Newsletter T&P N°75

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N°75 Gennaio 2014 1 Newsletter N° 75 Gennaio 2014 Trifirò & Partners Avvocati Diritto del Lavoro Attualità 2 Le Nostre Sentenze 4 Cassazione 7 Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo Le Nostre Sentenze 8 Assicurazioni 9 Il Punto su 10 Eventi 12 R. Stampa 13 Contatti 14 “Jobs Act”: cosa ne penso? Al di là del termine che evoca legislazioni di altri Paesi (ma l’Italia non era una volta “la culla del diritto”?), resta il fatto che, se alle parole seguiranno i fatti, avremmo finalmente una importante svolta nel nostro diritto del lavoro. A mio avviso, tuttavia, occorre un “reset” di quanto fin qui si è accumulato e stratificato in un groviglio inestricabile di leggi, leggine, regolamenti, circolari che un Legislatore, incolto e incompetente, nonché le molteplici Amministrazioni dello Stato ci hanno fin qui propinato. Senza un “reset” non si va da nessuna parte e si rischia di aggiungere confusione a confusione. “Resettare” dovrebbe essere, dunque, la parola d’ordine. Ben venga, tuttavia la “semplificazione” delle norme (altri Governi hanno in precedenza predicato, a vuoto, la “delegificazione”). Ben venga un codice del lavoro. Ma, per carità, non si proponga “un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti”. Le regole esistenti non vanno racchiuse: vanno in massima parte eliminate. Dovrebbe essere data prevalenza ai contratti che prevedono il lavoro autonomo nell’ambito dell’impresa. Dovrebbe essere data, nell’ambito del lavoro subordinato, la prevalenza al contratto a tempo indeterminato (così da dare fiducia e motivazione ai giovani: con progressioni di carriera ed economiche in base al merito), ma con possibilità di risoluzione per giustificato motivo tipizzato (sì da non impantanarsi nelle aule giudiziarie alla mercé di un Giudice che tuttavia “rispetta la legge”. La Legge, infatti, (la “beneamata” Fornero!) consente al Giudice di poter condurre “il giudizio nel modo che ritiene più opportuno”, vanificando così anche l’opera dell’Avvocato. Il contratto a tempo determinato andrebbe limitato a casi specifici. Andrebbe soprattutto incoraggiato il lavoro autonomo affinché i giovani possano essere stimolati a lanciarsi in nuove intraprese: liberi dal giogo delle opposte Organizzazioni Sindacali e Datoriali. Un ultimo rilievo: i posti di lavoro non si creano per decreto; né si mantengono in vita le Aziende con i sussidi. È necessaria, come tutti dicono, la crescita. Ma non si cresce se ogni sera, quando torni dal lavoro, uno Stato canaglia infila, con destrezza, nella tua tasca la sua mano vorace per sottrarti oltre il 65% di quanto hai faticosamente guadagnato. Salvatore Trifirò Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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Newsletter Trifirò & Partners Avvocati N°75 Gennaio 2014

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Newsletter N° 75 Gennaio 2014

