il Giudice tratteneva la causa in decisione. Quindi, con sentenza del 17 aprile 2014, il Tribunale accoglieva l’opposizione, ritenendo non dimostrato il versamento dell’importo a titolo di premio. In particolare, il Giudice evidenziava che, avendo la Compagnia contestato il pagamento effettivo del premio, era onere dell’opposta provare, mediante documentazione ulteriore rispetto a quella prodotta in sede monitoria, i fatti posti a sostegno della domanda e, in particolare, il versamento del premio. Onere che la ricorrente non aveva assolto.Peraltro, stando alla prospettazione della ricorrente, il versamento sarebbe avvenuto in contanti, ma detta forma di pagamento appariva in contrasto con la quietanza, apposta in calce alla polizza, in base alla quale il premio sarebbe stato incassato “con mezzo di pagamento accettato salvo buon fine”: mezzo, quindi, che poteva essere rappresentato solo da un titolo di credito, e non da denaro contante.Per tali ragioni, il Tribunale revocava il decreto ingiuntivo opposto.

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IL PUNTO SUA cura di Vittorio Provera

TRASFERIMENTO DELLA SOCIETÀ INSOLVENTE ALL’ESTERO, LIMITI E RISCHI

Nell’attuale contesto economico e normativo, ove per ragioni spesso di mercato (ma talvolta anche speculative) molte Società si sono trovate in condizioni di insolvenza, si è registrato un incremento dei casi in cui talune imprese (spesso già inattive) hanno trasferito all’estero la sede legale prima che venisse avviata la procedura fallimentare (forse con la speranza di rendere più complesso l’accertamento della situazione e delle responsabilità).

In tale quadro, a fronte peraltro di una normativa interna che deve armonizzarsi con quella europea, i Giudici di legittimità sono stati di recente chiamati a pronunciarsi in merito all’individuazione del centro degli interessi principali del debitore (c.d. COMI, Centre of Main Interest), in funzione della determinazione della giurisdizione competente a conoscere di una procedura d’insolvenza transfrontaliera.

L’ordinamento italiano, all’art. 9 L. Fall., prevede che il trasferimento all’estero della sede legale dell’impresa debitrice, se avvenuto successivamente al deposito dell’istanza di fallimento, non sia idoneo ad escludere la sussistenza della giurisdizione italiana ai fini della decisione sull’iniziativa per la dichiarazione di fallimento.

Cosa avviene tuttavia se il trasferimento all’estero è posto in essere prima del deposito della suddetta istanza? La normativa nazionale nulla dice in merito.

A livello europeo l’art. 3, paragrafo 1, del Regolamento CE 29 maggio 2000, n. 1346/2000, relativo alle procedure di insolvenza, stabilisce che “Sono competenti ad aprire la procedura di insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore” (il cd. COMI, Centre Of Main Interest), presumendosi che, per le società e le persone giuridiche, detto centro coincida, fino a prova contraria, con il luogo in cui si trova la sede statutaria ed in cui il debitore esercita in modo abituale - e, dunque, riconoscibile dai terzi - la gestione dei suoi interessi; quindi con una certa prevalenza dell’aspetto formale.

Come detto, la Suprema Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 5945 del 2013, ha affrontato il caso in cui era stata presentata, in Italia, un’istanza di fallimento nei confronti di una società italiana che -tuttavia - da diversi anni aveva trasferito la propria sede legale in Francia. Il Tribunale di Udine aveva dichiarato il fallimento della predetta Società. Quest’ultima, forte della menzionata presunzione prevista dalla disciplina europea, aveva proposto reclamo alla Corte di Appello di Trieste, eccependo fra gli altri la carenza di giurisdizione del giudice italiano in favore di quello francese, rilevando che, a tempo debito, era stata data regolare pubblicità, nel registro delle imprese, all’intervenuto trasferimento della sede legale all’estero.

I Giudici di Appello avevano respinto il reclamo, sulla base di molteplici motivi ed aspetti così sintetizzabili: i) era stata constatata l’impossibilità di reperire effettivamente la società nella sede ufficiale estera, ove era stata inutilmente intentata la notifica del ricorso per il fallimento; (ii) era emerso che il

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legale rappresentante aveva conservato la residenza in Italia; (iii) erano stati individuati, unicamente in Italia, beni ed attività ancora riferibili alla società; (VI) era stata conservata la partita iva in Italia; (V) era risultata l’incapacità del legale rappresentante di fornire qualsivoglia elemento in grado di dimostrare un effettivo collegamento dell’attività e dell’amministrazione della società col territorio francese (il contegno della società debitrice è stato valutato come argomento di prova ex art. 116 c.p.c.).A fronte di tale elementi complessivi, si era concluso che nella nuova sede statutaria francese non veniva esercitata alcuna attività economica né, tantomeno, vi era stato spostato il centro dell’attività direttiva, amministrativa e organizzativa dell’impresa italiana.

