giu01_13
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gennaio 2013
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EDITORE E PROPRIETARIO Gruppo Euroconference Spa Via E. Fermi, 11/a – 37135 Verona DIRETTORE RESPONSABILE Francesco Natalini RESPONSABILE REDAZIONALE Sara Cunego
COMITATO SCIENTIFICO DI REDAZIONE Evangelista Basile Marco Frisoni Luca Vannoni ABBONAMENTO ANNUALE Euro 140 Iva esclusa PERIODICITÀ E DISTRIBUZIONE Mensile
ISSN 2039‐6716
STAMPA Autorizzazione del Tribunale di Verona n.878 del 21 novembre 2003 SERVIZIO CLIENTI Per informazioni su abbonamenti, argomenti trattati, numeri arretrati, cambi di indirizzo: 045/8201828 ‐ fax 045/502430. E_mail: [email protected] Eventuali numeri non pervenuti devono essere reclamati via mail al servizio clienti non appena ricevuto il numero successivo.
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gennaio 2013
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Il punto di vista 4 Troppe incertezze per l’ASpI: si attendono i chiarimenti operativi
di Luca Caratti
Approfondimenti
6 Rifiuto di svolgere prestazioni lavorative e tutela della salute dei lavoratori
di Michele Forneris
12 Vessazioni sul luogo di lavoro e intento persecutorio: sua irrilevanza ai fini risarcitori
di Vittorio Matto
19 I contratti di solidarietà difensivi e le variazioni delle ore lavorate
di Claudio Boller
27 L'attività sportiva dilettantistica e l'art.18 dello Statuto dei Lavoratori
di Guido Martinelli
32 Il lavoro a tempo determinato nel settore agricolo
di Luca Caratti
Clausole e accordi nel contratto di lavoro 35 Il controllo a distanza dei lavoratori: interpretazioni giurisprudenziali dell’art.4 dello
Statuto dei Lavoratori e possibili deroghe della contrattazione di prossimità
di Alberto Russo
La gestione delle controversie di lavoro 42 I riflessi sul piano ispettivo delle ultime novità in materia di partite Iva
di Fabrizio Nativi
L’osservatorio giurisprudenziale 50 L’Osservatorio giurisprudenziale di gennaio
a cura di Evangelista Basile
2013I l m e n s i l e d i g i u r i s p r u d e n z a e d o t t r i n a g i u s l a v o r i s t i c a p e r l a g e s t i o n e d e l c o n t e n z i o s o
Giurista del Lavoroil gennaio
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gennaio 2013
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Il punto di vista
Giurista del Lavoro il
Troppe incertezze per l’ASpI: si attendono i chiarimenti operativi di Luca Caratti – Consulente del lavoro in Vercelli
A poco più di sei mesi dalla data di entrata in vigore della Legge 28 giugno 2012, n.92, i datori di lavoro si trovano a
doversi confrontare ‐ dal 1° gennaio 2013 ‐ con l'obiettivo forse più ambizioso del legislatore: l'universalizzazione
degli ammortizzatori sociali. Stante il perdurare della situazione di crisi generalizzata del mercato del lavoro, si
prevede un ulteriore innalzamento di un punto percentuale dell'indice di disoccupazione: diventa quindi essenziale
poter garantire, ad imprese e lavoratori, un sistema di tutele certo ed efficiente, in grado di assicurare, da una
parte, una forma di sostegno al reddito durante o alla cessazione del rapporto di lavoro e, dall'altra, un robusto
incentivo ai datori di lavoro che intendono assumere.
Per quanto attiene al primo punto è noto che la Riforma, all'art.2, ha previsto la graduale sostituzione, a partire dal
2013, dei trattamenti di disoccupazione non agricola con i requisiti ordinari e ridotti, della disoccupazione del
settore dell'edilizia con i requisiti speciali e dell'indennità di mobilità con l'indennità ASpI (Assicurazione Sociale per
l'Impiego) e mini‐ASpI.
Le indennità di cui sopra sono destinate a coloro che abbiano involontariamente perduto il posto di lavoro e siano
in stato di disoccupazione comprovato dalla presentazione dell'interessato presso il servizio competente di una
dichiarazione che attesti, oltre all'eventuale attività lavorativa precedentemente svolta, anche l'immediata
disponibilità allo svolgimento della medesima. Al finanziamento di tale trattamento contribuirà, tra le altre, il c.d.
contributo sui licenziamenti, una sorta di ticket che dovrà essere corrisposto da tutti i datori di lavoro che
provvedono a interrompere i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, di qualunque tipologia, per cause,
evidentemente, diverse dalle dimissioni. Il contributo, stante la modifica introdotta dalla L. n.228/12, art.1, co.250,
è pari al 41% del massimale mensile del trattamento iniziale di ASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli
ultimi tre anni. Per il 2013, in assenza di disposizioni ‐ la circolare Inps n.140 del 14 dicembre 2012 sul punto non si
esprime, lasciando nell’incertezza i datori di lavoro ‐ il contributo potrebbe essere compreso tra un minimo di €
459,00 e € 1.377,00 (la somma deriva dall’applicazione del 41% al massimale mensile ASpI il quale, per espressa
disposizione normativa, non può superare l’importo desumibile dell’articolo unico, co.2, lett.b), della legge 13
agosto 1980, n.427, ovvero del comune massimale di cassa integrazione che per il 2012 valeva € 1.119,32 e che
pertanto diverrebbe il valore massimo mensile erogabile al disoccupato). È opportuno però segnalare che, secondo
altri commentatori, l’importo potrebbe anche essere determinato applicando il 41% all’importo di € 1.180,00,
identificato dal legislatore come parametro di riferimento e annualmente rivalutato. La disposizione, in vigore dal
1° gennaio 2013, come anticipato, è però ancora in attesa di doverosi chiarimenti da parte dell'Istituto cui il
contributo è destinato: infatti al momento non vi è nessuna indicazione circa le modalità di versamento (ad
esempio, se il rapporto di lavoro si interrompe a gennaio 2013 il contributo dovrà essere versato entro il 16
febbraio, seguendo l'ordinario criterio di competenza oppure il versamento potrà essere differito al secondo mese
successivo alla cessazione del rapporto di lavoro?), né vi sono indicazioni se il contributo debba essere versato
anche nel caso in cui il lavoratore venga licenziato per giusta causa. Pare infatti paradossale pensare che il datore di
lavoro debba versare una somma, consistente, in presenza di un licenziamento determinato da una grave
inadempienza contrattuale del lavoratore, quale ad esempio quello determinato da un furto in azienda messo a
segno dal medesimo lavoratore. A tale conclusione pare potersi giungere in virtù della previsione normativa
introdotta al co.31, art.2, L. n.92/12, così come modificato dal co.250, art.1, L. n.228/12: "nei casi di interruzione di
un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo,
darebbero diritto all'ASpI". La circolare Inps n.142 del 18 dicembre 2012 prevede i seguenti requisiti per aver diritto
all’ASpI:
1. l’essere in stato di disoccupazione; 2. che lo stato di disoccupazione sia involontario ovvero il rapporto di lavoro sia cessato per cause diverse dalle
dimissioni o dalla risoluzione consensuale (tranne quella prevista dal novellato art.7, L. n.604/66);
3. almeno due anni di assicurazione;
4. almeno un anno di contribuzione contro la disoccupazione.
Come evidenziato al punto 2. l'indennità mensile, quindi, parrebbe essere riconosciuta in tutti i casi di
licenziamento, non solo in caso di giustificato motivo oggettivo ma anche soggettivo o, persino, giusta causa.
Sul fronte delle agevolazioni previste per i datori di lavoro che assumono lavoratori licenziati in forma individuale
iscritti alle liste di mobilità, nel rispetto della L. n.236/93 (la c.d. piccola mobilità), occorre segnalare un'ulteriore
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Il punto di vista
Giurista del Lavoro il
criticità. È infatti ormai noto che la Legge di Stabilità 2013 non ha inserito l'annuale proroga delle agevolazioni
connesse all'assunzione dei lavoratori iscritti alle liste di cui sopra. L'art.1, co.405 della L. n.228/12 recita: "è
prorogata per l'anno 2013, l'applicazione delle disposizioni di cui ai commi 14, nel limite di 35 milioni di euro per
l'anno 2013, 15 e 16 dell'articolo 19 del decreto legge n. 29 novembre 2008, n.185, convertito, con modificazioni,
dalla legge 28 gennaio 2009 n. 2 ..."
Nel testo, come si può notare, vengono richiamati solamente i co.14 (contratti di solidarietà per imprese artigiane),
15 (proroga della Cigs a 24 mesi) e 16 (finanziamento a Italia Lavoro spa) e nulla si dice in merito al co.13 dell'art.19
del D.L. n.185/08, che riprendeva, in origine, il dettato dell'art.4 della L. n.236/93, prorogando la scadenza di
riferimento e stabilendo lo stanziamento necessario a finanziare l'agevolazione. Tale mancato richiamo ha come
conseguenza ‐ sul punto si veda anche la circolare Inps n.137 del 12 dicembre 2012, paragrafo 3.1 ‐ che dal 2013
non saranno più applicabili gli incentivi all'assunzione o legati alla proroga o alla trasformazione a tempo
indeterminato di contratti a termine in atto, non essendo più stati rifinanziati i suddetti incentivi. Peraltro
continueranno ad essere applicabili le agevolazioni previste dalla L. n.223/91.
In ultimo, merita una riflessione la gestione delle risorse finanziarie destinate agli ammortizzatori sociali in deroga,
in quanto, in assenza del decreto interministeriale che disciplina la ripartizione delle risorse, l’Inps, con messaggio
n.21164 del 21 dicembre 2012, ha specificato che il pagamento delle mensilità di Cig in deroga riferite al 2013
avverrà solo in seguito al ricevimento del decreto di competenza regionale, il quale, però, in assenza del suddetto
decreto interministeriale, non potrà per il momento essere emanato. Si crea così di fatto il “blocco” degli
ammortizzatori sociali in deroga, con evidente danno per i lavoratori e per le aziende beneficiari del trattamento.
Stante la centralità degli interventi infradescritti, diventa assolutamente urgente la tempestiva emanazione degli
attesi documenti di prassi, anche se non possiamo tacere che al giurista parrebbe preferibile l'emanazione di una
norma correttiva della disposizione in vigore, stante le numerose incertezze evidenziate, e degli attesi decreti
affinché i datori di lavoro siano messi nella condizione di poter correttamente operare senza vedersi ulteriormente
penalizzare sia sul piano dei costi che sul piano dell'incertezza dell'applicazione della normativa con un evidente e
preoccupante rischio di aumento del contenzioso anche con i lavoratori.
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
Rifiuto di svolgere prestazioni lavorative e tutela della salute dei lavoratori a cura di Michele Forneris – Avvocato in Torino
Con la sentenza n.18921 del 5 novembre 2012, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi
del c.d. diritto di resistenza. Si tratta dell’applicazione al contratto di lavoro, e con riferimento alla sicurezza e salute
dei lavoratori, del principio generale di cui all’art.1460 c.c., che stabilisce che, nell’ambito di un contratto a
prestazioni corrispettive, una parte ha il diritto di non adempiere alla propria obbligazione nel caso in cui
controparte non abbia adempiuto alla sua. Nel caso in esame, la Suprema Corte ha affrontato il caso di una serie di
lavoratori che hanno rifiutato di adempiere ad alcune loro mansioni sostenendo che non era garantita adeguata
sicurezza nei luoghi di lavoro e che ciò costituiva inadempienza da parte del datore di lavoro. Considerato che i fatti
di causa sono piuttosto risalenti (1989), la sentenza in esame costituisce uno spunto per una disamina complessiva
della normativa in materia, alla luce dei principi di diritto ivi enunciati.
Premessa
La sentenza n.18921 del 5 novembre 2012 della
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, affronta il tema
del c.d. diritto di resistenza del lavoratore, ovvero
della legittimità del rifiuto di svolgere determinate
lavorazioni o prestazioni, sul presupposto di un
precedente inadempimento da parte del datore di
lavoro, consistente nella mancata adozione di
adeguate misure a garanzia della sicurezza e igiene
dei luoghi di lavoro. La vicenda si riferisce a una serie
di lavoratori, i quali, per un certo periodo di tempo
sul finire degli anni Ottanta, avevano deciso di
astenersi dalle sole lavorazioni di bonifica
dell'amianto, timbrando ogni giorno il cartellino
all'entrata e restando in attesa di eventuali richieste
di lavori diversi, assumendo che il datore di lavoro
non aveva adottato tutte le cautele necessarie a
prevenire o ridurre l'esposizione alle fibre di asbesto.
Tale astensione dal lavoro aveva comportato il
mancato versamento della retribuzione per il relativo
periodo. I lavoratori si erano rivolti pertanto al
pretore, al fine di ottenere il salario. Tale giudice
aveva accolto in prima istanza la domanda dei
lavoratori; il Tribunale, in funzione di appello, ha poi
confermato la decisione e la Corte di Cassazione si é
trovata ad esaminare l'ulteriore ricorso della parte
datoriale.
In sintesi, i lavoratori ritenevano legittima l'asten‐
sione dal lavoro in quanto il datore di lavoro si era
dimostrato inadempiente, non garantendo adeguati
livelli di sicurezza sui luoghi di lavoro; il datore, a sua
volta, riteneva non dovuta la prestazione economica,
in quanto i lavoratori si erano dimostrati inadem‐
pienti, non ottemperando all'obbligo di prestare la
propria attività.
Occorre svelare subito il finale della vicenda: la
Suprema Corte dà ragione ai lavoratori, sancendo il
loro diritto di resistenza a fronte di un comporta‐
mento datoriale assunto come inadempiente, sotto il
profilo dell'obbligo di sicurezza.
Si deve notare in prima battuta che l'epoca assai
risalente dei fatti colloca le argomentazioni
giuridiche in un quadro in parte diverso dall'attuale. Il
recepimento delle diverse direttive comunitarie in
materia di sicurezza e igiene del lavoro, avvenuto
dall'inizio degli anni Novanta in poi, e in particolar
modo della direttiva quadro, attraverso il D.Lgs.
n.626/941, nonché l'attività interpretativa della Corte
1 Il D.Lgs. n.277/91 ha recepito le direttive n.80/1107/CEE; n.82/605/CEE; n.83/477/CEE; n.86/188/CEE; n.88/642/CEE; materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro (in particolare piombo, amianto e rumore). Il D.Lgs. n.626/94 (progressivamente ampliato e modificato) ha introdotto nel nostro ordinamento i principi della direttiva quadro n.89/391/CEE, nonché le direttive n.89/654/CEE, n.89/655/CEE, n.89/656/CEE, n.90/269/CEE, n.90/270/CEE, n.90/394/CEE, n.90/679/CEE, n.93/88/CEE, n.95/63/CE, n.97/42/CE, n.98/24/CE, n.99/38/CE, n.99/92/CE, n.2001/45/CE, n.2003/10/CE, n.2003/18/CE e n.2004/40/CE, riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. Il D.Lgs. n.493/96, ha introdotto la direttiva n.92/58/CEE, concernente le prescrizioni minime per la segnaletica di sicurezza e/o di salute sul luogo di lavoro. Il D.Lgs. n.494/96, in materia di cantieri temporanei e mobili, ha recepito la direttiva n.92/57/CEE. Il D.Lgs. n.624/96 ha attuato le direttive n.92/91/CEE, relativa alla sicurezza e salute dei lavoratori nelle industrie estrattive per trivellazione, e n.92/104/CEE, relativa alla sicurezza e salute dei lavoratori nelle industrie estrattive a cielo aperto o sotterranee. Il D.Lgs. n.187/05, recepisce la direttiva n.2002/44/CE sulle prescrizioni minime di sicurezza e di salute relative all'esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti da vibrazioni meccaniche. Il D.Lgs. n.257/07 che ha recepito la direttiva n.2004/40/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sulle prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all'esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici). Infine, con il D.Lgs. n.81/08 (Testo Unico in materia di igiene e sicurezza sul lavoro) sono state accorpate gran parte delle disposizioni precedenti ed é stata data attuazione alla direttiva n.2006/25/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2006, concernente le prescrizioni minime di sicurezza e salute
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
Costituzionale2, hanno infatti introdotto nuovi e
importanti argomenti al dibattito. Non ci si riferisce
tanto alle disposizioni in materia di amianto, che
sono del 1991, quanto alle norme in materia di diritti
e doveri dei lavoratori nonché all'elaborazione del
concetto di "tecnicamente attuabile"3.
Sentenza recentissima dunque, quella in commento,
ma radicata nella normativa passata, e pertanto
bisognosa di una lettura aggiornata. Si tratta
comunque di una pronuncia in linea con la
giurisprudenza precedente, anche con quella che ha
affrontato casi verificatisi in vigenza delle disposizioni
più recenti4.
Il diritto di resistenza
Il c.d. diritto di resistenza è istituto di diritto civile e
trova la sua origine nelle norme generali in materia di
contratto. Di fatto esso consiste nella possibilità data
a un contraente, in caso di contratto di natura
sinallagmatica, di non adempiere alla propria
obbligazione in presenza di un precedente
inadempimento dell'altro contraente. Per chi ama i
latinetti: "inademplendi non est ademplendum". Si
tratta dunque di un principio generale, sancito
all'art.1460 c.c. che stabilisce che:
"nei contratti con prestazioni corrispettive,
ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere
la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non
offre di adempiere contemporaneamente la
propria, salvo che termini diversi per
l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o
risultino dalla natura del contratto. Tuttavia non
può rifiutarsi l'esecuzione se, avuto riguardo alle
circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede".
Interessante, ai fini del caso in esame, l'elaborazione
dottrinaria che vede il rapporto sinallagmatico in
termini di interdipendenza e non di corrispettività5.
Quest'ultima comporta uno stretto vincolo tra i
relative all'esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (radiazioni ottiche). 2 Ci si riferisce in particolare alla sentenza n.312/96 della Corte Costituzionale, interpretativa di rigetto, relativa a questione di legittimità costituzionale dell'art.41 del D.Lgs. n.277/91, della quale si parlerà più diffusamente infra. 3 Cfr. P. Soprani, Eccezione di inadempimento: il diritto di resistenza del lavoratore, commento alla sentenza n.21479/05 della Corte di Cassazione, Sezione lavoro, in ISL n.2/06, pag.92 ss.. 4 Si vedano, tra le altre, le sentenze della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro n.16361/11 e n.9576/05. 5 M.R. Barbato, Autotutela del lavoratore: rifiuto di prestazione non dovuta e eccezione di inadempimento, Riv. Fac. Direito UFMG, n. 57, jul./dez. 2010, pp.281 ss..
risultati, l'unicità delle fonti delle obbligazioni e il
carattere principale di queste. L'interdipendenza si
pone invece come un legame più lasco e si riferisce
agli effetti giuridici direttamente o indirettamente
coinvolti dall'adempimento di un’obbligazione
contrattuale.
Ne consegue la rilevanza, ai fini della valutazione
dell'inadempimento, non soltanto di obbligazioni
strettamente contrattuali, ma anche di obblighi
derivanti dalla legge, dai contratti collettivi etc.
La tutela della sicurezza e salute del lavoro si pone
dunque in questo solco, non essendo di per sé
direttamente oggetto del contratto di lavoro, ma
obbligo derivante dalla legge in capo al datore di
lavoro (o dell'imprenditore) nell'ambito dell'esecu‐
zione del contratto di lavoro.
Nella sentenza in commento, come si é accennato, ci
troviamo di fronte a un doppio inadempimento;
l'eccezione di inadempimento era stata infatti
invocata da entrambe le parti:
i lavoratori, rifiutando di svolgere determinate
mansioni e sostenendo che il datore non aveva
adempiuto al suo obbligo di sicurezza,
quest'ultimo rifiutando la retribuzione e soste‐
nendo che i lavoratori avevano di fatto scioperato,
astenendosi dal lavoro.
Secondo quanto stabilito dalla sentenza, il criterio
che il giudice deve seguire per dirimere il conflitto
consiste in un giudizio di ponderazione comparativa
dei due comportamenti omissivi, tenendo conto sia
del criterio cronologico che di quello logico, ovvero
ricercando se sussista una relazione di dipendenza
causale tra l'uno e l'altro inadempimento. In altri
termini, il giudice dovrà individuare quale inadempi‐
mento non sarebbe avvenuto in mancanza dell'altro6.
Infine, in omaggio al co.2 dell'art.1460 cc, il giudice
deve valutare se l'inadempimento opposto presenti i
requisiti della buona fede. Dunque, la relativa
eccezione non deve essere strumentale a scopi
diversi o pretestuosi e deve essere valutata sulla
scorta di una serie di parametri elaborati in
giurisprudenza, quali l'essere stata comunicata alla
controparte già in sede stragiudiziale o l'essere stata
accompagnata da un invito ad adempiere. Vi deve
6 Interessante sul punto la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro n.21479/05: "al fine di stabilire quale sia l'inadempimento colpevole e quale quello incolpevole occorre procedere necessariamente a una comparazione tra l'inadempimento cronologicamente anteriore e quello cronologicamente successivo al fine di valutare la gravità del primo, in relazione alla funzione socio‐economica del contratto, come conseguenza giustificata o giustificabile dell'inadempimento del secondo".
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8
Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
essere, inoltre, una certa proporzione tra l'inadempi‐
mento causa e l'inadempimento effetto, per cui, ad
esempio, la violazione di un’obbligazione accessoria
e minore non giustifica la cessazione dell'esecuzione
dell'obbligazione principale.
Per cercare di dare concretezza a questi parametri è
necessario analizzare la portata degli obblighi di
sicurezza del datore di lavoro e del diritto di
resistenza dei lavoratori. Essi, come si è visto,
discendono sia da norme precedenti i fatti all'origine
della sentenza in esame sia da disposizioni posteriori.
L'obbligo di sicurezza
Esiste una norma fondamentale, inserita nel nostro
codice civile e dunque risalente al 1942, che
costituisce la scaturigine di tutte le attuali
disposizioni in materia di sicurezza e igiene del
lavoro. È ovviamente l'art.2087 (tutela delle
condizioni di lavoro):
"L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio
dell'impresa le misure che, secondo la particolarità
del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono
necessarie a tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Non è questa la sede per dar conto del complesso
lavorio interpretativo che ha investito tale norma,
ma un paio di questioni meritano di essere
affrontate7:
7 Un’analisi sintetica e accurata in materia è fornita da R. Dubini, Articolo 2087 del codice civile. L'obbligo del datore di lavoro di attenersi al principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile. Sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale nell’ambito della documentazione reperibile presso http://www.regione.piemonte.it/sanita/sicuri/documentazione/dotgiur.htm. L’Autore così sintetizza le diverse posizioni in dottrina circa la natura dell’art.2087: “per quanto riguarda il contenuto dell’obbligo di sicurezza che l’art. 2087 c.c. sancisce a carico del datore di lavoro, vanno citate tre differenti impostazioni: 1) secondo una prima impostazione l’art. 2087 c.c. riconosce l’esistenza di un diritto personale ed assoluto in capo al lavoratore, cui correlativamente corrisponde un obbligo per il datore di tutelare le condizioni di lavoro, attraverso comportamenti sia attivi, che omissivi [Smuraglia: La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale, Giuffrè, Milano, 1974, p. 70]; 2) un altro orientamento ritiene che la norma istituisce in capo al datore un ulteriore obbligo, di natura accessoria e collaterale rispetto a quelli principali [Cass. 6.9.1988, n. 5048, in Nuova giur. civ. comm. 1989, 672, con nota di Caso; Montuschi: Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, 1994, 321]; 3) una terza impostazione ritiene che l’obbligo di cui all’2087 cod. civ. rientra nella collaborazione all’adempimento che il creditore è tenuto a dare ai sensi dell’art. 1206 cod. civ.; di conseguenza le misure di tutela antinfortunistica rientrano nel più generale obbligo di cooperazione creditoria [Montuschi: Diritto alla salute ed organizzazione del lavoro, Angeli, Milano, 1989, 72]”.
1. la prima concerne il rapporto tra l'art.2087 e il
contratto di lavoro;
2. la seconda riguarda la portata dell'obbligo
descritto nella norma.
Sotto il primo profilo la risposta è piuttosto
semplice: la tutela delle condizioni di lavoro è
conseguenza diretta del rapporto di lavoro, é un
obbligo che discende ex lege in capo al datore di
lavoro (divenuto tale, e non più imprenditore, a
partire dai DPR degli anni Cinquanta). Non a caso,
dottrina e giurisprudenza parlano in termini
pressoché unanimi di "debito di sicurezza" per
indicare il rapporto tra datore di lavoro e lavoratori
in materia prevenzionistica. Viene in questo modo
sottolineato il carattere di esigibilità della presta‐
zione di sicurezza dovuta dal datore di lavoro8.
Nessun dubbio anche circa la rilevanza di tale
obbligo: si sfiora la retorica ma non ci si può esimere
dal ricordare che il diritto all'integrità psicofisica é di
rango costituzionale e collocato tra quelli di grado
più elevato9.
Discorso più complesso per quanto concerne la
portata dell'obbligo di cui all'art.2087 c.c., sia in
relazione alle norme successive che lo hanno
8 Basti citare sul punto, la sentenza n.6686/93 della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione: “La disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., se prevede un'obbligazione a carico del datore di lavoro, valevole nei rapporti fra le parti ed integrativa di quella strettamente contrattuale, tende nel contempo a realizzare la tutela di un interesse di carattere generale, quale quello della sicurezza e dell'igiene del lavoro. Il dovere di sicurezza va inteso quale esigenza primaria che si realizza o attraverso l'attuazione delle specifiche provvidenze imposte tassativamente dalla legge o, in mancanza, con l'adozione di quei mezzi idonei a prevenire ed evitare i sinistri, assunti con il sussidio dei dati di comune esperienza. L'ambiente di lavoro, pertanto, deve essere reso sicuro in tutti i luoghi nei quali chi è chiamato ad operare possa comunque accedere, per qualsiasi motivo, anche indipendentemente da esigenze strettamente connesse allo svolgimento delle mansioni disimpegnate”. Si veda inoltre la sentenza n.4318/76 della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione: “l'articolo 2087 c.c., che impone all'imprenditore di adottare tutte le misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore, “non contiene soltanto l'enunciazione di un dovere imposto nell'interesse generale, ma sancisce una vera e propria obbligazione, imponendo all'imprenditore una serie di misure che si risolvono in una prestazione, che egli è tenuto ad adempiere e che il lavoratore ha diritto di pretendere”. 9 L'art.32, co.1 della Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti". A sua volta l'art.41 recita: "L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali".
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9
Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
declinato nei diversi campi della sicurezza e igiene
del lavoro sia in relazione alla sua diretta
interpretazione. Nel caso in esame, infatti, la
valutazione dell'inadempimento deve tenere conto
di alcuni elementi che possono apparire confliggenti:
da un lato la necessità di contemperare l'entità degli
inadempimenti contrapposti ai fini dell'art.1460 c.c.
e, dall'altro, la tutela di un bene fondamentale quale
quello della salute. Il giudice è dunque chiamato a
verificare l’effettiva incidenza (anche in termini
eventuali e probabilistici) dell’inottemperanza del
datore di lavoro sulla salute del lavoratore.
La storia interpretativa dell'art.2087 é piuttosto
complessa, ma potrebbe essere riassunta nella
progressiva (anche se non del tutto lineare) erosione
della lettura massimalista formulata dalla Corte di
Cassazione, per la quale il concetto di "secondo la
particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica"
doveva essere inteso nel senso che l'imprenditore è
tenuto ad adottare tutte quelle soluzioni tecniche e
organizzative astrattamente e generalmente consen‐
tite dallo stato attuale della tecnica, senz'altro limite,
senza alcun riguardo per i costi, per la complessità
realizzativa, per l'incidenza sulla produttività o sulle
lavorazioni etc.10 Tesi del tutto irrealistica, come si
può facilmente comprendere, le cui ricadute con‐
crete sarebbero talmente assurde da vanificare lo
stesso scopo della norma.
E dunque la Corte Costituzionale è giunta a una
soluzione più equilibrata, stabilendo che il concetto
deve essere letto nei termini seguenti:
"là dove parla di misure "concretamente attuabili", il
legislatore si riferisca alle misure che, nei diversi
settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad
applicazioni tecnologiche generalmente praticate e
ad accorgimenti organizzativi e procedurali
altrettanto generalmente acquisiti, sicché penal‐
mente censurata sia soltanto la deviazione dei
comportamenti dell'imprenditore dagli standard di
sicurezza propri, in concreto e al momento, delle
diverse attività produttive"11.
10 Si veda, tra le molte, la sentenza Quarta Sezione Penale della
Corte di Cassazione n.4/90: “qualora utilizzi una macchina non dotata dal costruttore del prescritto dispositivo di sicurezza, il datore di lavoro non può invocare a sua discolpa l'impossibilità pratica di realizzare tale dispositivo, né l'onerosità delle modifiche necessarie per la sua applicazione”. 11 Si tratta della sentenza n.312/96, interpretativa di rigetto, nella
quale la Corte Costituzionale si é pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell'art.41 del D.Lgs. n.277/91, in materia di prevenzione dal rischio rumore. In particolare, nella questione posta alla Corte dal Pretore di Guastalla, veniva dedotto che il precetto penale ivi contenuto sarebbe privo dei requisiti della determinatezza, in quanto imporrebbe al datore di lavoro, in
Va notato che questa decisione della Corte
Costituzionale non ha investito direttamente
l'art.2087 c.c., ma l'art.41 del D.Lgs. n.277/91, il
quale prescriveva che il datore di lavoro dovesse
"ridurre al minimo, in relazione alle conoscenze
acquisite in base al progresso tecnico, i rischi
derivanti dal l'esposizione a rumore mediante
misure tecniche, organizzative e procedurali,
concretamente attuabili, privilegiando gli
interventi alla fonte"12.
