Numero 9 giugno 2012

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Poste Italiane Spa – spedizione in abb. postale – DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1 comma 2 e 3 NE/TN – taxe perçue Registrazione Tribunale di Trento n. 2/2010 del 18/02/2010 Trimestrale dell’associazione Il Gioco degli Specchi ANNO III NUMERO 2 – GIUGNO 2012 Dalle sabbie del deserto alle sabbie mobili delle leggi La nuova associazione Amici dell'Etiopia Il cricket sui campi trentini

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Ecco il numero di giugno

Transcript of Numero 9 giugno 2012

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Trimestrale dell’associazione Il Gioco degli SpecchiANNO III NUMERO 2 – GIUGNO 2012

Dalle sabbie del deserto alle sabbie mobili delle leggi

La nuova associazione Amici dell'Etiopia

Il cricket sui campi trentini

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3 Editoriale Primo piano

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PRIMO PIANO Ahmed, da otto mesi a Trento, un tuareg che per noi fa notizia

PRIMO PIANONeve come sabbia

STORIEDallo sconforto alla confidenza: il piccolo romanzo di una badante

3

4|56|7

8|91011

SOCIETÀ Il cricket sui campi trentini

RACCONTO Mamma, , mamma

ASSOCIAZIONIAmici dell'Etiopia

EDITORIALE

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IMMI/EMISardi emigrati in Toscana

CINEMARipòsino in rivolta, reportage di Sylvain George

FUSIONIUn amico, una nostalgia, una ricetta

PRIMO PIANOdi Sara Diaz Gonzalez

AhMED, da otto mesi a Trento, un tuareg che per noi fa notizia

A colloquio con un rifugiato politico fuggito dalla Libia

La situazione del popolo tuareg è mol-to incerta da quando a gennaio sono ripresi i conflitti nel Mali. Amnesty In-ternational parla di 200.000 persone fuggite dalla zona di crisi dall’inizio del conflitto a gennaio. È stato ad aprile, però, che la situazione ha avuto un’e-co internazionale, quando il Movimento Nazionale di liberazione dell'Azawak (MNLA), approfittando della situazio-ne caotica generata dal golpe del 22 marzo che ha provocato la destituzione del presidente maliano Touré, ha preso il controllo di tre grandi città del nord, Kidal, Gao e Timbuctù, dichiarando

l’indipendenza dello stato dell’Azawak. La Comunità Economica dell’Africa Oc-cidentale, l’Unione Africana e l’Unione Europea, hanno criticato questa forma di presa di potere.I tuareg vivono dispersi tra il Niger, il Mali, la Mauritania, l’Algeria e la Libia. Qui, dopo la guerra che ha fatto cadere il regime gheddafiano, la situazione per questa minoranza amazigh, malgrado tutte le promesse, non è cambiata.Ne abbiamo parlato con Ahmed, libico di etnia tuareg, da otto mesi a Trento, uno dei tanti che ha sofferto le conse-guenze della Rivoluzione dei Gelsomini.

Da lui sappiamo della situazione di sot-tomissione e di disuguaglianza che vive il suo popolo nella Libia post Gheddafi. Esauritasi l’ultima rivolta tuareg degli anni ’90, il dittatore aveva offerto loro protezione in cambio di lealtà. Durante il conflitto libico molti tuareg sono stati obbligati a lottare a favore del governo e ora, morto il leader beduino, armi in pugno, molti sono ritornati nelle loro terre d’origine.Altri come Ahmed formano parte di quelli che, a febbraio, in quell’ondata di barconi arrivati a Lampedusa, fuggiva-no dalla guerra. Sono rifugiati politici o dovrebbero esserlo.A Trento gli è stato offerto del cibo e un tetto e per questo è riconoscente, ma i problemi vitali non finiscono qui. In Libia Ahmed è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni. Come tuareg, nel suo paese, è considerato un citta-dino di seconda classe. Il governo libico non gli permetteva di avere i documenti necessari per andare a studiare all’e-stero, “ed è già un miracolo che sia riu-scito a fare l’università usando la carta d’identità dove c’è scritto tuareg”. Ora, in Italia, a Trento, non ha un permes-so per poter continuare a studiare o trovare un lavoro, è stranded, perso in questo limbo di “sicurezza” che non gli permette di muoversi.Ahmed parla di una possibile “rivolta tuareg a livello di quella libica”, se al suo popolo non verrà data una terra. La situazione di Ahmed e del suo popolo è una conseguenza di quella guerra che ha occupato l’interesse dei media per più di un anno, ma questa minoranza non è forse stata abbastanza "notizia-bile".

“Siria, almeno 20 morti in bombardamento a Daraa”. Così intitola Repubblica.it nella sua sezione sul Medio Oriente di sabato 9 giugno. Se ne occupa anche Corriere.it, che parla dell’“ennesimo episodio di violenze e vittime nel paese”; ma anche Le Monde, Le Figaro o il britannico The Guardian hanno coperto ampiamente la rivolta che da più di un anno fa traballare il regime di Assad.Prima ancora abbiamo sentito parlare delle rivolte in Tunisia, in Egitto e in Libia. Ora queste rivolte, avvenute più di un anno e mezzo fa, formano parte della storia e sono già conosciute come "La primavera araba".E’ curioso come funzionano i media. Che cosa diventa o no notizia e perché. Nelle aule delle facoltà di giornalismo si parla del gatekeeping, sistema per il quale un even-to passa oltre il gate dei media e diventa per tanto un fatto notiziabile.Ci sono poi i famosi criteri di notiziabilità. Ovvero, un evento diventa notizia se ad esempio in esso sono coinvolte molte o poche persone e l’indice di notiziabilità si alza a seconda della fama di cui godono i personaggi in questione. Altri fattori sono il dove e il quando, l’effetto che produrrà o la presenza di un conflitto; tutti criteri che influiscono nella scelta delle notizie, nell’elaborazione del “palinsesto”, che ogni gior-no, magicamente, si articola nelle prime pagine dei principali giornali internazionali.Il fatto è che certe informazioni oltrepassano il famoso gate e altre rimangono in se-condo piano; di altre se ne parla fino alla nausea per molti giorni e poi non se ne sa più niente, svanite nel nulla o forse, peggio ancora, compaiono solo in piccoli trafiletti quando c’è da riempire uno spazio nell’impaginazione.Sicuramente e grazie alla rete, questa scelta di notizie è molto più difficile e le infor-mazioni che ci arrivano sono molteplici. A noi la scelta.