Pertanto, sussistendo una situazione di fatto diversa da quella risultante dalle indicazioni ufficiali deducibili dal registro delle imprese era stata dichiarata la natura fittizia dell’intervenuto trasferimento e, conseguentemente, la permanenza della giurisdizione in capo ai giudici nazionali.Avverso la statuizione della Corte di Appello era stato proposto ricorso per cassazione. I Giudici di legittimità a Sezioni Unite, quindi con una decisone che intende mettere un punto fermo in materia, sulla base delle richiamate risultanze istruttorie, hanno respinto i motivi di gravame formulati dalla debitrice. In merito, si è evidenziato che i principi della normativa europea sopra richiamati - concernenti una presunzione della coincidenza del centro degli interessi principali del debitore” (c.d. COMI), con la sede statutaria - erano superati a fronte di quanto emerso e delle prove desumibili anche dal contegno delle parti ex art. 116, 2° comma c.p.c.; confermando, quindi, la permanenza della giurisdizione in capo al giudice italiano.

Peraltro, il regime probatorio del COMI adottato dalla giurisprudenza italiana non si discosta da quanto stabilito, sul punto, dalla giurisprudenza comunitaria, la quale ritiene possibile non tenere in considerazione la citata presunzione, quando si riscontra una situazione globale di elementi rilevanti che consentano di concludere - in maniera riconoscibile dai terzi - che il centro effettivo di direzione e controllo della società debitrice, nonché la gestione dei suoi interessi, sia situato in uno Stato membro diverso da quello della sede statutaria.

Infine, la Corte di Cassazione ha respinto l’ulteriore motivo di gravame proposto dalla società debitrice, secondo cui l’avvenuta cancellazione dal registro delle imprese da oltre un anno (a fronte del trasferimento), avrebbe precluso la possibilità di dichiararne il fallimento, giusto quanto disposto dall’art. 10 L.Fall. È stato precisato che, nel caso di società di capitali, l’applicabilità dell’art. 10 L.Fall. (letto in combinazione con l’art. 2495 cod. civ.) presuppone l’avvenuta cessazione dell’attività sociale a compimento del procedimento di liquidazione dell’ente o per il verificarsi di altra situazione che implichi la cessazione dell’esercizio dell’impresa e da cui la legge faccia discendere l’effetto necessario della cancellazione. Tuttavia il trasferimento della sede all’estero non fa venir meno la continuità giuridica della società trasferita, come reso evidente dal combinato disposto dagli artt. 2437 comma 1, lett. c) e 2473 comma 1 c.c., posto che tale cancellazione non preclude che la società continui a svolgere la propria attività imprenditoriale all’estero.

A fronte di quanto precede, diviene senz’altro più complesso utilizzare il mero trasferimento come escamotage per sottrarsi a determinate conseguenze derivanti dall’insolvenza; essendo evidente l’interesse - anche a livello comunitario - di far valutare determinate situazioni “patologiche” dal Paese in cui concretamente detta situazione si è prodotta ed in sostanza vi permane, anche per gli effetti sui creditori rimasti insoddisfatti.

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Rassegna Stampa

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 29/05/2014Le reiterate querele e la plateale notifica a mani della citazione integrano un abuso del dirittodi Vittorio Provera e Carlo Uccella

JOB24 - Il Sole 24 Ore: 27/05/2014VIDEO: Contratti a termine: le nuove regoleIntervista a Anna Maria Corna

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 23/05/2014Dipendente “stacanovista”: risarcibile il danno alla salutedi Antonio Cazzella

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 22/05/2014Trasferimento della società insolvente all’estero: limiti e rischidi Vittorio Provera

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 19/05/2014La decadenza ex art. 6 L. 604/1966 si applica anche all’azione di accertamento della continuazione del rapporto di lavorodi Giorgio Molteni

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 16/05/2014Oneri probatori dell’assicurato che agisce nei confronti dell’assicuratore per l’illecito dell’agentedi Bonaventura Minutolo e Francesco Torniamenti

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 09/05/2014Trasferimento di azienda: la recente posizione della Corte di Giustizia dell’Unione Europeadi Jacopo Moretti

AIDP Newsletter Lavoro: N. 36 Aprile 2014Il Jobs Act nell’evoluzione del Diritto del Lavoro: una breve storiadi Salvatore Trifirò

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Eventi

Plurijus 2014: Amsterdam L'appuntamento annuale di Plurijus, il network europeo di studi legali di cui Trifirò & Partners è socio fondatore, si è  tenuto in Olanda ad Amsterdam dal 16 al 18 Maggio 2014. Il network Plurijus annovera gli studi legali fra i più importanti di Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia e Gran Bretagna. Il meeting ha visto la partecipazione dei Partners Stefano Trifirò e Luca Peron. Durante la riunione è stata evidenziata l'importanza strategica della collaborazione fra i vari Studi associati al fine di offrire ai clienti interessati un ventaglio di servizi qualitativamente adeguati alle crescenti necessità indotte dalla crisi economica dei mercati ed occupazionale. Naturalmente non poteva mancare anche una parentesi turistica con una visita alla città  con i suoi musei e canali. Il prossimo appuntamento di Plurijus si terrà in Danimarca a Copenaghen a maggio 2015.

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