Si tratta di una specificazione dell’art.2087 al campo
della tutela dei lavoratori dal rischio rumore; la
formula scelta dal legislatore è sostanzialmente la
stessa e l'interpretazione che ne veniva data prima
dell'intervento del giudice delle leggi era desunta
direttamente da quella dell'art.2087. Tuttavia vi è
una sostanziale differenza tra le due disposizioni:
quella del codice civile non viene penalmente
sanzionata di per sé (anche se, ovviamente, può
rilevare ai fini della determinazione della colpa
specifica e del nesso di causa, in caso di omicidio
colposo o lesioni personali colpose derivanti dalla
violazione della normativa in materia di sicurezza
e salute sul lavoro);
mentre l'inosservanza dell'art.41 del D.Lgs.
n.277/91 costituiva contravvenzione (ai sensi
dell'art.50, co.1, lett.a) del medesimo D.Lgs).
La Corte Costituzionale ha dunque potuto fornire una
lettura costituzionalmente orientata della norma,
assumendo che la stessa altrimenti si sarebbe posta
in contrasto con il principio di stretta legalità del
diritto penale, stabilito all'art.25 della Costituzione.
È stato così indicato un parametro essenziale anche
per la rilevanza di una presunta omissione del datore
modo eccessivamente generico e senza stabilire parametri ex ante, la riduzione al minimo, “in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, dei rischi derivanti dalla esposizione al rumore mediante l'adozione di non meglio specificate misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte", contrastando, quindi, con gli artt.25 e 70 della Costituzione. La Corte si è così trovata a dovere contemperare l'esigenza di garanzia della massima sicurezza dei lavoratori con quella di fornire un’adeguata tutela minima ai datori di lavoro sotto il profilo dell’eventuale loro responsabilità penale. Posto che la norma di cui all'art.41 non presentava un adeguato livello di determinatezza circa il precetto penale in essa contenuto, la Corte Costituzionale ha ritenuto di porre dei limiti al generale obbligo del datore di lavoro, fornendo l'interpretazione normativa sopra riportata. 12 Ad oggi il D.Lgs. n.277/91 è stato abrogato dal D.Lgs. n.81/08 e
le relative disposizione sono confluite nei Titoli VIII, IX e X del medesimo Testo Unico.
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
di lavoro in materia di sicurezza e igiene del lavoro, al
fine di valutare la legittimità dell'esercito del diritto
di resistenza dei lavoratori13.
L'art.2087 c.c. ha la funzione di norma di chiusura
ovvero di previsione generale del debito di sicurezza
del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori,
questo significa che esso sussiste anche al di là delle
singole e parziali disposizioni di legge e, dunque,
anche per quanto concerne gli aspetti della sicurezza
non specificatamente normati14.
Per questa ragione l'art.2087 costituisce il punto di
riferimento per valutare se sussista un inadempi‐
mento dal datore di lavoro e se esso sia rilevante ai
fini dell'eccezione di inadempimento, anche se nei
singoli casi occorre tenere conto delle specifiche
disposizioni vigenti, le quali potrebbero fornire
ulteriori parametri. Occorre tuttavia precisare che
proprio la funzione generale e di chiusura
dell’art.2087 c.c. ha condotto la giurisprudenza a
ritenere che l’applicazione della normativa speciale
relativa a singoli fattori di rischio possa non essere
ritenuta sufficiente a tutela la salute e sicurezza dei
lavoratori.
Il diritto di autotutela dei lavoratori.
Come si è accennato, l'evoluzione normativa
successiva ai fatti di causa ha introdotto una serie di
elementi nuovi ai fini dell'analisi del diritto di
resistenza.
In particolare, la posizione dei lavoratori nell'ambito
della gestione della sicurezza e dell'igiene del lavoro
é mutata con l'emanazione del D.Lgs. n.626/94: da
allora ai lavoratori é stato riconosciuto un ruolo
(anche) attivo, e non più meramente esecutivo, nei
limiti della formazione e informazione ricevute.
Oggi tali norme sono contenute nel D.Lgs. n.81/08:
sono l'art.20 (obblighi dei lavoratori)15 e l'art.44
13
Non può tacersi che poco dopo l’emanazione della citata sentenza della Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione ha in qualche modo risposto, tentando di sminuire la portata della pronuncia costituzionale e affermando che l’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale deve essere riferita alle sole misure organizzative e procedurali, mentre per quelle tecniche deve essere mantenuta l’interpretazione estensiva tradizional‐mente adottata dalla Suprema Corte. 14 Si veda sul punto la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione
Lavoro, n.21479/05, che ha stabilito la liceità dell'eccezione di inadempimento di un casellante che si era rifiutato di svolgere la propria attività presso un casello ove si erano verificate numerose rapine, prima che il datore di lavoro adottasse adeguare misure di protezione per tutelare l'incolumità dei lavoratori. 15 Ai sensi del co.1 dell’art.20: “Ogni lavoratore deve prendersi cura
della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”.
(diritti dei lavoratori in caso di pericolo grave ed
immediato). In particolare, quest’ultimo recita:
"il lavoratore che, in caso di pericolo grave,
immediato e che non può essere evitato, si
allontana dal posto di lavoro o da una zona
pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno e
deve essere protetto da qualsiasi conseguenza
dannosa"
e
"il lavoratore che, in caso di pericolo grave e
immediato e nell'impossibilità di contattare il
competente superiore gerarchico, prende misure
per evitare le conseguenze di tale pericolo, non
può subire pregiudizio per tale azione, a meno che
non abbia commesso una grave negligenza".
Fa da contrappunto il co.4 dell’art.43 del D.Lgs.
n.81/08, che stabilisce che:
“il datore di lavoro deve, salvo eccezioni
debitamente motivate, astenersi dal chiedere ai
lavoratori di riprendere la loro attività in una
situazione in cui persiste un pericolo grave ed
immediato”.
Questo significa che l’eventuale rifiuto di svolgere tali
prestazioni non deve essere inquadrato quale
eccezione di inadempimento ai sensi dell’art.1460
c.c., ma come esercizio del diritto di sottrarsi
all’adempimento di una prestazione non dovuta.
Si tratta dunque di casi non esattamente sovrappo‐
nibili a quelli nei quali si può esercitare il diritto di
resistenza. Va rilevato, infatti, che gli artt.43 e 44 non
fanno cenno ad ipotesi di mancanze da parte del
datore di lavoro o degli altri soggetti responsabili
della sicurezza e salute sul lavoro: le situazioni di
pericolo cui si fa riferimento hanno natura oggettiva
e possono derivare anche da eventi esterni alla
gestione dell'azienda o da caso fortuito o forza
maggiore.
I parametri indicati sono però più stringenti: occorre
che il pericolo sia grave, immediato e non possa
essere altrimenti evitato.
In questo é possibile riscontrare indicazioni
interessanti ai fini del diritto di resistenza. Si deve
ritenere che, per rientrare nei parametri di cui
all’art.1460 c.c., l'inadempimento del datore di
lavoro debba comunque essere causa di una
situazione di pericolo per i lavoratori e che tale
pericolo, pur non rientrando negli stretti limiti
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
appena indicati, debba essere concreto. Non basta,
in altri termini, una violazione formale o marginale o,
comunque, scarsamente rilevante ai fini dell'aggrava‐
mento del rischio per giustificare il rifiuto di
adempiere a determinate prestazioni.
In altri termini, gli artt.43 e 44 del Testo Unico
trovano applicazione in caso di rischio aggravato, ma
senza necessità di provare un inadempimento da
parte del datore di lavoro; l’art.1460 c.c., invece, pur
non necessitando di un pericolo grave, immediato e
inevitabile, prevede l’accertamento di un’inadem‐
pienza del datore di lavoro e, dunque, della
violazione di una disposizione di legge o del generale
obbligo di cui all’art.2087 c.c..
Occorre poi tenere conto del parametro della buona
fede. Soccorre sul punto la lettera A del capoverso
dell'art.20 del Testo Unico, che impone ai lavoratori
di "contribuire, insieme al datore di lavoro, ai
dirigenti e ai preposti, all'adempimento degli obblighi
previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di
lavoro", nonché in modo ancora più pregnante la
successiva lettera E che prescrive di "segnalare
immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al
preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi di cui
alle lettere c) e d)16, nonché qualsiasi eventuale
condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza,
adoperandosi direttamente, in caso di urgenza,
nell'ambito delle proprie competenze e possibilità e
fatto salvo l'obbligo di cui alla lettera f)17 per
eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e
16 Si riportano le lett.c) e d) dell'art.20 citato: "c) utilizzare
correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza; d) utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione". 17 Si riporta la lett.f) dell'art.20 citato: "f) non rimuovere o
modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo".
incombente, dandone notizia al rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza"18.
Si tratta di indicazioni assai rilevanti. È chiaro, infatti,
che prima di poter opporre lecitamente un rifiuto
della prestazione il lavoratore, anche e soprattutto
tramite gli appositi rappresentanti, deve fare presen‐
te all’azienda le carenze di sicurezza che si sono
riscontrate e deve collaborare alla loro rimozione.
Come è noto, con il D.Lgs. n.626/94 è stata
introdotta la figura del rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza (RLS) e va infine tenuto presente che
oggi l'art.50 del D.Lgs. n.81/08 prevede per tale
organo una serie di importanti attribuzioni, tra le
quali spiccano la possibilità di fare proposte in merito
all’attività di prevenzione (lett.m), di promuovere
l’elaborazione, l’individuazione e l’attuazione delle
misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e
integrità fisica dei lavoratori (lett.h), nonché di fare
ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che
le misure di prevenzione e protezione dai rischi
adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti e i mezzi
impegnati per attuarle non siano idonei a garantire la
sicurezza e la salute durante il lavoro (lett.o).
Se ne può dedurre una certa proceduralizzazione delle
attività richieste e consentite ai lavoratori e ai loro
rappresentanti, tale da far ritenere che l’esercizio del
diritto di resistenza si ponga come estrema ratio
consentita dall’ordinamento in caso di insuccesso di
tali attività.
18 Va ricordato che il co.2 dell'art.20, a differenza del primo, é
penalmente sanzionato, ai sensi dell'art.59, co.1, lett.a), a titolo di contravvenzione (punita con pena alternativa).
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
Vessazioni sul luogo di lavoro e intento persecutorio: sua irrilevanza ai fini risarcitori a cura di Vittorio Matto – Avvocato in Milano La Suprema Corte, con sentenza n.18927 dello scorso 5 novembre, è intervenuta su un tema sempre molto
dibattuto, quello del fondamento della tutela del dipendente che subisce condotte vessatorie in ambito lavorativo,
chiarendo con limpida logica giuridica come il profilo soggettivo dell’intento persecutorio attuato dal datore di
lavoro non costituisca un aspetto strutturale e necessario della tutela accordata al medesimo dipendente.
Massima
Diritti e obblighi del datore di lavoro e del prestatore di lavoro – condotta datoriale idonea a determinare una
condizione di mobbing del lavoratore – condizione – azione protratta nel tempo caratterizzata da intenti
persecutori e finalizzata all’emarginazione del dipendente – configurabilità – modalità di manifestazione –
valutazione complessiva degli episodi lesivi
Nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico‐fisica in
conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente
vessatoria, il giudice del merito, pur nell’accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare tutti
gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei
comportamenti denunciati ‐ esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri ‐ pur non essendo
accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e,
come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne,
ovviamente nei soli limiti dei danni a lui imputabili.
Il caso: la sentenza n.18927/12
La fattispecie in esame ha riguardato una lavoratrice,
la quale agiva in giudizio avanti al Tribunale del
Lavoro, esponendo di avere subito nel corso del
rapporto di lavoro una serie di comportamenti
vessatori finalizzati alla sua completa emarginazione
professionale e alla rassegnazione delle dimissioni;
quale conseguenza dei comportamenti contestati, la
dipendente assumeva di aver sofferto di disturbi sia
fisici che psichici. La lavoratrice chiedeva, quindi, la
condanna del datore di lavoro al risarcimento del
danno biologico, del danno alla vita di relazione e del
danno morale, portando così alla valutazione del
giudicante un (preteso) caso di mobbing.
Sia il giudice di primo grado sia la Corte d’Appello
respingevano le istanze della ricorrente, in sostanza
ritenendo che non fosse emersa la prova di un
“intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli
episodi addotti dalla ricorrente”, dal momento che gli
episodi portati all’attenzione del giudicante non
apparivano “idonei ad essere unificati da una precisa
strategia persecutoria posta in essere dai titolari
della farmacia per indurre la lavoratrice alle
dimissioni”, strategia che sarebbe stata indispen‐
sabile per “unificare i singoli episodi fra loro e quindi
ad affermare la sussistenza del mobbing e del nesso
causale fra volontà datoriale e depressione della
dipendente culminata nel tentativo di suicidio”.
La lavoratrice, quindi, proponeva ricorso per
Cassazione, focalizzandolo principalmente su un
elemento che, per quanto è consentito ritenere dalla
lettura della pronuncia in commento, ha avuto rilievo
fondamentale: partendo dall’assunto che
“il datore di lavoro ha l'obbligo di tutelare l'integrità
psico‐fisica del lavoratore, come prescritto dall'art.
2087 cod. civ., dalla L. n. 300 del 1970, art. 9 e dal
D.Lgs. n. 626 del 2004, in attuazione dei principi di cui
agli artt. 2, 32 e 41 Cost.”,
la sentenza della Corte d’Appello veniva impugnata
“in quanto in essa, in modo palesemente
contraddittorio e illogico, la Corte partenopea,
dopo aver affermato che la quasi totalità dei fatti
storici posti a fondamento della domanda della
ricorrente risultano non contestati o
documentalmente provati ‐ e che tali sono i
ripetuti comportamenti vessatori del datore di
lavoro ‐ ha rigettato tutte le richieste della V.
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
?
sull'assunto, enunciato ma non motivato, secondo
cui i fatti stessi non avrebbero causato danni alla
salute della lavoratrice”.
La domanda a cui vuole rispondere la
pronuncia in esame è tanto lineare e
semplice, quanto importante, ovvero: se non sussiste
strategia persecutoria ai danni del dipendente, non
esiste pregiudizio risarcibile?
A questa domanda risponde la pronuncia in esame,
la quale si è occupata di definire, nel contesto di
un’iniziativa diretta a veder accertato un danno
derivante da pretese azioni persecutorie, quale sia il
presupposto fattuale per l’esercizio del diritto al
risarcimento del dipendente; nello specifico, qualora
quest’ultimo non sia stato in grado di dimostrare la
sussistenza di una strategia persecutoria attuata ai
suoi danni dal datore di lavoro (o dai suoi sottoposti).
È interessante partire dalla conclusione alla quale è
pervenuta la Suprema Corte, la quale ha accolto il
ricorso proposto dalla ricorrente, statuendo un
principio non soltanto del tutto fondato e
ragionevole da un punto di vista giuridico, ma anche
alquanto lineare, una sorta di vero e proprio “uovo di
Colombo”: nell’ambito delle richieste risarcitorie
attivate dal lavoratore a fronte di un “danno patito
alla propria integrità psico‐fisica in conseguenza di
una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e
dei colleghi di lavoro di natura asseritamente
vessatoria”, ciò che rileva non è l'esistenza di un
intento persecutorio unificante tutti gli episodi
addotti dall'interessato nel quadro di un’unica
strategia, quanto il fatto che “alcuni dei
comportamenti denunciati ‐ esaminati singolarmente
ma sempre in relazione agli altri ‐ pur non essendo
accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano
essere considerati vessatori e mortificanti per il
lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla
responsabilità del datore di lavoro che possa essere
chiamato a risponderne, ovviamente nei soli limiti dei
danni a lui imputabili”.
Questo è il fulcro del fondamento della pretesa
risarcitoria.
Come noto, e sul punto si tornerà oltre e si è
dilungata anche la Suprema Corte, l’intento
persecutorio rappresenta una caratteristica di un
fenomeno sociale – il mobbing – e non un elemento
imprescindibile di natura legale. Si deve prestare
molta attenzione nell’attribuire rilievo giuridico a
quello che è, invece, un elemento caratterizzante un
fenomeno che, a sua volta, è privo di riconoscimento
giuridico tout court, ma che ha, in sostanza,
solamente una funzione definitoria e sinteticamente
riassuntiva di un complesso di condotte pregiudi‐
zievoli per la persona e/o la professionalità del
dipendente, condotte che, in ogni caso, trovano una
risposta nelle norme dell’ordinamento giuridico.
Dunque, in modo evidentemente autonomo rispetto
alla definizione di mobbing.
Da questo sembra essere originato l’equivoco in cui è
incorso il giudice di secondo grado (e similmente
quello di primo), nel momento in cui ha ritenuto
necessaria la sussistenza di una strategia persecu‐
toria, come fosse una sorta di condizione per
l’esistenza stessa del pregiudizio e, conseguente‐
mente, della pretesa risarcitoria, che tale non poteva
essere e non è da un punto di vista giuridico.
Prendendo a prestito la terminologia propria del
diritto penale, il diritto al risarcimento prescinde dal
“dolo specifico” del datore di lavoro (o dei suoi
sottoposti) e, correttamente, risiede semplicemente
nella sussistenza di condotte ‐ nella specie le
condotte vessatorie ‐ idonee a ledere diritti del
dipendente.
La conclusione a cui è giunta la Corte di Cassazione,
come si suol dire, è nota.
Entrando nel merito della decisione, se così si può
dire, ciò che è interessante osservare è che la
Suprema Corte ha, fra l’altro, chiarito inequivocabil‐
mente due punti fondamentali, che circoscrivono il
perimetro della fattispecie in esame, fornendo
conseguentemente altrettanto inequivoci elementi
per valutare della illegittimità della condotta
datoriale.
Infatti, da un lato, nella formulazione del
principio di diritto cui dovrà attenersi in sede di
rinvio la Corte d’Appello, ha inequivocabilmente
rilevato come la configurabilità del mobbing non sia
in alcun modo necessaria ai fini della sussistenza di
un pregiudizio sofferto dal dipendente e del
conseguente suo risarcimento, atteso che ciò che
rileva è l’esistenza di condotte lesive di diritti
individuali, non la finalità “persecutoria”; peraltro,
non si può tacere che, diversamente opinando,
rimarrebbe senza ristoro un danno effettivamente
subito dal lavoratore quale effetto dell’inadempi‐
mento del datore di lavoro.
D’altro canto, nelle motivazioni della
pronuncia, trova conferma il meccanismo della
“prova presuntiva”, che “consente attraverso la
complessiva valutazione di precisi elementi dedotti
(caratteristiche, gravità, frustrazione personale e/o
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professionale, altre circostanze del caso concreto) di
poter risalire coerentemente, con un prudente
apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all'esistenza del
danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod.
proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti
dall'esperienza, delle quali ci si serve nel
ragionamento presuntivo e nella valutazione delle
prove”.
La decisione della Corte: mobbing e vessazioni
nell’ambiente di lavoro
L’interesse per la decisione in commento risiede
tanto nella pronuncia in sé per sé, che da un punto di
vista logico‐giuridico risulta del tutto ragionevole,
quanto negli spunti di riflessione che ne possono
scaturire con riguardo alla cornice di diritti connessi
allo svolgimento della prestazione lavorativa e,
dunque, al rapporto di lavoro.
Significativo, nella sua semplicità, è il percorso logico
seguito dalla Corte, che, peraltro, non inventa nulla,
dal momento che, in realtà, dà dimostrazione di
saper far tesoro e sintesi dell’interpretazione data
dalla giurisprudenza precedente.
Pertanto, se il contesto è quello della tutela della
persona del dipendente, il datore di lavoro:
“è contrattualmente obbligato a prestare una
particolare protezione rivolta ad assicurare
l'integrità fisica e psichica del lavoratore
dipendente (ai sensi dell'art.2087 cod. civ.)”;
“deve altresì rispettare il generale obbligo di neminem laedere e non deve tenere
comportamenti che possano cagionare danni di
natura non patrimoniale, configurabili ogni qual
volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia
violato, in modo grave, i suddetti diritti”;
conseguentemente, qualora vengano posti in
essere tali comportamenti, questi “sono
suscettibili di tutela risarcitoria previa individua‐
zione, caso per caso, da parte del giudice del
merito, il quale, senza duplicare le voci del
risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a
pregiudizi identici), è chiamato a discriminare i
meri pregiudizi ‐ concretizzatisi in disagi o lesioni di
interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità,
come tali non risarcibili ‐ dai danni che vanno
invece risarciti”.
Partendo da questi presupposti normativi, il punto
principale che ha interessato la Suprema Corte è
stato quello relativo alla circoscrizione del campo
d’azione del mobbing e del più ampio perimetro di
quelle condotte che, seppur non perfettamente
coincidenti con questo fenomeno in termini di
quantità e qualità di caratteristiche, non di meno
danno comunque origine a situazione suscettibili di
tutela.
Cosa si intende con il termine mobbing?
Sin dalle prime pronunce che hanno dato rilevanza
giuridica al fenomeno ‐ Tribunale di Torino, Sez. lav.,
del 16 novembre 1999 e del 30 dicembre 1999 ‐
questo è stato delineato in funzione della sua origine
“etologica”, come quel “comportamento di talune
specie animali, solite circondare minacciosamente un
membro del gruppo per allontanarlo (…) riscontrabile
nelle aziende quando si versa in presenza di numerosi
soprusi da parte dei superiori ed, in particolare, di
pratiche dirette ad isolare il dipendente dall'ambiente
di lavoro e, nei casi più gravi, a espellerlo; pratiche il
cui effetto è quello di intaccare gravemente
l'equilibrio psichico del prestatore, menomandone la
capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e
provocandone la catastrofe emotiva, depressione e
talora persino il suicidio”.
L'elemento caratterizzante che viepiù è emerso nel
tempo è principalmente quello dell'aggressione
psicologica in campo lavorativo, protratta per un
lasso di tempo significativo che produce, nella
vittima, uno stato di profondo disagio e, in ogni caso,
una lesione della sua personalità morale, con la
conseguente sussistenza di una molteplicità e
sistematicità dei comportamenti vessatori, attraverso
i quali esso si realizza nonché la durata della strategia
vessatoria, ovverosia il suo protrarsi per un
apprezzabile lasso di tempo.
Se pure tutto ciò è vero, vi è anche da rilevare come
la giurisprudenza abbia utilizzato a scopo definitorio
un termine che nulla ha di giuridico e che potrebbe
agevolmente tradursi in vessazioni, persecuzioni,
mortificazioni, isolamento ‐ ovviamente prevale la
forza di un singolo vocabolo, per capacità di
sintetizzare una molteplicità di condotte rilevanti ‐ e
che, conseguentemente, per acquisire rilevanza
giuridica, deve necessariamente essere inquadrato in
fattispecie riconosciute.
Nella pratica, e alla luce delle numerose pronunce
giurisprudenziali, è ormai consolidato come il
mobbing, ovvero una condotta mobbizzante, dunque
con quelle manifestazioni concrete di cui si è detto
sinteticamente, sia stato ravvisato in alcune
situazioni ormai tipiche, fra le quali le principali sono:
demansionamento, trasferimento immotivato,
relegamento del lavoratore in luoghi isolati e
inadeguati, continui richiami verbali senza alcuna
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motivazione, sanzioni disciplinari abnormi e
pretestuose, molestie sessuali, licenziamento
illegittimo etc, alle quali non è estraneo un intento
“unificante”, ossia la finalità ad esse sottesa di
arrivare all’eliminazione della vittima, alla sua
espulsione dall’ambiente di lavoro.
E da questa ricostruzione non si discosta neppure la
sentenza in commento, la quale, anzi, molto
puntualmente evidenzia che:
“ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo
devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una
serie di comportamenti di carattere persecutorio ‐
illeciti o anche leciti se considerati singolarmente ‐
che, con intento vessatorio, siano stati posti in
essere contro la vittima in modo miratamente
sistematico e prolungato nel tempo, direttamente
da parte del datore di lavoro o di un suo preposto
o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al
potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della
salute, della personalità o della dignità del
dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte
condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella
propria integrità psico‐fisica e/o nella propria
dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè
l'intento persecutorio unificante di tutti i
comportamenti lesivi”19.
Come visto, a fondamento della responsabilità per
mobbing si pone usualmente la previsione di cui
all’art.2087 c.c. e, talvolta, nella misura in cui sia
coinvolto anche il profilo più strettamente
professionale, in ragione della privazione di attività
lavorativa, l’art.2103 c.c..
In totale adesione alla sentenza in esame, è, dunque,
legittimo chiedersi se sia manifestazione di coerenza
normativa pensare che la tutela offerta dall’art.2087
c.c. possa essere limitata all’ipotesi in cui esista il
menzionato “elemento soggettivo”.
Certo, quest’ultimo è un tratto caratterizzante del
fenomeno in esame.
Ciò non di meno, come molto opportunamente
osservato dalla Suprema Corte, il rapporto fra le
condotte denunciate e la menzionata norma è tale
che:
“se anche le diverse condotte denunciate dal
lavoratore non si ricompongano in un unicum e
non risultano, pertanto, complessivamente e
cumulativamente idonee a destabilizzare
19 Cass. 21 maggio 2011, n.12048; Cass. 26 marzo 2010, n.7382.
l'equilibrio psico‐fisico del lavoratore o a
mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali
condotte o alcune di esse, ancorché
finalisticamente non accumunate, possano
risultare, se esaminate separatamente e
distintamente, lesive dei fondamentali diritti del
lavoratore, costituzionalmente tutelati, di cui si è
detto”.
Si tratta di un rilievo solo apparentemente
elementare ‐ forse così non è, ove si consideri che
ben due giudici del merito si sono discostati dal
principio di diritto ad esso sotteso ‐ ma decisivo, in
assenza del quale rischierebbero di restare senza
tutela situazioni come quella oggetto di causa.
Infatti, si deve osservare come il fulcro giuridico della
tutela del lavoratore mobbizzato o anche solo
vessato sia costituito dall’art.2087 c.c., il quale, a sua
volta, tiene conto di fondamentali principi
dell’ordinamento, sopratutto del diritto alla salute
sancito dall’art.32 della Costituzione, ed è
considerato ‐ letto anche alla luce degli obblighi di
correttezza e buona fede risultante dagli artt.1175 e
1375 c.c. ‐ norma di chiusura del sistema di
protezione del lavoratore, che impone al datore di
lavoro l’adozione delle misure richieste specificata‐
mente dalla legge, dall’esperienza e dalle conoscenze
tecniche, nonché l’obbligo più generale di attuare
tutte quelle misure (anche generiche) di prudenza e
diligenza necessarie al fine di tutelare l’incolumità e
l’integrità psico‐fisica del lavoratore.
Da questa disposizione viene quindi fatto derivare sia
il divieto per il datore di lavoro di compiere
direttamente qualsiasi comportamento, quale ne
siano la natura e l’oggetto, lesivo della personalità
fisica e morale del dipendente, sia di prevenire e
scoraggiare la realizzazione di simili condotte
nell’ambito ed in connessione con lo svolgimento
dell’attività lavorativa.
È l’inadempimento di tale suo obbligo che genera,
anche nel caso del mobbing o, più genericamente, di
vessazioni subite nel contesto del rapporto di lavoro,
la responsabilità contrattuale del datore di lavoro.
Sulla base di questo meccanismo logico‐giuridico la
Suprema Corte, dopo aver constatato che il giudice di
secondo grado “ha impostato tutta la propria
decisione sulla insussistenza di un intento
persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi
addotti dalla ricorrente”, la cui domanda ha respinto
“una volta escluso il suddetto intento e quindi il
mobbing ‐ sulla base di una valutazione delle prove
raccolte effettuata sempre nell'ottica della ricerca
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una "strategia persecutoria", ha rilevato che il
medesimo giudice “non si è neppure posto il
problema di valutare se alcuni dei comportamenti
denunciati ‐ esaminati singolarmente ma sempre in
relazione agli altri ‐ pur non essendo accomunati dal
medesimo fine persecutorio, possano essere
considerati vessatori e mortificanti per la ricorrente e,
come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del
datore di lavoro che possa essere chiamato a
risponderne, ovviamente nei soli limiti dei danni a lui
imputabili”.
L’elemento soggettivo sotteso alla condotta
vessatoria e l’onere probatorio: alcuni spunti di
riflessione
Il fatto che per poter attribuire la qualifica di
mobbing a una determinata condotta si renda
necessaria una continuità e una reiterazione di azioni
non significa, tuttavia, che comportamenti che si
sviluppano in un arco temporale limitato, non
possano essere suscettibili di tutela, sempre che il
lavoratore riesca a dimostrare la rilevanza delle
condotte e il danno subito.
Peraltro, a prescindere da profili definitori, sia il
mobbing che comportamenti diversi, ma altrettanto
lesivi, sono protetti dall’ordinamento sulla base del
medesimo principio della responsabilità contrattuale
del datore di lavoro.
