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N°76 Febbraio 2014 1 Newsletter N° 76 Febbraio 2014 Trifirò & Partners Avvocati Diritto del Lavoro Attualità 3 Le Nostre Sentenze 5 Cassazione 8 Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo Le Nostre Sentenze 9 Assicurazioni 10 Il Punto su 11 R. Stampa 13 Contatti 14 Riforma Fornero. La parte positiva del bilancio A meno di due anni dall’entrata in vigore della riforma Fornero, come ormai viene comunemente chiamata, si moltiplicano le critiche e le istanze di modifica di tale legge, e anche il Governo appena insediatosi ha inserito nel proprio programma un ambizioso piano di riforme, cosiddetto “job act”, che dovrebbe favorire l’occupazione giovanile. È indubbio che i risultati pratici realizzati dalla legge Fornero sono stati inferiori alle aspettative, queste ultime ampliate anche dal fatto che probabilmente si è voluto attribuire alla legge, soprattutto nella prospettiva della flessibilità in entrata, un valore sostanziale che essa non poteva avere. Ciò perché se c’è stagnazione nel mercato del lavoro dovuta principalmente al calo della domanda, alla perdita di competitività produttiva e a criticità di ordine economico-finanziario, non è certo una semplice legge sulla flessibilità che può creare occupazione. Verosimilmente, molto di più avrebbe potuto fare, per esempio, una revisione del cuneo fiscale. Peraltro, la valorizzazione dell’apprendistato e l’introduzione dei contratti a termine “acausali” sono stati, a mio parere, due elementi positivi, non tanto nella direzione di aumentare, per le ragioni sopra esposte, in termini assoluti, l’occupazione, ma, quanto meno, in quella di consentire un maggior avvicinamento dei giovani al mondo del lavoro. Infatti, per quel che è la mia esperienza professionale, il poter contare su contratti a termine la cui legittimità prescinde dall’osservanza degli stretti vincoli previsti dalla normativa tradizionale, incentrata sulle causali, rende l’impresa, pur nel necessario rispetto delle esigenze produttive e delle compatibilità finanziarie, più disponibile ad investire in termini occupazionali, stante la certezza dei costi. Più articolato è, invece, il discorso da farsi per l’apprendistato, perché questo tipo di contratto richiede maggiori impegni e oneri nella fase formativa che, a loro volta, presuppongono, anche con riguardo a contratti di relativamente breve durata, una complessiva pianificazione strategica dell’azienda più articolata e consolidata, situazione questa che non è così semplice da riscontrare nell’attuale difficile congiuntura. Consistenti sono, a mio giudizio, i risultati ottenuti sulla linea della flessibilità in uscita. Vero è che sul punto la normativa non è chiara e può ingenerare molteplici problemi interpretativi, spesso ingigantiti da argomentazioni puramente ideologiche.

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Newsletter Trifirò & Partners Avvocati N°76 Febbraio 2014

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Newsletter N° 76 Febbraio 2014

Trifirò & Partners Avvocati

Diritto del Lavoro

Attualità 3

Le Nostre Sentenze 5

Cassazione 8

Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo

Le Nostre Sentenze 9

Assicurazioni 10

Il Punto su 11

R. Stampa 13

Contatti 14

Riforma Fornero. La parte positiva del bilancioA meno di due anni dall’entrata in vigore della riforma Fornero, come ormai viene comunemente chiamata, si moltiplicano le critiche e le istanze di modifica di tale legge, e anche il Governo appena insediatosi ha inserito nel proprio programma un ambizioso piano di riforme, cosiddetto “job act”, che dovrebbe favorire l’occupazione giovanile.

È indubbio che i risultati pratici realizzati dalla legge Fornero sono stati inferiori alle aspettative, queste ultime ampliate anche dal fatto che probabilmente si è voluto attribuire alla legge, soprattutto nella prospettiva della flessibilità in entrata, un valore sostanziale che essa non poteva avere. Ciò perché se c’è stagnazione nel mercato del lavoro dovuta principalmente al calo della domanda, alla perdita di competitività produttiva e a criticità di ordine economico-finanziario, non è certo una semplice legge sulla flessibilità che può creare occupazione. Verosimilmente, molto di più avrebbe potuto fare, per esempio, una revisione del cuneo fiscale. Peraltro, la valorizzazione dell’apprendistato e l’introduzione dei contratti a termine “acausali” sono stati, a mio parere, due elementi positivi, non tanto nella direzione di aumentare, per le ragioni sopra esposte, in termini assoluti, l’occupazione, ma, quanto meno, in quella di consentire un maggior avvicinamento dei giovani al mondo del lavoro. Infatti, per quel che è la mia esperienza professionale, il poter contare su contratti a termine la cui legittimità prescinde dall’osservanza degli stretti vincoli previsti dalla normativa tradizionale, incentrata sulle causali, rende l’impresa, pur nel necessario rispetto delle esigenze produttive e delle compatibilità finanziarie, più disponibile ad investire in termini occupazionali, stante la certezza dei costi. Più articolato è, invece, il discorso da farsi per l’apprendistato, perché questo tipo di contratto richiede maggiori impegni e oneri nella fase formativa che, a loro volta, presuppongono, anche con riguardo a contratti di relativamente breve durata, una complessiva pianificazione strategica dell’azienda più articolata e consolidata, situazione questa che non è così semplice da riscontrare nell’attuale difficile congiuntura.