Trifirò & Partners Avvocati

Diritto del Lavoro

Attualità 2

Le Nostre Sentenze 4

Cassazione 7

Diritto Civile, Commerciale, Assicurativo

Le Nostre Sentenze 8

Assicurazioni 9

Il Punto su 10

Eventi 12

R. Stampa 13

Contatti 14

“Jobs Act”: cosa ne penso?Al di là del termine che evoca legislazioni di altri Paesi (ma l’Italia non era una volta “la culla del diritto”?), resta il fatto che, se alle parole seguiranno i fatti, avremmo finalmente una importante svolta nel nostro diritto del lavoro. A mio avviso, tuttavia, occorre un “reset” di quanto fin qui si è accumulato e stratificato in un  groviglio inestricabile di leggi, leggine, regolamenti, circolari che un Legislatore, incolto e incompetente, nonché le molteplici Amministrazioni dello Stato ci hanno fin qui propinato. Senza un “reset” non si va da nessuna parte e si rischia di aggiungere confusione a confusione. “Resettare” dovrebbe essere, dunque, la parola d’ordine. Ben venga, tuttavia la “semplificazione” delle norme (altri Governi hanno in precedenza predicato, a vuoto, la “delegificazione”). Ben venga un codice del lavoro. Ma, per carità, non si proponga “un codice del lavoro che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti”. Le regole esistenti non vanno racchiuse: vanno in massima parte eliminate.  Dovrebbe essere data prevalenza ai contratti che prevedono il lavoro autonomo nell’ambito dell’impresa. Dovrebbe essere data, nell’ambito del lavoro subordinato, la prevalenza al contratto a tempo indeterminato (così da dare fiducia e motivazione ai giovani: con progressioni di carriera ed economiche in base al merito), ma con possibilità di risoluzione per giustificato motivo tipizzato (sì da non impantanarsi nelle aule giudiziarie alla mercé di un Giudice che tuttavia “rispetta la legge”. La Legge, infatti, (la “beneamata” Fornero!) consente al Giudice di poter condurre “il giudizio nel modo che ritiene più opportuno”, vanificando così anche l’opera dell’Avvocato. Il contratto a tempo determinato andrebbe limitato a casi specifici. Andrebbe soprattutto incoraggiato il lavoro autonomo affinché i giovani possano essere stimolati a lanciarsi in nuove intraprese: liberi dal giogo delle opposte Organizzazioni Sindacali e Datoriali. Un ultimo rilievo: i posti di lavoro non si creano per decreto; né si mantengono in vita le Aziende con i sussidi. È necessaria, come tutti dicono, la crescita. Ma   non si cresce se ogni sera, quando torni dal lavoro, uno Stato canaglia infila, con destrezza, nella tua tasca la sua mano vorace per sottrarti oltre il 65% di quanto hai faticosamente guadagnato.

Salvatore Trifirò

Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti, Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco

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Lavoro somministrato: la violazione dei limiti numerici ha effetto sulla disciplina del licenziamento per i dipendenti dell’utilizzatoreA cura di Damiana Lesce

Nella disciplina sul lavoro somministrato di cui al d.lgs. 276/2003, oltre ai casi di nullità del contratto di somministrazione privo di forma scritta, o di somministrazione fraudolenta, è contemplata la possibilità di costituzione del rapporto lavorativo in capo all’utilizzatore nell’ipotesi di somministrazione irregolare che si verifica: i) nei casi di contratto di somministrazione concluso da un soggetto privo di autorizzazione, o senza che ne siano indicati gli estremi; ii) nei casi di inosservanza delle ragioni giustificative per la somministrazione a termine; iii) nei casi in cui si prescinda dalle esigenze indicate all'art. 20, comma 3 o di mancata indicazione delle stesse nel contratto; iv) per la somministrazione a tempo indeterminato, nei casi di violazione dei limiti quantitativi indicati dalla contrattazione collettiva (cd. clausole di contingentamento); v) in caso di mancata indicazione di eventuali rischi per l’integrità e la salute del lavoratore; vi) quando nel contratto manchi l’indicazione della data di inizio e della durata prevista.

Ferma restando la disciplina di cui sopra, la Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 26654 del 28 novembre 2013, ha posto in rilevo una diversa ed ulteriore conseguenza della violazione della normativa in materia di somministrazione di lavoro. L’art. 20, comma 4, d.lgs. 276 del 2003 rimette ai contratti collettivi nazionali di lavoro la individuazione dei limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha affermato che il superamento del limite numerico di ricorso al lavoro somministrato stabilito dalla contrattazione collettiva e, quindi, la violazione dell’art. 20, comma 4, del d.lgs. 276/2003, impedisce all’utilizzatore di invocare l’applicabilità dell’art. 22, comma 5, del medesimo decreto legislativo, che esclude la computabilità del prestatore di lavoro nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell'applicazione di normative di legge, tra cui anche quella in tema di tutela reale conseguente al recesso datoriale. Si legge nella sentenza che, nel  caso in cui il giudice di merito accerti che si tratta di somministrazione fraudolenta e/o irregolare, l’art. 22 comma 5 non è applicabile e il lavoratore deve essere necessariamente computato nell’organico dell’utilizzatore.

L’incidenza della violazione, spiega la Corte, si riverbera, a titolo di conseguenza sanzionatoria, sul piano della disciplina applicabile in caso di recesso intimato a lavoratori diversi da quelli somministrati che possono beneficiare della tutela reale ove il datore di lavoro abbia contravvenuto alla disposizione che fissa la soglia del requisito numerico nell'assunzione di lavoratori somministrati.

Il regime della risoluzione del rapporto di lavoro è regolato esclusivamente dalla legge e non è demandabile alla contrattazione collettivaA cura di Antonio CazzellaCon sentenza n. 27058 del 3 dicembre 2013, la Corte di Cassazione ha esaminato una fattispecie nella quale una compagnia aerea, non potendo più effettuare il servizio nell’ambito di uno scalo, aveva concluso un accordo sindacale che prevedeva il passaggio di 38 addetti al predetto scalo ad altra compagnia aerea.