Al riguardo viene in rilievo la pronuncia della
Cassazione, S.U., sentenza 22 febbraio 2010,
n.406320.
Nella fattispecie concreta giunta alle Sezioni Unite, il
lavoratore aveva affermato che la “vissuta e credibile
mortificazione”, accertata dal giudice di merito,
avrebbe dovuto comportare la configurazione di un
danno da mobbing, anche a prescindere dal
demansionamento e dalla sussistenza di uno
20 In modo non dissimile si è espressa anche Cass. sent. n.6326/05,
la quale, indirettamente, conferma l’assunto secondo il quale il mobbing trova risposta innanzitutto nell’art.2087 c.c., per la violazione del quale non è indispensabile la sussistenza di una condotta preordinata (l’intento persecutorio) da parte del datore di lavoro: “Qualora il lavoratore convenga in giudizio il datore di lavoro chiedendo, oltre al danno derivante da demansionamento, anche la componente di danno alla vita di relazione o cosiddetto danno biologico, e deducendo sin dall'atto introduttivo la lesione della propria integrità psico‐fisica in relazione non solo al demansionamento ma anche al globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro, la successiva qualificazione come "mobbing" del suddetto comportamento non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico, in considerazione della mancanza di una disciplina specifica del "mobbing" e della sua riconduzione alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto, ai sensi dell'art. 2087 c.c., alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore”.
specifico intento persecutorio da parte dell’ammi‐
nistrazione e inoltre aveva rilevato come l’esclusione
del danno biologico fosse del tutto immotivata, alla
stregua delle precise risultanze documentali e
testimoniali allegate in giudizio.
Come noto, nella disciplina del rapporto di lavoro,
ove numerose disposizioni assicurano una tutela
rafforzata alla persona del lavoratore con il
riconoscimento di diritti oggetto di tutela
costituzionale, il danno non patrimoniale è confi‐
gurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore
di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti:
questi, non essendo regolati ex ante da norme di
legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria
dovranno essere individuati, caso per caso, dal
giudice del merito, il quale, senza duplicare il
risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a
pregiudizi identici) dovrà discriminare i meri
pregiudizi ‐ concretizzatisi in disagi o lesioni di
interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come
tali non risarcibili, dai danni che vanno risarciti (nella
fattispecie il danno risarcibile è stato identificato
negli aspetti di vissuta e credibile mortificazione
derivanti all'A. dalla situazione lavorativa in cui si
trovò a operare).
Calando questi criteri in tema di demansionamento e
di dequalificazione, se ne deduce che il rico‐
noscimento del diritto del lavoratore al risarcimento
del danno professionale, biologico o esistenziale, che
asseritamente ne deriva ‐ non ricorrendo automa‐
ticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale ‐
non può prescindere da una specifica allegazione,
sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio
medesimo, dovendo il danno non patrimoniale
essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi
consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro
precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui
dalla complessiva valutazione di precisi elementi
dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità
all'interno e all'esterno del luogo di lavoro
dell'operata dequalificazione, frustrazione di
precisate e ragionevoli aspettative di progressione
professionale, effetti negativi dispiegati nelle
abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un
prudente apprezzamento, coerentemente risalire al
fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno.
Ma ciò che diviene rilevante in questo contesto
normativo è che il datore di lavoro che, pur senza
alcun provato intento vessatorio, persecutorio,
discriminatorio, abbia a demansionare il proprio
dipendente, conferendogli mansioni modestissime
(dare semplici informazioni, protocollare la cor‐
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rispondenza e così via) e assai inferiori alle mansioni
(peraltro conformi alla qualifica, all'inquadramento
pregresso e all'acquisita esperienza professionale) da
non poco tempo, e senza alcun demerito, dal
dipendente esercitate, è obbligato a risarcire
quest’ultimo di ogni vero danno di rilievo,
patrimoniale e non patrimoniale, arrecatogli: ciò che
rileva non è l’intento persecutorio, quanto il semplice
inadempimento del datore di lavoro, meccanismo
questo che appare pacificamente estensibile al caso
delle vessazioni in ambito lavorativo.
Una conferma indiretta di questa impostazione è
possibile ricavarla anche da quelle pronunce che,
occupandosi precipuamente delle conseguenze
sanzionatorie delle condotte illegittime poste in atto
dal datore di lavoro, hanno anche delineato quale
fosse la fonte di tali conseguenze.
Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n.26972
Ad esempio, Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008,
n.26972, ha osservato che il danno non patrimoniale
derivante dalla lesione di diritti inviolabili della
persona è risarcibile anche quando non sussiste un
fatto‐reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui
la legge consente espressamente il ristoro dei
pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni:
3. che l'interesse leso ‐ e non il pregiudizio sofferto ‐ abbia rilevanza costituzionale;
4. che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di
tollerabilità;
5. che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella
lesione di diritti del tutto immaginari, come quello
alla qualità della vita o alla felicità.
Cass. 19 dicembre 2008, n.29832
Sempre al tema della risarcibilità del danno
esistenziale si ricollega Cass. 19 dicembre 2008,
n.29832, secondo la quale, pur nell'ambito diverso di
un caso di demansionamento e dequalificazione, il
riconoscimento del diritto del lavoratore al
risarcimento del danno non patrimoniale che
asseritamente ne deriva non può prescindere da una
specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del
giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del
pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del
danno biologico è subordinato all'esistenza di una
lesione dell'integrità psicofisica medicalmente
accertabile, il danno esistenziale va dimostrato in
giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento,
assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per
presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di
precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata,
gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del
luogo di lavoro dell'operata dequalificazione,
frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di
progressione professionale, effetti negativi dispiegati
nelle abitudini di vita del soggetto) si possa,
attraverso un prudente apprezzamento, coerente‐
mente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del
danno.
Trova così indiretta conferma il rilievo della lesione di
diritti del dipendente, non tanto dell’intento
persecutorio che, seppur sempre possibile, non
sembra costituire un elemento strutturale della
dinamica vessatoria.
Peraltro, quello dell’esigenza che sussista un
particolare “elemento soggettivo” sottostante alla
condotta oggetto di contestazione appare essere un
aspetto tutt’altro che risolto e che dispiega effetti
anche sulla dinamica probatoria.
Non si deve dimenticare, infatti, che accanto a
pronunce come quella in commento o quella sopra
richiamata, esiste anche un (altrettanto recente)
orientamento tendente a ritenere necessaria la
sussistenza di un vero e proprio intento
persecutorio21, circostanza questa che può produrre
conseguenze anche sul versante processuale della
distribuzione dell’onere probatorio, che dovrebbe
essere inevitabilmente inteso in maniera
particolarmente rigida qualora fosse sistematica‐
mente richiesta la prova di un vero e proprio intento
persecutorio quale presupposto della risarcibilità dei
pregiudizi derivanti dalle vessazioni sofferte.
Sia consentita, dunque, un’ultima sintetica osser‐
vazione: se in tema di responsabilità del datore di
lavoro per mancato rispetto dell'obbligo di
prevenzione di cui all'art.2087 c.c. è necessario che
l'evento dannoso sia riferibile a sua colpa, non
potendo esso essere ascritto al datore medesimo a
titolo di responsabilità oggettiva, allora non si vede
per quale ragione le vessazioni sul luogo di lavoro
debbano essere caratterizzate su un elemento
soggettivo ‐ l’intento persecutorio ‐ ulteriore, dal
momento che medesima è la fonte normativa a cui
far riferimento per la tutela della posizione del
dipendente.
La conclusione potrebbe essere che, se pure è vero
che sia da escludersi la sussistenza del mobbing per
21 In tal senso, fra le tante, si vedano: Cass. sent. n.87/12; Cass.
sent. n.12048/11; Cass. sent. n.3785/09.
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l'assenza di “un intento persecutorio e
predeterminato, sia per la mancanza oggettiva di una
condotta sistematica volta ad infliggere al lavoratore
frustrazione e sofferenza”22, pur tuttavia il ricorso
all'art.2087 c.c. (o, se del caso, all’art.2103 c.c.), che
afferma il principio del rispetto della personalità
morale, dovrebbe essere più che sufficiente a
tutelare il dipendente sia come lavoratore sia come
persona, già per il semplice fatto che l'azione di
responsabilità contrattuale dovrebbe consentire al
22 In tal senso, fra le tante, si veda Cass. sent. n.11601/08.
soggetto passivo della condotta (cioè alla vittima
delle condotte vessatorie o di isolamento) di non
dover provare nemmeno la colpa del datore di
lavoro, con l’ulteriore effetto che l'elemento
psicologico del mobber diverrebbe irrilevante ai fini
della dimostrazione della sussistenza della condotta
contestata e sarebbe resa più agevole, quantomeno
da questo punto di vista, la posizione processuale del
ricorrente.
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I contratti di solidarietà difensivi e le variazioni delle ore lavorate a cura di Claudio Boller – Consulente del Lavoro in Treviso
Nella teoria normativa esistono due tipologie di contratti di solidarietà, quello c.d. estensivo o espansivo, che mira
ad incrementare l’organico aziendale attraverso la riduzione dell’orario dei lavoratori già in forza, al fine di
permettere la contestuale assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale, e quello conosciuto come
contratto di solidarietà difensivo, ove la riduzione dell’orario di lavoro, con conseguente intervento del trattamento
di integrazione salariale a compensazione della diminuzione lavorativa, è una necessità per evitare licenziamenti di
personale in esubero.
A sua volta, il contratto di solidarietà definito difensivo si distingue in due species, stipulato per aziende rientranti
nell’ambito di applicazione della Cigs o per aziende escluse dall’applicazione della Cigs.
Nella realtà delle dinamiche aziendali si constata come, accantonati fin da subito i contratti di solidarietà espansivi,
che invero hanno avuto un utilizzo estremamente limitato, si è invece spesso dato vita ai contratti di solidarietà
difensivi, dove la diminuzione dell’orario di lavoro ha la sola necessità di salvaguardare, il più possibile, i posti di
lavoro.
Quanto segue vuole essere un contributo, ancorché parziale, all’argomento, con particolare attenzione a quanto
attiene alla riduzione delle ore di lavoro e agli effetti in caso di sforamento, in eccesso o in riduzione, delle ore
lavorate rispetto alle ore previste dal contratto di solidarietà. I contratti di solidarietà
Quando si parla di contratti di solidarietà si sta
trattando di veri e propri contratti collettivi aziendali,
da stipularsi con le rappresentanze sindacali
territoriali aderenti alle confederazioni maggior‐
mente rappresentative sul piano nazionale: ciò
implica che sia sempre necessario raggiungere un
accordo per poter parlare di solidarietà, accordo che
coinvolgerà, obbligandoli all’accettazione, anche i
lavoratori che non aderiscono a sigle firmatarie o che
comunque siano contrari.
Questo perché il contratto collettivo aziendale, se
nella generalità dei casi non ha un’efficacia erga
omnes in quanto di natura privatistica, l’acquista nel
momento in cui sia giustificato da un interesse
collettivo di tutta la compagine lavorativa, quale
interesse preminente rispetto alla somma di singoli
interessi.
Imporne l’applicazione anche ai non aderenti evita
una disparità di trattamento che aggraverebbe
sicuramente la situazione dell’azienda e quindi di
tutti indistintamente23. Tale garanzia di parità è
suffragata dalla necessaria presenza, per la sua
stipula, dei sindacati maggiormente rappresentativi a
livello nazionale, così come previsto dal dettato
legislativo, quale elemento vincolante e garante
dell’efficacia erga omnes.
La finalità del contratto di solidarietà è la riduzione
dell’orario di lavoro, quant’anche per un periodo
23 Corte Cassazione 24 febbraio 1990, n.1403 Pres.Farinaro, Est.
Paolucci.
limitato nel tempo, cui fa seguito l’intervento dello
Stato con un trattamento di integrazione salariale a
sostegno della diminuzione della retribuzione quale
immediata conseguenza della riduzione delle ore di
lavoro.
La legge n.863/8424, disciplinante ancor’oggi il
contratto di solidarietà, prevede espressamente due
tipologie di contratto collettivo atte alla riduzione
dell’orario di lavoro:
la prima, disciplinata dall’art.1, co.1, ha la finalità
di evitare in tutto, o quanto meno in parte, la
perdita di posti di lavoro, con l’applicazione del
concetto di lavorare meno ore al fine di
salvaguardare il lavoro di tutti in attesa di una
ripresa prospettata;
la seconda, disciplinata dall’art.2, co.1, prevede una stabile riduzione dell’orario di lavoro, al fine di
liberare attività da far svolgere a nuovi lavoratori e
quindi all’attuazione di nuove assunzioni.
In entrambe le casistiche vi è l’intervento del
sostegno al reddito dei lavoratori da parte dello
Stato, a seguito della diminuzione della loro
retribuzione causata dalla concordata diminuzione
delle ore lavorate, e un contestuale intervento
pubblico a favore delle aziende nella forma dell’age‐
volazione contributiva.
Considerato che la finalità prima di questa tipologia
contrattuale collettiva è la salvaguardia del lavoro,
24 Conversione in legge del Decreto 30 ottobre 1984, n.726,
“Misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali”.
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durante tutta la vigenza dell’accordo di solidarietà a
tutela dell’occupazione, è esclusa la possibilità di
procedere a licenziamenti collettivi25; non è viceversa
preclusa la possibilità di adottare licenziamenti
individuali plurimi.
I contratti collettivi difensivi si distinguono in due
ulteriori tipologie, pragmaticamente chiamati di tipo
A e di tipo B, quelli cioè istituiti ai sensi dell’art.1,
co.1, L. n.863/84, a tutela dei lavoratori che svolgono
attività in aziende rientranti nell’ambito di applica‐
zione della Cassa integrazione straordinaria (contratti
di tipo A), e quelli istituiti, ai sensi dell’art.5, L.
n.236/93, a tutela del posto di lavoro di dipendenti
appartenenti ad aziende minori, ad aziende artigiane
o ad aziende che, in genere, non rientrano26 nella
normativa della Cigs (contratti di tipo B).
Aziende rientranti nell’ambito di applicazione della
Cigs
Inizialmente il legislatore ha previsto la possibilità di
accesso allo strumento del contratto di solidarietà di
tipo A unicamente alle aziende cui si applica la
disciplina della Cassa integrazione guadagni
straordinaria, cioè a quelle aziende che abbiano
occupato mediamente più di quindici dipendenti nel
semestre precedente alla presentazione della
richiesta di integrazione salariale27.
La L. n.863/84, infatti, determina una coincidenza tra
l’ambito operativo della disciplina della Cigs e
l’ambito di utilizzo dei contratti di solidarietà, come
specificatamente sottolineato dal Ministero del
Lavoro28.
Con successivi interventi normativi, ora possono
accedervi anche le aziende appaltatrici di servizi di
pulizia29 e di servizi alle mense30 nonché le imprese
editrici di giornali quotidiani e agenzie di stampa a
diffusione nazionale, comprese le imprese editrici
e/o stampatrici di giornali periodici, indipendente‐
mente dal numero di dipendenti che hanno in
forza31.
Rimangono invece escluse dalla possibilità di
applicazione del contratto di solidarietà tutte le
aziende che abbiano fatto istanza di ammissione a
una delle procedure concorsuali o che siano state
25 Cassazione, Sez. Lavoro n.637/98; Cassazione, Sez. Lavoro
n.29306/08. 26 Art.5, co.5, L. n.236/93di conversione del D.L. n.148/93.
27 D.M. n.46448 del 10 luglio 2009.
28 Min.Lav., Circolare n.06/94.
29 D.L. n.299/94 convertito in L. n.451/94.
30 Legge n.155/81, art.23.
31 L. n.416/81; D.L. n.148/93, art.7, co.3.
assoggettate a una di tali procedure32, comprese
quelle ammesse a una procedura concorsuale se non
sia stata disposta o sia cessata la continuazione
dell’attività. Si tratta in sostanza di aziende giunte di
fatto al capolinea, dove ben difficilmente è
prospettabile una ripresa, e quindi niente avrebbero
a che fare con procedure come il ricorso ai contratti
di solidarietà, il cui scopo è invece quello di
salvaguardare i posti di lavoro.
Rimangono altresì escluse le aziende operanti nei
cantieri edili nei casi di fine lavoro e fine fase
lavorativa, non escludendosi però a priori la
possibilità che il contratto venga stipulato per gli altri
lavoratori, quelli non legati direttamente al singolo
cantiere, ad esempio a tutto il comparto impie‐
gatizio. Infine il contratto non è applicabile ai
lavoratori a tempo determinato assunti per esigenze
di attività soggette a fenomeni di natura stagionale.
La peculiarità consiste nel fatto che queste aziende
beneficiano della riduzione dei contributi dovuti per
le ore lavorate, corrispondente a un 25% di sgravio,
se la riduzione dell’orario lavorativo è compresa tra il
20% e il 30% di quello contrattuale, e a un 35% di
sgravio se la riduzione di orario previsto sia superiore
al 30% (per le aziende operanti nelle aree di declino
industriale e nelle regioni del Mezzogiorno lo sgravio
è aumentato al 30% e al 40%, a seconda della
percentuale di riduzione dell’orario33).
A loro volta, i dipendenti che si vedono ridotto il
proprio orario di lavoro a seguito della stipula del
contratto di solidarietà vengono collocati in Cigs,
beneficiando così di un trattamento salariale
integrativo da parte dello Stato, pari al 60% della
retribuzione persa, percentuale che, anche per il
2013, è elevata all’80%34.
I contratti di solidarietà, però, hanno un limite
temporale che normalmente è fissato in ventiquattro
mesi; è ammissibile una proroga di ulteriori
ventiquattro mesi (espandibili a trentasei nel
Mezzogiorno) con specifica richiesta al Ministero del
Lavoro.
Pertanto i contratti potranno avere una durata
massima di quarantotto o sessanta mesi: a quel
punto un successivo contratto di solidarietà potrà
essere stipulato unicamente decorsi almeno dodici
mesi dalla scadenza del precedente contratto. Da
32 L. n.223/91, art.3.
33 L. n.608/96, art.6, co.4, che ha convertito con modificazioni il
D.L. n.510/96. 34 L. n.228/12 (Legge di Stabilità 2013), art.1, co.256. Si veda anche
Inps, messaggio 18 gennaio 2013, n.1114.
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
sottolineare che, per ciascuna unità produttiva35, i
trattamenti di Cigs non possono eccedere l’arco
temporale dei 36 mesi in un quinquennio di
riferimento.
Per attuare un contratto di solidarietà non esiste una
specifica procedura di consultazione delle parti
sindacali: nella normalità dei casi trova la sua
attuazione all’interno e nel corso di una procedura
per l’accesso alla Cigs o, ancor più frequentemente,
nell’ambito di una procedura di mobilità, in quanto
considerata misura alternativa al licenziamento
collettivo e quindi garantista del posto di lavoro.
Aziende non rientranti nell’ambito di applicazione
della Cigs
Per tutelare i posti di lavoro possono essere stipulati
contratti di solidarietà difensivi anche presso aziende
non rientranti nel campo di applicazione della Cassa
integrazione salariale.
La peculiarità consiste in un intervento statale
economicamente diverso da quello previsto per le
aziende a cui si applica la Cigs e di cui si è discusso
pocanzi. Infatti, per un periodo massimo di
ventiquattro mesi, lo Stato compartecipa con un
contributo a carico del Fondo occupazione, pari al
50% del monte ore retributivo corrispondente alle
ore di riduzione dell’orario, da ripartirsi in parti
uguali tra azienda e dipendenti interessati.
Vi rientrano tutte le aziende con più di quindici
dipendenti, ma non destinatarie della Cassa
integrazione guadagni, e che abbiano in corso la
procedura per la richiesta della mobilità. Vi rientrano
anche le aziende con meno di quindici dipendenti,
che stipulino contratti di solidarietà difensivi per
evitare di intervenire con dei licenziamenti individuali
plurimi36 (in quanto aziende escluse dalla normativa
sulla procedura di mobilità).
Sono ricomprese anche le aziende del settore
artigiano, indipendentemente dal numero di
lavoratori in forza; in questo caso il fatto interessante
è che viene richiesto l’intervento dei fondi bilaterali
in un’ottica di solidarietà di settore, con un’integra‐
zione salariale destinata ai lavoratori che non deve
essere inferiore al 50% del contributo a carico dello
Stato. Se l’azienda artigiana è composta da più di
35 Non essendoci una definizione normativa, ci si rifà a quanto
previsto dall’Inps con circolari n.62773/75 e n.207/82. Requisiti essenziali per identificare l’unità produttiva sono: che l’attività sia finalizzata a un ciclo produttivo completo, che organizzativamente presenti specifica autonomia amministrativa, che i dipendenti in forza vi siano addetti in via continuativa. 36 L. n.33/09, art.7‐ter; Min.Lav. nota n.22114/09.
quindici lavoratori, dovrà attivare comunque la
procedura di mobilità.
L’azienda artigiana, presso la sede bilaterale
sindacale locale, procede alla sottoscrizione di un
accordo di solidarietà37, attivando la procedura per
ottenere l’intervento del fondo regionale. Una volta
ottenuta la certificazione attestante l’entità e le
finalità del contributo, l’azienda procederà a
richiedere al Ministero del Lavoro l’accesso ai
contributi. In tal senso verrà quindi emesso un
decreto direttoriale contenente l’importo da erogare
in parti uguali tra azienda e lavoratori.
Il contributo statale richiede specifica copertura
finanziaria38, che viene deliberata di anno in anno:
con l’approvazione dell’ultima recentissima Legge di
Stabilità39 si è data copertura anche per tutto il 2013.
Fondi di solidarietà bilaterali
Con la Riforma Fornero vengono apportati molti
cambiamenti al mondo del lavoro, alcuni
squisitamente demagogici, altri burocratici e da
azzeccagarbugli, alcuni innovativi, altri epocali o
pseudo tali (vedasi, tra tutte, le modifiche al bastione
che si credeva intoccabile dell’art.1840).
Tra le novità apportate, merita qui un cenno all’art.3,
che, da una parte, estende, a regime, il campo di
applicazione della disciplina del trattamento di
integrazione salariale straordinaria in forma strut‐
turale ad alcuni settori per i quali si era proceduto
nel corso degli anni a coperture finanziarie prorogate
di anno in anno, ricomprendendo anche il settore del
trasporto aereo e delle imprese di servizi
aeroportuali; dall’altra, ai commi da 4 a 13, istituisce i
nuovi fondi di solidarietà bilaterali quali ombrelli
salariali per i settori non coperti dalle normative
vigenti in materia di integrazione salariale (sia
ordinaria che straordinaria).
La finalità dei fondi bilaterali è evidentemente quella
di assicurare anche ai lavoratori di questi settori, in
costanza di rapporto, una tutela nei casi di riduzione
o di sospensione dell’attività lavorativa.
L’innovazione strutturale degli ammortizzatori sociali
dovrebbe nel tempo spostare dal pubblico al privato
il peso del sostegno al reddito, investendo la
bilateralità del difficile compito di reperire gli
37 Accordo interconfederale 20 luglio 1993; Min.Lav. circolare
n.20/04. 38 D.L. n.185/08, convertito in L. n.2/09.
39 L. n.228/12, art.1, co.405, in G.U. n.302, S.O. n.212 del 29
dicembre 2012. 40 Art.18, L. n.300/70 (Statuto dei Lavoratori).
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Approfondimenti
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strumenti economici atti a tutelare le situazioni
aziendali di crisi.
Entro sei mesi le organizzazioni sindacali e
imprenditoriali che risultano maggiormente rappre‐
sentative sul piano nazionale devono procedere a
stipulare accordi collettivi per la costituzione di Fondi
di solidarietà bilaterali per i settori privi di Cassa
integrazione, in relazione alle aziende che occupano
mediamente più di 15 dipendenti. L’ambito specifico
di operatività dei Fondi verrà definito con apposito
decreto.
La Riforma, inoltre, prevede la possibilità di costituire
fondi anche per le aziende con un organico inferiore
alle 15 unità, mediante un modello alternativo
incentrato sulla bilateralità, così come previsto
all’art.3, commi dal 14 al 16. In tale direzione si
riscontra già la stipula del Fondo di solidarietà
bilaterale alternativo per il settore dell’artigianato41.
La riduzione dell’orario
L’accordo sindacale con cui si stipula il contratto di
solidarietà difensivo è la manifestazione della
situazione di esubero di personale, sia per quanto
attiene alle cause che l’hanno generato sia per
quanto riguarda i termini quantitativi delle necessità
aziendali in ordine alle persone coinvolte sia,
soprattutto, per quanto riguarda la quantificazione
della riduzione delle ore lavorative previste per i
dipendenti coinvolti.
Il parametro da prendere in considerazione, per i fini
di nostro interesse, è l’analisi della disposizione delle
ore di riduzione rispetto all’orario contrattuale, che
deve essere stabilita su base giornaliera, settimanale
o mensile; viene invece ora esclusa la possibilità di
una distribuzione su base annuale.
L’Inps42 in proposito ha precisato che “resta
fondamentale ai fini della applicazione della
normativa che presiede il trattamento di integrazione
salariale il riferimento settimanale”, richiamando il
fatto che l’art.5 della L. n.236/93 non ha modificato
le previsioni dell’art.1 della L. n.863/84, ma ne ha
solamente consentito una maggiore flessibilità nella
gestione dell’orario di lavoro. Riduzione settimanale
che può anche essere espressa riferendosi alle
giornate o al mese, ma, in concreto, il contratto di
solidarietà deve sempre tradurre in termini
settimanali qualsiasi forma di riduzione attuata con
diversa periodicità.
41 Accordo firmato dalle parti sociali il 17 novembre 2012.
42 Inps, Circolare n.212/94.
Per una più agevole applicazione della norma sui
contratti di solidarietà viene inoltre previsto un limite
numerico affinché il contratto di solidarietà possa
considerarsi idoneo, ovvero la riduzione dell’orario
dei lavoratori coinvolti deve rispettare il limite, non
superabile, del 60% dell’orario contrattuale, orario
da parametrarsi su base settimanale, come si è
appena detto.
Prima dell’emanazione del D.M. 10 luglio 2009, che
come si sa è entrato in piena vigenza a far data dal 3
agosto 2009, la congruenza (detto anche parametro
di congruità) del contratto di solidarietà aveva come
paletto, per essere a tutti gli effetti considerato
idoneo a perseguire le proprie finalità di tutela degli
esuberi, il limite massimo della percentuale, limite
che era posto al 30%43 rispetto alla riduzione del
totale delle ore non lavorate da parte dei lavoratori
coinvolti, ovvero Il rapporto tra i lavoratori coinvolti
nei processi formativi e quelli sospesi non poteva
essere inferiore al 30%.
Premesso quindi che, in senso assoluto, il contratto
di solidarietà veniva ritenuto congruo qualora la
percentuale di riduzione di orario concordata tra le
parti e parametrata su base settimanale fosse tale
che il numero delle ore non lavorate da tutti i
lavoratori coinvolti dal contratto risultasse esatta‐
mente pari al numero delle ore che sarebbero state
lavorate dai lavoratori eccedenti, si ammetteva,
rispetto a tale perfetta parità, una variazione in
percentuale, con uno scostamento inferiore o
superiore al 30%.
Tornando alla disciplina vigente, durante tutta la
durata del contratto di solidarietà, i lavoratori
coinvolti nella riduzione di orario non possono
svolgere ore di lavoro straordinario, salvo
comprovate straordinarie esigenze produttive a
carattere momentaneo ed individuale. Inoltre vanno
limitate anche le prestazioni di lavoro straordinario
del personale non coinvolto dalla procedura di
solidarietà, situazione in contrasto con le cause che
hanno determinato il contratto stesso.
Pertanto nell’accordo sindacale dovranno essere
espressamente indicate le persone coinvolte,
eventualmente suddivise per reparto o unità
produttiva, l’orario settimanale che svolgono (sia che
esso sia previsto dal contratto collettivo nazionale sia
che nasca da contratti aziendali) e la distribuzione
della riduzione di orario che i lavoratori subiranno,
articolata su base giornaliera o settimanale o
43 D.M. 20 agosto 2002, n.31444 (G.U. n.270/02); Min.Lav.,
circolare n.8/03.
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
mensile, comprese eventuali gestioni a turni, facendo
attenzione al rispetto del limite categorico del 60%.
È ammissibile l’applicazione della riduzione dell’ora‐
rio a seguito del contratto di solidarietà anche per i
lavoratori che svolgono già un orario part time; in tali
casi, però, dovrà essere dimostrabile il carattere
strutturale e non pretestuoso del preesistente orario
ridotto e, inoltre, per evitare situazioni di elusioni
truffaldine della normativa, si deve porre particolare
attenzione affinché non vi siano stati, nei periodi
prossimi alla stipula del contratto, variazioni da part
time a full time.
Particolare attenzione va posta anche nei confronti di
eventuali contratti di solidarietà che possano dar
adito a un utilizzo improprio in sostituzione di stipule
di contratti a termine per soddisfare esigenze di
attività produttive soggette a fenomeni di
stagionalità.
Riduzione delle ore lavorate rispetto a quelle
previste
Una volta autorizzato il contratto di
solidarietà, il datore di lavoro può utilizzare un
maggior numero di ore di integrazione salariale
rispetto a quelle previste?