Consistenti sono, a mio giudizio, i risultati ottenuti sulla linea della flessibilità in uscita.

Vero è che sul punto la normativa non è chiara e può ingenerare molteplici problemi interpretativi, spesso ingigantiti da argomentazioni puramente ideologiche.

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Newsletter T&PVi è però da dire che, probabilmente grazie anche ad un nuovo atteggiamento della magistratura del lavoro, soprattutto a livello di giudici di merito, che, rispetto al passato, sembra essere più attenta, nel processo interpretativo, al dato letterale delle norme, nell’applicazione pratica della legge Fornero il tabù dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato, parimenti, superato e si è assistito a numerose decisioni che hanno limitato le conseguenze sanzionatorie di licenziamenti ritenuti illegittimi all’aspetto puramente risarcitorio, escludendo la reintegrazione. Tale approccio, cui va abbinato anche l’effetto derivante dalla nuove disposizioni che riducono l’incidenza degli errori di mera forma sulle conseguenze sanzionatorie derivanti da licenziamenti illegittimi per tali motivi, ha, in pari tempo, favorito l’incremento degli accordi transattivi nel processo e prima del processo. A quest’ultimo riguardo va, in particolare, sottolineato l’importante ruolo assunto, nell’area dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, dal tentativo obbligatorio di conciliazione, innanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro, prima del licenziamento. Un fattore che ha contribuito alla positiva utilizzazione di tale strumento è rappresentato dall’eliminazione degli effetti della malattia sull’efficacia dell’eventuale successivo licenziamento.

Infine, anche l’accelerazione dei tempi del processo del lavoro nei casi di licenziamento, pur con tutti i limiti tecnici della riforma, ha favorito il percorso finalizzato alla definizione di accordi tra le parti.

In conclusione, la legge Fornero poteva sicuramente essere fatta meglio e avrebbe potuto essere un momento di chiarezza per altri temi, quale, a titolo esemplificativo, quello dei licenziamenti collettivi, che presenta ancora margini di ambiguità. Mi sembra però che di risultati positivi ne abbia portati. Se non altro, quello di indurre le parti a cercare, il più possibile, di trovare accordi transattivi. Il che, per uno come me che ha sempre creduto nel vecchio detto secondo cui anche il peggior accordo è da preferire ad una sentenza, non è poca cosa.

Attendiamo ora di vedere quali saranno le novità proposte in materia di lavoro dal nuovo Governo, con l’auspicio che, questa volta, oltre a migliorare la disciplina sostanziale dei contratti flessibili, il legislatore intervenga sul cuneo fiscale e sul costo del lavoro, come insistentemente richiesto da tutte le parti sociali.

Giacinto Favalli

Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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Rito Fornero: la conciliazione in sede sindacale sana anche i vizi di proceduraA cura di Damiana LesceIl Ministero del Lavoro, con la risposta n. 1 del 22 gennaio 2014 ad un interpello formulato da Confindustria, afferma che la rinuncia ad impugnare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, convalidata in sede sindacale, può estendersi anche ai vizi derivanti dal mancato svolgimento della procedura di conciliazione preventiva ex art. 7 L. 604/1966 così come modificata dalla L. 92/2012 (c.d. Legge Fornero).

Come noto, ai sensi della predetta norma, il datore di lavoro in possesso dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, prima di risolvere il rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ha l’obbligo di esperire una preventiva procedura di conciliazione presso la Direzione Territoriale del Lavoro (DTL) nel corso della quale i funzionari ministeriali tentano la conciliazione tra le parti; solo al termine di tale procedura, in caso di mancato accordo, il datore di lavoro può procedere al licenziamento.

Confindustria ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere del Ministero del Lavoro in merito alla validità di una conciliazione, conclusa in sede sindacale, nella quale il lavoratore rinuncia ad impugnare il licenziamento, anche nell’ipotesi in cui il recesso sia stato intimato senza il rispetto della preventiva procedura di cui all’art. 7 L. 604/1966. Il Ministero ha dato risposta positiva all’interpello, osservando che il nuovo testo dell’art. 7 della legge 604/1966 lascia inalterata la disciplina generale dell’art. 2113 cod. civ. relativa alle rinunce e transazioni del lavoratore. La norma dispone, con riferimento all’ultimo comma, un’eccezione alla previsione di invalidità delle rinunce e transazioni del lavoratore laddove le stesse siano formulate attraverso un accordo che sia convalidato presso sedi abilitate dalla legge ed a condizione che l’intesa abbia ad oggetto diritti compresi nella sfera di disponibilità giuridica del lavoratore.