IL GIOCO DEGLI SPECChIperiodico dell’Associazione “Il Gioco degli Specchi”

Reg. trib. Trento num. 2/2010 del 18/02/2010direttore responsabile Fulvio Gardumidirettore editoriale Mirza Latiful Haque

redazionevia S.Pio X 48, 38122 TRENTO tel 0461.916251 - cell. 340.2412552info@ilgiocodeglispecchi.orgwww.ilgiocodeglispecchi.org

progetto grafico Mugrafik

foto di copertina Paolo Ronc

stampa Litografia Amorth, loc. Crosare 12, 38121 Gardolo (Trento)

con il sostegno diComune di TrentoAssessorato alla Cultura e TurismoProvincia Autonoma di Trento

Una legge emanata in Italia ha conseguenze che arrivano fino al Mali, l'epicentro è a Roma e lo tsunami travolge vite in Se-negal.È bene che siamo coscienti anche di questo fatto quando an-diamo a votare, che sappiamo cosa significa sostenere una politica migratoria piuttosto che un'altra.È facile informarsi. Ce lo dicono con chiarezza i libri e gli ar-ticoli di Stefano Liberti, Gabriele Del Grande e Fabrizio Gatti che ripercorrono le storie dei migranti: in viaggi esposti a mille pericoli le persone vanno alla ricerca di una vita migliore per sé e per i loro cari. Ce lo dicono i profughi arrivati l'anno scorso ed ospitati an-che in Trentino. Fuggiti dalla Libia allo scoppio della guerra, costretti ad affrontare il mare verso l'Europa, chiedono atten-zione e che li si aiuti ad uscire dal limbo in cui sono precipitati. Chiedono un permesso umanitario che dia loro una qualun-que prospettiva di futuro, in Italia, in Libia o in patria. È sempre possibile firmare la petizione con le loro richieste già segnalata: http://www.meltingpot.org/articolo17149.htmlL'assemblea dei richiedenti asilo si riunisce periodicamente al CS Bruno, via Dogana 1, Trento, ogni lunedì alle ore 15.30."Siamo uomini capaci ed intelligenti con tanta voglia di vivere liberi, lontani dalla guerra, e lavorare in un mondo giusto!"

Si decide a Roma, si soffre in Niger NOTIZIAbILITÀ

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54Primo piano

PRIMO PIANO

Tavole gentilmente concesse dall'autore.Per saperne qualcosa di questo poliedrico artista roveretano viaggiate nel suo sito: http://www.zaffoni.it/,Exotica, Parole e immagini dell'altrove.

Primo piano

di Bruno Zaffoni*

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6Storie

"Mi sedevo vicino a lei con un libro o un ricamo in mano. Le prime sere faceva finta di non vedermi, sembrava chiusa nel suo mondo....."

Cesarina era magra e probabilmente da giovane era sta-ta anche abbastanza alta: con i suoi centodue anni si teneva ancora dritta, anche se con l'aiuto di un bastone. Centodue anni: una bella età, quasi biblica. Per me (che faccio la ba-dante) andare a lavorare da un'ultracentenaria era come sfidare la fortuna: poveretta - pensavo - o muore prima anco-ra che tu arrivi a casa sua o, se sei fortunata, vivrà qualche mesetto.

Poi, avevo pensato: che cosa ci perdo? Non ho nessun lavoro, mi sto mangiando quei pochi spiccioli che mi sono ri-masti. Bah... erano davvero pochi dopo cinque mesi trascorsi a casa mia per prendermi cura della mia mamma. Sì, perché la sanità gratuita in Ucraina è ancora un sogno e ho speso quasi tutto quello che avevo. Quando si tratta della salute dei

propri cari, non si bada alle spese.

Quindi mi trovavo senza soldi e accettai la prima pro-posta che mi capitava, cioè badare a un'ul-tracentenaria

parente della dottoressa della signora che mi aveva ospitato per tre giorni, grazie alla raccomandazione di una mia ami-ca, che aveva buoni rapporti con lei. Ma non si può sfruttare troppo la gentilezza delle altre persone senza ricambiare. E, in un certo senso, ricambiare è abbastanza vantaggioso: fai un enorme piacere a chi è stato buono con te (nella mia si-tuazione direi "pietoso") e in un colpo ti liberi dai pensieri per

i soldi, l'alloggio, i viveri.In ogni caso, è stato risolutivo non solo per me ma anche

per la mia benefattrice, che è davvero una persona di buon cuore, perché si è presa cura di un bambino di una famiglia africana. I genitori di questo vivacissimo bambino avevano detto che se ne sarebbero andati a casa per una breve va-canza, ma era passato già qualche anno e non erano ancora ritornati.