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Newsletter T&PA seguito di tale accordo, i lavoratori avevano ricevuto una lettera di licenziamento, impugnato da alcuni lavoratori in sede giudiziale in quanto non era stata rispettata la procedura prevista dalla legge n. 223/1991 per il licenziamento collettivo.

La Suprema Corte ha evidenziato che, nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, l’autonomia privata si estrinseca essenzialmente nel consenso all’insorgenza del vincolo, mentre il contenuto è quasi esclusivamente determinato da fonti eteronome (la legge e le c.d. fonti sociali), salva la possibilità di pattuire condizioni di maggior favore per il prestatore d’opera. Peraltro, i casi in cui la contrattazione collettiva può derogare a norme imperative rispetto al contratto individuale devono, comunque, essere espressamente oggetto di una previsione di legge. La Corte ha evidenziato che il nostro sistema giuridico deve essere interpretato nel senso che l’attività lavorativa subordinata può essere prestata esclusivamente in conformità delle tipologie contrattuali previste dalla legge, che sono identificate non sulla base del mero nomen iuris utilizzato dalle parti, ma in base al reale atteggiarsi del rapporto.

Come rilevato dalla Suprema Corte, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, la volontà delle parti di porre fine egli effetti del rapporto di lavoro può essere attuata soltanto mediante un negozio unilaterale di recesso (licenziamento o dimissioni), con la conseguenza che, sebbene si sia in presenza di un contratto a prestazioni corrispettive, non si applica, ad esempio,  la disciplina della rescissione, della risoluzione per eccessiva onerosità, etc.. Pertanto, all’autonomia privata non è consentito l’inserimento nel contratto di lavoro di clausole di durata del rapporto di lavoro se non nei casi espressamente consentiti dalla legge e neppure di condizioni risolutive ai sensi dell’art. 1353 c.c. o di condizioni risolutive espresse ai sensi dell’art. 1456 c.c., in quanto non può essere consentito al datore di lavoro, attraverso la pattuizione di termini o di condizioni risolutive, di sottrarsi alla disciplina limitativa dei licenziamenti (individuali e collettivi) o anche, solamente, all’obbligo del preavviso.

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LA SENTENZA DEL MESEI 270 GIORNI EX L. 183/10 PER IL DEPOSITO DEL RICORSO DECORRONO DAL 24.11.2010 PER I LICENZIAMENTI INTIMATI PRIMA DI TALE DATA(Tribunale di Salerno, ordinanza del 12 dicembre 2013)

Un lavoratore licenziato per giusta causa nell’ottobre 2009, dopo aver impugnato il recesso entro il termine di 60 giorni, adiva il Tribunale di Salerno con ricorso ex art.1, comma 48, L. 92/12 depositato nel settembre 2013. Si costituiva in giudizio la Società eccependo, preliminarmente, l’inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza sull’assunto che il termine di 270 giorni previsto dall’art. 32 L. 183/10 (c.d. Collegato Lavoro) per il deposito del ricorso, viste le finalità della legge stessa, doveva intendersi applicabile anche ai licenziamenti intimati ed impugnati prima del 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore del Collegato Lavoro) e con decorrenza da tale data.Il Tribunale di Salerno, accogliendo integralmente l’eccezione della Società, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso rilevando che il “il termine di decadenza di 270 giorni, ridotti a 180 dalla l.n. 92/12, ha incontestabilmente natura processuale e, in quanto tale, è idonea a produrre i propri effetti fin dalla data di entrata in vigore determinando la decorrenza del termine ivi previsto per l’esercizio dell’azione giudiziale avente ad oggetto l’impugnativa di licenziamento senza che dal relativo onere possano ritenersi escluse le azioni relative a licenziamenti intimati in epoca anteriore”.Il Tribunale ha, altresì, precisato che la tesi prospettata dal lavoratore - secondo cui il termine in esame trovava applicazione solo per i licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore del Collegato Lavoro - contrasterebbe “con l’evidente intento del legislatore di garantire la certezza delle situazioni giuridico - soggettive derivanti dal rapporto di lavoro subordinato entro termini maggiormente congrui rispetto al termine quinquennale di prescrizione”, nonché con le ulteriori previsioni contenute nell’art. 32 L.183/10 che non prevedono, in relazione all’applicazione del termine di decadenza di 270 giorni, “una disciplina transitoria in considerazione dell’epoca di intimazione del recesso”. Infine, Il Tribunale ha anche espressamente escluso la decorrenza del termine di 270 giorni dal 31 dicembre 2011 avendo il c.d. Milleproroghe posticipato, sino a tale data, esclusivamente il termine per l’impugnazione stragiudiziale, peraltro, limitatamente “alle ipotesi di licenziamento non rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 6 l. n. 604 nella previgente formulazione”.Causa seguita da Marina Tona e Francesco Chiarelli