Pertanto, conclude il Ministero, non “sembrano sussistere” motivazioni di ordine giuridico per ritenere che il diritto a far valere un vizio di natura procedimentale non possa essere oggetto di rinuncia ex art. 2113 cod. civ; di conseguenza, l’accordo transattivo avente ad oggetto la rinuncia ad impugnare il licenziamento è valido anche in caso di mancato rispetto della procedura di cui all’art. 7 l. 604/1966.

Ulteriori chiarimenti in materia di ASPIA cura di Barbara Fumai

A seguito della riforma introdotta dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228 (c.d. legge di stabilità 2013), con messaggio n. 10358 del 27 giugno 2013, l’INPS ha fornito nuovi chiarimenti in tema di contribuzione dovuta dai datori di lavoro ex art. 2 commi 31 - 35 legge 92/2012 (c.d. contributo Aspi).

La nuova formulazione dell’art. 2 comma 31 l.92/2012, infatti, dispone che “nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, darebbero diritto all'ASpI, intervenuti a decorrere dal 1° gennaio 2013, è dovuta, a carico del datore di lavoro, una somma pari al 41 per cento del massimale mensile di ASpI per ogni dodici mesi

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Newsletter T&Pdi anzianità aziendale negli ultimi tre anni. Nel computo dell'anzianità aziendale sono compresi i periodi di lavoro con contratto diverso da quello a tempo indeterminato, se il rapporto è proseguito senza soluzione di continuità o se comunque si è dato luogo alla restituzione di cui al comma 30”.

Con riferimento alle ipotesi in cui il contributo deve essere versato, viene precisato che con la legge di stabilità è stato introdotto un nesso tra il contributo ed il teorico diritto a percepire l’Aspi da parte del lavoratore cui è stato interrotto il rapporto di lavoro a prescindere dalla fruizione in concreto da parte del lavoratore. In tale contesto, vengono forniti alcuni chiarimenti su aspetti relativi a fattispecie particolari.

Più precisamente, l’INPS precisa che tale contributo ex art. 2 comma 31 legge 92/12 è dovuto anche per la risoluzione del rapporto di lavoro in periodo di prova “laddove il datore di lavoro receda dal rapporto e detta interruzione generi in capo al lavoratore il teorico diritto all’Aspi” (ovvero laddove vi siano tutti i requisiti previsti dalla medesima legge). Ciò in quanto, durante il periodo di prova, al cui superamento è subordinata l’assunzione definitiva, vigono tutti i diritti e gli obblighi di un rapporto di lavoro subordinato.

Nell’ambito poi dei rapporti a tempo indeterminato, l’INPS specifica che debbano essere ritenuti tali oltre al part-time, anche quelli intermittenti. In relazione a tale ultima tipologia viene, tuttavia, chiarito che nel computo dell’anzianità aziendale - a prescindere dalla previsione di una indennità di disponibilità - non vengono considerati i periodi non lavorati.

Sempre in tema di computo dell’anzianità, il messaggio chiarisce che non vengono considerate neppure le sospensioni per aspettativa non retribuita ed i congedi straordinari nell’ipotesi disciplinata dall’art. 42 comma 5 d.lgs. 151/2001 e, nel caso di interruzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato nell’ambito di operazioni societarie di cui all’art. 2112 c.c., va considerato anche il periodo svolto presso l’azienda cedente.

Il messaggio si chiude con alcuni chiarimenti in tema di interruzione di rapporti di lavoro attuate dagli organi delle procedure concorsuali.

Più precisamente, l’INPS chiarisce che fino al 1 gennaio 2016 le imprese soggette alla legge 223/1991 non siano tenute al contributo Aspi laddove versino già il contributo di cui all’articolo 5 comma 4 della predetta legge. Lo stesso dicasi, fino all’abrogazione dell’art. 3 legge 223/1991 (a partire dal 1 gennaio 2016) per gli organi delle procedure concorsuali che procedano alle risoluzioni ai sensi proprio del comma 3 del predetto articolo.

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LA SENTENZA DEL MESESE IL DIPENDENTE SOTTACE IN FASE PREASSUNTIVA LE PROPRIE CONDIZIONI DI SALUTE, L’AZIENDA NON È RESPONSABILE DELLA MALATTIA DEL LAVORATORE(Tribunale di Parma, 7 febbraio 2014)