Il bambino, nella nuova famiglia acquisita, cresceva come se fosse nella sua o forse anche meglio: tutti gli vo-levano molto bene, i nuovi papà e mamma e le sorelle, che erano molto più grandi e si occupavano di lui. Tutti gli voleva-no molto bene, tranne i suoi, perché non si facevano senti-re, non rispondevano alle lettere della signora Luisa. Si dice che niente al mondo succede per caso, che tutta la nostra esistenza è programmata prima di essere nati e che tutte le presunte “coincidenze” sono nient’altro che il logico risultato delle nostre attività precedenti. Solo che non sempre siamo capaci di capirlo. Mah... chi lo sa.

Viviamo, cercando di migliorare, come gli sportivi, alzan-do l'asticella da superare, sfidando noi stessi e non sempre i risultati sono soddisfacenti. Dicono anche, che è meglio prendere con filosofia tutto quello che succede nella vita: né disperandosi né saltando dalla gioia, perché tutto cambia, la fortuna gira come il carillon. Forse è per questo che riesco a vedere più il “lato” opposto – gira troppo veloce...

Però penso che in questo caso, tutto sommato, anche se sono andata in un posto lontano, dove non mi aspettavo di incontrare qualche conoscente, di poter conversare nella mia lingua, la gentile signora Fortuna mi ha fatto un grandis-simo regalo: mi ha fatto conoscere una persona, vivere con la quale è stato come vivere un'epoca, un periodo storico op-

di Halyna Taratula

halyna racconta una sua esperienza in Trentino

Dallo sconforto alla confidenza:il piccolo romanzo di una badante

Centodue anni: una bella età, quasi biblica. Per me (che

faccio la badante) andare a lavorare da un'ultracentenaria

era come sfidare la fortuna

7Storie

posto a tutto quello che ci circondava. E non perché avesse centodue anni: quando parlavamo, ridevamo sempre ed era più giovane di me.

In un freddo inverno all’inizio del burrascoso ventesi-mo secolo, in una famiglia benestante, con genitori di età avanzata, era nata una bel-lissima bambina. Poiché era unica e femmina non è stata ben accolta. In quell’epoca anche nella società della ric-ca borghesia la figlia unica era considerata come una maledizione. E in tanti casi non poteva essere conside-rata erede, come un figlio maschio. Proprio per questo, il nonno non ha lasciato l'intera eredità a suo padre come da tradizione, ma l'ha spartita fra i tre figli e questo fatto ha incrinato il rapporto di Cesarina con i genitori. Pur non avendo nessuna colpa era considerata la causa principale della loro rovina. Ma lei voleva essere ama-ta, voluta bene, come lei stessa nonostante tutto amava loro: con tutto il cuore.

Sono lunghe le serate, se sei sola o in compagnia di per-sone noiose o superbe. Le mie serate con Cesarina furono davvero belle. Certo, non abbiamo trovato subito il punto che avvicinava. Come dovuto, io ho cercato di essere gentile, pre-murosa.

Per mia fortuna, all’inizio, durante le prime due settima-ne, era rimasta con noi la prima badante, la giovane ecuado-riana Dora (sembrava un gioco di parole), che mi ha aiutato ad ambientarmi in questa grande casa del sedicesimo se-colo, ad imparare il modo di vita di Cesarina: le medicine da

somministrarle, i piatti preferiti e consigliati, le ore di riposo, l’attività, tutto quello che di solito compone la vita quotidiana di una persona, una persona sola.

A Cesarina piaceva la musica, specialmente quella della montagna. Il suo viso ancora bello (ogni età ha sua bellezza)

si illuminava quando ascol-tava i cori alpini. Cantava con loro a mezza voce chiu-dendo gli occhi.

Sul tavolo, accanto al suo letto teneva una pic-cola radio per ascoltare le ultime notizie dal mondo, dalla sua valle. La radio era la sua finestra sul mondo.

Si sdraiava sul letto, ascoltava notizie, canti, preghiere. Mi sedevo vicino con un libro o un ricamo in mano. Le prime sere faceva finta di non vedermi: non parlava con me, lo face-va solo se aveva bisogno di qualcosa, molto delicatamente, chiedeva e poi sembrava chiudersi di nuovo nel suo mondo.

Provavo grande sconforto e dubitavo se stavo facendo bene a rimanere con lei nella stanza alla sera: forse le piace la solitudine e faccio meglio ad andarmene nel mio angolo, pensavo.

Dopo un po’ di tempo Cesarina si è “sciolta” e ridendo mi ha raccontato che per tutto il tempo aveva osservato come mi comportavo domandandosi se avrei resistito. Alla fine ha ceduto lei, ma con uno stile tutto suo: invitandomi a recitare insieme la corona. La preghiera comune ha fatto bene a tutte e due.

Da allora tutti i pomeriggi e le sere, quando non c'erano visitatori, mi raccontava la storia della sua vita.

Sono lunghe le serate, se sei sola o in compagnia di persone noiose o superbe.

Le mie serate con Cesarina furono davvero belle. Certo, non abbiamo

trovato subito il punto che avvicinava.