Ci si chiede, cioè, se sia ammissibile sforare le
percentuali ivi previste, lasciando a casa i lavoratori
con una maggiore riduzione dell’orario già ridotto (ad
esempio: erano state previste otto ore ogni quaranta
settimanali e il datore vuole ampliare di ulteriori otto
ore, portandole a sedici, quelle di Cigs).
La risposta è in senso negativo: non è quindi
ammissibile un incremento delle ore di Cassa
integrazione salariale una volta definito il contratto
di solidarietà. Ciò sarà possibile unicamente con
l’apertura di una nuova procedura e la stipula di un
nuovo accordo sindacale e relativa domanda al
Ministero.
Questa rigidità, se da una parte ha la sua ragion
d’essere nel preciso scopo di evitare un utilizzo
indiscriminato, incontrollato e conseguentemente
truffaldino della quota di intervento statale, dall’altra
parte potrebbe limitare l’ordinaria gestione delle
incombenze produttive, vincolando gli orari e i turni
lavorativi rispetto alle reali esigenze aziendali.
Viene però in soccorso il Ministero del Lavoro44 che,
viste le semplificazioni alle modalità operative
apportate dal D.M. n.46448/09, apre, se non proprio
44 Min.Lav., nota n.3558/10.
la porta, una finestra alla possibilità di sforare il
limite della percentuale della riduzione dell’orario
fissata al 60%, anche in considerazione dell’attuale
contesto economico caratterizzato da una profonda
crisi di tutti i settori produttivi.
La nota, in considerazione del fatto che il D.M.
utilizza la locuzione al plurale “lavoratori coinvolti”,
riferendosi alla percentuale massima di riduzione
dell’orario di lavoro nel contratto di solidarietà,
ritiene plausibile che tale percentuale possa essere
riferita non al singolo dipendente, ma alla media di
riduzione dell’orario di lavoro contrattuale di tutta la
compagine lavorativa coinvolta dall’accordo di
solidarietà.
Questa interpretazione di calcolo, molto interessante
ai fini pratici, fa conseguire il diretto corollario che
alcuni lavoratori potranno essere lasciati in Cigs per
una percentuale di ore, concordata tra le parti,
superiore al limite del 60%, compensata contestual‐
mente con altri lavoratori a cui sarà applicata una
percentuale inferiore e che, quindi, potranno
lavorare per un monte ore complessivo superiore.
Ovviamente, però, la riduzione d’orario concordata
dovrà pur sempre rispettare nella media totale di
lavoratori il tetto massimo del 60%.
Incremento delle ore lavorate rispetto a quelle
previste
Non è detto che la necessità sia sempre quella di
dover aumentare le ore di integrazione salariale; è
invero molto plausibile che, per soddisfare esigenze
di carattere momentaneo di picchi di lavoro, nasca
l’esigenza pratica di aumentare le ore di produzione.
Ciò è fattibile se all’interno della stipula dei contratti
di solidarietà vengono determinate specifiche clauso‐
le concernenti le modalità operative attraverso cui le
aziende possono variare, in aumento rispetto
all’orario ridotto dal contratto, ma comunque nei
limiti del normale orario contrattuale45, le ore
lavorate dai dipendenti interessati alla solidarietà,
considerato anche che, conseguentemente, vi sarà
una corrispondente proporzionale riduzione del
contributo a carico dello Stato, con un risparmio per
la collettività.
Il riscontro a priori nei contratti stipulati delle
eventuali esigenze di utilizzo di ore in eccedenza
(supplementari) e delle modalità con cui le stesse si
debbano attuare, quali le metodologie di scelta dei
lavoratori tra tutti quelli posti in solidarietà difensiva,
45 Art.5, co.10, D.L. n.148/93.
?
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
è garanzia affinché non si creino situazioni di
disparità più o meno volute.
Le casistiche e le tipologie di situazioni che
richiedano l’utilizzo di un maggiore monte ore sono
già determinate nella legge, lì dove si afferma che:
“Nel contratto di solidarietà vengono determinate
anche le modalità attraverso le quali l’impresa, per
soddisfare temporanee esigenze di maggior
lavoro, può modificare in aumento, nei limiti del
normale orario contrattuale, l’orario ridotto
determinato dal medesimo contratto”.
Cioè è stato recentemente precisato46 che il
legislatore, nel disporre quanto sopra, ha
volutamente lasciato libera determinazione alle
aziende, nell’ambito di un’ordinaria fluttuazione
delle esigenze produttive dettate dall’andamento del
mercato e delle conseguenti commesse, in merito
alla scelta di ricorrere ad eventuali ore lavorative
aggiuntive, escludendo quindi qualsiasi sindacabilità
in merito da parte di organi ispettivi, anche in
considerazione che l’aumento delle ore lavorate
comporta comunque un risparmio in termini di
intervento economico pubblico di sostegno al reddito
dei lavoratori.
Pertanto, si evince che la scelta non deve sottostare
necessariamente a specifici criteri di eccezionalità o
di urgenza, che vengono richiamati unicamente per
situazioni in cui le ore da svolgersi in aggiunta a
quelle concordate sforino nell’orario straordinario,
definito ora secondo le previsioni della L. n.66/03,
nel limite delle quaranta ore settimanali o comunque
nel limite stabilito dai contratti collettivi di lavoro,
anche su base media annuale.
Il ricorso a ore in eccesso, comunque, andrà
tempestivamente comunicato ai competenti organi
ispettivi47 per evitare il generarsi di situazioni di
dubbia liceità.
Nell’eventualità che il contratto non determini ‐ o
determini solo parzialmente o genericamente ‐ le
modalità di effettuazione di prestazioni eccedenti, si
dovrà intervenire obbligatoriamente con la stipula di
un accordo sindacale integrativo successivo per
“sanare” la situazione, stipulato precedentemente al
momento di effettivo svolgimento delle ore in
eccedenza all’orario ridotto concordato.
46 Min.Lav., nota n.621/12.
47 Min.Lav., circolare n.20/04.
Di seguito si propone l’utilizzo di una formula
contrattuale a previsione dell’utilizzo di un maggior
numero di ore lavorate:
“La società XXX, al fine di soddisfare eventuali
temporanee esigenze di maggior lavoro, comprese
necessità di ordine tecnico ‐ organizzativo ‐
produttivo ‐ sostitutivo ‐ punte stagionali ‐ periodi
feriali, alla luce anche di quanto previsto dall’art.5
comma 10, L. n.236/93:
1. comunicherà alla RSU, con un anticipo di almeno
7 giorni e a mezzo di telegramma (o altra forma
di comunicazione), le specifiche motivazioni ed i
nominativi dei lavoratori coinvolti, comprese
eventuali turnazioni. Le Rappresentanze sindacali
potranno chiedere un incontro per valutare
congiuntamente le esigenze aziendali e
concordare le modalità operative di attuazione
della presente clausola;
2. comunicherà ai lavoratori interessati il rientro in
produzione con un anticipo di almeno 48 ore, a
mezzo di telegramma (o altra forma di
comunicazione) e, nel limite del possibile,
comunicherà anche l’orario giornaliero/settima‐
nale/mensile che dovranno svolgere, modificato
rispetto al presente contratto. Gli stessi non
potranno rifiutarsi salvo comprovate motivazioni
oggettive;
3. comunicherà al competente ufficio del Ministero
del Lavoro la variazione di orario;
4. le ore lavorate saranno retribuite secondo la normale retribuzione, senza maggiorazioni
specifiche”.
Eccedenza di ore lavorate e conseguenze
sanzionatorie
Ci si è posti il quesito di quali siano le conseguenze di
carattere sanzionatorio cui sarebbe passibile
l’azienda nel caso in cui non rispettasse l’accordo
stipulato nel contratto di solidarietà in merito alle
modalità di riduzione dell’orario, ovvero nel caso
l’azienda richiedesse ai lavoratori coinvolti dal
contratto lo svolgimento di un orario di lavoro
superiore rispetto a quello concordato.
In primis, la domanda nasce dalla constatazione
lapalissiana che l’andamento della vita lavorativa in
azienda ha un carattere squisitamente dinamico, non
prevedibile e non programmabile a priori, soprat‐
tutto in un contesto di grave e perdurante crisi che le
aziende tutte indistintamente stanno attraversando,
dove la produzione, l’organizzazione e la vendita
sono misurate in molti casi anche dalle situazioni che
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
giorno per giorno si presentano, facendo saltare ogni
qualsivoglia barlume di gestione programmata del
lavoro.
Una puntuale articolazione dell’orario di lavoro, e la
conseguente puntuale articolazione della riduzione
dell’orario di lavoro in caso di ricorso al contratto di
solidarietà, non è rinvenibile nella normativa
specifica, che nulla dice in merito a come parti sociali
e aziende debbano comporre gli accordi, ma trova
unico riscontro nello schema di contratto previsto dal
Ministero48, che detta le istruzioni applicative.
La previsione a priori di un piano di distribuzione
dell’orario, comprensivo delle riduzioni concordate,
si rende poi di difficile applicazione: quanto meno è
difficile la sua pedissequa applicazione successiva e
per tutta la durata del contratto di solidarietà.
Questo contesto ha generato istanza di interpello,
correttamente posta dal Consiglio Nazionale
dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, che ha ricevuto
recentissima risposta, sufficientemente articolata e
motivata, da parte del Ministero del Lavoro, con
interpello n.27 del 13 settembre 2012.
Nello specifico è stato chiesto parere in ordine alle
conseguenze sanzionatorie in capo ad imprese
rientranti nel campo di applicazione dell’intervento
straordinario di integrazione salariale (Cigs), qualora
abbiano disatteso l’accordo di solidarietà o abbiano
fatto svolgere un monte ore di lavoro superiore a
quello concordato nel contratto stesso.
L’interpello ripercorre velocemente quanto previsto
dalla normativa vigente e dalle circolari emanate
negli ultimi anni, disamina già affrontata in questo
articolo, ribadendo quindi la necessaria presenza nel
contratto di solidarietà di clausole che prevedano
espressamente eventuali incrementi di orario, quale
evenienza in caso di miglioramento, ancorché
momentaneo, della situazione economico/finanziaria
dell’impresa e, inoltre, ricordando che tali sforamenti
devono essere comunicati alla Direzione Territoriale
del Lavoro.
Considerato, quindi, che la riduzione media
percentuale debba comunque rispettare quella
programmata e autorizzata dall’accordo, va tenuto
conto che, trattandosi squisitamente di una media
matematica su un arco temporale che non può
eccedere il mese (si ricorda che non vi è più la
previsione su base annuale), è possibile che si
verifichi l’ipotesi di una riduzione di ore lavorate
minore rispetto a quella prevista.
48 Min.Lav., circolare n.33 del 14 marzo 1994.
Evidentemente, conclude il Ministero, tale ipotesi
non può inficiare la validità del contratto di
solidarietà, con la conseguenza che non sussistono
sanzioni per le aziende.
Comunque le stesse devono attivarsi fattivamente
per far emergere o, più propriamente, per
evidenziare la situazione, pertanto sono tenute a
rispettare quanto previsto dal D.M. n.46448/09 e
devono contabilizzare nel cedolino paga, ora Libro
Unico del Lavoro (LUL), le ore effettivamente
prestate dai dipendenti, comprensive anche delle ore
effettuate in eccedenza rispetto a quanto autorizzato
a priori.
È ovvio che l’azienda, per le ore effettivamente
lavorate in più, procederà a versare la relativa
contribuzione, remunererà i lavoratori con l’ordinaria
retribuzione e, infine, comunicherà all’Inps le ore di
lavoro non prestate (inferiori a quelle previste
dall’accordo) per le quali il lavoratore avrà diritto
all’integrazione salariale.
La comunicazione alla Direzione Territoriale del
Lavoro e la contabilizzazione nel Libro Unico del
Lavoro consentono di evidenziare la situazione in
modo corretto, evitando quindi la configurazione di
una condotta fraudolenta da parte del datore di
lavoro; si vuole cioè evitare che l’azienda faccia
svolgere ore supplementari di lavoro rispetto a
quelle concordate, percependo e facendo percepire
al lavoratore, per le stesse ore indebite, risorse
pubbliche.
I contratti di solidarietà espansivi: cenni
I contratti di solidarietà non è detto che abbiano
come finalità la salvaguardia del posto di lavoro per
tutelare eventuali esuberi con una riduzione genera‐
lizzata delle ore di lavoro.
La normativa del 1984 ha previsto anche un
particolare strumento incentivante per le aziende
che intendano incrementare stabilmente il numero di
lavoratori occupati, in senso quindi diametralmente
opposto a quello di cui si è discusso fin ora.
Esiste cioè, per quanto si tratti di uno strumento
poco utilizzato, la possibilità di stipulare contratti di
solidarietà definiti “espansivi”, anche detti
“estensivi”, beneficiando di agevolazioni contri‐
butive.
I requisiti iniziali sono gli stessi previsti per i contratti
difensivi, cioè deve essere stipulato un accordo
collettivo con i sindacati aderenti alle confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale,
che preveda una riduzione dell’orario del lavoro per
una parte o per tutti i lavoratori in forza,
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26
Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
programmando contestualmente le modalità di
attuazione di un incremento stabile dell’organico.
I lavoratori che subiscono la riduzione dell’orario di
lavoro si vedono conseguentemente decurtare la
retribuzione, ma sul piano contributivo previdenziale
non perdono diritti, in quanto l’Inps subentra
coprendo il periodo con l’accredito di contributi
figurativi.
Le assunzioni devono essere effettuate stipulando
contratti di lavoro a tempo indeterminato: non sono
quindi ammessi contratti a termine. In via teorica
sarebbero ammissibili anche contratti di appren‐
distato, ma non se ne vedrebbe il motivo considerato
che, in quest’ultimo caso, le agevolazioni
contributive sono maggiori, senza quindi la necessità
di intervenire con un contratto di solidarietà
estensivo.
L’importante è che con le nuove assunzioni non si
determini una riduzione della percentuale di lavoro
femminile rispetto a quella maschile.
Le aziende che seguono questo percorso avranno
diritto, per ogni lavoratore nuovo assunto, a un
contributo pari al 15% della retribuzione prevista dal
contratto collettivo di riferimento e per ogni
mensilità di retribuzione nei primi dodici mesi, al 10%
per i successivi dodici mesi e al 5% della retribuzione
per gli ulteriori dodici mesi.
La retribuzione lorda prevista dal contratto collettivo
ricomprende49 la paga base o minimo contrattuale,
l’indennità di contingenza (se non conglobata), il
terzo elemento distinto della retribuzione (EDR), gli
scatti di anzianità maturati, la tredicesima e la
quattordicesima mensilità (se prevista dal Ccnl).
Il Ministero del Lavoro, per il tramite delle Direzioni
Territoriali, presso cui deve essere depositato il
contratto collettivo stipulato, verifica la corrispon‐
denza tra la riduzione di orario concordata e le nuove
assunzioni nominative effettuate. L’agevolazione non
spetta nel caso in cui l’azienda, nei dodici mesi
precedenti, abbia proceduto a riduzioni del perso‐
49 Interpello n.42 del 3 ottobre 2008
nale o a sospensioni del lavoro50.
Molto interessante è anche l’accordo quadro del 28
giugno 2011, sottoscritto da Confindustria, Cigil, Cisl
e Uil, che al punto sette recita:
“i contratti collettivi aziendali possono attivare
strumenti di articolazione contrattuale mirati ad
assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli
specifici contesti produttivi. I contratti collettivi
aziendali possono pertanto definire, anche in via
sperimentale e temporanea, specifiche intese
modificative delle regolamentazioni contenute nei
contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e
con le procedure previste dagli stessi contratti
collettivi nazionali di lavoro. Ove non previste ed in
attesa che i rinnovi definiscano la materia nel
contratto collettivo nazionale di lavoro applicato
nell’azienda, i contratti collettivi aziendali conclusi
con le rappresentanze sindacali operanti in
azienda d’intesa con le organizzazioni sindacali
territoriali firmatarie del presente accordo
interconfederale, al fine di gestire situazioni di crisi
o in presenza di investimenti significativi per
favorire lo sviluppo economico ed occupazionale
dell’impresa, possono definire intese modificative
con riferimento agli istituti del contratto collettivo
nazionale che disciplinano la prestazione
lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro.
Le intese modificative così definite esplicano
l’efficacia generale come disciplinata nel presente
accordo”.
Si riscontra quindi una volontà, ancorché embrionale,
di agevolare territorialmente e aziendalmente
accordi sindacali anche nella direzione dei contratti
di solidarietà espansivi.
È giusto, però, sottolineare che non risultano, ad
oggi, specifiche risorse finanziate dal bilancio dello
Stato per il finanziamento del contratto di solidarietà
espansivo.
50 Sospensione ai sensi della L. n.675 del 12 agosto 1977, art.2.
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
L'attività sportiva dilettantistica e l'art.18 dello Statuto dei Lavoratori a cura di Guido Martinelli – Avvocato in Bologna Tutti coloro i quali si occupano di sport dilettantistico a titolo oneroso sono degli appassionati volontari "atipici" o
sono risorse che hanno scelto questa come attività lavorativa principale anche se non esclusiva? E se così fosse come
si individua la "causa" del loro rapporto?
La scelta del legislatore tributario di collocare i "compensi" per attività sportiva dilettantistica nell'alveo dei redditi
diversi ha sicuramente "complicato" l'individuazione della fattispecie giuridica cui ascrivere queste prestazioni.
Vi è spazio per individuare un tertium genus tra lavoro autonomo e subordinato?
Stante, comunque, l'inequivocabile precetto derivante dall'art.38 della Costituzione, si ritiene che anche nell'ambito
delle attività sportive dilettantistiche possano esserci comunque presenti forme di lavoro subordinato e, come tali
da tutelare, anche ricorrendo alle garanzie previste dallo Statuto dei diritti dei lavoratori, prima tra le quali quella
dell'art.18.
Confini e limiti dell'attività sportiva dilettantistica
Definizione di attività sportiva dilettantistica
Attività sportiva dilettantistica è termine spesso
usato nel mondo sportivo, ma che non trova, nel
nostro ordinamento, alcuna definizione in positivo.
Il legislatore ha, infatti, fino ad oggi definito, con
l'art.2 della L. n.91/81 lo sportivo professionista ma,
in tutti i casi in cui è intervenuto nell'ambito del
dilettantismo, lo ha disciplinato ma mai definito51.
Diventa pertanto indispensabile, in via preliminare,
identificare quale sia l'attività sportiva "non
professionistica"52: solo così facendo potremo delimi‐
tare il campo della nostra indagine.
Per poter fare ciò, punto di partenza è l'esame della
legge 23 marzo 1981, n.91 che, appunto, rubrica
"norme in materia di rapporti tra società e sportivi
professionisti".
È opportuno precisare che, anche prima dell'entrata
in vigore della legge sul professionismo, dottrina e
giurisprudenza si erano misurate con una nutrita
serie di problemi legati allo sport, mettendone in
rilievo, di volta in volta, le peculiarità e atipicità, e
avevano perciò già avuto modo di sperimentare
concretamente l'impatto di una realtà sociale,
singolarissima ed eterogenea, quale quella sportiva,
che, per risvolti e implicazioni spesso contrastanti,
aveva, da sempre, manifestato una tendenziale
riottosità ad essere collocata nelle anguste strettoie
dell'ordinamento statale.
Il rapporto di lavoro sportivo si pone sicuramente
all'apice delle diatribe suscitate dall'articolazione
normativa. Ignorato dal legislatore e oggetto di
attenta disamina solo da parte di pochi specialisti del
51 Vedi art.90, L. n.289/02, L. n.398/91.
52 Come più correttamente la definisce lo statuto del Coni
settore e di alcuni interventi giurisprudenziali, alle
soglie degli anni '80 il rapporto di lavoro sportivo
iniziò a ottenere un interesse sempre più vasto e
crescente53.
Basti solo richiamare alla memoria la tensione che
evocarono all'epoca le irrisolte problematiche del
lavoro sportivo54, facendo maturare nelle forze
politiche la convinzione di non poter ulteriormente
proseguire lungo la strada del totale disinteresse nei
confronti di un settore estremamente bisognoso di
certezze giuridiche quale quello sportivo, ciò anche
perché le decisioni giurisprudenziali fino a quel
momento emesse erano altalenanti tra la figura del
rapporto di lavoro autonomo e subordinato. Da qui il
preciso impegno da parte di tutto il mondo politico di
dare corpo a una legge che ordinasse la complessa
materia, impegno che, come è noto, è stato
mantenuto con l'approvazione della L. n.91/81.
Normativa che, nelle intenzioni del legislatore,
avrebbe dovuto disciplinare integralmente la materia
dello svolgimento dell'attività sportiva a titolo
oneroso. Tant'è che a livello della giurisprudenza
comunitaria lo sportivo professionista è il lavoratore
che "vive" di sport, indipendentemente dalla
disciplina praticata.
II vivo entusiasmo che accolse l'entrata in vigore
della legge da parte dei lavoristi, che da tempo
concordemente premevano per un intervento
normativo che definisse le incertezze interpretative e
applicative in un campo, come quello sportivo, che
vedeva oramai in gioco rilevanti interessi economici e
53 Il fenomeno nasce con l'aumento delle risorse finanziarie che
arrivano allo sport attraverso il nuovo, per l'epoca, meccanismo delle sponsorizzazioni. 54 Si ricorda che il coinvolgimento del legislatore derivò da un
decreto di un Pretore di Milano che bloccò lo svolgimento del c.d. calcio mercato per violazione delle norme sul collocamento.
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28
Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
?
che continuava ad appoggiarsi sulle stampelle
dell'atipicità, fu smorzato, quasi, nell'immediata
promulgazione della normativa dagli appropriati
rilievi dei commentatori circa le contraddittorietà
insite nella nuova disciplina, dovute al rovesciamento
rispetto al testo originario55 e al mancato
adeguamento alla nuova logica di quello definitivo e
le difficoltà che avrebbero incontrato gli interpreti in
sede d'applicazione dei vari istituti.
Infatti il legislatore, resosi conto della difficoltà di
ricondurre la disciplina del lavoro sportivo alle
classiche definizioni codicistiche di cui agli artt.2094
e 2222 c.c., dato atto della presunzione, per gli atleti,
in favore del rapporto di lavoro subordinato, delineò
una fattispecie atipica in cui, ad esempio: veniva
privilegiato il contratto a tempo determinato di
durata quinquennale, lo spartiacque con la presta‐
zione autonoma non era dato dalla subordinazione
gerarchica quanto dall'intensità della prestazione,
venivano escluse alcune tutele tipiche della
dipendenza, principale delle quali, appunto, l'applica‐
bilità dell'art.18 dello Statuto dei Lavoratori.
A tale proposito va chiarito che la legge ha finalità
esaustive nel senso che riguarda, in positivo e in
negativo, la definizione e l'esercizio del professio‐
nismo sportivo in qualunque disciplina venga
praticato.
La norma, infatti, ricomprende esplicitamente negli
sportivi professionisti solo gli atleti, gli allenatori, i
direttori tecnico‐sportivi e i preparatori atletici che
esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso con
carattere di continuità, per le discipline regolamen‐
tate dal C.O.N.I., e che conseguono la qualificazione
dalle Federazioni sportive nazionali, secondo le
norme da queste emanate, con l'osservanza delle
direttive stabilite dal C.O.N.I., per la distinzione
dell'attività dilettantistica da quella
professionistica56.
In realtà la "delega in bianco" a favore del C.O.N.I. e
delle federazioni sportive nazionali e la puntuale
elencazione delle figure che vanno a costituire la
categoria degli sportivi professionisti non devono
essere intese quali autentiche limitazioni all'applica‐
zione della legge, stanti le conseguenze non positive
fin troppo evidenti che ne potrebbero derivare in
termini di disparità di trattamento.
La spiegazione più convincente, su quelle ipotizzabili,
appare essere quella che si è voluto disciplinare, in
modo tipico, quelle prestazioni "atipiche" dello sport,
55 La bozza di Disegno di Legge parlava, infatti, di lavoro
autonomo. 56 Direttive che, a tutt'oggi, non risultano ancora emanate.
in quanto le altre funzioni svolte (addetto agli
impianti sportivi, medico, manutentore, cassiere,
maschera ecc) sicuramente potranno essere
collocate all'interno delle categorie codicistiche
stabilite dal codice civile.
Nel rispetto di quanto stabilito nella seconda parte
dell'art.2 della legge in esame, il Consiglio Nazionale
del C.O.N.I., con propria deliberazione, riconobbe
quali settori professionistici quelli delle seguenti
attività sportive: calcio, ciclismo, pugilato, golf e
motociclismo57.
Quid iuris per Ie altre discipline?
È nota la presunzione iuris et de iure presente nella L.
n.91/81, ovvero la presunzione di esistenza di un
rapporto di lavoro subordinato in capo all'"atleta
professionista" che presti a titolo oneroso la propria
attività sportiva, presunzione direttamente
desumibile dall'art.3 della citata legge. Occorre
tenere ben presente, a questo punto, lo scopo
principale della legge che, in origine, era quello di
estendere a largo raggio la tutela propria del
contratto di lavoro subordinato nei confronti
soprattutto degli atleti, in quanto era proprio l'ibrida
posizione di tali prestatori che aveva reso stringente
la necessità di una specificazione normativa.
La scelta legislativa nei confronti degli atleti appare
caratterizzata da una notevole atipicità, ad esempio
laddove ‐ al co.2 dell'art.3 ‐ enuclea i casi in cui la
presunzione di subordinazione non si applica. Casi
che non appaiono legati all'assenza di eterodirezione
o di subordinazione gerarchica, ma esclusivamente a
una ridotta intensità della prestazione.
L'aver riservato questo trattamento solo a una delle
quattro figure di sportivi professionisti non può
chiaramente considerarsi una "svista" rispetto ai
prestatori di lavoro sportivi non atleti, in realtà, in tal
modo, ha esplicitamente riconosciuto alla presta‐
zione sportiva, oggetto di un eventuale rapporto di
lavoro, delle precise connotazioni speciali e atipiche,
sino al punto di dovere, puntualmente, specificare i
requisiti che nell'ipotesi specifica devono neces‐
sariamente ricorrere perché si abbia la concreta
sussistenza della subordinazione nell'ambito del
lavoro sportivo.
A ben vedere è proprio questo uno degli aspetti più
innovativi introdotti dalla disciplina legislativa,
ovvero l'aver individuato nei 3 elementi di cui al co.2
57 A cui, in seguito, nel 1996, si unì la pallacanestro. Va poi detto
che il motociclismo ha, negli anni 2000, fatto marcia indietro e ha escluso che al proprio interno sussista un’attività professionistica.
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
dell'art.3, letti a contrario, i profili specifici per
l'esistenza della subordinazione nel rapporto di
lavoro sportivo.
A questo punto, accertata l'impossibilità di estendere
la normativa contenuta nell'art.3 della citata legge
oltre il campo d'applicazione da essa specificata‐
mente delineato, e tenuto conto della posizione
occupata dalla legge stessa nell'ambito dell'ordina‐
mento statale, in quanto è evidente che la legge,
derogando alla disciplina generale del lavoro
subordinato, in forza della specialità che
contraddistingue la natura dell'attività da essa
regolata, è a tutti gli effetti una legge speciale,
pertanto, ex art.14 delle preleggi, insuscettibile di
applicazione indiretta o analogica, tutte le questioni
relative a quei prestatori di lavoro sportivo non
contemplati dalla legge, quali ad esempio i dilettanti,
ma che in ogni caso svolgono a titolo oneroso la
propria attività lavorativa, devono essere risolti
ricorrendo alle norme generali sul lavoro subordi‐
nato.
Apparve subito chiaro che la disciplina appena
approvata era stata scritta avendo davanti, esclusiva‐
mente o quasi, la problematica del mondo del calcio.
Sia l'impostazione del rapporto con l'atleta (lavoro
subordinato) che della società sportiva (solo società
di capitali) escludeva ab origine, sia per l'onerosità
che per la complessità formale, la possibilità di
accesso di altri sport, sia di squadra che individuali,
dove pur si ritrovavano atleti che svolgevano l'attività
sportiva in via continuativa e a titolo oneroso.
Ne deriva, come conseguenza, che solo il 10% delle
Federazioni sportive nazionali ha oggi ufficializzato
l'esistenza di un settore professionistico e che,
pertanto, per identificare l'attività sportiva dilettan‐
tistica dobbiamo oggi necessariamente farlo per
differenza: è tutta quell’attività sportiva disciplinata
dal Coni che non rientra nel campo di applicazione
della L. n.91/81.
Pertanto, se a livello europeo e, in origine, italiano, la
differenza tra attività professionistica e dilettantistica
era da ritenersi essenzialmente di carattere
economico; ora, in Italia, questa è solo di fattispecie
giuridica: è sportivo professionista colui che rientra
nel campo di applicazione della L. n.91/81; è
dilettante se non vi rientra. Tant'è che con l'art.67,
co.1, lett.m) del Tuir, si è espressamente disciplinato,
sotto il profilo fiscale, il trattamento dei compensi
per attività sportiva dilettantistica.