Nel corso della visita preassuntiva, il dipendente deve improntare il proprio comportamento a correttezza e buona fede, evitando di rendere al medico competente - nella speranza di venire assunto - dichiarazioni mendaci e gravemente reticenti in merito alla sussistenza di pregresse e/o attuali patologie. In caso contrario, il datore di lavoro non viene messo nelle condizioni di valutare la compatibilità delle mansioni assegnate al lavoratore con il suo stato di salute e, pertanto, non può essere ritenuto responsabile dell’eventuale peggioramento di quest’ultimo. Così ha deciso il Tribunale di Parma, rigettando un ricorso proposto da una dipendente che lamentava di essere stata assegnata a mansioni incompatibili con le proprie condizioni sanitarie e chiedeva, quindi, il risarcimento del conseguente danno biologico e morale. Nel caso di specie, la perizia espletata nel corso del giudizio ha evidenziato che la malattia sottaciuta dalla ricorrente durante la visita preassuntiva e della cui insorgenza la stessa riteneva responsabile il datore di lavoro (fibrosi cistica) era, invece, genetica. In relazione alla predetta perizia, la dipendente aveva, altresì, lamentato la pretesa violazione del principio del contraddittorio, in quanto le operazioni peritali erano state condotte dal CTU in assenza del suo CTP, in quel momento impegnato all’estero. Peraltro, il Tribunale di Parma ha ritenuto infondata anche tale doglianza, evidenziando che il CTU, nel calendarizzare le operazioni peritali, è tenuto unicamente a darne comunicazione alle parti, ma non ad assecondare le loro richieste di differimento delle medesime, salvo che dette istanze siano motivate da un legittimo impedimento, che deve, in ogni caso, essere rigorosamente documentato. Causa seguita da Luca Peron e Tiziano Feriani

ALTRE SENTENZEL’INSUBORDINAZIONE È PIÙ GRAVE SE VOLTA ANCHE A DENIGRARE L’IDENTITÀ SESSUALE DEL SUPERIORE GERARCHICO E LEGITTIMA IL LICENZIAMENTO(Tribunale di Milano, ordinanza 13 giugno 2013)

Il capo è una donna, ma, a parere della sua collaboratrice, non sufficientemente “dotata” fisicamente.E così, ad una serie di comportamenti in contrapposizione al superiore gerarchico, con reiterati rifiuti ad eseguire le istruzioni impartite, si aggiunge, alla fine, un “gesto (che), per le modalità con cui è stato fatto (tre colpi di petto) non solo appare atto di violenza fisica, ma pure forma di denigrazione e scherno contro il superiore gerarchico”. Ciò, accompagnato da frasi sulle caratteristiche fisiche del superiore, di palese “derisione e scherno di altra donna”, ha quindi leso il vincolo fiduciario, violando anche “le regole della convivenza civile”. Con ordinanza del 13 giugno 2013, il Tribunale di Milano ha, pertanto, dichiarato legittimo il licenziamento, comminato dalla società, ritenendo integrata una giusta causa. Causa seguita da Anna Maria Corna

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IL LAVORATORE HA PROMOSSO L’AZIONE OLTRE IL TERMINE DI DECADENZA, ADDUCENDO MOTIVI PRETESTUOSI: CONDANNATO PER LITE TEMERARIA(Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, 21 novembre 2013)

Tre lavoratrici impugnavano il trasferimento comunicato dall’azienda 8 mesi prima del deposito del ricorso, proponendo azione solo dopo essere state licenziate dalla Società convenuta e chiedendo la riassegnazione presso la precedente sede di lavoro e la liquidazione dei danni in via equitativa.La Società si costituiva deducendo, tra l’altro, l’inammissibilità del ricorso per decadenza dall’azione, essendo trascorsi più di 180 giorni dalla impugnazione stragiudiziale del trasferimento prima che le lavoratrici agissero in giudizio, invocando a tal fine il combinato disposto degli artt. 6 l. 604/1966, come modificato dalla legge 92/2012 e 32 l. 183/2010. La Società eccepiva, inoltre, la carenza di interesse ad agire delle lavoratrici con riferimento alla domanda di riassegnazione presso la precedente sede di lavoro, in ragione della intervenuta cessazione del rapporto di lavoro, nonché la manifesta inaccoglibilità della domanda risarcitoria, in difetto di specifiche allegazioni circa la natura e la quantificazione dei danni asseritamente patiti. Il Giudice rigettava il ricorso, accogliendo anche la domanda formulata dalla Società di condannare le ricorrenti al pagamento di una somma in favore della Società a titolo di “responsabilità processuale”, ritenendo che “l’assoluta pretestuosità dei motivi di ricorso e l’insistenza - a fronte di un’eccezione di decadenza puntuale e dettagliata - nel richiamare norme di legge diverse da quelle applicabili nella specie, omettendo di citare per intero le modifiche apportate dalla l. 92/2012, conduce ad applicare… l’articolo 96, terzo comma c.p.c.”. La sentenza sottolinea come il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. si inserisce nel quadro delle sanzioni processuali che mirano a punire i comportamenti contrari ai doveri di lealtà processuale e può trovare applicazione sia quando il Giudice “ravvisi l’esistenza dei presupposti di temerarietà”, sia quando il Giudice “riscontri un qualsiasi comportamento processuale scorretto del soccombente, che dimostri il suo abuso dell’azione e del processo (o di segmenti di esso)”.Causa seguita da Damiana Lesce e Valeria De Lucia

ABUSA DEL DIRITTO ALL’AZIONE CHI PROPONE DUE VOLTE LA STESSA CAUSA, ALLEGANDO FATTI CHE AVREBBERO POTUTO ESSERE DEDOTTI NEL PRIMO GIUDIZIO(Corte d’Appello di Torino, 28 novembre 2013)