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98SocietàSocietà

SOCIETÀLe sfumature del mondo sociale del cricket

di Manuel Beozzo

Circa un anno fa, in occasione di una fiera tenutasi a Norimberga, stavo chiacchieran-do con Edoardo: oggi presidente del Circolo Trentini di Norimberga, ieri Gastarbeiter in Germania in cerca, come tanti altri italiani e non solo, di maggiori sicurezze economi-che. Passeggiavamo accanto all'immenso

e modernissimo complesso fieristico e si ricordò degli anni quando lì non c'era niente o meglio c'era solo una distesa di campi e lui ed altri Gastarbeiter italiani si trovavano, la domenica, a giocare a pallone, improvvisando due porte e definendo a grandi linee le dimensioni del campo di gioco. Erano gli anni 60. Questo aneddoto mi è stato richiamato alla mente da una scena alla quale ho assistito poche set-timane fa, passando davanti al parcheggio del Palasport di Trento, in località Ghiaie: una ventina di persone, in parte sedute sulle gradinate ai lati del parcheggio a mo' di tifosi sugli spalti, altri sparpagliati nel piazzale. Stavo assistendo alla medesima scena raccontatami da Edoardo: lavoratori stranieri – che poi ho scoperto essere di origine pakistana, bengalese, cingalese – che la domenica si riuniscono e im-provvisano una partita del loro sport: il cricket.Partendo dal fatto che la sociologia si interessa dell'agire umano, che lo sport rappresenta un ottimo momento di interazione tra persone e che a Trento c'è una squadra di cricket, tento di seguire le orme di due sociologi tedeschi: Hans-Georg Soeffner e Dariuš Zifonun. In una pubblicazio-ne di qualche anno fa, i due ricercatori hanno esposto i ri-sultati di un loro interessante studio, soprattutto per l'ogget-to dell'indagine: la FC Hochstätt Türkspor, una squadra di calcio formata esclusivamente da giocatori turchi, presente nella serie D del campionato tedesco. La ricerca puntava a spiegare il fenomeno del “soziale Welt” (mondo sociale), base per la creazione di rapporti e identità sociale dentro e fuori dai confini del mondo. La domanda che ora può sor-gere spontanea è: ma cos'è un mondo sociale? Credo che darne un esempio sia la risposta più chiara.Dopo il primo incontro indiretto con i giocatori non profes-sionisti di cricket, Massimo ed io abbiamo cercato di assi-stere nuovamente ad una partita. Purtroppo però le nostre

ricerche, allargate anche ad altre zone delle città, non sono mai andate a buon fine. Con ormai in mente il tema del cricket, non ci diamo per vinti e decidiamo di cambiare leg-germente rotta. Prossima meta: il campo ufficiale di cricket in località Ghiaie a Trento.Arrivo con il fidatissimo fotografo e amico Massimo e il caro amico Jordan. Piove e i giocatori sono riuniti al centro del campo per decidere se continuare la partita o se, come previsto dalle regole del gioco, chiudere il match a tavolino decretando così un pareggio. Colgo l'occasione della pausa forzata per fare due chiacchiere con Waseem, giocatore e vi-cepresidente della società Trentino Cricket Club (che attual-mente detiene il titolo nazionale e vanta giocatori che fanno parte della squadra italiana di cricket). Wase-em mi riassume brevemente, senza cadere in tecnicismi, le regole del gioco e lo spirito del cricket, che mette in primo piano il fair play, le norme di comportamento, durante le partite. Dirotto poi la conversazione su un altro aspetto che caratterizza spesso le società sportive, ovvero l'interessarsi ad altre attività, non strettamente legate allo sport. Waseem mi racconta di un'iniziativa che, cominciata con la presentazione del gio-co del cricket nelle classi di vari istituti su-periori trentini, si è conclusa, a fine maggio di quest'anno, con una giornata dimostrativa presso il campo della società alla quale hanno partecipato varie classi di sei istituti superiori. Spingo quindi ancora su questo punto per capire se la Trentino Cricket, composta oggi da giocatori pakistani e giocatori con nazionalità italiana ma di origine pakistana, ha interesse ad avvicinarsi alla società trentina non solo come promotrice di uno sport noto a pochi e praticato da pochissimi ma anche come vettore di una cultura, quella pakista-na per l'appunto, che in Trentino conta una comu-nità numericamente molto consistente ed impren-ditorialmente attiva. Gli incontri nelle scuole così come la presenza di notizie relative alla Trentino

Cricket nei media locali, così mi dice Waseem, hanno il solo scopo di presentare il cricket ed eventualmente di reclutare potenziali giocatori.Il tempo meteorologico si mette a favore del Trento, già net-tamente in vantaggio nel primo momento di gioco, e così la partita può riprendere. Waseem mi saluta e corre in campo. Io rimango però con una curiosità: è veramente possibile che la squadra di un gioco dal gusto esotico, composta da giocatori con origini altrettanto esotiche non trasmetta, anche indirettamente, qualcosa al di là della sola attività agonistica? La risposta alla mia domanda era più presente di quello che pensassi, solo che ancora non mi si era pale-sata. Accanto a noi stanno guardando la partita alcuni tifosi del Trento. Decido, dopo una prima esitazione legata al non voler distur-bare gli spettatori durante la visione del gioco, di provare ad

intavolare un discorso per capire meglio eventuali retro-scena della Trentino Cricket. Facilitato dai tempi di gio-

co molto distesi (tanto per capirci niente a che fare con la rapidità della pallacanestro) e dall'ottima

predisposizione al dialogo dei tifosi, parte una piacevolissima conversazione a bordo cam-

po. Così vengo a sapere che uno dei tifosi è il padre di uno dei giocatori e ci tiene a sottolineare la fortuna del figlio di po-ter giocare fianco a fianco con Alaud Din (grande giocatore nella Trentino Cricket nonché nella nazionale italiana); non si risparmia infine qualche simpatica criti-ca paterna, definendo il figlio bravo ma rimarcando il fatto che ha ancora molto da imparare. Si parla, si guarda la partita, si discorre ma è un FINALMENTE!, det-to con tono liberatorio, che richiama la mia attenzione sulla partita o meglio

sulla tifoseria. Infatti è così che uno dei tifosi del Trento esulta all'elimi-

nazione del battitore, evidente-

mente fattasi attendere più del previsto, della squadra av-versaria. E poi si riprende il discorso lasciato a metà, come in questo caso, per un momento di entusiasmo sportivo, che io però non sempre colgo.Ovviamente noi non siamo gli unici ad intrattenerci; la so-cializzazione sia inter- che intragenerazionele è viva duran-te tutta la partita. Tutti i presenti sono, come i giocatori del Trento, pakistani o di origine pakistana. I ragazzi più gio-vani, tra i 10 e i 15 anni, forse annoiati di starsene solo a guardare, si allontanano dal campo e, parlando tra di loro in italiano, si dirigono verso il vicino parcheggio, dove li vedo improvvisare una propria partita di cricket. Altri ragazzi, un

po' più grandi, si scambiano il loro punto di vista sulle possi-bilità di studio offerte a Trento e dei potenziali posti di lavoro dove mandare un curriculum.