Qualificazione giuridica dell’attività sportiva
dilettantistica
Va detto, però, in via preliminare, che con la legge in
esame il legislatore ha esplicitamente riconosciuto
nella natura dell'attività svolta dai prestatori di lavoro
sportivo un preciso connotato di specialità del relativo
rapporto rispetto al rapporto di lavoro configurato a
livello generale dagli artt.2094 e 2222 c.c.. Pertanto la
risoluzione del problema concernente la qualificazione
giuridica, autonoma o subordinata, del rapporto di
lavoro dei prestatori sportivi, esclusi dall'applicazione
della L. n.91/81, dovrà sì essere ricercata ricorrendo
alle norme generali dell'ordinamento giuridico ma,
stante la riconosciuta specialità del rapporto di lavoro
posto in essere, l'operazione qualificatoria non potrà
dirigersi lungo direzioni totalmente avulse dai principi
fissati dalla legge dell'81, dovendo, al contrario,
muoversi entro assetti compatibili con la specialità del
rapporto, specialità che proprio in quella stessa legge
trova il suo primo e più razionale regolamento
normativo.
In sostanza, nello svolgimento di una razionale
indagine, che miri a definire l'esatta collocazione di
un rapporto di lavoro sportivo non professionistico,
l'operatore giuridico sarà tenuto a ricavare la regola
del caso non previsto ancorandosi estensivamente
alla stessa interpretazione della legge speciale nel
suo complesso. Come è noto, la giurisprudenza per
iscrivere un rapporto di lavoro entro la categoria
dell'autonomia o, della subordinazione, consapevole
delle difficoltà applicative legate alla distinzione
codicistica imperniata sugli artt.2094 e 2222 c.c., ha
con il tempo elaborato una serie di criteri rivelatori ai
quali è stato, però, attribuito solo un carattere
sussidiario, rispetto al principale criterio discrimina‐
tivo basato sulla sottoposizione a un vincolo di
assoggettamento gerarchico da parte del lavoratore
subordinato. Si ricordino, in proposito, le sentenze
della Corte di Cassazione n.6701 dell'11 novembre
1983 e n.6611 dell'8 novembre 1983.
Cassazione n.6701 dell'11 novembre 1983
Nella prima la Suprema Corte stabilisce che:
"ogni attività umana economicamente rilevante può
essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato
che di rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle
modalità concrete del suo svolgimento, e l'elemento
tipico che contraddistingua il primo tipo di rapporto
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
è integrato dalla subordinazione, intesa quale
disponibilità del prestatore nei confronti del datore
di lavoro, con assoggettamento alle direttive da
questo impartite circa le modalità di esecuzione
dell'attività lavorativa, mentre altri elementi come
l'osservanza di un orario, l'assenza di rischio
economico, la forma della retribuzione e la stessa
collaborazione, possono avere valore indicativo ma
mai determinante".
Cassazione n.6611 dell'8 novembre 1983
In aderenza con quanto qui riportato, nella seconda
sentenza la Cassazione ribadisce che:
"il requisito caratteristico ed essenziale del rapporto
di lavoro dipendente è costituito dall'elemento della
subordinazione, intesa quale assoggettamento del
lavoratore a direttive dal datore di lavoro inerenti
all'intrinseco svolgimento delle prestazioni
lavorative, laddove altri elementi, come l'oggetto
dell'attività, la continuità di essa, l'assenza di rischio
economico e l'obbligo di osservanza di un orario
hanno valore soltanto indicativo".
A questo punto emerge, conseguentemente, il
problema della natura giuridica del contratto che la
società sportiva stipula con l'atleta dilettante, con
riferimento, in particolare, alla differenza tra il
contenuto della sua prestazione e quella fornita dal
professionista.
La legge sul professionismo, già esaminata, pone
quindi, in primo luogo, un requisito sostanziale,
rappresentato dall'esercizio dell'attività sportiva a
titolo oneroso con carattere di continuità.
Però l'onerosità e la continuità della prestazione
dell'atleta non costituiscono caratteri esaustivi, in
quanto possono caratterizzare ugualmente la
prestazione del dilettante. II vero elemento distintivo
è rappresentato, quindi, da un requisito di carattere
formale, costituito dal conseguimento della
"qualificazione delle Federazioni sportive nazionali...
con l'osservanza delle direttive stabilite dal C.O.N.I.,
per la distinzione dell'attività dilettantistica da quella
professionista".
La L. n.91/81, perciò, non entra nel merito della
distinzione tra l'attività professionistica e quella
dilettantistica, ma rinvia alle scelte che, sul punto, il
C.O.N.I. ha operato.
Quindi, prescindendo da un criterio distintivo
meramente formale e astratto, quale quello indicato,
la posizione giuridica dell'atleta dilettante rispetto al
sodalizio presso il quale svolge la prestazione a
carattere retribuito può presentare gli stessi
elementi a livello sostanziale, sia egli dilettante o
professionista.
Da ciò non può che derivarne che i rapporti tra
associazioni sportive e atleti dilettanti possono
assumere diversa natura giuridica, con conseguente
necessità di valutare concretamente le singole
fattispecie.
È notorio come, nella variegata realtà dell'attività
dilettantistica, sussistano una molteplicità di accordi
in cui la causa ludica, l'elemento associativo siano gli
unici caratterizzanti il rapporto, poiché l'attività
sportiva viene espletata senza percezione di
compensi o ricevendo compensi senza che questi
abbiano natura di reale corrispettivo.
Diversa è, invece, la situazione degli sportivi che
operano in quei settori del dilettantismo che una
parte della dottrina ha definito del c.d. agonismo
programmatico, dove gli impegni che vengono
assunti e gli emolumenti erogati assumono un rilievo
tale per il quale diventa indispensabile far
riferimento ai criteri generali sul rapporto di lavoro
previsti dall'ordinamento.
Se, quindi, è stato possibile per il legislatore fissare
una presunzione a favore del rapporto di lavoro
subordinato per ciò che attiene all'atleta professio‐
nista, lo stesso non può, per le ragioni sopra esposte,
verificarsi rispetto agli atleti dilettanti, il cui contratto
di ingaggio deve essere, pertanto, volta per volta
esaminato alla luce dei principi generali.
Pertanto, qualora sussistano i requisiti previsti
dall'art.2094 c.c., nulla vieta di applicare, anche ai
rapporti di lavoro dei settori dilettantistici, la figura
del rapporto di lavoro subordinato.
Infatti, nella L. n.91/81 non esiste certamente la
volontà di escludere, per gli atleti dilettanti,
l'applicazione dei principi di diritto del lavoro,
qualora il contratto e/o il tipo di prestazione lo
consenta, poiché I'obiettivo del Legislatore non era
quello di discriminare i professionisti dai dilettanti. La
legge contiene soltanto una disciplina normativa
parzialmente derogatoria rispetto a quella ordinaria
per il rapporto di lavoro, in conseguenza della tipicità
dell'attività sportiva, oggetto dalla prestazione. II
lavoratore sportivo, sia esso professionista o
eventualmente dilettante, è una species nell'ambito
del genus lavoratore subordinato e autonomo.
Soltanto, come si è detto, per i dilettanti non può
operare la presunzione di cui all'art.3 della L.
n.91/81, essendo sempre necessario constatare la
presenza degli elementi di cui all'art.2094 c.c. ed,
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
eventualmente, di quelli integranti la fattispecie del
lavoro autonomo.
D'altra parte, laddove manchino i termini oggettivi
per il riscontro della sussistenza o meno, come
spesso avviene in tutta quella serie di rapporti che
escono dal modello tradizionale disegnato dal
legislatore del '42, la stessa Suprema Corte
afferma58 che:
"ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro
autonomo e rapporto di lavoro subordinato,
allorché l'esistenza o meno dell'elemento della
subordinazione ‐ che costituisce il principale o più
evidente elemento distintivo ‐ non sia
agevolmente apprezzabile a causa del concreto
atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento
ad altri criteri guida quali:
A) la precisa individuazione dell'oggetto della
prestazione, costituito dal risultato dell'attività
organizzata dal prestatore, opus nel contratto
d'opera, e dalle stesse energie lavorative operae,
esplicate secondo Ie direttive, la vigilanza ed il
controllo dell'altra parte, nel contratto di lavoro
subordinato;
B) l'accertamento concreto dell'esistenza di
un'organizzazione d'impresa, anche in termini
minimi, da parte del lavoratore la quale
caratterizza il lavoratore autonomo;
C) l'incidenza del rischio attinente all'esercizio
dell'attività, che incombe in misura più evidente e
completa sul lavoratore autonomo, mentre ricade
sul datore di lavoro nell'ipotesi di lavoro
58 Corte di Cass., Sez. lav., 17 mag‐giu 1985/2 aprile 1986, n.2257.
subordinato.
Questo, che nel rapporto di lavoro autonomo
grava sull'esecutore della prestazione lavorativa,
può consistere anche nella mancanza di sicurezza
del lavoratore di vedere compensata interamente
la propria opera".
La priorità attribuita dalla Suprema Corte al criterio
della subordinazione costituisce, peraltro, un
orientamento strettamente seguito dai giudici di
merito anche in sede d'esame del rapporto di lavoro
sportivo. Tale conclusione, però, porta a un assurdo.
Tutta una serie di istituti ritenuti, per il lavoro
subordinato sportivo professionista, inapplicabili,
devono, sussitendone i presupposti, trovare
applicazione nel settore dilettantistico.
Pertanto, dal contratto a tempo indeterminato
all'applicazione integrale dello statuto dei diritti dei
lavoratori, ivi compreso l'art.18, sono tutti istituti da
doversi applicare anche alle prestazioni sportive
dilettantistiche che abbiamo già definito atipiche
(atleti, tecnici). Con quali paralisi operative appare
intuitivo individuare.
In conclusione, va ovviamente precisato che le
considerazioni sopra esposte trovano più facile
risposta per gli eventuali rapporti di lavoro
subordinato posti in essere da un sodalizio
dilettantistico verso mansioni diverse: segretarie,
magazzinieri, custodi, autisti, maschere. In questi
casi, sussistendo la subordinazione, non vi è dubbio
che vi sarà l'applicazione integrale degli istituti che
disciplinano la fattispecie.
![Page 32: giu01_13](https://reader038.fdocument.pub/reader038/viewer/2022110211/55cf9d0e550346d033ac0ffa/html5/thumbnails/32.jpg)
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Approfondimenti
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Il lavoro a tempo determinato nel settore agricolo a cura di Luca Caratti – Consulente del Lavoro in Vercelli
Il presente contributo, anche alla luce dei recenti interventi sul contratto di lavoro a termine introdotti dalla Legge
28 giugno 2012, n.92, si propone di evidenziare come, nel complesso mondo dell’agricoltura, il contratto a tempo
determinato stipulato con gli operai, non necessariamente caratterizzato dalla stagionalità, rivesta un carattere di
specialità tale da doverlo escludere dall’ordinario campo di applicazione del D.Lgs. n.368/01.
L’agricoltura, come peraltro anche altri settori ‐ si
pensi in particolare all’edilizia ‐ è un settore
fortemente condizionato dalla stagionalità, dal ciclo
biologico e dall’esposizione ad eventi meteorologici:
per tali motivi anche i rapporti di lavoro conclusi tra i
lavoratori subordinati e i datori di lavoro agricoli
“soffrono” dell’eccezionalità del settore stesso. È
noto, infatti, che la fattispecie contrattuale
maggiormente diffusa nel richiamato settore è il
contratto di lavoro a tempo determinato: tale
situazione può apparire in contrasto con il richiamo
contenuto nell’art.1, co.1, lett.a) della L. n.92/12,
recante “Disposizioni in materia di riforma del
mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”,
meglio conosciuta come Riforma Fornero, che
ricorda come il contratto a tempo indeterminato sia
da ritenere il contratto dominante. E proprio alla luce
di quest’ultimo intervento legislativo pare oppor‐
tuno, per gli operatori del diritto, interrogarsi se la
tipologia contrattuale citata subisca un’eventuale
limitazione oppure, stante la specialità del settore,
continui a potersi applicare senza limitazione alcuna.
Prima di addentrarci nella disamina della
problematica, però, pare opportuno richiamare
alcune definizioni che saranno utili per meglio
comprendere la portata dell’applicazione normativa.
Imprenditore agricolo
Ai sensi dell’art.2135 c.c., si deve intendere
imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti
attività:
coltivazione del fondo; selvicoltura; allevamento di animali;
attività connesse. Si intendono connesse le attività esercitate dirette
alla manipolazione, conservazione, trasformazione,
commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad
oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla
coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento
di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di
beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di
attrezzature o risorse dell’azienda normalmente
impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi
comprese le attività di valorizzazione del territorio e
del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione
e ospitalità come individuate dalla vigente
normativa.
L’Inps59, infatti, riconduce alla figura di imprenditore
agricolo ai fini dell’inquadramento contributivo:
allevamento di animali;
attività di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso;
attività che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine;
le cooperative e i consorzi di imprenditori agricoli.
Sempre l’Istituto previdenziale chiarisce che la
connessione si verifica quando ricorrono, congiunta‐
mente, due presupposti:
di natura soggettiva, nel senso che le attività connesse c.d. tipiche devono essere compiute
dallo stesso imprenditore agricolo, essendo
richiesta l’identità soggettiva fra chi compie una
delle menzionate attività essenziali e l’attività
connessa;
di natura oggettiva, nel senso che tale attività di manipolazione, trasformazione, commercializza‐
zione deve avere ad oggetto prodotti ottenuti
prevalentemente dalla coltivazione del fondo o
del bosco o dall’allevamento di animali.
Nella fattispecie il discrimine è costituito dal fatto
che gli impianti e le strutture produttive destinate
alla manipolazione, trasformazione e alla commercia‐
lizzazione della produzione agricola utilizzano come
materia prima, in modo prevalente, il prodotto
ricavato dall’azienda agricola.
La norma, di seguito, estende la connessione anche
alle attività dirette alla fornitura di beni o servizi
mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o
risorse dell’azienda, normalmente impiegate nell’at‐
tività agricola esercitata, ivi comprese le attività di
valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e
59 Inps, circolare n.34/02.
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33
Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
forestale ovvero di ricezione e ospitalità come
definite dalla legge60 (agriturismo).
Operaio agricolo
Individuati i datori di lavoro è ora necessario
identificare i lavoratori ai quali, come per gli altri
settori, si deve applicare la generale disposizione
contenuta nell’art.2095 c.c., ma, nel caso degli
operai, occorre anche riferirsi alle previsioni
contenute nell’art.12 del D.Lgs. 11 agosto 1993,
n.375. Il citato articolo prevede che gli operai in
agricoltura, agli effetti delle norme di previdenza e
assistenza, siano inquadrabili in lavoratori a tempo
determinato o a tempo indeterminato. La stessa
contrattazione collettiva di settore, sino dal lontano
197261, ha sempre distinto i lavoratori a termine dagli
altri, in quanto si è sempre ritenuta necessaria una
specifica individuazione degli stessi stante le
peculiarità del settore, come evidenziato in
premessa. Invero il patto nazionale definiva, in base
alla contrattazione collettiva, gli operai agricoli a
tempo determinato come “gli operai che, in base alla
L. n.230/1962, sono assunti con rapporto individuale
di lavoro a tempo determinato per l’esecuzione di
lavoro di breve durata” e tale specificazione
appassionò il dibattito giurisprudenziale circa
l’inclusione o meno di tali lavoratori nell’ambito di
applicazione della L. n.230/62, con la conseguenza
che l’inclusione avrebbe portato un notevole
irrigidimento delle causali, le quali consentivano
l’assunzione a termine, ma soprattutto l’impossibilità
di una reiterata proroga o riassunzione del
lavoratore. Peraltro l’art.6 della L. n.230/62
escludeva dal campo di applicazione della norma “i
rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura
e salariati fissi comunque denominati”, senza
escludere espressamente i lavoratori agricoli. Vi è
però da aggiungere come l’art.6 fosse stato svuotato
di significato proprio in seguito al patto del 1972, in
quanto lo stesso aveva fatto confluire i salariati fissi
tra i lavoratori a tempo indeterminato, contribuendo
così a creare ulteriore incertezza circa l’applicazione
della norma, sostanzialmente imitatrice del ricorso al
contratto più tipico del comparto. L’ondivago
orientamento della Corte di Cassazione della Sezione
Lavoro è testimoniata dalle sentenze che si sono
succedute, ex plurimis: Cass. 4 aprile 1978, n.1546;
Cass. 11 aprile 1992, n.4432 e, in senso opposto,
Cass. 24 novembre 1977, n.5122; Cass. 16 dicembre
60 Si veda la L. n.96/06, che ha abrogato la L. n.730/85.
61 Patto nazionale del 10 agosto 1972
1995, n.1287. La medesima contrattazione collettiva,
per tradizione e prassi, pur nell’incertezza dell’orien‐
tamento giurisprudenziale, non ha mai recepito la
normativa dettata dalla L. n.230/62, forse per una
sorta di ritrosia nei confronti della suddetta
disposizione o, più probabilmente, per effetto del
convincimento che la medesima tutela al lavoratore
potesse essere assicurata attraverso l’applicazione
delle norme procedurali in materia di collocamento.
Il dibattito si è protratto per oltre un ventennio, fino
a quando l’intervento delle Sezioni Unite della Corte
di Cassazione ha posto fine alla diatriba sancendo,
con la sentenza del 13 gennaio 1997, n.265,
l’inapplicabilità della disciplina del contratto a
termine al comparto dell’agricoltura. La scelta dei
giudici ermellini si fonda essenzialmente sulla
caratteristica strutturale del lavoro in agricoltura: la
stagionalità, a cui mal si attaglierebbero le condizioni
di carattere “tecnico, produttivo, sostitutivo,
organizzativo62” previste dalla L. n.230/62.
In sostanza il tempo determinato diventa così una
regola e non un’eccezione, come avrebbe invece
voluto il legislatore del 1962, e come, in realtà ‐ si
pensi all’espresso richiamo del contratto
dominante63 ‐ vorrebbe anche il legislatore del 2012.
La Corte di Cassazione ha interpretato in senso
estensivo l’art.6 della L. n.230/62, ammettendo “in
generale e senza alcuna limitazione il lavoro
stagionale agricolo” oltre la previsione del
regolamento di esecuzione (ora abrogato) contenuto
nel DPR n.1525/63, il quale declinava l’elenco delle
attività stagionali rigorosamente escluse dall’applica‐
zione della normativa sul contratto a termine. La
Corte, muovendosi dal convincimento che tra i
salariati fissi, esclusi, come evidenziato in modo
esplicito dalla disciplina di cui alla L. n.230/62,
dovessero essere ricompresi i lavoratori a termine,
ha concluso che tutti i lavoratori operanti nel settore
agricolo dovessero essere non inclusi nelle norme
regolatrici del contratto a termine. In ultimo i giudici
hanno ritenuto che il lavoratore sia parimenti
tutelato dalle formalità procedurali e dalle
prescrizioni64 dettate in tema di collocamento, in
quanto onerano il datore di lavoro di indicare la
durata del rapporto nella sua richiesta all’ufficio del
lavoro e assicurano al lavoratore la comunicazione
dell’atto di avviamento. L’interpretazione estensiva
62 Art. 3 Legge 18 aprile 1962, 230
63 Art.1, co.1, lett.a), L. n.92/12.
64 Legge 11 marzo 1973, n.83, abrogata dall’art.8, D.Lgs. 19
dicembre 2002, n.297.
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Approfondimenti
Giurista del Lavoro il
della Corte è stata ripresa anche nella formulazione
dell’art.10, co.2 del D.Lgs. n.368/01, stabilendo che:
“sono esclusi dalla legge i rapporti di lavoro tra i
datori di lavoro dell’agricoltura e gli operai a
tempo determinato così come definiti dall’art. 12
comma 2, del D.Lgs. n. 375/1993”.
L’espresso richiamo al D.Lgs. n.375/93 elimina ogni
possibile equivoco circa l’ambito di applicazione delle
norme relative al collocamento dei lavoratori agricoli,
prevedendo che: “ai fini della distinzione di cui al
comma primo le locuzioni di salariato fisso a
contratto annuo e categorie similari contenute nelle
leggi, atti aventi forza di legge ed atti amministrativi
sono equivalenti a quella di operaio a tempo
indeterminato, ferma restando per ogni altra
locuzione l’equivalenza a quella di operaio a tempo
determinato”. La nuova legge, D.Lgs. n.368/01,
accoglie il generale principio della Corte per
“connessione logica estendendolo al settore
produttivo nello stesso art.10, quinto comma
(commercio di esportazione, importazione e ingresso
prodotti ortofrutticoli), nell’ottica di non comprimere
le possibilità occupazionali e lo sviluppo del settore
stesso, collegando le une e l’altro alle vicende
produttive dell’agricoltura con le quali
interagiscono65”. L’esclusione sopra evidenziata
porta la non applicabilità di altre previsioni
contenute nel D.Lgs. n.368/01.
65 Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare n.42/02.
In particolare quella introdotte dalla L. n.247/07,
ovvero indicare per iscritto le ragioni all’apposizione
del termine la cui mancanza porterebbe,
nell’ordinarietà dei casi, la conversione del contratto
a tempo indeterminato. Oltre a questo si ricorda che
non sono applicabili nemmeno le limitazioni riferite
alla proroga del contratto, agli intervalli
(recentemente ritoccati dalla L. n.92/12) in caso di
successione di contratti, nonché le limitazioni
quantitative all’assunzione di operai a tempo
determinato. Per completezza giova ricordare che,
per contro, tutte le disposizioni sopra elencate per
cenni sono integralmente applicabili agli altri
lavoratori del settore agricolo (impiegati, quadri e
dirigenti) assunti a termine. Va da sé che le
indicazioni a cui sottostare per la corretta stipula di
un contratto di lavoro subordinato a termine con un
operaio sono quelle contenute negli accordi
sindacali, nazionali o territoriali. In conclusione si può
ritenere che la possibilità di assumere lavoratori a
termine al di fuori dell’ambito di applicazione del
D.Lgs. n.368/01 sia riservata esclusivamente ai datori
di lavoro dell’agricoltura, come infradescritti, e non
possa essere di appannaggio anche di quei datori di
lavoro che applicano, per scelta unilaterale, il
contratto collettivo del settore, ma non svolgano
effettivamente un’attività del comparto, stante la
particolare natura del lavoro da eseguire.
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Clausole e accordi nel rapporto di lavoro
Giurista del Lavoro il
Il controllo a distanza dei lavoratori: interpretazioni giurisprudenziali dell’art.4 dello Statuto dei Lavoratori e possibili deroghe della contrattazione di prossimità a cura di Alberto Russo – Ricercatore di diritto del lavoro ‐ Fondazione Marco Biagi
L’articolo dà conto dei principali orientamenti giurisprudenziali sulla disciplina di cui all’art.4 dello Statuto dei
Lavoratori, rilevando come ancora oggi tale norma sia saldamente al centro del sistema prevenzionistico e
repressivo in materia di controlli a distanza dei lavoratori, anche dopo l’entrata in vigore del c.d Codice della
privacy. In particolare l’autore si sofferma ad analizzare criticamente la recente sentenza della Cassazione Penale
n.22611 dell’11 giugno 2012, che ha stabilito che l'acquisizione, da parte del datore di lavoro, del consenso di tutti i
dipendenti costituisce valido criterio alternativo all’accordo sindacale. Infine, vengono individuati i possibili spazi di
intervento della contrattazione di prossimità ex art.8 L. n.148/11 in materia di controlli a distanza.
Premessa
In materia di controlli a distanza dei lavoratori,
sebbene l’attuale contesto lavorativo sia oramai
dominato dalle c.d nuove tecnologie, le cui
potenzialità di controllo sembrano decisamente più
subdole e in questo senso più pericolose rispetto ai
tradizionali sistemi di videosorveglianza, tuttavia, la
“vecchia” norma statutaria di cui all’art.4, L.
n.300/70, pare ancora vitale, rimanendo saldamente
al centro del sistema prevenzionistico e repressivo
anche dopo l’entrata in vigore del c.d Codice della
privacy (D.Lgs. n.196/03).
Le ragioni di una simile vitalità si individuano
nell’elasticità del relativo campo di applicazione. Il
legislatore del 1970 infatti, non potendo avere una
piena conoscenza dei futuri cambiamenti tecnologici,
ha avuto l’accortezza di lasciare indeterminato il
riferimento ai sistemi di controllo, utilizzando a
fianco della specifica nozione degli impianti
audiovisivi l’espressione “altre apparecchiature”.
Resta inoltre la considerazione che la relativa
disciplina, divisa tra divieto assoluto per i controlli
intenzionali e divieto flessibile per i controlli non
finalizzati alla vigilanza e autorizzati dal sindacato o
dall’autorità amministrativa, configura un sistema a
struttura aperta in grado di bene adattarsi alle
esigenze del mutato contesto organizzativo/
produttivo.
La nozione di controllo a distanza ex art.4 St. Lav.
La nozione di controllo a distanza di cui all’art.4 St.
Lav. non sembra possedere un’autonoma valenza
giuridica, dovendo infatti necessariamente collegarsi
con una precisa modalità di controllo e cioè l’uso di
impianti audiovisivi e/o di altre apparecchiature. Ne
è del resto prova il fatto che la giurisprudenza
pressoché unanime considera estraneo al
menzionato art.4 il controllo c.d umano, ritenendo
che la relativa disciplina sia riferita esclusivamente
all'uso di apparecchiature, non incidendo quindi sul
potere dell'imprenditore, ai sensi degli artt.2086 e
2014 c.c., di controllare direttamente o mediante la
propria organizzazione gerarchica l'adempimento
delle prestazioni lavorative e, quindi, di accertare
mancanze specifiche dei dipendenti, già commesse o
in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente
dalle modalità del controllo, che può legittimamente
avvenire anche occultamente66.
Riguardo alla nozione di apparecchiature, non pone
alcun problema il riferimento agli impianti
audiovisivi, intendendo con ciò tutti quei macchinari
che permettono di acquisire una diretta conoscenza
dell’attività svolta dai dipendenti. Da evidenziare che,
secondo la giurisprudenza prevalente, il divieto di
controllo non è circoscritto alla sola attività
lavorativa, estendendosi anche al più ampio concetto
di “attività dei lavoratori”. Sono stati conseguente‐
mente ritenuti rientranti nell’ambito di applicazione
dell’art.4 St. Lav. i sistemi di videosorveglianza
installati in luoghi riservati esclusivamente ai
lavoratori, benché non destinati all’attività
lavorativa, quali i bagni, spogliatoi, docce, armadietti
e luoghi ricreativi67. Non comprese e quindi
utilizzabili a fini probatori dal datore sono, per
converso, le registrazioni audiovisive effettuate fuori
dall'azienda da un soggetto terzo, del tutto estraneo
all'impresa68.
Più problematico si presenta il riferimento alle “altre
apparecchiature”. La giurisprudenza sembra utilizza‐
re un criterio estensivo, escludendo soltanto quegli
strumenti che non presentano alcuna potenzialità di
invadenza o che, per essere attivati, richiedono
l’intervento di un operatore69.
66 Cfr da ultimo Cass.18 novembre 2010, n.23303.
67 Cfr in particolare Cass. 16 settembre 1997, n.9211.
68 Vedi Cass, 28 gennaio 2001, n.2117.
69 Cfr Trib. Campobasso, 23 gennaio 2003.
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Clausole e accordi nel rapporto di lavoro
Giurista del Lavoro il
Sono per converso da considerarsi comprese tutte
quelle apparecchiature idonee a determinare
l’ubicazione del lavoratore. Si pensi ai badge con
tecnologia denominata RFID (radio Frequency
Identification) o agli impianti satellitari inseriti nelle
auto aziendali. Recentemente la giurisprudenza di
legittimità ha addirittura incluso nella disciplina
statutaria l’utilizzo di badge che consentono la mera
registrazione delle ore di entrata e di uscita dal luogo
di lavoro70.
Compresi tra le “altre apparecchiature” sono anche i
centralini telefonici in grado di registrare e riprodurre
su tabulati i numeri telefonici chiamati, la data, l’ora
e la durata delle conversazioni71.
Comprese, altresì, sono tutte le strumentazioni
hardware e software che consentono di controllare i
lavoratori che utilizzano personal computer e/o
sistemi di comunicazione elettronica.
La giurisprudenza di merito, già in alcune pronunce
degli anni ‘80 e ’90, si era espressa in questo senso72.
Il quadro, peraltro, non era affatto omogeneo, non
essendo rare pronunce di segno opposto73, che
hanno riconosciuto al datore di lavoro la possibilità di
controllare gli accessi a internet del lavoratore, senza
richiedere che la registrazione dei dati fosse
avvenuta nel rispetto della normativa statutaria, sul
presupposto implicito che la registrazione dei file di
log costituisce caratteristica connaturata allo
strumento aziendale.
Un contributo risolutore è giunto dal Garante della
Privacy che, nelle Linee guida per posta elettronica e
internet del 1° marzo 2007, ha chiarito che l’utilizzo
di strumenti hardware e software che consentono un
controllo indiretto sull’attività dei lavoratori possa
essere considerato legittimo solo se rispondente a
una finalità di gestione, manutenzione e sicurezza del
sistema informatico aziendale e autorizzato secondo
le modalità di cui all’art.4, co.2 St. Lav..
Recentemente, la stessa giurisprudenza di legittimi‐
tà74, pronunciandosi per la prima volta sul controllo
informatico del lavoratore, si è attestata sulle
posizioni del Garante, affermando che i programmi
informatici che consentono un monitoraggio della
posta elettronica e degli accessi a internet devono
70 Vedi Cass. 17 luglio 2007, n.15892.
71 Vedi fra le tante Trib. Roma, 4 giugno 2005. È però considerata superflua l’applicazione dell’art.4, co.2, St. Lav., quando le centraline non consentano l’identificazione del lavoratore. Vedi sul punto Pret. Milano, 4 ottobre 1988. 72 Cfr Pret. Milano, 5 dicembre 1984, Pret. Pisa 25 giugno 1992,
App. Milano 30 settembre 2005. 73 Cfr in particolare Trib. Perugia, 20 febbraio 2006.