Il principio secondo cui “il giudicato copre il dedotto e il deducibile” implica che il ricorrente non possa far valere in un distinto giudizio la medesima pretesa risarcitoria, già rigettata con sentenza passata in giudicato, modificando degli elementi della fattispecie costitutiva del diritto che avrebbero potuto essere dedotti già nel precedente giudizio, concretandosi altrimenti un abuso del processo.Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Torino nell’ambito di una controversia in cui una società, costituitasi a seguito di fusione per incorporazione tra aziende, veniva convenuta in giudizio da un ex amministratore dell’azienda incorporata, che domandava di essere risarcito del danno subito a causa dell’inadempimento degli obblighi derivanti nei suoi confronti dall’atto di fusione. La società si costituiva in giudizio eccependo l’inammissibilità di tale domanda per il principio per cui “il giudicato copre il dedotto e il deducibile”, dal momento che il ricorrente aveva già formulato la medesima pretesa risarcitoria (identica anche nel quantum) in un precedente giudizio, contestando, in quel caso, l’inadempimento degli obblighi scaturenti dal progetto di fusione, e tale pretesa era stata rigettata dal giudice adito con sentenza passata in giudicato. Il Giudice di primo grado ha rigettato il ricorso, rilevando che l’azione promossa non poteva essere riproposta in quanto costituente nel petitum una sovrapposizione rispetto alla precedente, ostandovi la regola che il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Tale sentenza è stata impugnata dal ricorrente, che ha contestato l’erronea applicazione da parte del Giudice di primo grado delle norme di legge che definiscono gli effetti e i limiti del giudicato.

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Newsletter T&PLa Corte d’Appello ha confermato la sentenza impugnata, ritenendo che il titolo della pretesa risarcitoria azionata dovesse essere individuato in un’unica fattispecie complessa, all’interno della quale il progetto di fusione e l’atto di fusione si ponevano come singoli segmenti, non suscettibili di rilevanza autonoma ai fini dell’identificazione della causa petendi. Pertanto, al momento dell’instaurazione del precedente giudizio, la pretesa poteva e doveva essere prospettata con riferimento a tutti gli elementi della fattispecie, compreso il segmento finale rappresentato dall’atto di fusione, ponendosi la successiva azione giudiziale in aperta contraddizione con il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile. In aggiunta, la Corte d’Appello ha affermato che tali considerazioni rispondono anche all’esigenza di evitare un indebito utilizzo dello strumento processuale, perché, pur non essendo in presenza di un’ipotesi di frazionamento del credito, tuttavia la giurisprudenza consolidata comprende ormai nella fattispecie dell’abuso di processo qualsiasi tentativo di moltiplicare ad arte il contenzioso con riferimento ad una pretesa unitaria.Causa seguita da Giorgio Molteni e Veronica Rigoni

IL LICENZIAMENTO PER SOPPRESSIONE DEL POSTO NON È DISCRIMINATORIO PERCHÉ PRECEDUTO DA DUE CONTESTAZIONI DISCIPLINARI(Tribunale di Napoli, ordinanza 13 novembre 2013)

Nell’ambito di una riorganizzazione aziendale, la Società ha deciso di ridurre da quattro a tre i venditori applicati ad una filiale, e ne ha licenziato uno per soppressione della posizione lavorativa. Quest’ultimo ha impugnato il licenziamento con ricorso ex art. 1, comma 48, della L. 18 giugno 2012 n. 92 (cosiddetta “Riforma Fornero”); ne ha lamentato la pretesa natura di rappresaglia, dimostrata - a suo dire - dal fatto che, nei mesi antecedenti al licenziamento, aveva ricevuto due contestazioni disciplinari (la prima seguita da una sospensione disciplinare che l’azienda, però, non ha mai applicato; la seconda non seguita da alcuna sanzione); ha, inoltre, contestato la pretesa violazione dell’obbligo di repechage, evidenziando le notevoli dimensioni della società, ma senza indicare alcuna posizione ipoteticamente vacante. La società si è costituita contestando la pretesa rappresaglia ed offrendo la prova per testi, con elementi di prova documentale, dell’effettiva soppressione della posizione lavorativa, nonché dell’assenza di posizione utili al repechage. Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza resa ad esito della fase d’urgenza, ha escluso che le precedenti contestazioni disciplinari potessero, di per sé stesse, provare la sussistenza del preteso intento discriminatorio, tanto più che la sanzione disciplinare, irrogata in relazione alla prima contestazione, risulta prima facie fondata e il lavoratore non l’ha mai impugnata dal lavoratore. L’ordinanza ha, inoltre, escluso la manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo, tenuto conto che la Società ha dimostrato di aver effettivamente attraversato una fase di crisi e riorganizzazione che ha costituito la premessa del licenziamento. L’ordinanza ha, però, riconosciuto al lavoratore un indennizzo economico, pari a 24 mensilità, rilevando che l’azienda si sarebbe limitata ad offrire la prova tramite sommarie informazioni della soppressione della posizione lavorativa e dell’impossibilità di repechage, il che non sarebbe sufficiente all’assolvimento degli oneri probatori sulla stessa gravanti i quali, vista la sommarietà del rito, andrebbero assolti per via documentale.Causa seguita da Tommaso Targa