Il gioco si intreccia alle chiacchiere e mentre cerco, assieme a Massimo e Jordan, di capire come si calcola il punteggio, uno dei tifosi ci porta tre piatti colmi di riso, dal profumo che, per un accostamento cibo-luoghi, mi richiama lontane regioni dell'Asia: curry, curcuma, coriandolo e chissà che altre spezie. Un'usanza, quella della squadra ospite di pre-para del cibo da offrire ai giocatori al termine della partita, che nulla ha a che fare con la cultura pakistana ma che in questo caso, inevitabilmente, ne trasmette un aspetto.Non so se sia stato il momento in cui ci fu offerto il riso o il vedere i ragazzini giocare a cricket e parlare in italiano, op-pure gli abiti indossati dai tifosi, ma alla fine della partita ho riflettuto sulle parole di Waseem: è inevitabile e impossibile rendere una qualsiasi situazione stagna dal fare traspirare cultura, proprio perché la cultura di un Paese sono le per-sone, le loro abitudini, i loro modi di fare, la lingua e il cibo e un sacco di altre cose. Il mondo sociale è proprio questo, una situazione di vita quotidiana, che vive dell'attaccamen-to reciproco tra le persone presenti, del sentirsi fare parte di un gruppo senza esserne schiavi e dell'apertura verso chi, a primo avviso, sembra non farne propriamente parte.E allora, riprendendo l'incitamento sentito tante volte du-rante la partita: shabaz Trento!, forza Trento!

Shabaz Trento!Lo sport tipico del Pakistan giocato sui campi trentini

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la cultura di un Paese sono le persone, le loro abitudini, i loro modi di fare, la

lingua e il cibo e un sacco di altre cose

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1110StorieStorie

10Racconto

RACCONTO

«Mamma, sono a pezzi! Voglio andare a casa» e pronunciando queste parole, le aveva buttato le braccia al collo ro-vesciandole addosso tutto il suo peso corporeo. Così lei aveva stretto al petto la sua piccola testa di bambino e quel caschetto di capelli neri, folti e morbidi, l’unico segno capace di ricordarle, anche alla fine delle giornate peggiori, che erano nati entrambi dalla stessa terra, qualunque fosse stato il destino riservato loro dal futuro. Stanotte avrebbe dormito. Era stata una lunga giornata, e quel discorso che l’avevano costretta a pronunciare in una lingua diversa da quella in cui prendevano forma i suoi pensieri, l’aveva inutilmente stanca-ta. Si domandava spesso perché queste sue frasi sconnesse, a volte veicoli di incomprensioni, altre volte capaci di inventa-re potenti, anche se involontari, neologismi, non spingessero gli altri a zittirla, una volta per tutte, e a fare loro questi gran discorsi. Invece, si abbandonavano tutti al suono della sua voce, e le indirizzavano sguardi pieni di richieste inespres-se, quasi come se lei e quella lingua imperfetta che non le apparteneva, potessero mettere ordine e attribuire un senso anche ai loro pensieri. All’inizio pensava fosse solo una questione di tempo. Con l’a-bitudine, la familiarità con gli odori e i suoni di quella casa, si illudeva sarebbe arrivato anche il sonno e il riposo del corpo e dell’anima di cui tanto aveva bisogno. E dopo alcuni mesi aveva creduto che stesse accadendo davvero così. Quando non dovevano finire qualche lavoro per il giorno dopo, e que-sto cominciava ad accadere sempre meno, dormiva quasi

fino al mattino. In questa nuova terra il tempo, a loro, in pas-sato, sempre avverso, pareva aver trovato anch’esso pace ed equilibrio. Lavoravano di giorno, dormivano di notte. Aveva così compreso che vivere come il resto del mondo poteva essere estremamente confortante. Una notte di sonno profondo, sentì all’improvviso una piccola mano fredda stringerle il braccio con forza fino a conficcarle le piccole unghie nella carne. Avvertì la sensazione di lacrime sulla pelle. Allora si svegliò, e all’aprire gli occhi, si trovò a fissare altri occhi neri come i suoi, rossi per il pianto e corrosi dalla paura. «Ti ho chiamata...ti ho chiamata un sacco di vol-te! Mamma, perché non mi hai aiutato, mamma...». Come spiegare a quei due piccoli occhi neri che quella parola non voleva dire nulla per lei. Lei non era una mamma, non si diceva mamma nella lingua dei suoi pensieri. E se qualcuno urlava mamma nel cuore della notte, anche fino a farsi man-care la voce, non era il suo aiuto che chiedeva. Tornò quella notte l’insonnia, e sfumò la speranza di trovare tra quei suoni e odori il riposo del corpo e dell’anima di cui tanto aveva biso-gno. In questo tempo notturno imparò a sentire e compren-dere urla di parole sconosciute per poter ogni volta accorrere al capezzale di quel caschetto di capelli neri, folti e morbidi.

di Gracy Pelacani*

Gracy Pelacani, nata a Curitiba, capitale dello stato brasiliano del Paranà, è dottoranda presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento.Selezionata al concorso Linguamadre 2010, in quello 2011 si è aggiudicata il secondo posto con il racconto "Ver-de uguale casa"