74 Cass. 23 febbraio 2010, n.4375.
necessariamente ricondursi alla menzionata fattispe‐
cie statutaria.
Fuori dall’ambito di applicazione della disposizione in
esame sono invece i c.d. controlli difensivi, almeno
nella misura in cui siano volti ad accertare
esclusivamente le condotte illecite del lavoratore
(vedi infra).
Controlli consentiti e controlli non consentiti
Come già detto, l’art.4 St. lav. prevede due
fattispecie di divieto: un divieto assoluto in relazione
all’istallazione di apparecchiature preordinate al
controllo dell’attività dei lavoratori e un divieto
flessibile con riferimento a quelle apparecchiature
installate per esigenze organizzative o produttive
ovvero per esigenze di sicurezza del lavoro.
La differenza tra le due ipotesi è data dall’elemento
psicologico della non intenzionalità del controllo e
dal fatto che esso scaturisce da una possibile
modalità di utilizzazione dell’apparecchio, giustificata
da altre esigenze. In questo caso, il legislatore ne
consente l’utilizzo a condizione che vi sia stato un
accordo sindacale con le rappresentanze sindacali o,
in assenza, con la commissione interna. Ove
l’accordo non venga raggiunto resta la possibilità del
datore di chiedere l’autorizzazione all’Ispettorato del
lavoro.
Da evidenziare che la procedura autorizzatoria
sindacale o amministrativa non può comunque
sanare l’uso di apparecchiature preordinate al
controllo dell’attività lavorativa. Indicativa in questo
senso è una pronuncia della Corte di Appello di
Firenze del 200975, ove si è affermato che deve
ritenersi vietato dall'art.4 St. Lav. il sistema
informatico utilizzato da un'azienda, allorquando tale
sistema consenta contestualmente il controllo a
distanza dei singoli lavoratori, senza che tale
controllo appaia strettamente necessario all'ottimiz‐
zazione dell'attività produttiva, anche se sia
intervenuto in proposito l’accordo sindacale.
Riguardo i requisiti della procedura autorizzatoria
occorre sottolineare che il datore di lavoro non si
può rivolgere subito all’autorità amministrativa,
dovendo prima tentare di raggiungere un’intesa con
il sindacato. Il mancato esperimento di un simile
tentativo può costituire condotta antisindacale ex
art.28 St. Lav.76. Peraltro non sembra che una siffatta
omissione possa rendere a priori inefficace
l’autorizzazione amministrativa. Infatti la possibilità
75 App Firenze, 20 ottobre 2009.
76 Si veda Pret. Cividale Friuli, 2 dicembre 1995, Pret. Roma, 13
gennaio 1988.
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Clausole e accordi nel rapporto di lavoro
Giurista del Lavoro il
del sindacato di impugnare il provvedimento
amministrativo entro 30 giorni dalla comunicazione
dello stesso provvedimento sembra riportare in
equilibrio il sistema. Sul punto peraltro non si
ravvisano precedenti giurisprudenziali.
Scarne sono anche le pronunce sui requisiti
dell’accordo sindacale. Secondo una giurisprudenza
ormai risalente77, l’accordo dovrebbe essere
stipulato, in assenza di RSU, con tutte le
rappresentanze sindacali. Più condivisibile peraltro il
prevalente orientamento dottrinale, secondo cui
sarebbe sufficiente un accordo con soggetti
rappresentativi della maggioranza del personale78.
Da evidenziare che recentemente la Cassazione
penale, è intervenuta “a gamba tesa” sui requisiti
autorizzatori, di cui al co.2 dell’art.4 St. Lav.,
affermando che l’acquisizione da parte del datore di
lavoro dell'assenso di tutti i lavoratori, attraverso la
sottoscrizione da parte loro di un documento
esplicito, costituisce requisito alternativo al
raggiungimento dell’accordo sindacale. Più precisa‐
mente, secondo la Cassazione
“se è vero che non si trattava nè di autorizzazione
della RSU né di quella di una "commissione
interna", logica vuole che il più contenga il meno sì
che non può essere negata validità ad un consenso
chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei
lavoratori e non soltanto da una loro
rappresentanza. Del resto, non risultando esservi
disposizioni di alcun tipo che disciplinino
l'acquisizione del consenso, un diverso opinare, in
un caso come quello in esame, avrebbe un taglio di
un formalismo estremo tale da contrastare con la
logica”79.
Tali affermazioni suscitano non poche perplessità,
soprattutto nella misura in cui hanno come
conseguenza sostanziale quello di appiattire la tutela
della riservatezza del lavoratore sui principi del
consenso specifico, libero e informato stabiliti dal
Codice della privacy, non considerando invece che la
normativa di cui all’art.4 della Statuto individua una
disciplina speciale che si aggiunge alle regole
ordinarie di cui alla L. n.196/03. Indicativo in questo
senso il rilievo operato dai giudici sul fatto che il
datore aveva installato cartelli che segnalavano la
77 Vedi App. Firenze, 14 febbraio 1973.
78 Cfr in particolare A. Cataudella. Sub art. 4, in U. Prosperetti (diretto da), Commentario allo statuto dei lavoratori, Milano, Giuffrè, 1975. 79 Così Cass. pen. 14 aprile 2012, n.22611.
presenza del sistema di videosorveglianza, aspetto
assolutamente irrilevante ai fini della disciplina
statutaria, che non considera quale elemento
scriminante il carattere non occulto del controllo a
distanza80.
Non può del resto in alcun modo condividersi
l’assunto secondo cui la raccolta del consenso
informato di tutti i lavoratori possa logicamente
contenere le funzioni e le prerogative di un accordo
sindacale. Verrebbe in questo modo meno la stessa
funzione del sindacato quale ente esponenziale degli
interessi dei lavoratori, contraddicendo la ratio della
disciplina di cui all’art.4 St. Lav. e, frantumandosi lo
stesso significato di autonomia collettiva, alla base
dei tradizionali rapporti di forza tra impresa e
lavoratori. Appare del resto evidente come la
capacità di negoziazione del contenuto di un accordo
da parte delle rappresentanze sindacali sia senz’altro
più tutelante nei confronti dei lavoratori rispetto alla
mera apposizione di una firma su un documento
predisposto unilateralmente dal datore di lavoro.
Da evidenziare inoltre due profili.
Il primo relativo al fatto che, in ogni caso, la
raccolta del consenso di tutti lavoratori in un unico
documento non costituisce un accordo collettivo, con
la conseguenza che tutto il castello autorizzatorio
cadrebbe se un lavoratore neo assunto non
apponesse la firma su un tale documento.
Il secondo profilo riguarda il rilievo che le
considerazioni dei giudici penali devono essere
comunque lette nell’ambito in cui sono destinate a
produrre efficacia, nel senso quindi di escludere la
responsabilità datoriale dal punto di vista penalistico
per mancanza dell’elemento soggettivo del reato,
non potendo conseguentemente trarsi da tale
pronuncia un’esauriente valutazione sulla non
antigiuridicità della condotta datoriale. Senza contare
che una simile prassi datoriale volta a “saltare” il
sindacato sarebbe fortemente a rischio quantomeno
di condotta antisindacale ex art.28 St. Lav..
Proprio sulle conseguenze derivanti dalla violazione
della disciplina in esame restano da compiere alcune
ulteriori brevi considerazioni.
Sul piano civilistico le conseguenze sono innanzitutto
la rimozione dell’installazione vietata e/o l’inutilizza‐
bilità del dato informativo così acquisito, fermo
80 In questo senso si era del resto espressa la prevalente
giurisprudenza penale. Cfr in particolare Cass. Pen., 15 dicembre 2006, n.8042.
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Clausole e accordi nel rapporto di lavoro
Giurista del Lavoro il
restando il diritto del lavoratore al risarcimento del
danno per violazione del suo diritto alla riservatezza.
Sul piano penale la violazione dell’art.4 St. Lav. è
tuttora sanzionata penalmente dall’art.38 St. Lav.. La
fattispecie è stata solo apparentemente depenaliz‐
zata dall’art.179, D.Lgs. n.196/03, essendo stata
contestualmente reintrodotta dall’art.171, D.Lgs.
n.196/03. La continuità normativa tra le due norme è
stata del resto espressamente confermata dalla
giurisprudenza di legittimità81.
Da evidenziare che la sanzione penale scatta solo con
l’utilizzazione della strumentazione vietata, fermo
restando che la mera installazione può comunque
giustificare la richiesta del lavoratore ‐ al Garante o al
giudice ordinario ‐ di rimozione dell’intera
strumentazione. Ultima considerazione concerne il
rilievo che la verifica di legittimità del controllo a
distanza, deve, soprattutto in ambito informatico,
confrontarsi con la tutela della segretezza della
corrispondenza ai fini di una possibile integrazione
del reato di cui all’art.616 c.p.. La giurisprudenza,
peraltro, sembra sul punto essere piuttosto morbida,
escludendo l’applicabilità del menzionata norma
qualora il datore di lavoro abbia nella sua
disponibilità la password di accesso alla casella di
posta del dipendente, sul presupposto che in questo
caso non potrebbe definirsi “chiusa” la relativa
corrispondenza82.
Sull’utilizzabilità del controllo preterintenzionale
Il controllo preterintenzionale individua un’ipotesi di
utilizzo di strumenti/apparecchiature di controllo
richiesti da esigenze produttive, organizzative o di
sicurezza del lavoro, suscettibili però di determinare
un controllo ‐ appunto preterintenzionale ‐ sull’atti‐
vità lavorativa. A questa categoria appartengono
anche i controlli difensivi (infra) ove derivi una
possibilità di controllo indiretto dell’attività lavora‐
tiva.
In tutti questi casi i controlli, come sopra evidenziato,
rientrano nel regime di divieto flessibile di cui al co.2,
dell’art.4 St.Lav., potendo quindi configurarsi come
legittimi se autorizzati dall’accordo sindacale o
dall’autorità amministrativa.
Tuttavia, una cosa è affermare la legittimità del
ricorso a siffatte apparecchiature, altra cosa è
affermare l’utilizzabilità da parte del datore di lavoro
dei dati acquisiti sulla base dei suddetti controlli
preterintenzionali leciti. Dalla lettera della legge
81 Cass. Pen. 24 settembre 2009, n.40199.
82 Cfr in particolare Cass. Pen., 11 dicembre 2007, n.47096.
sembra evidente che la relativa disciplina riguardi
esclusivamente l’installazione delle apparecchiature,
non rilevandosi conseguentemente alcun effetto
autorizzatorio sull’utilizzabilità dei dati concernenti
l’attività lavorativa. In questo senso sembra orientata
la dottrina prevalente83 e lo stesso Garante della
privacy84. La giurisprudenza, per converso, non
sembra escludere una simile utilizzabilità. La
soluzione affermativa, peraltro, non è affermata in
modo espresso, a quanto consta, in alcuna sentenza,
ma sembra cogliersi a contrario laddove i giudici si
limitano ad escludere l’utilizzabilità dei dati acquisti
esclusivamente a seguito di controlli illeciti85.
I controlli difensivi
Discussa in giurisprudenza è la nozione di controllo
difensivo ai fini della non operatività del divieto di cui
all’art.4. St. Lav..
Con una pronuncia dei giudici di legittimità del
200286 si era statuito che, ai fini dell'operatività del
divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a
distanza dell'attività dei lavoratori, era necessario
che il controllo riguardasse (direttamente o indiretta‐
mente) l'attività lavorativa, mentre dovevano rite‐
nersi certamente fuori dell'ambito di applicazione
della norma i controlli diretti ad accertare condotte
illecite del lavoratore. Nel caso specifico la citata
Cassazione aveva escluso dalle garanzie di cui
all’art.4 St. Lav. l’uso di apparecchi di rilevazione di
telefonate ingiustificate, e, più genericamente, di
sistemi di controllo dell'accesso ad aree riservate.
Naturalmente, anche secondo questa ampia accezio‐
ne di controllo difensivo, il criterio scriminante era in
ogni caso la non ingerenza delle apparecchiature sul
controllo dell’attività lavorativa, non rilevando infatti
la nozione di difensività del controllo sul piano
soggettivo della volontà del datore di lavoro, ma
unicamente sul piano fattuale. Indicativa in questo
senso è la sentenza della Cassazione penale del 28
gennaio 2003, in cui si afferma espressamente che
“commette il reato di cui agli art. 4, comma 2, e 38 l.
20 maggio 1970 n. 300 il datore di lavoro, il quale,
senza preventivo accordo con le rappresentanze
sindacali, abbia installato delle telecamere che,
83 Cfr per tutti N. Lugaresi, Uso di Internet sul luogo di lavoro,
controlli del datore e riservatezza del lavoratore, in P. Tullini (a cura di), Tecnologie della comunicazione e riservatezza nel rapporto di lavoro, 75 ss. 84 Cfr in particolare il provvedimento del Garante del 29 aprile
2004 sulla videosorveglianza. 85 In questo senso si veda in particolare Cass. 16 luglio 2000,
n.8250. 86 Cass. 3 aprile n.2002, n.4746.
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39
Clausole e accordi nel rapporto di lavoro
Giurista del Lavoro il
seppure destinate ad evitare furti, renda possibile il
controllo a distanza dell'attività dei dipendenti”87.
Con la successiva pronuncia del 200788, volta a
sostanziare l'effettività del divieto di cui all'art.4,
co.1, si è poi affermato che il riferimento all'attività
lavorativa, oggetto della fattispecie astratta, non
riguarda solo le modalità del suo svolgimento, ma
anche il quantum della prestazione, il controllo
sull'orario di lavoro, risolvendosi in un accertamento
circa la quantità di lavoro svolto. Più precisamente, la
Cassazione, contraddicendo un consolidato orienta‐
mento della giurisprudenza di merito89, ha affermato
che la liceità del controllo difensivo, implicante la
mera possibilità del datore di verificare la presenza in
azienda, è comunque condizionata alla sussistenza di
un accordo sindacale o di un’autorizzazione ammini‐
strativa.
Da ultimo, la giurisprudenza di legittimità90 ha
ulteriormente esteso il campo di applicazione del
predetto art.4, comprendendo nel suddetto anche i
controlli c.d. difensivi diretti ad accertare comporta‐
menti illeciti dei lavoratori, quando tali comporta‐
menti riguardino l'esatto adempimento delle
obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non
la tutela dei beni estranei al rapporto stesso. Da
evidenziare inoltre che nella giurisprudenza più
recente, non solo penale91, sembra consolidarsi
l’opinione secondo la quale le potenzialità di un
controllo indiretto sull’attività lavorativa non
determinano l’illegittimità del controllo difensivo
qualora questi non abbia carattere preventivo, ma
sia volto a precostituire la prova dell’illecito. Si veda
in questo senso la sentenza di Cassazione del
febbraio 201292, che ha escluso l’operatività dell’art.4
St. Lav. in relazione a un’attività di controllo sulle
strutture informatiche aziendali, avendo il datore
compiuto il predetto accertamento ex post, ovvero
dopo l'attuazione del comportamento addossato al
dipendente, quando erano emersi elementi di fatto
tali da raccomandare l'avvio di un'indagine retrospet‐
tiva.
Resta infine da chiarire che, anche laddove i controlli
assumano carattere difensivo e, quindi, siano fuori
87 Cass. pen. 28 gennaio 2003, n.10268.
88 Cass. 17 luglio 2007, n.15892.
89 Ancora, recentemente vedi Trib Napoli 23 settembre 2010, secondo cui non rientra nella fattispecie prevista dal co.2 dell'art.4 St. Lav., non potendosi qualificare come strumento di controllo a distanza, un'apparecchiatura di rilevamento delle presenze attivata mediante tessera magnetica (badge). 90 Vedi Cass. 23 febbraio 2010, n.4375.
91 Si veda in particolare Cass. pen. 12 luglio 2011, n.34842.
92 Cass. 23 febbraio 2012, n.2722.
dall’ambito di applicazione dell’art.4 St. Lav., resta
però la necessità di dover comunque rispettare la
normativa generale della privacy, potendo il relativo
controllo difensivo risultare illecito per una
violazione del principio di necessità e dei principi di
pertinenza e non eccedenza di cui, rispettivamente
agli artt.3 e 11 del codice93.
Le possibili deroghe della contrattazione di
prossimità in materia di impianti audiovisivi e
introduzione di nuove tecnologie
Secondo l’art.8, co.2, L. n.148/11 le specifiche intese
possono riguardare la regolazione delle materie
inerenti l'organizzazione del lavoro e della
produzione con riferimento (anche) agli impianti
audiovisivi e all’introduzione di nuove tecnologie.
La formulazione, in linea teorica, si presta bene a
un’interpretazione estensiva, potendo comprendere
tutti quei profili ‐ si pensi innanzitutto alle regole in
materia di salute e sicurezza ‐ attinenti alla gestione
degli strumenti tecnologici nei luoghi di lavoro. In
questa ampia prospettiva qualche dubbio potrebbe
semmai sorgere su quale significato attribuire alla
perifrasi “introduzione di nuove tecnologie”, non
escludendosi a priori, quale opzione interpretativa,
l’impossibilità di regolamentazione aziendale, ai sensi
e agli effetti della L. n.148, in assenza di un
cambiamento tecnologico all’interno dell’azienda.
Decisamente più plausibile, tuttavia, è che il
legislatore abbia voluto, più semplicemente, riferirsi
al sempre più frequente utilizzo della c.d. information
tecnology nell’ambito delle modalità di produzione e
organizzazione del lavoro.
Ma se così è, leggendo congiuntamente la locuzione
“nuove tecnologie” con la nozione, invero più
specifica, di “impianti audiovisivi” ne scaturisce un
evidente restringimento dell’iniziale ipotesi
interpretativa, riducendosi il riferimento legislativo in
esame alla “sola” autorizza‐zione, gestione di
apparecchiature e/o strumen‐tazioni aventi
implicazioni di controllo a distanza dell’attività di
lavoro, in sostanziale sovrapposizione con la materia
disciplinata dall’art.4 dello Statuto dei lavoratori. Si è
così paventato, tra le tante minacce dell’art.8, il
rischio specifico che una determinata intesa possa, in
deroga al menzionato art.4, prevedere che il
93 Con riferimento ai controlli di internet e della posta elettronica,
si vedano le linee guida 2007 del Garante, in cui si è stabilito il criterio della graduazione dei controlli.
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Clausole e accordi nel rapporto di lavoro
Giurista del Lavoro il
?
lavoratore sia “in ogni suo movimento (…) controllato
istante per istante da un impianto audiovisivo”94.
Un simile rischio non sembra peraltro sussistere, non
tanto in virtù di una apodittica fiducia nel sindacato,
ma in quanto è lo stesso legislatore a ricordare
espressamente il limite del rispetto delle garanzie
costituzionali, non essendovi alcun dubbio che
l’ipotesi sopra prospettata si configurerebbe in
palese violazione dei principi di dignità umana e di
libertà personale di cui agli artt.2 e 13 della
Costituzione, espressamente sovraordinati ex art.41,
co.2 Cost., al principio di libertà di iniziativa
economica95.
Se, infatti, in linea teorica, può condividersi
l'opinione secondo cui la verifica della correttezza
dell'adempimento della prestazione non è in sé lesiva
della dignità del lavoratore96, una siffatta afferma‐
zione non può invece reggere se riferita a un
controllo continuativo e ininterrotto. Senza contare
che in questo caso emergerebbero anche rilevanti
profili di tutela della riservatezza.
Si noti del resto che nella delega legislativa di cui al
co.2 non è ravvisabile l’attribuzione di un potere
diretto all’autonomia collettiva in materia di privacy
del lavoratore ‐ la cui regolamentazione è peraltro di
stretta derivazione comunitaria ‐ ma solo la possibi‐
lità di individuare e conseguentemente regolamen‐
tare i profili di organizzazione aziendale compatibili
con i suddetti principi costituzionali.
Si osservi in questo senso l’assenza di soluzione di
continuità con la disciplina di cui all’art.4 dello
Statuto dei lavoratori. Se si confronta la struttura
delle due norme si constata, infatti, che i presupposti
dell’intervento sindacale sono sostanzialmente
interscambiabili, non trovandosi significative dif‐
ferenze tra il generale concetto di esigenze
organizzative e produttive di cui all’art.4, co.2 St.Lav.
e le finalità di cui al co.1 dell’art.8, D.Lgs. n.138/11,
senza contare che è lo stesso co.2 dell’art.8 a riferire
la delega legislativa alle esigenze dell’organizzazione
del lavoro e della produzione.
Quali allora le (possibili) differenze?
Nessuna sul piano dell’efficacia della regolamen‐
tazione aziendale, in quanto gli accordi ex art.4, co.2
94 Così L. Gallino, La minaccia dell’articolo 8, in “La Repubblica” del
15 settembre 2011. 95 Sul punto vedi in particolare R. Casillo, La dignità nel rapporto di
lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 71/2008. 96 Cfr. in particolare G. Pera, Libertà e dignità dei lavoratori, in
NDI., IV, Utet, 1982, p. 896 ss
St.Lav. sono stati inquadrati dalla pressoché unanime
giurisprudenza nella categoria dei contratti gestionali
applicabili, quindi a tutti i lavoratori indipenden‐
temente dalla loro affiliazione sindacale. Una
differenza, se non altro in una prospettiva di certezza
del diritto, si individua però in relazione ai criteri di
formazione dell’accordo, prevedendo l’art.8 la
sufficienza del criterio maggioritario, laddove invece
l’art.4 dello Statuto non chiarisce se il riferimento al
“previo accordo con le rappresentanze sindacali
aziendali” implichi o meno l’unanime consenso di
tutte le Rsa.
Sul piano dei contenuti, l’art.8 potrebbe forse
consentire un parziale allentamento delle rigidità
dell’attuale sistema. Non sembrano però condivisibili
le generiche affermazioni secondo le quali gli accordi
di prossimità potrebbero consentire forme di
controllo occulto97. Non si comprende invero, quale
possa essere l’oggetto di un siffatto controllo. Da
escludere, infatti, che esso possa tradursi in una
qualsiasi forma di intercettazione ‐ ambientale,
telefonica o telematica ‐ delle comunicazioni del
prestatore all’interno del luogo di lavoro, e ciò non
solo ai fini della verifica dell’esatto adempimento, ma
anche ai fini dell’accertamento di condotte illecite
del lavoratore.
Uno spazio potrebbe però individuarsi con riferi‐
mento ai suddetti controlli difensivi. Attualmente, la
prevalente giurisprudenza riconosce, come già
evidenziato, la legittimità dei controlli diretti alla
tutela di beni estranei al rapporto lavorativo. Si
pensi, in particolare, ai sistemi di controllo
sull’accesso ad aree riservate o agli strumenti di
rilevazione di telefonate ingiustificate. In questa
prospettiva, l’accordo aziendale potrebbe valorizzare
una nozione estesa di controllo difensivo, sull’onda di
quanto già affermato da alcune sentenze di merito98,
al fine di impedire non solo l’uso di strumenti vietati,
ma anche l’abuso di strumenti di per sé consentiti.
Si potrebbero quindi legittimare sistemi di rivelazione
non solo dei numeri telefonici chiamati, ma anche
della durata delle relative telefonate, ovvero
legittimare sistemi in grado di quantificare la durata
degli accessi a internet. Tuttavia, al fine di evitare un
utilizzo distorto e lesivo dei principi di dignità del
97 Così A. Perulli, V. Speziale, L’articolo 8 della legge 14 settembre
2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT ‐ 132/2011, 46. Gli stessi autori, peraltro, evidenziano la sussistenza di un possibile contrasto con la tutela della privacy sancita in Direttive europee e nella stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia. 98 Si veda in particolare Trib. Torino 9 gennaio 2004, 131 e
analogamente Trib. Milano 31 marzo 2004.
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Clausole e accordi nel rapporto di lavoro
Giurista del Lavoro il
lavoratore, l’accordo dovrebbe consentire la verifica,
sulla base di criteri predefiniti dalla stessa intesa
sindacale, sull’esempio di quanto già previsto dal
legislatore in materia di visite personali di controllo
ex art.6 St. Lav..
L’accordo aziendale potrebbe, infine, in funzione di
certezza del diritto, consentire l’utilizzo delle
informazioni ‐ sempre che non riguardino dati
sensibili ‐ che il datore di lavoro abbia acquisito
accidentalmente e con modalità non lesive dei diritti
primari del lavoratore (i c.d. controlli preterinten‐
zionali).
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Gestione delle controversie di lavoro Giurista del Lavoro il
I riflessi sul piano ispettivo delle ultime novità in materia di partite Iva a cura di Fabrizio Nativi – Componente Centro Studi attività ispettiva del Ministero del Lavoro* Come noto, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha recentemente adottato il decreto ministeriale 20 dicembre
2012, che opera la ricognizione delle figure professionali escluse dal regime di presunzioni previste dall’art.69‐bis del
D.Lgs. n.276/03, introdotto dall’art.1, co.26, della L. n.92/12. Tempestivamente la Direzione Generale per l’attività
ispettiva ha emanato la circolare n.32 del 27 dicembre 2012, che esprime la posizione interpretativa ministeriale, cui
deve attenersi il personale ispettivo del Ministero del Lavoro e degli Enti previdenziali.
La sintesi della disposizione di legge
L’art.1, co.26, della L. n.92/12, inserendo nel D.Lgs.
n.276/03 l’art.69‐bis, rubricato “altre prestazioni
lavorative rese in regime di lavoro autonomo”, si
propone di contrastare un uso distorto e non genuino
dei contratti di lavoro autonomo stipulati con soggetti
titolari di partita Iva. La norma è stata oggetto di
modifiche per opera dell’art.46‐bis, co.1, lett.c) del
D.L. n.83/12 (Decreto Sviluppo), inserito con la legge di
conversione 7 agosto n.2012, n.134, ed entrato in
vigore il 12 agosto 2012.
L’art.69‐bis, co.1, prevede che le prestazioni lavorative
rese da persona titolare di posizione fiscale ai fini Iva
siano considerate rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa, salvo che non sia fornita
prova contraria da parte del committente, quando
ricorrano almeno due dei seguenti presupposti:
a) che la collaborazione con il medesimo committente
abbia una durata complessiva superiore a otto mesi
annui per due anni consecutivi;
b) che il corrispettivo derivante dalla collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al
medesimo centro di imputazione di interessi,
costituisca più dell’80% dei corrispettivi annui
complessivamente percepiti dal collaboratore
nell’arco di due anni solari consecutivi;
c) che il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente.
Campo di applicazione
Come suggerito dalla rubrica dell’articolo di legge, la
disposizione opera almeno nei confronti dei soggetti
titolari di partita Iva che prestano attività di lavoro, in
autonomia, ai sensi dell’art.2222 c.c..
La figura tipica cui si rivolge il legislatore sembra
essere quella del prestatore di lavoro autonomo che
Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
esercita generalmente la propria attività con il lavoro
prevalentemente personale e senza impegnare
un’organizzazione di beni o di persone.
La norma tuttavia, per la sua genericità, appare
astrattamente applicabile anche alle attività esercitate
sotto forma di impresa artigiana, agricola, o
commerciale. In questi casi la produzione di beni o di
servizi è realizzata attraverso un’organizzazione di beni
o persone che, nel caso del piccolo imprenditore,
potrà risultare soccombente rispetto al lavoro
prevalentemente proprio o della propria famiglia, ma
che sarà comunque apprezzabile, e non irrilevante,
come nel caso del semplice lavoratore autonomo. La
rubricazione della nuova norma avrebbe potuto
indurre ad escludere i soggetti imprenditori dal campo
di applicazione della norma. L’art.69‐bis, in rubrica,
recita infatti “altre prestazioni lavorative rese in
regime di lavoro autonomo” e la norma è collocata
all’interno del Titolo VII del D.Lgs. n.276/03 (rubricata
“tipologie contrattuali a progetto e occasionali”), in
particolare all’interno del Capo I (rubricato “lavoro a
progetto e lavoro occasionale”).
La lettura ministeriale, comunque, non esclude i
soggetti imprenditoriali dal campo di applicazione
dell’art.69‐bis: la citata circolare n.32/12 considera
interessati i “soggetti che intraprendono l’esercizio di
un’impresa, arte o professione nel territorio dello
Stato, o vi istituiscono una stabile organizzazione”.
Non va tuttavia trascurato che la disposizione non
interessa genericamente tutte le attività commerciali
poste in essere da un soggetto titolare di partita Iva,
ma riguarda soltanto le “prestazioni lavorative rese da
persona titolare di posizione fiscale” ai fini Iva: infatti
la circolare sottolinea che la sfera di efficacia della
disposizione coinvolge imprese, lavoratori autonomi o
lavoratori che, ai sensi dell’art.2222 c.c., si obbligano
“a compiere verso un corrispettivo un’opera o un
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gennaio 2013
43
Gestione delle controversie di lavoro Giurista del Lavoro il
servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza
vincolo di subordinazione nei confronti del
committente”.