ALTRE SENTENZEÈ INEFFICACE L’IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO QUANDO L’AZIONE VENGA PROMOSSA DOPO 180 GIORNI DALL’INVIO DELLA CONTESTAZIONE STRAGIUDIZIALE(Tribunale di Milano, 20 dicembre 2013, n. 4709)

Un lavoratore, licenziato per superamento del periodo di comporto, aveva impugnato, in via stragiudiziale, il recesso nel termine di 60 giorni e, in seguito, presentato ricorso al Giudice.

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Il datore di lavoro, costituendosi, aveva eccepito l’inefficacia dell’impugnazione, sostenendo che l’azione giudiziaria era stata promossa quando era ormai decorso il “successivo termine di 180 giorni”, stabilito dall’art. 6, L. n. 604/1966 (come modificato dall’art. 32 del Collegato Lavoro e dalla Riforma Fornero). Il Tribunale di Milano, investito della vicenda, ha accolto le ragioni dell’azienda, rilevando la decadenza dall’azione, dopo aver constatato che il ricorso era stato depositato oltre 180 giorni dall’invio della contestazione stragiudiziale. Infatti - secondo il Tribunale - l’art. 6 citato, laddove stabilisce che “l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni dal deposito del ricorso….”, va interpretato nel senso che detto termine decorre non già dalla scadenza dei 60 giorni concessi per l’impugnazione stragiudiziale, bensì dalla data dell’invio dell’atto di impugnazione, individuata, in fattispecie, nella data di invio della raccomandata, coincidente con quella di consegna all’ufficio postale per la spedizione. Il principio si applica anche al licenziamento per comporto perché il c.d. Collegato lavoro (art. 32, comma 2) ha esteso l’obbligo di impugnazione - ed i relativi termini - a tutti i casi di invalidità del licenziamento.Causa seguita da Marina Olgiati e Andrea Beretta

NEL PUBBLICO IMPIEGO NON SERVE IL NULLA OSTA EX ART. 22 ST. LAV. SE IL DIRIGENTE SINDACALE È SPOSTATO DI REPARTO(Tribunale di Busto Arsizio, 3 dicembre 2013, decr.)

Un’organizzazione sindacale ha promosso un procedimento ex art. 28 Stat. Lav., lamentando la pretesa antisindacalità del comportamento tenuto da un’azienda pubblica, consistente nell’aver spostato un proprio dirigente da un reparto ad un altro, all’interno della struttura aziendale, senza aver previamente chiesto (ed ottenuto) il nulla osta di cui all’art. 22 Stat. Lav.. Il Tribunale ha respinto il ricorso proposto dall’organizzazione sindacale, rilevando che - come già affermato dalla Cassazione con sentenza 15 dicembre 2011 n. 27048 - l’art. 18, quarto comma, dell’accordo quadro del 7 agosto 1998, sottoscritto anche dal sindacato ricorrente, richiede il nulla osta unicamente per il caso di trasferimento di sede del dirigente, con conseguente mutamento del luogo di lavoro e non anche nel caso di mero spostamento di reparto del medesimo, all’interno della stessa struttura aziendale. Il Tribunale ha, altresì, precisato che tale conclusione è coerente con quanto stabilito dal previgente art. 18, primo comma, Stat. Lav.; ciò in quanto detta norma - nel far riferimento alla possibile presenza di più unità produttive nell’ambito di uno stesso Comune - palesava che, per unità produttiva, si deve intendere l’intero ed unico luogo in cui si trova l’azienda e non un singolo reparto della medesima, come erroneamente preteso dal sindacato ricorrente.Causa seguita da Stefano Beretta

ART. 18 SECONDO LA “RIFORMA FORNERO”: LA SUSSISTENZA DEL FATTO COMPRENDE LA SUA ANTIGIURIDICITÀ E IMPUTABILITÀ AL LAVORATORE(Tribunale di Milano, ordinanza del 5 dicembre 2013)

L’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla “riforma Fornero”, prevede la reintegrazione - in ipotesi di licenziamento disciplinare - solo se il fatto addebitato non sussiste, oppure quando il CCNL di categoria dispone, per tale illecito, una sanzione conservativa. La sussistenza dell’addebito presuppone l’accertamento sia della materialità della condotta contestata, che della sua antigiuridicità e imputabilità al lavoratore. Il concetto di condotte punibili con sanzioni conservative ha una connotazione “rigida”, per cui il licenziamento può ritenersi illegittimo solo laddove, per lo specifico fatto commesso, è prevista dal CCNL una sanzione conservativa. La pretesa illegittimità del licenziamento non può, invece, essere desunta a contrario dal fatto che il CCNL non prevede la condotta addebitata tra quelle per cui è previsto il licenziamento disciplinare.