ASSOCIAZIONI

Amici dell'Etiopia

di Maria Rosa Mura

11Associazioni

È arrivato in Italia una dozzina di anni fa. In tasca una laurea in filosofia e il desiderio di studiare ancora: a Trento ha conseguito la Laurea Magistrale in Scienze religiose e un master su media-zione dei conflitti e operatore di pace. Qui è rimasto e desidera vivere, qui ha trovato casa, lavoro, affetti e amicizia.È nato in Etiopia Zebenay, nella regio-ne di Wolaita, quattrocento chilometri a sud di Addis Abeba, con lingua e tradi-zioni diverse e una lunga storia di indi-pendenza dal governo centrale. È una regione di cui pochi di noi hanno sentito il nome, a stento infatti conosciamo la capitale e qualche località dove italiani ed etiopi hanno combattuto in quei po-chi anni in cui l'Italia "imperiale" di Mus-solini ha occupato militarmente la regio-ne senza piegare la resistenza etiope e senza dominarla come colonia.In Zebenay non c'è il ricordo di quegli anni, non diretto certo data la sua età, ma nemmeno mediato dal racconto di altri. La sua regione è rimasta fuori dalla linea di guerra, a Trento poi ha amici ita-liani come somali o eritrei.Rientrando in patria in vacanza per ritro-vare i familiari, ha visto con altri occhi le condizioni della popolazione, peggio-

rata nel tempo, con un divario sempre maggiore fra ricchi e poveri. "Non si può stare a guardare passivamente quello che accade", così con gli amici, persone generose che si dedicano ad aiutare gli altri qui ed altrove nel loro tempo libero, nel luglio 2011 ha fondato una associa-zione. Si chiama "Amici dell'Etiopia" (http://amicietiopia.altervista.org/index.htm). Sono solo una ventina gli etiopi residenti in Trentino, di più gli studenti iscritti all'u-niversità, una cinquantina, ma l'idea di Zebenay non era tanto quella di riunire persone dello stesso gruppo nazionale quanto quella di aiutare, aiutare le per-sone a migliorare la propria condizione. Che siano italiani o etiopi o di altri paesi ancora.Certo, c'è anche il desiderio di far cono-scere il paese d'origine, sanno così poco gli italiani di una terra che hanno invasa. C'è anche l'orgoglio (ma senza sventola-re nazionalismi) di far conoscere storia e tradizioni millenarie a fronte di decenni di martellante propaganda razzista op-pure dell'oblio.Già da tempo Zebenay oltre al lavoro si dedica ad attività di mediazione intercul-turale in tutta la regione, soprattutto nel-

le scuole. A partire dal 2009 partecipa alla Festa dei Popoli di Trento e nell'ulti-ma edizione i soci hanno raccolto fondi per l'associazione "Abba Pascal Onlus", fondata da un frate nel Wolaita per dare una formazione professionale ai ragaz-zi. Hanno poi organizzato momenti di in-contro e festeggiato le festività di Natale e Pasqua secondo il calendario etiopico.Per il futuro l'associazione, che ha una gestione collegiale ed una program-mazione discussa e condivisa, pensa di organizzarsi in onlus ed aspira a co-struire e sostenere una casa famiglia per bambini in difficoltà e un centro per giovani mamme. Si appoggerà al frate cappuccino etiope con cui già collabora nel Wolaita.A dicembre di quest'anno Zebenay si re-cherà in Etiopia per preparare l'arrivo di un gruppo di amici, un viaggio insieme per conoscere da vicino e intimamente il suo paese e per stabilire legami sempre più stretti in una prospettiva di felice e pacifico scambio.Siamo con lui. È questo l'"impero" che vogliamo, davanti ad una tazza con chiacchiere lunghe come la preparazio-ne di un caffè etiope, nel ricordo del luo-go dove il caffè è nato.

Un'altra associazione e un altro legame con le Afriche

Zebenay sorride a Trento

Alla Festa dei Popoli a Trento

Mamma, , mamma

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IMMI/EMI CINEMA"Noi abbiamo passato il mare e passare il mare vuol dire che una persona si divide in due"

Sardi emigrati in Toscana

Reportage di Sylvain George sui migranti perseguitati a Calais

Ripòsino in rivolta

di Maria Rosa Mura di Giulio Bazzanella

Siamo in Toscana, nel dopoguerra molti sardi sono arrivati qui. Sono pastori e le campagne toscane, fertili e verdi, sono state abbandonate dai contadini locali, emigrati in città die-tro il miraggio di un lavoro più sicuro. L'esodo dalla Sardegna verso la Toscana diventa consistente verso gli anni sessanta. "Io, una valigia e la lambretta: ecco come sono sbarcato. Ho girato la Toscana in lungo e in largo. Eravamo in tanti a cer-care...che cosa? Una terra...una sistemazione...un lavoro...qualcosa che potessimo chiamare un futuro."Per gli uomini è stato più facile, abituati alla vita solitaria del pastore che rientra solo di tanto in tanto in paese, qui ora hanno la famiglia vicina e poi "noi avevamo i pascoli, e tanta erba fresca e verde che veniva voglia di mangiarla, di riempir-cene la bocca come fanno le bestie".Per le donne, abituate al calore della vita in paese, è stato tutto più difficile, si sono sentite ingannate dai loro uomini che le hanno fatte venire. Arrivano portando l'oggetto più