Il regime di presunzione relativa
La circolare ministeriale in proposito premette che,
almeno con riferimento alle prime due condizioni
indicate dalla legge, la verifica ispettiva potrà
constatarne il realizzarsi soltanto “a posteriori” e cioè
con riguardo a un periodo di dodici mesi già concluso.
a) Durata della collaborazione
Quanto al primo presupposto, indicato alla lett.a) del
co.1, e cioè alla durata della collaborazione,
riferendosi la disposizione a un periodo superiore a
otto mesi annui per due anni consecutivi, la circolare
chiarisce che il periodo è da individuarsi nell’ambito
dell’anno civile di calendario, e cioè dal 1° gennaio al
31 dicembre.
Quanto alla misurazione del periodo di collaborazione,
il Ministero prende a base di calcolo la durata
convenzionale di un mese, pari a 30 giorni,
concludendo che il periodo possa essere quantificato
in almeno 241 giorni, anche non continuativi.
La durata della collaborazione non è quindi
commisurata alle giornate di effettivo impegno, ma
all’arco temporale di riferimento per lo svolgimento
della prestazione. Il personale ispettivo dovrà tenere
in considerazione, anzitutto, le informazioni acquisibili
da elementi documentali, come lettere di incarico,
contratti o fatture. La circolare non esclude che il
personale ispettivo potrà trarre informazioni da
elementi di carattere testimoniale, assunti da altri
lavoratori o da terzi. Tale metodologia risulterà
necessaria quando manchino elementi istruttori di
carattere documentale, ovvero quando questi ultimi,
pur presenti, si rivelino assolutamente infedeli.
Sempre con riferimento al primo presupposto, la
circolare continua precisando che lo stesso potrà
essere oggetto di valutazione solo alla fine dell’anno
2014, tenuto conto che il primo anno civile intero,
successivo all’entrata in vigore della legge (18 luglio
2012), è appunto il 2013.
b) Corrispettivo derivante dalla collaborazione
In ordine al secondo presupposto, di cui alla lett.b) del
co.1, e cioè al corrispettivo derivante dalla
collaborazione, la circolare circoscrive il calcolo ai soli
corrispettivi derivanti da prestazioni di lavoro
autonomo, considerando che la norma si riferisce
letteralmente alla fatturazione dei compensi. Sono
esclusi quindi dal computo i compensi da lavoro
subordinato, o accessorio, ma anche altre quote di
corrispettivo, derivanti dall’esecuzione di contratti
commerciali che non hanno comportato la prestazione
di lavoro autonomo da parte del titolare della partita
Iva come, ad esempio, le cessioni di beni.
Una delle principali criticità applicative della lett.b)
deriva dal riferimento letterale della norma ai
corrispettivi “percepiti”, e non a quelli fatturati.
L’andamento imprevisto dei pagamenti, soprattutto in
un periodo di forte sofferenza finanziaria di molti
operatori economici, potrebbe comportare l’entrata
nell’ambito di applicazione dell’art.69‐bis, a causa di
comportamenti di terzi, non controllabili direttamente
dal soggetto titolare di partita Iva. Il superamento
della soglia dell’80% dei corrispettivi percepiti
potrebbe cioè derivare non dalla mancanza di
pluricommittenza, ma dal contestuale mancato, o
ritardato, pagamento dei corrispettivi da parte di una
pluralità di committenti. La circolare, opportuna‐
mente, al fine di non vanificare la finalità della
disposizione, accede a un’interpretazione non letterale
della disposizione e afferma che, per valutare le
situazioni di monocommittenza, ci si debba riferire ai
corrispettivi “comunque fatturati”, indipendente‐
mente dall’effettivo incasso.
Quanto all’arco temporale di riferimento della lett.b),
il Ministero osserva che in questo caso la regola
abbraccia due anni “solari” consecutivi e, conseguen‐
temente, due periodi di 365 giorni, non
necessariamente coincidenti con l’anno civile. Qualora
tale presupposto debba essere fatto valere
unitamente al presupposto di messa a disposizione di
una postazione fissa presso una sede del committente,
i periodi cui fare riferimento potranno pertanto
decorrere da qualunque data dell’anno.
ESEMPIO
La circolare esemplifica il caso in cui un collaboratore il
quale, alla data del 31 marzo 2016, voglia dimostrare il
verificarsi del presupposto di cui alla lett.b),
documentando la percezione (da intendersi come
fatturazione), in forza di una medesima
collaborazione, dell’80% del totale di corrispettivi, in
ciascuno dei due precedenti periodi 31 marzo 2015–30
marzo 2016 e 31 marzo 2014–30 marzo 2015. La
circolare non lo precisa, ma dovrebbe presumersi che
la data ipotizzata del 30 marzo 2016 coincida con la
data dell’emissione di una fattura, probabilmente
quella determinante per il superamento della soglia
dell’80% dei corrispettivi, e quindi per l’avveramento
della condizione di cui alla lett.b).
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44
Gestione delle controversie di lavoro Giurista del Lavoro il
Quando, viceversa, la condizione di cui alla lett.b)
voglia essere fatta valere in combinazione con la
condizione di cui alla lett.a), il Ministero ritiene che il
criterio dell’anno civile, adoperato appunto per la
valutazione di durata delle collaborazioni, attragga
necessariamente anche il criterio reddituale e che
quindi, in tale ipotesi, i periodi di riferimento siano dal
1° gennaio al 31 dicembre di due anni consecutivi,
anche ai fini della quantificazione dei corrispettivi
fatturati. La conclusione appare coerente, ed evita che
un collaboratore rivendichi una monocommittenza e
quindi un rapporto di lavoro parasubordinato, non per
avveramento contemporaneo di due condizioni (lett.a)
e lett.b)), ma per l’avveramento in successione
temporale di due condizioni e, magari, in relazione a
contratti e collaborazioni diverse. È tuttavia da
considerare che, in pratica, gli adempimenti di
fatturazione riferiti a prestazioni avvenute nella fase
finale di un determinato anno civile si collocano
temporalmente nell’anno civile successivo e che,
quindi, il potenziale sfasamento temporale fra i criteri
di cui alla lett.a) e alla lett.b) risulterebbe coerente,
purché correlabile ai medesimi contratti.
Il legislatore fa rientrare nel calcolo i compensi dovuti
da più soggetti, comunque “riconducibili al medesimo
centro d’imputazione di interessi”, la cui configura‐
zione può determinare per sommatoria l’eventuale
superamento della soglia della semi‐monocommit‐
tenza pari all’80% dei corrispettivi percepiti. La
circolare n.32/12 rinvia ad alcuni recenti orientamenti
giurisprudenziali che identificano tali situazioni nei casi
in cui:
si ravvisi un’unicità della struttura organizzativa e produttiva,
si riscontri un’integrazione tra le attività esercitate da diverse imprese appartenenti allo stesso gruppo
e il correlativo interesse comune;
le imprese facciano capo a un coordinamento
tecnico e amministravo‐finanziario tale da far
individuare un unico soggetto direttivo che orienta
le diverse imprese verso uno scopo comune;
l’attività del lavoratore sia utilizzata in modo
indifferenziato e contemporaneo da parte dei
diversi soggetti imprenditoriali99.
c) Postazione fissa
Per quanto riguarda la terza condizione, di cui alla
lett.c) del co.1, e quindi la disponibilità di una
“postazione fissa” presso una delle sedi del
99 Vedi Cass. n.25763 del 9 dicembre 2009, ma anche Trib. Milano 24
gennaio 2011.
committente, la circolare fornisce un’interpretazione
piuttosto ampia. Chiarisce preliminarmente che non è
necessario un uso esclusivo della postazione, che può
quindi essere condivisa con altri collaboratori o con
altri lavoratori subordinati. Secondo il Ministero la
condizione si realizza quando, negli archi temporali di
misurazione degli altri presupposti (durata della colla‐
borazione e quote di corrispettivo), il collaboratore
possa fruire di una postazione ubicata in locali di cui il
committente abbia la disponibilità (a qualunque titolo,
si dedurrebbe). Non rileva la circostanza dell’utilizzo di
attrezzatura necessaria per lo svolgimento dall’attività.
L’ampiezza della definizione ministeriale sembra non
escludere quindi i casi in cui l’attrezzatura necessaria
per lo svolgimento dell’incarico sia messa a
disposizione dal collaboratore.
Dalla circolare non emerge neppure l’esclusione di
quelle ipotesi in cui la postazione sia messa
effettivamente a disposizione dal committente ma sia
utilizzata soltanto occasionalmente, mentre la parte
prevalente del lavoro sia svolto dal collaboratore
esternamente ai locali del committente. In effetti
l’art.69‐bis, co.1, lett.c), si riferisce al caso in cui il
collaboratore “disponga di una postazione fissa presso
una delle sedi del committente”. La formulazione
letterale (soprattutto il riferimento alla “fissità”
nonché a una disponibilità per il collaboratore e non
una messa a disposizione da parte del committente)
potrebbe riferirsi a una certa assiduità, o almeno
frequenza, della presenza del collaboratore in
postazioni aziendali. La circolare, pur non escludendo
esplicitamente tale interpretazione, indubbiamente la
trascura, valutando come sufficiente che la postazione
sia messa a disposizione dal committente, indipen‐
dentemente dalla sua frequenza di utilizzo e dalle
ragioni e modalità del suo utilizzo. Tale impostazione
appare tuttavia condivisibile qualora si consideri che
l’avverarsi della presunzione deve basarsi
necessariamente su presupposti oggettivi (come la
messa a disposizione di una postazione fissa), mentre
le valutazioni circa le modalità di utilizzo della
postazione appartengono a verifiche con onere della
prova a carico dell’organo accertatore. Siamo infatti,
comunque e soltanto, nel campo di operatività di una
presunzione relativa, che si realizza unicamente con la
contemporanea combinazione di due presupposti
astratti su tre, alla quale è sempre opponibile prova
contraria. Certamente, come anticipato, tale terzo
presupposto deve realizzarsi negli stessi archi
temporali di cui ai precedenti due.
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gennaio 2013
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Gestione delle controversie di lavoro Giurista del Lavoro il
?
Deroghe all’operatività della presunzione
Le deroghe previste dal legislatore sono talmente
ampie da abbattere significativamente le potenzialità
applicative della norma.
Ai sensi dell’art.69‐bis, co.2, la presunzione non opera
qualora la prestazione lavorativa presenti congiun‐
tamente i seguenti requisiti:
la prestazione lavorativa sia connotata da
competenze teoriche di grado elevato acquisite
attraverso significativi percorsi formativi ovvero da
capacità tecnico‐pratiche acquisite attraverso
rilevanti esperienze maturate nell’esercizio
concreto di attività;
sia svolta da soggetto titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a 1,25 volte il
livello minimo imponibile ai fini del versamento dei
contributi previdenziali di cui all’art.1, co.3, della L.
n.233/90100.
La circolare conferma che, ai fini dell’esclusione dalla
presunzione, i suddetti requisiti debbano realizzarsi
entrambi in capo al collaboratore.
In attesa della costruzione definitiva del sistema di
certificazione delle competenze, di cui all’art.4, co.64 e
68 della L. n.92/12, la circolare n.32/12 stabilisce che il
grado elevato delle competenze e le rilevanti
esperienze possano essere dimostrate tramite:
il possesso di un titolo rilasciato al termine del
secondo ciclo del sistema educativo di istruzione
(sistema dei licei e sistema dell’istruzione e
formazione professionale);
il possesso di un titolo di studio universitario (laurea, dottorato di ricerca, master post laurea);
il possesso di qualifiche o diplomi conseguiti al
termine di una qualsiasi tipologia di apprendistato
(sia esso qualificante, professionalizzante o di alta
formazione e ricerca);
il possesso di una qualifica o specializzazione attribuita da un datore di lavoro in forza di un
rapporto di lavoro subordinato e in applicazione del
contratto collettivo di riferimento, sempre che tale
qualificazione o specializzazione sia posseduta da
100 Art.1, co.3, L. n.223/90: “Il livello minimo imponibile ai fini del
versamento dei contributi previdenziali dovuti alle gestioni di cui al comma 1 da ciascun assicurato è fissato nella misura del minimale annuo di retribuzione che si ottiene moltiplicando per 312 il minimale giornaliero stabilito, al 1º gennaio dell'anno cui si riferiscono i contributi, per gli operai del settore artigianato e commercio dall'articolo 1 del decreto‐legge 29 luglio 1981, n. 402, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 settembre 1981, n. 537, e successive modificazioni ed integrazioni”. La misura che costituisce il parametro di riferimento, per l’anno 2012 corrispondeva a 18.662,50 euro, pari ad 1,25 volte l’importo di 14.930,00 euro.
almeno 10 anni e derivi di rilevanti esperienze, che
garantiscono le richieste capacità tecnico‐pratiche;
lo svolgimento dell’attività autonoma, rispetto alla
quale si valuta l’eventuale applicazione della
presunzione, in via esclusiva o prevalente sotto il
profilo reddituale, da almeno 10 anni.
Secondo la circolare, i certificati, i diplomi o i titoli, per
essere utili ai fini dell’esclusione dal campo di
applicazione dell’art.69‐bis, devono essere pertinenti
l’attività svolta dal collaboratore.
L’avverarsi di una delle condizioni “professionali” o
“culturali” non è sufficiente ed è necessario che il
collaboratore consegua congiuntamente anche un
reddito non inferiore ad 1,25 volte il minimale annuo
di retribuzione imponibile (18.662,50 euro per il 2012).
Tale importo è da intendersi al lordo delle ritenute
fiscali e va riferito solamente ad attività da lavoro
autonomo, escludendo altre attività da lavoro
subordinato o da prestazioni di lavoro accessorio.
In ordine al parametro “professionale” o “culturale”,
pur nella residua difficoltà operativa di riconoscimento
delle fattispecie concrete, non si intravedono
particolari difficoltà interpretative, in quanto il
requisito, se posseduto, ha una sua valenza
“permanente”: una volta conseguito non decade.
Più problematica, invece, la dimostrazione del
requisito reddituale, che è più aleatorio e impreve‐
dibile. La norma anzitutto si riferisce al reddito, e non
ai corrispettivi, come invece avviene per la condizione
di presunzione di cui alla lett.b) del co.1.
Ma, soprattutto, la dichiarazione di un reddito
pari a 18.662,50 euro per un solo anno civile,
e un reddito inferiore nel successivo, neutralizza
l’intero biennio, ovvero non produce alcuna esclusione
riguardando un anno soltanto fra quelli presi in
esame?
La soluzione fornita dalla lettera della legge
sembrerebbe suggerire che l’anno con reddito almeno
pari alla soglia di reddito prevista non possa essere
preso in considerazione e che l’anno successivo, con
reddito inferiore alla soglia, concorra eventualmente
con l’anno seguente nella verifica dei presupposti di
esclusione. La norma, infatti, diversamente da quanto
previsto al co.1, lett.a) e b), non fa riferimento a
presupposti da realizzarsi in due anni consecutivi, ma
richiama semplicemente un requisito annuale. Certo
che, così argomentando, per rientrare nel regime delle
esclusioni, sempre che si consegua contemporanea‐
mente il requisito “culturale” o “professionale”, è
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gennaio 2013
46
Gestione delle controversie di lavoro Giurista del Lavoro il
sufficiente superare la soglia di reddito prevista,
alternatamente, un anno sì e un anno no: la
presunzione può realizzarsi infatti solo su due anni
consecutivi.
Ai sensi del co.3 del nuovo art.69‐bis, la presunzione di
conversione in contratto di collaborazione a progetto
non opera inoltre per le prestazioni lavorative svolte
nell’esercizio di attività professionali per le quali
l’ordinamento richieda l’iscrizione a un albo profes‐
sionale, ovvero ad appositi registri, albi, ruoli o elenchi
professionali qualificati e detti specifici requisiti e
condizioni. La ricognizione di tali attività è stata
demandata a un decreto del Ministero del Lavoro che,
sentite le parti sociali, è stato adottato in data 20
dicembre 2012.
Il decreto, senza procedere a un’elencazione puntuale
e analitica, stabilisce che i registri, albi, ruoli ed elenchi
qualificati professionali sono esclusivamente quelli
tenuti o controllati da un’Amministrazione Pubblica,
nonché da federazioni sportive, in relazione ai quali
l’iscrizione è subordinata al superamento di un esame
di Stato ovvero a una valutazione dei requisiti
legittimanti lo svolgimento dell’attività.
L’iscrizione, con valore di pubblicità dichiarativa presso
un elenco o albo, sia pur tenuto da una Pubblica
Amministrazione, non è pertanto sufficiente.
In proposito il decreto del 20 dicembre 2012 chiarisce,
all’art.3, che la mera iscrizione al registro delle
imprese non determina l’esclusione dall’applicazione
della presunzione di cui all’art.69‐bis.
L’allegato 1 al decreto espone, a mero titolo
esemplificativo, una serie di ordini, collegi, registri, albi
e elenchi, alla cui appartenenza è legata l’esclusione
dall’applicazione dell’art.69‐bis. Può colpire che
l’allegato comprenda anche numerose esemplifica‐
zioni riguardanti lo svolgimento di professioni
intellettuali. È infatti opportuno osservare che, ai sensi
del co.3 dell’art.61, sono fuori dal campo di
applicazione dell’intero Capo I, Titolo VII, del D.Lgs.
n.276/03, entro cui è collocato l’art.69‐bis, coloro che
svolgono una professione intellettuale per l’esercizio
della quale è necessaria l’iscrizione a un albo.
L’inserimento di tali esempi nell’allegato 1 del decreto
ministeriale non era quindi probabilmente indispen‐
sabile, ma ha comunque contribuito a fare chiarezza
rispetto a possibili confusioni.
In merito all’operatività delle deroghe, la circolare
n.32/12 prende una posizione decisa rispetto all’albo
delle imprese artigiane, considerandolo uno dei casi
compresi dal decreto ministeriale, per il quale non vale
quindi la presunzione. Infatti, sempre secondo la
circolare n.32/12, l’iscrizione all’albo delle imprese
artigiane è condizionata a una verifica dei requisiti di
legge, da parte di uno specifico organo (la
Commissione Provinciale Artigiani), e non ha quindi
una mera efficacia dichiarativa.
Effetti della presunzione e regime intertemporale
Ai sensi del co.4 dell’art.69‐bis, l’applicazione della
presunzione di cui al co.1, determina l’integrale
applicazione del Capo I, ivi compresa la disposizione di
cui all’art.69, co.1 e, quindi, la conversione in lavoro
subordinato, qualora manchi l’individuazione di uno
specifico progetto. Il legislatore ipotizza quindi che,
qualora il titolare di partita Iva si trovi ad operare in
situazione di continuità e di semi‐monocommittenza o
monocommittenza (verificandosi almeno due dei
presupposti, relativi alla durata del rapporto ovvero
alla quota di corrispettivo percepito, oppure
all’attribuzione di una postazione fissa), si trovi di fatto
a collaborare con il committente in regime di
coordinamento e continuità, e che tale modalità di
svolgimento del rapporto sia addirittura sintomo
diretto di subordinazione, in assenza di uno specifico
progetto, fatta sempre salva la prova contraria da
parte del committente.
In caso di realizzazione della presunzione è preliminar‐
mente necessario quindi verificare ‐ afferma la circo‐
lare n.32/12 ‐ se siano ravvisabili i presupposti di una
collaborazione a progetto, applicando, in tal caso,
tutta la disciplina di cui al Titolo VII, Capo I, del D.Lgs.
n.276/03, ivi comprese le norme in materia di
sospensione del rapporto per malattia e infortunio e
proroga del contratto in caso di gravidanza.
Qualora manchino i presupposti per il riconoscimento
di un contratto di collaborazione a progetto, il
rapporto si converte in un rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di
costituzione del rapporto.
Appare di tutta evidenza che l’applicazione del Titolo
VII, Capo I, del D.Lgs. n.276/03, e in particolare
dell’art.69, co.1, a una prestazione di lavoro
configurata dalle parti come autonoma, comporta
probabilmente, fatta sempre salva la prova contraria,
lo “scivolamento” nel rapporto di lavoro subordinato
per conversione determinata dall’assenza di un
progetto, sin dalla data di costituzione del rapporto.
Potrebbe immaginarsi utile il rimedio di dedurre nel
contratto di lavoro autonomo la descrizione di un
progetto nei termini di cui all’art.61 del D.Lgs.
n.276/03, al fine di evitare l’effetto estremo della
conversione in rapporto di lavoro subordinato. La
soluzione appare comunque suggerire una non
genuinità genetica del contratto, che non dovrebbe
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Gestione delle controversie di lavoro Giurista del Lavoro il
?
nascere come di lavoro parasubordinato. Inoltre vi è
da tenere presente che l’art.5 del DPR n.633/72
(disciplina dell’Iva) non considera effettuate nell’eser‐
cizio di arti e professioni le prestazioni di servizi
inerenti ai rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa. Il legislatore sembra pertanto aver
introdotto una norma “capestro”, che di fatto
comporta la conversione di un rapporto di lavoro
autonomo in un rapporto di lavoro subordinato, fatta
sempre salva la prova contraria.
Disciplina contributiva
La conversione del rapporto in un contratto di
collaborazione coordinata e continuativa a progetto
comporta anche l’applicazione della relativa disciplina
contributiva. In proposito, l’art.69‐bis, co.5, prevede
che:
“quando la prestazione lavorativa di cui al comma 1
si configura come collaborazione coordinata e
continuativa, gli oneri contributivi derivanti
dall’obbligo di iscrizione alla Gestione separata
dell’INPS ai sensi dell’articolo 2, comma 26, della
legge 8 agosto 1995, n. 335, sono a carico per due
terzi del committente e per un terzo del
collaboratore, il quale, nel caso in cui la legge gli
imponga l’assolvimento dei relativi obblighi di
pagamento, ha il relativo diritto di rivalsa nei
confronti del committente”.
La circolare n.32/12 ricorda anzitutto che, ai sensi
dell’art.2, co.26, della L. n.335/95, sono tenuti
all’iscrizione alla Gestione separata Inps “i soggetti che
esercitano per professione abituale, ancorché non
esclusiva, attività di lavoro autonomo (…) nonché i
titolari di rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa (…) e gli incaricati alla vendita a
domicilio”.
Rammenta sempre la circolare che l’art.18, co.12, del
D.L. n.98/11 (conv. da L. n.111/11) ha chiarito che:
“l’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995,
n. 335, si interpreta nel senso che i soggetti che
esercitano per professione abituale, ancorché non
esclusiva, attività di lavoro autonomo tenuti
all’iscrizione presso l’apposita Gestione separata
INPS sono esclusivamente i soggetti che svolgono
attività il cui esercizio non sia subordinato
all’iscrizione ad appositi albi professionali, ovvero
attività non soggette al versamento contributivo
agli enti di cui al comma 11 [enti di diritto privato
disciplinati dai decreti legislativi n. 509/1994 e n.
103/1996], in base ai rispettivi statuti e
ordinamenti, con esclusione dei soggetti di cui al
comma 11 [soggetti già pensionati]”101.
Il legislatore prende in sostanza atto che, anche nella
veste di possessori di partita Iva, i soggetti interessati
dalla disposizione potrebbero già essere iscritti alla
Gestione Separata e aver versato i relativi contributi.
In tali ipotesi, ferma restando la consueta ripartizione
dell’onere contributivo (2/3 a carico del committente
e 1/3 a carico del collaboratore), al collaboratore è
attribuito un diritto di rivalsa nei confronti del
committente qualora i versamenti debbano essere
dunque effettuati proprio in forza della “conversione”
del rapporto.
Regime transitorio
Ai sensi del co.4 dell’art.69‐bis, la presunzione si
applica da subito per i rapporti instaurati successiva‐
mente alla data di entrata in vigore della L. n.92/12 e,
quindi, successivamente al 18 luglio 2012. Per i
rapporti in corso all’entrata in vigore della L. n.92/12,
il legislatore ha previsto, al fine di consentire gli
opportuni adeguamenti, che la norma si applichi
decorsi 12 mesi dall’entrata in vigore. In ordine a tali
rapporti la verifica dei presupposti dovrà essere
eseguita per periodi decorrenti dal 18 luglio 2013.
Conversione del rapporto: quali sanzioni?
Nel caso in cui l’ispettore accerti
l’avveramento della presunzione di cui
all’art.69‐bis, in relazione alla conversione del
rapporto, quali conseguenze sanzionatorie possono
determinarsi a carico del committente/datore di
lavoro, oltre l’addebito dei contributi dovuti per il
rapporto di lavoro cui viene ricondotto il contratto?
Qualora nel rapporto sia riconoscibile una
collaborazione coordinata e continuativa a progetto,
salvo violazione di ulteriori particolari discipline,
risulterebbero applicabili generalmente:
le sanzioni amministrative per omesse registrazioni
sul Libro Unico del Lavoro, per ogni mese
corrispondente al pagamento di eventuali
corrispettivi, salvo applicazione in sede di ordinanza
ingiunzione dell’art.8, co.2 della L. n.689/81 (circ.
Min. Lavoro n.23/11);
101 Si veda da ultimo mess. Inps n.14490/11.
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Gestione delle controversie di lavoro Giurista del Lavoro il
la sanzione per omessa trasmissione del mod.
Unilav preventivamente all’instaurazione del
rapporto di collaborazione;
la sanzione per mancata consegna della lettera di
assunzione al lavoratore.
Non risulterebbe certamente applicabile in tale ipotesi
la c.d. maxi sanzione, la cui operatività è limitata ai
rapporti di lavoro subordinato.
Qualora, viceversa, si determini la conversione in
rapporto di lavoro subordinato, sempre salvo
violazione di particolari discipline, sarebbero invece
applicabili in linea generale:
le sanzioni amministrative per omesse registrazioni
sul Libro Unico del Lavoro, per ogni mese
corrispondente all’esecuzione delle prestazioni
lavorative, essendo obbligatoria per i lavoratori
dipendenti la registrazione dell’orario di lavoro
prestato, fatta sempre salva l’applicazione in sede
di ordinanza ingiunzione dell’art.8, co.2 della L.
n.689/81 (circ. Min. Lavoro n.23/11);
la sanzione per omessa trasmissione del mod.
Unilav preventivamente all’instaurazione del rap‐
porto di lavoro subordinato (qualora non si propen‐
desse per l’applicabilità della maxi sanzione);
la sanzione per mancata consegna della lettera di
assunzione al lavoratore.
Nel caso di conversione in lavoro dipendente occorre
però interrogarsi circa l’applicabilità della maxi
sanzione, di cui all’art.3, co.3 del D.L. n.12/02, conv.
con L. n.73/02. La circ. n.38/10 in proposito,
fedelmente rispetto alla lettera della norma,
puntualizza che, in mancanza di comunicazione
preventiva al Centro per l’impiego, gli unici
adempimenti idonei a costituire una scriminante per
l’applicazione della maxi sanzione sono quelli di natura
contributiva. Tuttavia, nel caso in esame, molto
probabilmente il rapporto di natura autonoma non
risulterebbe sommerso, in quanto il soggetto interes‐
sato è titolare di partita Iva (non si tratta di un
prestatore di lavoro autonomo occasionale), che ha
emesso una serie di fatture e che quindi non ha
nascosto alla Pubblica Amministrazione né i propri
redditi né i rapporti di collaborazione che li hanno
generati. Quindi, anche se nel novero delle scriminanti
dall’applicazione della maxi sanzione non sono
compresi gli adempimenti fiscali, arrivare alla
conclusione che il rapporto è considerabile “in nero”,
può apparire eccessivo. Sia ben inteso che chi scrive
appartiene alla schiera di coloro che ritengono che la
maxi sanzione sia applicabile ogni volta che sia
sconosciuto alla Pubblica Amministrazione, in base al
sistema delle comunicazioni preventive, il singolo
“rapporto di lavoro”, indipendentemente dalla
conoscibilità dello status di un lavoratore. Non è cioè
rilevante la mera iscrizione al registro imprese o anche
all’albo delle imprese artigiane, che di per sé non
costituiscono affatto scriminante né indirizzano verso
una fattispecie di riqualificazione del rapporto (di cui
all’art.3, co.4, del D.L. n.12/02).
È tuttavia altrettanto vero che la presunzione di cui
all’art.69‐bis corrisponde, almeno di norma, a una
conoscenza “fiscale” del singolo rapporto contrattuale
da parte della Pubblica Amministrazione e che, quindi,
l’applicabilità della maxi sanzione si fonderebbe unica‐
mente sulla letterale esclusione degli adempimenti
fiscali dalle scriminanti previste dalla legge. In tal
senso, l’esclusione di applicabilità della maxi sanzione
è forse confermata anche dalla stessa circ. n.38/10,
nella parte in cui prende in considerazione la posizione
dei prestatori di lavoro autonomo occasionale. Sul
punto, tuttavia, manca una chiara indicazione del
Ministero, che potrebbe anche propendere per la
soluzione inversa.
Deve tenersi inoltre conto che la conversione in un
contratto di collaborazione a progetto ovvero in un
rapporto di lavoro subordinato comporta anche la
potenziale applicazione delle sanzioni penali di carat‐
tere prevenzionistico relative, per esempio, a mancata
formazione e informazione del lavoratore, ovvero
mancata sottoposizione a sorveglianza sanitaria.
La circolare n.32/12 chiarisce un aspetto molto
importante: la presunzione introdotta dal nuovo
art.69‐bis del D.Lgs. n.276/03 determina unicamente
l’inversione dell’onere della prova circa la sussistenza
di una collaborazione coordinata e continuativa a
progetto o di un rapporto di lavoro di natura
subordinata a carico del committente/datore di
lavoro.