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Newsletter T&PL’ordinanza in commento ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore, operante nell’ambito della gestione del personale, che - in presenza di colleghi di reparto - ha ingiuriato un dipendente definendolo “alcolista”, contestandogli di aver chiesto assistenza ad una organizzazione sindacale per impugnare una sanzione disciplinare (peraltro, pacificamente illegittima) ed esplicitando l’intenzione di cercare ogni cavillo possibile per licenziarlo. Tale comportamento, oltre che materialmente commesso, è senz’altro qualificabile come una violazione degli obblighi di legge e di contratto, imputabile al lavoratore perché posto in essere con coscienza e volontà, e persino con premeditazione.In particolare, l’ordinanza ha evidenziato che l’epiteto “alcolista” è offensivo, oltre che riconducibile ad un dato sensibile, e per nulla giustificabile in relazione a problemi di dipendenza avuti nel lontano passato e ormai risolti. Tanto più se tali problemi sono noti al lavoratore licenziato perché, operando nell’ambito della gestione del personale, se ne era occupato per gestire una richiesta di aspettativa non retribuita per ragioni di salute.Causa seguita da Salvatore Trifirò e Tommaso Targa

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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONEA cura di Stefano Beretta e Antonio Cazzella

L’INSUBORDINAZIONE NON LEGITTIMA IL LICENZIAMENTO SE È UNA REAZIONE AL “PRESSING” DEL DATORECon sentenza n. 589 del 14 novembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore che aveva abbandonato il posto di lavoro dopo un diverbio con la security, originato dal sospetto di un furto di beni aziendali. Nel caso di specie, il lavoratore era già stato licenziato per un sospetto furto ed era stato riassunto a seguito di una conciliazione della controversia da lui instaurata per l’impugnazione del licenziamento. Successivamente, il lavoratore - che svolgeva mansioni di caposquadra - si è trovato ad essere soggetto ai controlli interni da parte dei suoi ex sottoposti, entrati a far parte della sicurezza interna. Con specifico riferimento ai fatti di causa, è accaduto che la sirena di segnalazione si sia attivata al passaggio del lavoratore, che aveva indosso solo un piccolo marsupio; la security ha chiesto al lavoratore di poter effettuare una perquisizione, posto che l’azienda produce piccoli meccanismi di precisione, che ben potevano essere nascosti in un borsello; il lavoratore si è però allontanato senza consentire l’ispezione. La sanzione del licenziamento è stata tuttavia ritenuta sproporzionata, nonostante l’esistenza di precedenti sanzioni disciplinari per abbandono del posto di lavoro e per utilizzo personale del computer aziendale.

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE PER OMESSA COMUNICAZIONE DEL DOMICILIO TEMPORANEOCon sentenza n. 27057 del 3 dicembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore (per assenza ingiustificata), che non aveva comunicato il suo domicilio durante l’assenza per ferie. Nel caso di specie, il lavoratore era stato richiamato in servizio durante l’assenza per ferie e tale comunicazione era stata inviata presso il suo domicilio; poiché il lavoratore si trovava in altra località, non aveva ricevuto la predetta comunicazione ed era stato quindi licenziato. La Corte di Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento, rilevando che - contrariamente a quanto accade durante il periodo di malattia (in cui, peraltro, il datore di lavoro ha diritto di disporre una visita fiscale) - stante la natura costituzionalmente tutelata del bene, ivi compresa l’esigenza di privacy, durante il legittimo godimento delle ferie (che il lavoratore è libero di godere, salve differenti pattuizioni, secondo le modalità e nelle località che ritenga più congeniali al recupero delle sue energie psicofisiche), egli non è obbligato a comunicare la sua destinazione, in quanto un siffatto obbligo costringerebbe il lavoratore - che, magari, potrebbe trovarsi in viaggio - non solo a far conoscere i suoi spostamenti, ma anche ad una gravosa attività di comunicazione formale, magari anche giornaliera, dei suoi spostamenti.

LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO E DEMANSIONAMENTOCon sentenza n. 902 del 17 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dipendente che aveva subito, nel corso del tempo, un progressivo demansionamento. Nella fattispecie esaminata, il lavoratore - che, in precedenza, svolgeva le funzioni di responsabile del personale e della qualità - aveva subito un progressivo demansionamento, in quanto le mansioni svolte erano state assegnate ad un altro collega nonché ad una serie di lavoratori “precari”, assunti con la generica motivazione dell’apertura di nuovi mercati. Pertanto, è stato accertato non solo che la soppressione della posizione era stata artatamente preordinata dal datore di lavoro, ma, altresì, che non si era verificata alcuna contrazione dell’attività commerciale, considerato che l’azienda aveva continuato ad effettuare assunzioni anche successivamente al licenziamento del dipendente.

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Civile, Commerciale, Assicurativo

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LE NOSTRE SENTENZEL’ACQUIESCENZA DELL’ASSICURATO ALL’ILLECITO DELL’AGENTE ESCLUDE LA RESPONSABILITÀ SOLIDALE DELL’ASSICURATORE(Tribunale di Lecco, 3 dicembre 2013)

Un assicurato citava in giudizio una compagnia di assicurazione lamentando l’illecita appropriazione da parte di un suo agente dei premi versati per la stipulazione di polizze che non risultavano ritualmente emesse chiedendo, ex art. 2049 c.c., il risarcimento dei danni commisurati ai premi versati per la stipulazione delle polizze. In relazione, poi, ad un’altra polizza, che invece la compagnia non contestava, chiedeva il pagamento del controvalore dei premi asseritamente versati e solo parzialmente riconosciuti dall’assicuratore. La Compagnia si difendeva sostenendo che tra l’assicurato e l’agente era intercorso un parallelo rapporto privato nell’ambito del quale le due parti si scambiavano vicendevolmente somme di denaro per ragioni estranee al contratto assicurativo. Tale rapporto “parallelo” era dimostrato sia dall’esistenza di note manoscritte dell’agente, riportanti il tasso di interesse che gli investimenti posti in essere avrebbero dovuto fruttare, sia da una serie di assegni, emessi da terzi soggetti e consegnati dall’agente all’attore, che non avevano nessun nesso con le polizze sottoscritte e che erano, quindi, privi di legittima causale. Inoltre, in relazione alle polizze artefatte - che erano state sottoscritte dall’assicurato successivamente alla loro decorrenza - l’assicurato non aveva ricevuto dalla compagnia i regolari rendiconti che invece riceveva in relazione alle polizze validamente emesse; tale anomalia era stata inspiegabilmente tollerata dall’attore. Il Tribunale, valutate le suddette circostanze, riteneva che l’assicurato fosse consapevole ed acquiescente al fatto che l’agente, dietro il paravento dell’agenzia - ed all’oscuro della compagnia - proponeva e stipulava operazioni finanziarie che nulla avevano a che fare con le polizze - false - che erano state sottoscritte dall’assicurato. Di conseguenza il Giudice, seguendo la linea di recente enunciata dalla Cassazione (n. 8236/12), respingeva le domande dell’attore, ribadendo il principio per cui il “nesso di occasionalità necessaria” tra l’illecito dell’agente e le mansioni dallo stesso svolte nell’ambito del mandato conferito dalla Compagnia (presupposto perché si possa affermare la responsabilità oggettiva dell’assicuratore) viene meno allorquando emerga una situazione di consapevole cooperazione o di fattiva acquiescenza del danneggiato all’illecito commesso dall’agente. Sul piano strettamente probatorio, il Giudice rilevava altresì la carenza della prova del danno, ritenendo che essa non possa essere fornita dalle sole quietanze di pagamento sottoscritte dall’agente, che sono imputabili al solo agente, se la sottoscrizione dell’assicuratore sul modulo utilizzato per la quietanza è riprodotta a stampa e non olografa. Con riferimento alla domanda relativa alla polizza validamente emessa (e riconosciuta dalla compagnia) il Giudice, seguendo le difese della convenuta, respingeva la domanda in quanto la stessa - semmai - doveva essere formulata entro i canoni della responsabilità per inadempimento contrattuale e non ai sensi dell’art. 2049 c.c.Causa seguita da Bonaventura Minutolo e Francesco Torniamenti

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Newsletter T&PAssicurazioniA cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