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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONEA cura di Stefano Beretta e Antonio Cazzella

LICENZIAMENTO PER RAGIONI OGGETTIVE ED OBBLIGO DI REPECHAGE NELL’AMBITO DI UN GRUPPO SOCIETARIOCon sentenza n. 798 del 16 gennaio 2014 la Suprema Corte ha affermato che, nel caso di licenziamento per ragioni oggettive di un dipendente che ha svolto la propria prestazione nell’ambito di varie società, facenti parte di un unico gruppo, deve essere dimostrata dal datore di lavoro l’impossibilità di adibire il dipendente presso tutte le società del gruppo medesimo. Nel caso di specie, la Corte di merito - riformando la sentenza di primo grado - aveva accertato la sussistenza di un unico centro di imputazione con riferimento alle società facenti parte del gruppo e non un mero collegamento societario, rilevando che tutte le società avevano la medesima sede legale ed amministrativa nonché avevano in comune gli organi direttivi ed il medesimo vertice dei poteri decisionali (facente capo ad una sola persona fisica); pertanto, essendo stato accertato che il lavoratore licenziato prestava la propria attività indifferentemente presso le società del gruppo, a seconda delle contingenti necessità, la dimostrazione dell’impossibilità di adibirlo ad altra attività a seguito del licenziamento doveva, quindi, essere riferita a tutte le società del gruppo.

REITERAZIONE NELL’UTILIZZAZIONE DI LAVORATORI INTERINALICon sentenza n. 2763 del 6 febbraio 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che il lavoratore interinale deve essere assunto a tempo indeterminato presso l’azienda che l’ha utilizzato con contratti reiterati senza che vi fossero le esigenze di carattere temporaneo: non conta, infatti, che l’azienda abbia rispettato il mero dato formale costituito dalle proroghe consentite dal contratto collettivo di categoria, in quanto ciò che rileva è l’insussistenza effettiva delle condizioni imposte dalla legge. Inoltre, la circostanza che la Corte di Giustizia Europea abbia escluso che la direttiva in materia di contratti a termine sia applicabile al lavoro interinale non impedisce che il giudice nazionale possa accertare la vera natura del rapporto di lavoro controverso e decidere che si tratta di un contratto in frode alla legge; in particolare, la Corte di Cassazione ha rilevato che l’accertamento sull’utilizzo del lavoro interinale deve essere tanto più penetrante quanto più durevole e ripetuto è il ricorso alla fattispecie, affermando, quindi, un principio che ben potrà essere esteso anche all’istituto della somministrazione.

LICENZIAMENTO PER INIDONEITÀ ALLA MANSIONE E RILEVANZA DELL’ATTIVITÀ EXTRALAVORATIVACon sentenza n. 3224 del 12 febbraio 2014 la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore per sopravvenuta inidoneità  lavorativa; in particolare, la Suprema Corte ha rilevato che il datore di lavoro aveva dimostrato che non era possibile una differente utilizzazione del lavoratore nell’ambito dell’organizzazione aziendale in seguito all’aggravamento delle condizioni di salute del medesimo. Peraltro, la consulenza tecnica aveva accertato l’inesistenza di un nesso causale  tra il lavoro svolto e l’aggravamento, limitandosi ad un giudizio di “verosimiglianza e possibilità” e rilevando che l’aggravamento sarebbe comunque avvenuto, anche per l’incidenza di fattori degenerativi naturali e connessi con l’attività sportiva svolta dal dipendente.

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Civile, Commerciale, Assicurativo

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LE NOSTRE SENTENZEI CREDITI VANTATI VERSO LA SOCIETÀ IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA(Tribunale di Milano, 29 gennaio 2014)

La Società Alfa, a seguito della sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva dichiarato l’incompetenza del Tribunale di Roma in ordine alla domanda proseguita dalla medesima nei confronti di una Società in amministrazione straordinaria, per essere competente il Tribunale di Milano (che aveva dichiarato lo stato di insolvenza), ai sensi dell’art. 13, D.lgs. n. 270/99, riassumeva il giudizio avanti a quest’ultimo Tribunale, affinché la società in amministrazione straordinaria venisse condannata al pagamento di una somma pecuniaria.La Società convenuta, costituendosi in giudizio, eccepiva, in via pregiudiziale, l’improcedibilità della domanda avversaria a seguito della dichiarazione, da parte del Tribunale di Milano, dello stato di insolvenza e della successiva ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria.Il Tribunale ha accolto l’eccezione della Società in amministrazione straordinaria sulla base del disposto dell’art. 18, D.lgs. n. 270/99, il quale stabilisce che la sentenza che dichiara lo stato di insolvenza determina “gli effetti previsti dagli artt. 45, 52, 167, 168 e 169 legge fallimentare”. L’espresso richiamo all’art. 52, co. 2, della legge fallimentare, infatti, comporta che ogni credito debba “essere accertato secondo le norme stabilite dal capo V, salvo diverse disposizioni di legge”, vale a dire attraverso l’esclusivo procedimento di cui agli art. 93 L.F. (domanda di ammissione al passivo). La ratio di tale carattere esclusivo si basa sul rilievo che la dichiarazione di insolvenza apre il concorso di tutti i creditori sul patrimonio dell’amministrazione, sicché un creditore, per poter partecipare al concorso, deve sottoporre il suo credito a verifica attraverso l’ammissione al passivo, la quale consente anche il contraddittorio (almeno parziale) degli altri creditori concorrenti sulla pretesa azionata. Ne consegue che la domanda diretta a far valere un credito nei confronti del fallimento o di altra procedura soggetta al rito dell’accertamento del passivo, è inammissibile se proposta nelle forme della cognizione ordinaria, ovvero improcedibile se formulata prima della dichiarazione del fallimento e riassunta nei confronti del curatore (Cass. 17327/2012).Causa seguita da Vittorio Provera e Giovanna Vaglio Bianco