La violenza divina annientatrice del diritto, sostiene Walter Benjamin nel saggio “Per la critica della violenza” (1920-1921), si contrappone punto per punto alla violenza mitica, quest’ultima affine – “o addirittura identica” - al potere giu-ridico: “creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di violenza”. Il passo di Benjamin, associato all’immagine del sole che sorge sulla vetta del Sinai, funge da epigrafe a "Qu’ils reposent en révol-te (figures de guerre) - Ripòsino in rivolta (figure di guerra)", un anomalo reportage realizzato dall’attivista e cineasta Syl-vain George fra il luglio 2007 e il novembre 2010 a Calais, dopo lo smantellamento dei campi di accoglienza allestiti dalla Croce Rossa per i migranti in attesa di un imbarco clan-destino per l’Inghilterra. Il film di George, che documenta la persecuzione legale, spettacolare e smaccatamente orche-strata a fini elettorali dei profughi e dei sans-papiers, forni-sce una postilla cinematografica alla diagnosi di Benjamin nel saggio citato, là dove il critico afferma che lo spirito poli-ziesco, benché fondamentalmente simile a tutte le latitudini, testimonia della “massima degenerazione” possibile proprio nei paesi democratici.

“Riposino in rivolta”. “Nel nero, nella sera, in quanto soffre, trasuda, cerca e non trova” resterà la memoria degli assenti, scriveva Henri Michaux nella poesia da cui George ha tratto il titolo della propria opera, girata per l’appunto in quella notte delle politiche migratorie in cui si annunciano gli stravolgi-menti che incombono sulla più generale politica sociale in Occidente. George ha conferito al film un impianto voluta-mente allegorico, sostituendo alla narrazione il montaggio di frammenti multimediali, laceri e dislocati come la precaria iscrizione nel paesaggio urbano dei clandestini. Persuaso

Era il liceo classico di Piombino, la scuola che frequentava. S'era

alzata quella mattina - come faceva solitamente ogni giorno - ab-

bastanza presto, alle sette, per prendere la corriera che fermava

abbastanza vicino alla casa e affacciandosi..."Ho visto una scena

che da allora non ho più dimenticato: c'era silenzio come sempre,

a quell'ora. Nei campi intorno c'era però movimento. Guardai me-

glio: era buio e vidi...Pensai ch'era un film...E che perciò non poteva

essere vero...Il casale era circondato da camionette e da uomini

armati...Sentii dei rumori alla porta e poi l'urlo di nostra madre per

lo spavento. Abbiamo più tardi saputo che c'era stato nella notte un

sequestro: non qui, nel grossetano.

Ma noi...noi...cosa c'entravamo?

Perquisirono la nostra casa, quella mattina, e tornarono ogni giorno."

caro, come aiutasse a sentirsi meno sole: una ragaz-za tiene stretta a sé per tutto il viaggio la vecchia pala usata dalla madre per infornare il pane.Furono due i momenti più duri di questa migrazione. "Il primo: le terre abbandonate dai toscani erano di-ventate pietraie e viperai. Le case: né tetto...né ac-qua..né luce...Niente! [...]Il secondo momento fu quello dei sequestri...Eh, al-lora, i sequestrati non tornavano a casa. Fu terribile, per noi e per i nostri figli! Con le camionette dei ca-rabinieri ogni giorno davanti alle case, e lo sguardo degli altri...di tutta la gente del paese su di noi!""Sono sardi! - ci sentivamo dire quando andavamo in paese. Quelli che fanno i sequestri!"Poco alla volta gli uni si abituano agli altri e anche

"il vecchio pastore puzzolente" può amare la "nobile Volter-ra", alta lassù come un'aquila nel nido.Se nei primi tempi in Toscana a qualcuno mancavano i suoi morti, ora ne sono sepolti anche qui. "Un uomo non appar-tiene solo alla terra in cui è nato, ma anche il luogo in cui si muore, è anch'esso alla fine una patria." Nascono affetti e legami, i vecchi casali sono ora aziende agrituristiche, ma il cuore dei vecchi, che pur gode della bellezza dei borghi to-scani, resta legato a quel paese lontano di case addossate, facciate grige e muri di pietra, spazzato dal vento.Vite che ci passano vicino, inavvertite. Ne racconta molte un libro particolare, ora introvabile, di grande interesse sociale e letterario: Rita Mastinu, Il tempo grande di Veneranda Siotto - Pintor, Colloquia edizioni, 2002.Interviste e documenti sono rielaborati in una narrazione che scorre a singole voci e si allarga in racconti corali, con un uso intenso della lingua sarda e della sua musica.

che la violenza della legge sia raddoppiata dalle condizioni di produzione dell’immagine, il regista mette in discussione non solo le pratiche correnti del giornalismo, dei notiziari e della fiction, ma gli stessi concetti di documentazione, archi-viazione e diffusione dei dati, creando una sorta di corrispet-tivo cinematografico della strategia messa in opera dai suoi intervistati, allorché questi cancellano le proprie impronte digitali servendosi di rasoi o di ferri arroventati. I cambi di fuoco, di velocità, di esposizione fotografica, di texture e di supporto tecnico sono anch’essi una strategia per suggeri-re che “le immagini non sono mai sole” e sono soprattutto “percorse da stratificazioni di tempo variabili e multiple” (*). Giocare sulle qualità materiali dei mezzi impiegati ha insom-ma lo scopo di sospendere il tempo lineare della cronaca facendolo saltare in schegge: "Éclats", quindi, com’è il titolo dato alla continuazione di "Qu’ils reposent en révolte", pre-miata come migliore documentario alla ventinovesima edi-zione del Torinofilmfestival. "Éclats", non a caso, cita un bra-no dell’“Éternité par les astres” (Eternità attraverso gli astri) di Blanqui, la fantasia cosmologica di un illustre detenuto politico riscoperta da Benjamin nel 1937 e subito inserita fra gli elementi portanti dell’incompiuto “Passagen-Werk”: schegge informi dei media e dei notiziari vi formano nuove costellazioni in cui traluce il senso di “quello che avrebbe potuto essere” (Sylvain George), liberando sullo schermo e negli spettatori – avrebbe scritto Benjamin - le energie asso-pite della storia.