AssicurazioniA cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano

AGENZIA - PRIVILEGIO

La disposizione di cui all'art. 2751-bis, numero 3), cod. civ., inserito dall'art. 2 della legge 29 luglio 1975, n. 426 (Modificazioni al codice civile e alla legge 30 aprile 1969, n. 153, in materia di privilegi) - secondo la quale “Hanno privilegio generale sui mobili i crediti riguardanti: [...] 3) le provvigioni derivanti dal rapporto di agenzia dovute per l'ultimo anno di prestazione e le indennità dovute per la cessazione del rapporto medesimo” -, deve essere interpretata, in conformità con l'art. 3 Cost. ed in sintonia con la ratio dello stesso art. 2751-bis cod. civ., nel senso che il privilegio dei crediti ivi previsto non assiste i crediti per provvigioni spettanti alla società di capitali che eserciti l'attività di agente.(Cassazione Sez. Unite, 16 dicembre 2013, n. 27986)

CONTRATTO DI

ASSICURAZIONE A

PREMIO VARIABILE -

SOSPENSIONE DELLA

GARANZIA

Nei contratti di assicurazione a premio variabile, analoghi a quello di specie, l'obbligo dell'assicurato di comunicare periodicamente all'assicuratore le variazioni dei dati rilevanti ai fini dell'integrazione del premio costituisce oggetto di un'obbligazione civile diversa da quelle indicate nell'art. 1901 c.c., il cui inadempimento non comporta l'automatica sospensione della garanzia, ma può giustificare un tale effetto, così come la risoluzione del contratto, solo in base ai principi generali in tema di importanza dell'inadempimento e di buona fede nell'esecuzione del contratto.(Cassazione, 19 dicembre 2013, n. 28472)

RESPONSABILITÀ DA

COSE IN CUSTODIA

Va esclusa la possibilità di qualificare il cosiddetto cordolo come anomalia della pista da sci: sia in quanto normale e naturale risultato della stessa attività di individuazione, sulla pendice innevata, di una pista destinata ad essere percorsa con gli sci; sia in quanto immediatamente percepibile, dai fruitori, come componente e delimitazione della pista stessa; sia in quanto strutturalmente e originariamente privo di ogni destinazione protettiva dei fruitori della pista o di prevenzione della loro fuoriuscita da questa. Va allora valutato come di per sé solo idoneo ad escludere il nesso eziologico tra l'evento idoneo a produrre il danno e la colpa - soprattutto se grave - del danneggiato nell'utilizzo della cosa secondo un criterio di normale prudenza, dovendo quest'ultima necessariamente rapportarsi alle condizioni in cui è normale aspettarsi che si trovi la cosa stessa in rapporto alla sua struttura ed alla sua destinazione o funzione.(Cassazione, 20 dicembre 2013, n. 28616)

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IL PUNTO SUA cura di Vittorio Provera

MAXI MULTE PER DIPENDENTI IN NERO E MANCATA CONCESSIONE DI RIPOSI SETTIMANALI

Il Decreto Legge 23 dicembre 2013 n. 145, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 23 dicembre 2013 ribattezzato anche “Decreto Destinazione Italia” contiene, fra gli altri, un notevole inasprimento delle sanzioni a carico delle imprese che si rendano responsabili di mancata regolarizzazione dei rapporti di lavoro con i dipendenti o del non rispetto dei riposi settimanali periodici.

Nel medesimo decreto si è previsto che i maggiori importi derivanti dall’aumento delle sanzioni di cui tratteremo tra breve, siano destinati al finanziamento delle misure, anche di carattere organizzativo ed economico, poste in essere dalle Direzioni Territoriali del Lavoro, con lo scopo di rendere più incisive le attività di vigilanza in materia di contrasto del lavoro sommerso, nonché di prevenzione e promozione in materia di salute e sicurezza.

Nel dettaglio, è stabilito che le sanzioni introdotte dall’articolo 3 del D. L. del 2002 (convertito nella legge n. 73/2002), nonché le somme aggiuntive di cui all’articolo 14 co. 4 lettera c) D. L.vo n. 81/2008, siano aumentate del 30%. Si tratta dei casi in cui viene accertato l’impiego di personale senza la preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato, nonché delle somme aggiuntive (rispetto all’applicazione delle sanzioni penali, civili e amministrative) applicate in caso di violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro ed a fronte del riscontro di impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria. A seguito di tali inasprimenti, per ogni accertamento di impiego di dipendente “in nero”, le sanzioni passano ora da un minimo di Euro 1.950,00 ad un massimo di Euro 15.600,00. Inoltre, sale ad Euro 1.950,00 la sanzione che segue alla chiusura dell’attività, qualora più di un terzo dei dipendenti risulti nella predetta situazione di irregolarità. E ancora, la nuova disciplina ha precisato che, nelle ipotesi di impiego dei lavoratori subordinati senza preventiva regolare comunicazione della instaurazione del rapporto di lavoro, non sarà applicabile la procedura di diffida di cui al D. L.vo n. 124 del 2004 (in base al quale il personale ispettivo che rilevava l’inosservanza delle norme di legge o di contratto collettivo provvedeva a diffidare il trasgressore e l’eventuale obbligato in solido alla regolarizzazione dell’inosservanza, materialmente sanabile entro il termine di trenta giorni dalla data di notificazione del verbale di accertamento).