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Newsletter T&PAssicurazioniA cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

AssicurazioniA cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

ASSICURAZIONE -

INCIDENTE STRADALE -

RESPONSABILITÀ CIVILE

- MASSIMALE -

DIRETTIVA N. 84/5/CEE

DEL CONSIGLIO -

ADEGUAMENTO DA

PARTE DELLO STATO

ITALIANO - TEMPISTICA

- INOSSERVANZA -

CONSEGUENZA

In materia di assicurazione della responsabilità civile da circolazione stradale, l’obbligo per lo Stato italiano, previsto dall’art. 1, comma 2, della direttiva n. 84/5/CEE, di innalzare il massimale di assicurazione fino alla soglia ivi indicata entro il 31 dicembre 1987, era suscettibile di differimento al 31 dicembre 1990 solo se, entro l’originaria scadenza, fosse comunque intervenuto un aumento in misura pari alla metà della differenza tra l’importo “a regime” e quello in vigore alla data del 1 gennaio 1984, con la conseguenza che, in assenza di un tempestivo intervento normativo di “adeguamento intermedio”, vanno direttamente applicati, a far data dal 1 gennaio 1988, i valori previsti dalla citata direttiva.(Cassazione, 31 gennaio 2014, n. 2186)

PRESCRIZIONE

In tema di assicurazione contro i danni la prescrizione annuale - prevista dall’art. 2952, comma 2, del codice civile - del diritto dell’assicurato all’indennizzo decorre dalla data in cui il diritto medesimo può essere esercitato e, cioè, dal momento del verificarsi del fatto cui esso si ricollega, occorrendo, al riguardo, al fine della idonea interruzione del termine, che venga formulata una richiesta del danneggiato all’assicuratore con un contenuto unitario, non garantendo la scissione dell’an dal quantum un’effettiva tutela dei diritti dello stesso assicurato.(Cassazione, 24 ottobre 2013, n. 24122)

CLAUSOLA CLAIM MADE

La clausola claim made prevede il possibile sfasamento fra prestazione dell'assicuratore (obbligo di indennizzo in relazione all'alea del verificarsi di determinati eventi) e controprestazione dell'assicurato (pagamento del premio), nel senso che possono risultare coperti da assicurazione comportamenti dell'assicurato anteriori alla data della conclusione del contratto, qualora la domanda di risarcimento del danno sia per la prima volta proposta dopo tale data; e possono risultare viceversa sforniti di garanzia comportamenti tenuti dall'assicurato nel corso della piena validità ed efficacia della polizza, qualora la domanda di risarcimento dei danni sia proposta successivamente alla cessazione degli effetti del contratto.(Cassazione, 17 febbraio 2014, n. 3622)

RISOLUZIONE DEL

CONTRATTO

ASSICURATIVO EX ART.

1901 C.C.

Verificatasi la risoluzione di diritto del contratto di assicurazione, la mancata riassunzione del processo non impedisce alla compagnia assicuratrice di agire ex art. 1901, comma 3, c.c. per il pagamento delle rate scadute con una distinta domanda avente identica causa petendi. L’azione di pagamento dei premi assicurativi scaduti si prescrive in 6 mesi. (Cassazione, 13 febbraio 2014, n. 3364)

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N°76 Febbraio 2014 11

IL PUNTO SUA cura di Vittorio Provera

GARANTE PRIVACY E TELEMARKETING, INTERVENTI IN MATERIA DI CD CHIAMATE MUTE

Il Garante della Privacy - con avviso pubblicato sulla G.U. n. 274 del 22 novembre 2013 - ha avviato una pubblica consultazione in materia di telemarketing, avente ad oggetto un schema di regolamento delle c.d. chiamate mute.

Si tratta di chiamate effettuate da operatori di telemarketing che non vanno a buon fine perché, al momento della risposta da parte del destinatario della chiamata, non vi è un operatore disponibile. Al riguardo, l'Autorità ha adottato uno schema di provvedimento generale, sottoposto alla predetta consultazione, in cui si prevede una restrizione alla possibilità di richiamare la stessa utenza interessata da una precedente chiamata 'muta', che viene sottoposta a una serie di prescrizioni imposte dal provvedimento.