“Sylvain Gorge nell'intervista di Olivier Pierre”, in “Dia-gonal Thoughts” (www.diagonalthoughts.com).

"Sopra la cassapanca c'era un araz-zo di lana con la caccia reale [...] cavalli e cavalieri galoppano nel bosco...e davanti a loro i cervi fug-gono con la paura negli occhi... [...] Se chiudi gli occhi ti sembra di sen-tire l'abbaiare dei cani...e il vento che muove le foglie..."

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Due scrittori tra bosnia e Italia

Božidar StanišićBožidar Stanišić

Sataraš//D'estate, per usare della verdura fresca(magari, ahimè, quella dell'orto di una volta!),si faceva, nei Balcani, il cibo di nome sataraš.Ti mando, la trovi in fondo, la ricetta, per noncopiarla invano. Basta che tu faccia clic sutraduci sta pagina e ti arriverà la ricettatradotta in italiano. Naturalmente, cerca sugoogle...

È importante che le cipolle non sianobruciate, per non cambiare il sapore delcibo. Poi, il fuoco bisogna che sia moderato.se qcs non è chiaro, ci sono.Mille sal,Boz//

8 peperoni rossi1 kg di pomodoro fresco3-4 grosse cipolleoliouna tazza di risopepesalefoglie di prezzemolo1 cucchiaio di zucchero

Affettare le cipolle e far cuocere con qualche cucchiaio di olio. Aggiungere un cucchiaio di zucchero. Nel frattempo lavare i pe-peroni rossi. Tagliarli a quadrati. Metterli sulla cipolla con un po ' di sale. Farli ammorbidire.Pelare e affettare i pomodoro, versarli sui peperoni e continuare a cuocere fino a completa evaporazione del sugo.Mescolare tutto il tempo in modo che le cipolle non si brucino.Se volete potete aggiungere un po' di riso, ma poi stufare durerà molto più a lungo.Alla fine aggiungere le foglie di prezzemolo, aggiustare di sale e pepe. Può essere servito caldo da solo o come contorno di carne fritta o arrosti di maiale e manzo.

In uno dei suoi lavori più recenti il poeta e scrittore Božidar Stanišić presenta alla nostra atten-zione nove racconti inediti di Ivo Andrić incentrati sulla figura femminile: La donna sulla pietra, tradotto da Alice Parmeggiani, e pubblicato da Zandonai di Rovereto. Da sempre cultore del premio Nobel Andrić, nato come lui in Bosnia, ce ne dà preziose chiavi di lettura in una Postfazione che è essa stessa un racconto. Di Andrić ha di recente curato anche la raccolta degli articoli pubblicati tra il 1923 e il 1926 in cui il diplomatico attento analizzava il fenomeno e la minaccia incombente del fascismo: "Sul fascismo", a cura di B. Stanišić, Nuova dimensione, 2011.Stanišić vive in Italia dal 1992, da quando rifiutò di farsi arruolare e di partecipare al massacro jugoslavo. Attualmente è Presidente del Centro “E. Balducci” di Zugliano, fondato da Don Pier-luigi Di Piazza che per primo riconobbe nel profugo il fine uomo di cultura e lo scrittore.

http://www.ilgiocodeglispecchi.org/libri/autore/stanisic-bozidar

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Un amico, una nostalgia, una ricetta

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via S.Pio X 48, 38122 TRENTO tel 0461.916251 - cell. 340.2412552info@ilgiocodeglispecchi.orgwww.ilgiocodeglispecchi.org

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il quarto lato del Campo Sfumain un terreno abbandonato Coperto di immondizie e diCarCaSSe d’automobili.

SpeSSo e volentieri i rom vengono aCCuSati di produrre fumi toSSiCiperChé bruCiano i rifiuti per reCuperare i metalli. ma, Come diCeva antonio nell’artiColo di le monde Che Ci ha Condotti qui:

Certi privati e anChe alCuneaziende preferiSCono dare quattro Soldi ai rom per SbarazzarSi dei rifiuti piuttoSto Che Smaltirli legalmentea CoSti più elevati.

il Campo è un aSSemblaggio di Container, tuguri di Cemento e materiali riCiClati. raCCordi elettriCi di fortuna alimentano televiSori, frigoriferi e qualChe radiatore.

Per dieci anni il fotografo Alain Keler ha girato i campi Rom di mezza Europa. Dal Kosovo alla Serbia, dal sud della Francia alla Repubblica Ceca, fino al grande ghetto a cielo aperto di Lamezia Terme, in Calabria. Ha raccolto le storie e le testimonianze dei nomadi, documentando le loro difficili condizioni di vita, il confronto quotidiano con i muri dell’ostilità e dei pregiudizi. La fatica e la gioia di vivere, nonostante tutto.Il suo amico disegnatore Emmanuel Guibert (già autore con Frédéric Lemercier e il compianto Didier Lefèvre de “Il fotografo”, reportage fotografico e a fumetti sulla guerra in Afghanistan e le missioni umanitarie di Medici senza frontiere), ha ascoltato i racconti di Keler e ha creato sequenze disegnate. Ne risulta un eccezionale reportage sul popolo Rom, in cui fotografia e fumetto dialogano e si mescolano.Con una prefazione di don Luigi Ciotti, un'appendice con notizie storiche e una postfazione di Giusy D'Alconzo, della sezione italiana di Amnesty International, che si occupa anche della tutela dei diritti del popolo Rom.

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