Ancor più grave è stato l’inasprimento delle sanzioni amministrative (ora decuplicate) di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 18 bis del D. L.vo n. 66 del 2003, in presenza di violazione delle norme sulla durata media settimanale dell’orario di lavoro (che per ogni periodo di 7 giorni, non può superare le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario) ed in caso di mancato godimento dei riposi.

Si ricorda che la durata media dell’orario deve essere calcolata con riferimento ad un periodo non superiore a 4 mesi (salvo diverse disposizioni della contrattazione collettiva).

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Orbene, la violazione dei limiti sulla durata media è ora punita con la sanzione amministrativa base che va da un minimo di Euro 1.000,00 ad un massimo di Euro 7.500,00 per ogni lavoratore e per ciascun periodo in cui si verifica la violazione. La stessa sanzione si applica in ipotesi di non osservanza del periodo di riposo di 24 ore consecutive ogni sette giorni.

Per quanto concerne la disciplina riguardante il diritto, per ogni lavoratore, ad almeno 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore, la violazione è sanzionata da un minimo di Euro 500,00 ad un massimo di Euro 1.500,00. Tutte le predette sanzioni sono ulteriormente incrementate nel caso in cui l’illecito si riferisca a più di 5 ed a più di 10 lavoratori, ovvero a più periodi di riferimento previsti dalla normativa.

Nel medesimo decreto è previsto che il Ministero del Lavoro possa aumentare la dotazione organica del personale ispettivo di 250 unità; infine è stata introdotta una più stringente forma di coordinamento da parte del Ministero, con la finalità di assicurare un più razionale impiego del personale ispettivo e superare la problematica concernente la sovrapposizione di interventi ad opera di diversi Organi Ispettivi (Ministero del Lavoro, INPS, INAIL).

Da segnalare che dette disposizioni sono state oggetto di critica ad opera dell’Associazione Nazionale degli Ispettori di vigilanza dell’INPS, secondo cui l’aumento delle sanzioni dovrebbe essere soprattutto mirato a colpire i casi di recidiva comportamentale dell’azienda. Inoltre, potrebbe porsi un conflitto di interessi, con rischio di incostituzionalità di quelle norme che destinano i maggiori introiti delle sanzioni a vantaggio dei soggetti che comminano le medesime, in quanto ciò pregiudicherebbe l’imparzialità dell’azione della Pubblica Amministrazione.

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Convegni

CONVEGNIMilano, 13 Febbraio 2014Convegno Optime: La gestione delle eccedenze  di personaleGLI STRUMENTI CONSERVATIVI DEL RAPPORTO DI LAVOROIl trasferimento e il distaccoTrasferimento e distacco: nozioni e differenzeIl quadro legale e i principali orientamenti giurisprudenzialiIl regime sanzionatorio e le conseguenze per le imprese in caso di violazioniI contratti collettivi nazionali e aziendaliRelatore: Avv. Giacinto FavalliPROGRAMMA

Archivio Convegni: Firenze, 27 Gennaio 2014Meeting Nazionale FIPE – Federazione italiana pubblici eserciziAvv. Stefano Beretta

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Rassegna Stampa

Corriere della Sera: 23/01/2014 – Interventi & ReplicheLavoro: il Jobs ActLettera di Salvatore Trifirò

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 17/01/2014I 270 giorni ex L. 183/2010 per il deposito del ricorso decorrono dal 24.11.2010 per i licenziamenti intimati prima di tale datadi Marina Tona e Francesco Chiarelli

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 13/01/2014Maxi multe per dipendenti in nero e mancata concessione di riposi settimanalidi Vittorio Provera

JOB24 – Il Sole 24 Ore: 08/01/2014Job Act. Il contratto unico: di che cosa si parla?Videointervista a Tommaso Targa

Highlights T&P 2013A cura di Trifirò & Partners Avvocati

Dossier Lombardia – il Giornale: Dicembre 2013Se la riforma frena la crescitaIntervista a Salvatore Trifirò

Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 20/12/2013Il lavoratore promuove l’azione oltre il termine di decadenza, con motivi pretestuosi: condannato per lite temerariadi Damiana Lesce e Valeria De Lucia

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