Nello Schema di regolamento, fra gli altri, oltre ad essere imposta l’adozione di un apposito sistema di censimento delle chiamate andate e buon fine e di quelle cd mute, si prevede che queste ultime non debbono superare la percentuale del 3% nell’ambito di una singola campagna di telemarketing. Inoltre, a fronte del verificarsi di una chiamata muta, l’utente non potrà essere richiamato prima di sette giorni; e ancora è prevista l’adozione di un cd sistema di comfort noise che dovrebbe consentire di diminuire il disagio e l’inquietudine per l’utente di trovarsi di fronte ad una chiamata muta.

Premesso che ogni considerazione sul piano del diritto positivo è rimandata al momento in cui vi sarà la conclusione del procedimento, allo stato emergono alcuni profili problematici connessi ai contenuti dello schema di provvedimento e, ancor prima, alla scelta stessa di intervenire in questa materia con un atto amministrativo del Garante.

Occorre infatti osservare che la materia è sottoposta ad una specifica disciplina di legge (art. 130 co. 3 bis del cd Codice della Privacy), in forza della quale sono considerate legittime tutte le comunicazioni nei confronti di soggetti che non abbiano manifestato il proprio dissenso iscrivendosi in registri negativi (cd sistema “opt-out”). Si tratta peraltro di una disposizione normativa che attua, a sua volta, le direttive europee n. 2002/58/CE e 95/46/CE, rispettivamente in materia di comunicazioni.

Ad oggi, di conseguenza, ciascun abbonato che ritenga di dare il consenso all’inserimento dei suoi dati nell’elenco a disposizione del pubblico e, tuttavia, desideri non ricevere comunicazioni commerciali, non deve far altro che iscriversi all'apposito Registro. In assenza dell’opposizione manifestata dall’abbonato con le suindicate modalità, è consentito il trattamento dei dati relativi al medesimo soggetto per finalità commerciali. Non vi sono altre disposizioni nella legge che limitino il trattamento dei dati al riguardo.

In tale contesto, un eventuale intervento del legislatore nazionale in questa materia dovrebbe peraltro restare nei limiti di conformità con i principi comunitari in materia che vietano agli Stati membri di disporre requisiti di legittimità del trattamento dei dati, aggiuntivi rispetto a quelli previsti dall’art. 7 della direttiva 95/46.

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N°76 Febbraio 2014 12

A maggior ragione appare discutibile la scelta di intervenire con un provvedimento dell'Autorità Garante, in una materia che deve ritenersi riservata al Parlamento, sia per la necessità di operare un adeguato contemperamento dei molteplici diritti ed interessi in gioco, in armonia col diritto comunitario, sia per le sanzioni anche di natura penale che scaturiscono dalla violazione delle norme in materia, che dunque non possono che provenire dalla Legge. Infatti, le norme richiamate nello stesso Schema di regolamento (art. 143 co. 1 lett. b e art. 154 co. 1 lett. c Codice della Privacy) consentirebbero all’Autorità Garante solo di prescrivere misure funzionali a garantire il rispetto delle disposizioni già stabilite dal legislatore e non di sostituirsi al medesimo, imponendo nuove regole che limitino il trattamento dei dati rispetto a quanto stabilito dalla normativa primaria ed introducendo così nuovi precetti in contrasto con la riserva di legge.

Ci si augura dunque che si tengano in considerazioni i rilievi che, taluni operatori del settore, hanno formulato all’Autorità Garante in sede di consultazione, onde evitare dar corso ad un Regolamento che darebbe luogo a sovrapposizioni ed ingerenze, che si risolverebbero in una indebita ingerenza in settori non di competenza della medesima, con turbative ed incertezze per le attività degli operatori del settore.

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N°76 Febbraio 2014 13

Rassegna Stampa

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 27/02/2014Accordi collettivi, scadenza e disdetta, successione e diritti quesitidi Vittorio Provera e Francesco Cristiano

Newsletter 07:24 - Il Sole 24 Ore: 27/02/2014Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 25/02/2014Se il dipendente sottace in fase preassuntiva le proprie condizioni di salute, l’azienda non è responsabile della malattiadi Luca Peron e Tiziano Feriani

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 19/02/2014Telemarketing: la posizione del Garante Privacy sulle c.d. chiamate mutedi Vittorio Provera

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 18/02/2014Superiore inquadramento e danno non patrimoniale da mobbingdi Tiziano Feriani

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 11/02/2014Le nuove regole del T.U. sulla rappresentanza sindacaledi Damiana Lesce

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 07/02/2014Pubblico impiego: “Rito Fornero” e procedimento d’urgenzadi Stefano Beretta e Diego Meucci

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 04/02/2014Licenziamento per la falsificazione di un documento aziendale per ottenere un finanziamentodi Damiana Lesce e Valeria De Lucia

Corriere Economia – Corriere della Sera: 03/02/2014Ci vorrebbe più attenzione per i giovanissimi imprenditoriIntervista a Stefano Trifirò

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N°76 Febbraio 2014 14

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