Il Ministero precisa che resta completamente aperta la
possibilità, per il lavoratore autonomo o per il
personale ispettivo, di far valere direttamente un
rapporto di subordinazione ai sensi dell’art.2094 c.c.
ove si ricostruiscano i tradizionali indici sintomatici del
lavoro dipendente, indipendentemente dal realizzarsi
dei presupposti di cui all’art.69‐bis, co.1, ovviamente
con onere della prova a carico dell’organo accertatore
o del lavoratore autonomo stesso.
Il Ministero smentisce quindi categoricamente quelle
tesi interpretative che leggevano i parametri di cui
all’art.69‐bis, co.1, come una sorta di franchigia entro
la quale i rapporti non possano che essere riconosciuti
come autonomi.
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Gestione delle controversie di lavoro Giurista del Lavoro il
Pertanto, indipendentemente dalla disponibilità di
postazione fissa, dalla durata della collaborazione e
dalla quota di corrispettivi per singolo committente, il
personale ispettivo potrà procedere nel riconoscere
come diversamente qualificabile il rapporto di lavoro
autonomo posto in essere dalle parti rispetto a quello
apparente dalla sua formalizzazione, sempre però
ricercando e provando la sussistenza dei requisiti di
subordinazione o parasubordinazione. In tali casi a
nulla rileveranno, ovviamente, neppure i casi di deroga
dal regime di presunzione.
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L’osservatorio giurisprudenziale Giurista del Lavoro il
Rassegna della Corte di Cassazione
a cura di Evangelista Basile –Studio Legale Ichino Brugnatelli e Associati
INFORTUNI SUL LAVORO
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 10 gennaio 2013, n.536 Prestazioni assistenziali – invalidità – infortunio sul lavoro – domanda di regresso Inail – presupposti Massima
Ai sensi dell’art.2087, l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei
lavoratori. Ne consegue che il datore di lavoro risulta esonerato dalla responsabilità solo qualora l’infortunio dipenda
da una condotta imprevedibile e abnorme del prestatore d’opera. Non risulta invece esonerata l’azienda che non vigila
sull’apprendista inesperto che finisce per infortunarsi a causa della sua stessa imprudenza.
Commento
Il caso posto al vaglio della Cassazione riguarda una controversia tra una società e l’Inail, ove quest’ultima agisce in
regresso nei confronti del datore per riottenere la somma erogata a un suo dipendente per l’infortunio occorsogli
(danneggiamento alla vista, essendo stato attinto a un occhio da una scheggia mentre piegava un tondino di ferro). Il
datore si difende ritenendo di aver adottato tutte le precauzioni atte a scongiurare l’evento. In particolare eccepisce di
aver imposto obbligatoriamente l’uso degli occhiali protettivi (che invece al momento del sinistro non erano stati
indossati dall’operaio), di aver adeguatamente addestrato il suo dipendente per l’esecuzione dell’attività a lui affidata
e che, comunque, per quel tipo di lavoro (piegamento di tondini di ferro con un martello dopo averli bloccati con una
morsa) non sarebbe stato necessario l’utilizzo degli occhiali, in quanto non comportava la produzione di schegge.
Sarebbe stato invece addebitabile al lavoratore un comportamento anomalo e imprevedibile, dal momento che aveva
utilizzato nella lavorazione strumentazioni diverse da quelle posatamente deputate alle medesime. La Corte accoglie
la domanda di regresso dell’Inail sulla base di un consolidato principio giurisprudenziale: “le norme dettate in tema di
prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il
lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia,
negligenza o imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore è sempre responsabile dell’infortunio occorso al
lavoratore, sia quando ometta di adottare idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste
misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per
l’imprenditore all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare invece l’esonero totale
del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, in opinabilità ed
esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo tipico e alle direttive ricevute, così da porsi come
causa esclusiva dell’evento”. Nel caso di specie, la Cassazione evidenzia altresì che il lavoratore era un giovane
apprendista professionalmente inesperto, per il quale diventa ancor più pregnante il dovere di sicurezza a carico del
datore ex art.2087 c.c., che comunque è tenuto ad effettuare la dovuta vigilanza in ordine alla corretta esecuzione del
lavoro.
Principali precedenti giurisprudenziali Conformi Cass., Sez. Lavoro, sent. 25 febbraio 2011, n.4656 Cass., Sez. Lavoro, sent. 10 settembre 2009, n.19494 Cass., Sez. Lavoro, sent. 23 aprile 2009, n.9689 Cass., Sez. Lavoro, sent. 8 marzo 2006, n.4980 Cass., Sez. Lavoro, sent. 24 marzo 2004, n.5920
Contrari
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L’osservatorio giurisprudenziale Giurista del Lavoro il
LICENZIAMENTI INDIVIDUALI
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 11 gennaio 2013, n.579 Lavoro subordinato – estinzione del rapporto – licenziamento – giustificato motivo oggettivo – sostituzione del dipendente licenziato – mancata riduzione dell’attività produttiva – irrilevanza Massima
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo presso un’azienda che non possiede il requisito dimensionale
per l’applicazione della tutela reale, irrilevanti risultano le considerazioni relative alla mancata riduzione dell’attività o
sull’impiego di altra forza lavoro costituita dal legale rappresentante e dalla figlia al posto del dipendente oggetto del
recesso, essendo evidentemente affidato alla libera iniziativa imprenditoriale l’eventuale cambiamento
dell’organizzazione lavorativa al fine di ottenere il miglior risultato economico. Il motivo oggettivo di licenziamento
determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva deve essere valutato dal datore di lavoro senza che il giudice
possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, poiché tale scelta è espressione della libertà di iniziativa
economica tutelata dall’art.41 della Costituzione. Al giudice spetta invece il controllo della reale sussistenza del motivo
addotto dall’imprenditore, attraverso un apprezzamento delle prove che è incensurabile in sede di legittimità se
effettuato con motivazione coerente e completa.
Commento
Una dipendente di una piccola cooperativa ‐ la cui attività principale era quella di assistere gli anziani ‐ viene licenziata.
La dipendente ha, quindi, impugnato il licenziamento e richiesto le differenze retributive. Sia la Corte d’Appello che il
giudice di prime cure hanno rigettato entrambe le domande attoree. La dipendente ha quindi deciso di ricorrere per
Cassazione adducendo come primo motivo di ricorso la violazione dell’art.112 c.p.c. e la falsa applicazione della L.
n.223/91, della L. n.604/66 e L. n.108/90 in riferimento all’art.360, n.3 e ss. c.p.c.. Secondo la ricorrente, la Corte
territoriale avrebbe ritenuto legittimo il licenziamento pur in presenza dello stesso numero di anziani da assistere e,
quindi, senza alcuna riduzione di attività, tanto che la ricorrente era stata sostituita dalla legale rappresentante della
società e dalla di lei figlia. La Corte di Cassazione, concordando con quanto deciso dai precedenti giudici di merito, ha
rigettato il ricorso. In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto errata la tesi di parte ricorrente, in quanto l’eccezione
riguardante la mancata riduzione di attività era totalmente irrilevante, poiché ‐ al fine di giustificare il recesso ‐ è
sufficiente una riorganizzazione dell’attività lavorativa che consenta di migliorare l’andamento economico; scelta
quest’ultima affidata alla libera iniziativa imprenditoriale. La particolarità di questa decisione consiste nel fatto che la
riduzione della forza lavoro disposta dall’imprenditore viene ritenuta legittima anche in assenza di un effettivo calo di
lavoro e per ottenere risultati economici migliori (non necessariamente per far fronte a una crisi). Con la presente
sentenza la Suprema Corte ribadisce il principio secondo cui il giudice non può andare a sindacare le scelte dei criteri
di gestione dell’impresa, poiché tali scelte sono espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dalla stessa
Costituzione all’art.41. Al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dal datore sulla base
delle prove. Risulta quindi incensurabile in sede di legittimità un licenziamento effettuato con motivazioni coerenti e
complete.
Principali precedenti giurisprudenziali Conformi Cass., Sez. Lavoro, sent. 21 novembre 2011, n.24502 Cass., Sez. Lavoro, sent. 8 febbraio 2011, n.3040 Cass., Sez. Lavoro, sent. 3 marzo 2010, n.5123 Cass., Sez. Lavoro, sent. 6 aprile 1999, n.3312
Contrari
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Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 8 gennaio 2013, n.205 Licenziamento – giusta causa – fattispecie – onere della prova ‐ reintegra nella posizione lavorativa ‐ fondamento Massima
Ai sensi dell’art.2697 c.c., chi vuol far valere un diritto in giudizio deve dare la prova dei fatti che ne costituiscono il
fondamento. Nel caso di specie l’azienda che, accusando il dipendente di aver provveduto a emettere dei rimborsi
(fatture non dovute), deve dare la prova dell’accusa dimostrando che fossero del tutto segrete le credenziali personali
di accesso al personal computer dove i fatti addebitati risultano commessi: è quindi inutile asserire che l’incombenza
della prova ricada sul lavoratore, dal momento che proprio l’addebitabilità al dipendente è la giustificazione del
recesso per giusta causa.
Commento
Il caso è quello di un dipendente licenziato per giusta causa in quanto, secondo l’azienda, si era liquidato, attraverso la
procedura manuale di rimborso, alcuni rimborsi anomali non dovuti o con causali non veritiere, attraverso
l’utilizzazione della sua user‐id e della sua password. In primo grado il giudice del lavoro ha rigettato il ricorso,
ritenendo fondato il licenziamento per giusta causa. Tuttavia, la Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza
emessa dal giudice di prime cure, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa e ordinato la
reintegrazione nel posto di lavoro e la conseguente condanna al pagamento delle retribuzioni sino alla data di
reintegra. La Corte d’Appello ha osservato, infatti, che mancava una prova sufficiente in ordine alla responsabilità
dell’appellante, individuato come autore dei rimborsi in base all’utilizzo delle user‐id e password che erano sì
individuali, ma potevano essere utilizzate anche da altri soggetti, rappresentando dati pubblici e, come tali, facilmente
rinvenibili. La società soccombente ha ricorso in Cassazione lamentando in particolare la violazione e la falsa
applicazione dell’art.2697 c.c., in quanto riteneva di aver assolto il proprio onere probatorio, spettando al lavoratore
dare una spiegazione dell’accaduto. La Corte di Cassazione, nella sentenza qui esaminata, respinge il gravame
confermando in toto quanto stabilito dalla Corte territoriale ribadendo, quindi, l’illegittimità del recesso in quanto i
fatti riportati nella lettera di contestazione non erano stati dimostrati. La Corte, inoltre, afferma che anche basandosi
sulla non condivisa tesi secondo cui sarebbe stato onere del lavoratore fornire la dimostrazione della sua estraneità ai
fatti, non si poteva che rigettare il gravame, in quanto il lavoratore durante il giudizio di merito aveva portato alcuni
elementi che mettevano in dubbio il fatto che fosse lui l’autore dei rimborsi incriminati. La Corte di Cassazione
stabilisce il principio secondo cui è onere del datore fornire la dimostrazione della responsabilità del dipendente e la
riconducibilità ad esso dei fatti contestati, respingendo la tesi secondo cui, una volta dimostrato l’evento dannoso, sia
onere del dipendente dimostrare la propria estraneità.
Principali precedenti giurisprudenziali Conformi Cass., Sez. Lavoro, sent. 26 aprile 2012, n.6498
Contrari
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 8 gennaio 2013, n.206 Estinzione del rapporto – licenziamento – procedimento penale – lavoratore prosciolto “il fatto non costituisce reato” – autonoma valutazione delle condotte in sede penale – sussiste Massima
Deve ritenersi che il dipendente pubblico, pur prosciolto o assolto dal giudizio penale perché “il fatto non costituisce
reato” possa essere licenziato per lo stesso fatto dopo la riattivazione del procedimento disciplinare, dovendosi
osservare che detta formula, per quanto liberatoria, esclude la sola rilevanza penale, mentre riconosce la materialità
del fatto e l’ascrivibilità al lavoratore incolpato: ne consegue che all’amministrazione deve essere riconosciuta la
facoltà di valutare la rilevanza disciplinare dello stesso fatto, in nome dei principi del buon andamento e
dell’imparzialità dell’azione amministrativa, dal momento che un’interpretazione contraria delle norme contrattuali
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finirebbe per determinare potenziali disparità di trattamento con analoghe condotte del dipendente che, invece, non
siano state sottoposte al vaglio dell’autorità giudiziaria penale.
Commento
Un dipendente dell’Agenzia delle Dogane era stato licenziato per condotte che erano state oggetto di procedimento
penale definito con sentenza di proscioglimento “perché il fatto non costituisce reato”. Al termine di tale
procedimento giudiziario era stato riattivato il procedimento disciplinare, precedentemente sospeso in attesa degli
esiti del gravame penale, conclusosi con il licenziamento del lavoratore. Il lavoratore impugnava il provvedimento
espulsivo richiedendo la reintegrazione nelle mansioni precedentemente occupate, con le conseguenze di cui
all’art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Sia il giudice di prime cure che la Corte d’Appello respingevano la domanda
attorea e, in particolare, rilevavano che il combinato disposto dell’art.653 c.p.p., come modificato dall’art.1, L. n.97/01
e dell’art.530 c.p.p., non precludevano al datore di lavoro la possibilità di valutare i comportamenti disciplinarmente
rilevanti anche al di fuori dell’accertamento penale, anche sulla base di prove raccolte durante il giudizio penale e
l’incidenza dei fatti sul vincolo fiduciario. L’Agenzia delle Dogane si era limitata a valutare i fatti così come accertati nel
giudizio penale e, conformemente a quanto previsto dal Ccnl di categoria, aveva proceduto al licenziamento. Il
lavoratore ricorreva, quindi, in Cassazione, lamentando la violazione e falsa applicazione di norme collettive che
disciplinano il rapporto tra azione penale e azione disciplinare e, in particolare, gli artt.14 e 68 del Ccnl agenzie fiscali
del 2004, sostenendo la tesi secondo cui l’azione disciplinare era preclusa dall’assoluzione in ambito penale. La Corte
di Cassazione, con la sentenza in oggetto, respinge tale gravame affermando che l’assoluzione “perche il fatto non
costituisce reato” fa sì che venga esclusa solo la rilevanza penale e non anche quella disciplinare. La Cassazione nella
sentenza afferma che una tale disposizione di tipo collettivo non è basata su alcun criterio di ragionevolezza,
ponendosi addirittura in contrasto con la necessità costituzionale avvertita che l’azione amministrativa sia ispirata a
principi di buon andamento di imparzialità e con lo stesso principio di uguaglianza. Secondo la Suprema Corte, infatti,
risulta necessario distinguere tra i vari tipi di assoluzione o proscioglimento: è lecito precludere la sanzione disciplinare
se vi è assoluzione perché “non ha commesso il fatto” o “il fatto non sussiste”, ma nel caso in oggetto i fatti erano stati
messi in atto (e avevano rilievo dal punto di vista disciplinare), sebbene non avessero rilevanza penale.
Principali precedenti giurisprudenziali Conformi Cass., Sez. Lavoro, sent. 26 gennaio 2011, n.1768
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Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 21 novembre 2012, n.20568 Licenziamento disciplinare – concessione del preavviso – mutamento natura del recesso – esclusione –fondamento
Massima
Si pone in aperto contrasto con l’art. 2119 c.c. – oltre ad essere nella specie poco ragionevole in quanto sfornita di
adeguata giustificazione – l’affermazione secondo cui la concessione del preavviso incide, modificandola, sulla natura
del licenziamento irrogato, nel quale sono ravvisabili tutti gli elementi caratteristici del licenziamento disciplinare.
Commento Il caso è quello di un dipendente a cui, per la sottrazione di denaro aziendale – seppur per ammontare esiguo – veniva
consegnata una lettera di licenziamento. La particolarità risiede nel fatto che il licenziamento irrogato non aveva
effetto immediato (c.d. in tronco), bensì il suo effetto era procrastinato nel tempo concedendo, in tal modo, un
periodo di preavviso. Tale licenziamento disciplinare veniva quindi impugnato. Il giudice di prime cure dichiarava
l’inammissibilità del licenziamento e la Corte d’Appello di Lecce confermava la sentenza di primo grado. In particolare
la Corte d’Appello affermava che vi fosse un’insita contraddittorietà tra la lettera di licenziamento e l’applicazione del
canone interpretativo del favor, ravvisando, pertanto, l’illegittimità del provvedimento espulsivo per incoerenza tra la
motivazione e gli effetti giuridici del recesso. La società ricorreva quindi in Cassazione. I giudici di legittimità,
esprimendosi difformemente da quanto richiesto dal giudice relatore, il quale aveva richiesto la trattazione in camera
di consiglio e la dichiarazione di inammissibilità, hanno accolto il ricorso della società. Nella sentenza è affermato che
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la Corte d’Appello leccese è incorsa in una violazione degli artt. 2118 e 2119 c.c., in quanto la normativa non prevede
alcuna contraddittorietà tra il contenuto di una lettera di licenziamento e la concessione del preavviso. Secondo la
Corte di Cassazione tale favor non può in alcun modo modificare la natura di un licenziamento qualora siano presenti
e ravvisabili tutti gli elementi caratteristici di tale provvedimento disciplinare.
Principali precedenti giurisprudenziali Conformi Cass., Sez. unite, sent. 3 novembre 2011, n.22726
Contrari
MALATTIA
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 4 gennaio 2013, n.111 Rendita da malattia professionale – patologia collegata all’attività svolta ‐ sussiste Massima
La contestazione dell’efficacia causale di tali aspetti dell’attività lavorativa rispetto all’insorgenza della patologia
denunciata si risolve nella manifestazione di un dissenso diagnostico inammissibile in sede di legittimità nei giudizi in
cui sia stata esperita C.T.U. medico‐legale, nel caso in cui il giudice del merito si basi sulle conclusioni dell’ausiliario
giudiziario, affinché i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di motivazione della
sentenza denunciabile in cassazione, è necessario che i vizi logico‐formali si concretino in una palese devianza dalle
nozioni di scienza medica o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate, con il relativo onere, a
carico della parte interessata, di indicare le relative fonti, senza potersi la stessa limitare a mere considerazioni sulle
prospettazioni operate dalla controparte, che si traducono in un’inammissibile critica del convincimento del giudice di
merito che sia fondato, per l’appunto, sulla consulenza tecnica.
Commento
Una nota azienda operante nel settore ferroviario era stata condannata dal giudice d’appello alla corresponsione in
favore di un suo macchinista di una rendita da malattia professionale per inabilità permanente del 15%, sulla scorta di
C.T.U. medico‐legale dichiarativa dell’origine professionale della malattia. La società avanza ricorso per Cassazione
eccependo la mancanza di accuratezza con cui era stata espletata la C.T.U. (basata esclusivamente sulle affermazioni
dell’interessato), nonché l’assenza di prove precise e circostanziate circa le condizioni effettive in cui il lavoratore
aveva operato e che avevano cagionato la malattia. La Cassazione ha ritenuto, al contrario, che la C.T.U. fosse stata
ben condotta per aver tenuto in debita considerazione alcuni aspetti tipici dell’attività lavorativa del macchinista
(quali, appunto, inevitabili sbalzi termici con conseguente provocazione di microtraumi da movimento) che non
avrebbero necessitato di prove ulteriori, in quanto pacificamente noti. Inoltre la Suprema Corte ricorda che, qualora
una parte lamenti lacune della consulenza tecnica suscettibili di determinare un vizio di motivazione denunciabile in
Cassazione, esse devono sostanziarsi in affermazioni illogiche o manifestamente errate o contrarie alle nozioni proprie
della scienza medica. Se, invece, la parte si limita soltanto a criticare la C.T.U. espletata e il conseguente
provvedimento del giudice emanato in base alla medesima, detta censura è palesemente inammissibile. La Corte ha,
dunque, rigettato il ricorso dell’azienda, valutando la malattia contratta dal macchinista come di tipo professionale.
Principali precedenti giurisprudenziali Conformi Cass., Sez. Lavoro, sent. 3 aprile 2008, n.8654 Cass., Sez. Lavoro, sent. 25 agosto 2005, n.17324 Cass., Sez. Lavoro, sent. n.10552/03
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Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 4 gennaio 2013, n.107 Licenziamento – mancata comunicazione tempestiva della prosecuzione della malattia – impedimento – non sussiste Massima
Risulta illegittimo il licenziamento intimato sulla base dell’art.66 del Ccnl autoferrotranvieri ‐ ovvero qualora il
dipendente abbia compiuto per tre volte una mancanza punita con la sospensione ‐ se ai precedenti richiami
disciplinari era stata irrogata una sanzione differente quale la perdita di retribuzione.
Commento
Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte riguarda un lavoratore dipendente di una società esercente attività di
trasporto pubblico locale licenziato per motivi disciplinari, ossia per non aver dato immediata notizia della
continuazione della malattia, obbligazione prevista dal contratto collettivo. In particolare, il lavoratore asseriva di aver
ricevuto dall’Inail il certificato attestante il perdurare della sua inabilità derivante da infortunio sul lavoro solo nella
tarda mattinata del giorno in cui avrebbe dovuto riprendere servizio e, pertanto, non aveva potuto spedire all’azienda
la comunicazione quel giorno stesso per chiusura dell’ufficio postale durante le ore pomeridiane. La Corte d’Appello
aveva ritenuto che la condotta tenuta dal lavoratore non potesse certo costituire idonea giustificazione, per cui
doveva comunque ritenersi sussistente una responsabilità in capo al medesimo; tuttavia aveva considerato eccessiva
la sanzione del licenziamento, in quanto non proporzionata all’entità dell’addebito, tenuto conto dei criteri di
graduazione delle sanzioni disciplinari previste dal contratto collettivo. Quest’ultimo ricollegava la sanzione espulsiva
solo “all’assenza ingiustificata oltre i tre giorni nell’anno solare”, mentre per l’ipotesi di assenza arbitraria (priva di
idonea giustificazione) fino a tre giorni prevedeva la mera sospensione dal servizio. La Corte d’Appello aveva altresì
escluso l’applicabilità al caso di specie dell’art.66 del Ccnl che prevedeva la sanzione espulsiva “in relazione a
mancanze da cui siano derivate gravi irregolarità nel servizio o gravi danni alle persone o alle cose”, circostanza non
riconducibile a quella che in concreto si era verificata. Neanche i precedenti disciplinari del lavoratore erano stati
considerati come valevoli ai fini del licenziamento, sulla base del fatto che l’art.66 del Ccnl prevedeva la sanzione
espulsiva solo se il dipendente “è stato già punito due volte con la sospensione e incorre entro due anni nuovamente in
una delle mancanze punite con la sospensione”. Invece al lavoratore, in occasione dei suoi precedenti richiami
disciplinari, era stata applicata la sanzione della perdita della retribuzione, del tutto difforme, quindi, da quella
prevista dall’art.66 del Ccnl (la sospensione appunto). La Cassazione, dal canto suo, afferma l’inidoneità delle due
precedenti sanzioni disciplinari irrogate al lavoratore ad integrare la recidiva utile a fondare, ai sensi dell’art.66 del
Ccnl, il licenziamento senza preavviso. La Suprema Corte, dunque, rigetta il ricorso della società, considerando
illegittimo il licenziamento, anche sulla base dell’art.63 del Ccnl: “le giustificazioni per l’assenza devono essere
comunicate all’azienda il più presto possibile e comunque non oltre il primo giorno di assenza, salvo imprevisto
impedimento”. Il lavoratore aveva infatti avuto un “imprevisto impedimento”, tale che non aveva potuto comunicare il
prosieguo della malattia.
MOBBING, DEMANSIONAMENTO, DANNO BIOLOGICO ED ESISTENZIALE
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 10 dicembre 2012, n.22393 Insubordinazione del dipendente – mancato svolgimento delle sue mansioni – risarcimento per mobbing – legittimità del licenziamento Massima
Non ha diritto ad essere risarcito per mobbing e può essere giustamente licenziato il dipendente che non adempie
correttamente alle proprie mansioni e assume un atteggiamento di insubordinazione.
Commento
La Corte di Cassazione, nella sentenza in oggetto, ha affrontato il caso di un lavoratore che, a seguito di licenziamento,
ha proposto impugnazione, richiedendo altresì la condanna della società al risarcimento del danno per
demansionamento e discriminazione asseritamente subiti. Sia il giudice di prime cure che la Corte d’Appello avevano
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respinto il gravame dell’ex dipendente, poiché avevano ritenuto la sanzione oggetto di impugnativa corretta tanto dal
punto di vista formale (in quanto rendeva conoscibile al lavoratore le circostanze il tempo e il luogo ai fini difensivi)
quanto sostanziale (perché proporzionata, in ordine a fatti oggetto di provvedimenti disciplinari precedenti che,
peraltro, avevano trovato un adeguato suffragio probatorio). Allo stesso modo era stata respinta anche la richiesta di
risarcimento del danno da mobbing, in quanto è risultato provato che le contestazioni del titolare erano state mosse
in piena osservanza del principio di proporzionalità. La Corte di Cassazione, conformemente a quanto espresso nei
precedenti gradi di giudizio, ritiene dunque pienamente legittimo il licenziamento e rigetta qualunque pretesa di
risarcimento. Difatti asserisce “il giudice del gravame ha dato contezza delle ragioni poste a fondamento della stessa,
richiamando i reiterati comportamenti scorretti assunti dal ricorrente (minacce ai colleghi, insoddisfacente svolgimento
del lavoro (…), configurazione di insubordinazione), integranti le fattispecie normative contrattuali relative alle
previsioni casistiche utili ai fini dell’individuazione della sanzione da comminarsi”. In definitiva, la Suprema Corte
ritiene la sanzione espulsiva del tutto proporzionata agli addebiti contestati, nonché esclude la configurabilità del
mobbing poiché le risultanze istruttorie avevano dimostrato la totale inesistenza di un contegno persecutorio nei
confronti del lavoratore.
Principali precedenti giurisprudenziali Conformi Cass., Sez. Lavoro, sent. 26 aprile 2012, n.6498 Cass., Sez. Lavoro, sent. 2 marzo 2011, n.5095
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OBBLIGHI DI NON CONCORRENZA
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 8 gennaio 2013, n.212 Patto di non concorrenza – risoluzione – decisione unilaterale del datore – nullità della clausola – sussiste Massima
La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una
clausola nulla per contrasto con norme imperative, posto che, ai sensi dell’art.2125 c.c., la limitazione dello
svolgimento dell’attività lavorativa deve essere certa nell’oggetto, nella durata e nel luogo, nonché compensata da un
corrispettivo di natura retributiva. Ne deriva che non è consentito al datore di lavoro di incidere unilateralmente sulla
durata temporale del vincolo di non concorrenza, vanificando la necessità del termine certo, né è consentito che
l’attribuzione patrimoniale sia caducata dalla volontà del datore di lavoro.
Commento
All’atto della stipula di un contratto di lavoro con una società, un dipendente sottoscrive un patto di non concorrenza
con il proprio datore di lavoro. Successivamente, il lavoratore comunica le proprie dimissioni e, a esito del periodo di
preavviso, il datore di lavoro gli comunica la propria intenzione di non avvalersi della predetta clausola di non
concorrenza, esimendosi così dal pagamento del corrispettivo previsto dal patto. Il lavoratore, ritenendo tale
comportamento datoriale lesivo dei principi di cui agli artt.2125, 1373 e 1344 c.c., propone ricorso avanti al giudice del
lavoro, chiedendo la nullità del recesso datoriale dalla clausola di non concorrenza e la condanna del datore al
pagamento della somma dovuta a titolo di corrispettivo del patto di non concorrenza. Il Tribunale adito accoglie il
ricorso del lavoratore, qualificando il patto di non concorrenza come patto di opzione e precisando che la scelta della
società di avvalersi o meno del patto sarebbe dovuta intervenire al momento della comunicazione del recesso da
parte del lavoratore, non al momento della cessazione del rapporto. La Corte d’Appello, adita dalla società datrice di
lavoro, riforma parzialmente la sentenza di prime cure, rilevando che il patto di non concorrenza, lungi dal
considerarsi un patto di opzione, doveva qualificarsi come un accordo immediatamente vincolante per i contraenti,
ma sottoposto a condizione risolutiva potestativa a favore della datrice di lavoro, se avvalersene o meno, al momento
della cessazione del rapporto e non necessariamente al momento della manifestazione da parte del lavoratore delle
proprie dimissioni. La dichiarazione datoriale de qua doveva, quindi, ritenersi tempestiva, essendo intervenuta al
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L’osservatorio giurisprudenziale Giurista del Lavoro il
termine del periodo di preavviso, ovvero all’effettiva cessazione del rapporto e, di conseguenza, al lavoratore non
spettava il corrispettivo pattuito. Avverso detta sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, che è stato
accolto. La Suprema Corte ha, infatti, aderito alle motivazioni del ricorrente, rilevando come sia pacifico in
giurisprudenza che la risoluzione del patto di non concorrenza rimessa al mero arbitrio del datore di lavoro concretizzi
una clausola nulla per contrasto con norme imperative, posto che, ai sensi dell’art.2125 c.c., la limitazione dello
svolgimento dell’attività lavorativa deve essere certa nell’oggetto, nella durata e nel luogo, nonché compensata da un
corrispettivo di natura retributiva. Ne deriva che non è consentito al datore di lavoro di incidere unilateralmente sulla
durata temporale del vincolo di non concorrenza, vanificando la necessità del termine certo, né è consentito che
l’attribuzione patrimoniale sia caducata dalla volontà del datore di lavoro. Infatti ‐ continua la Corte ‐ l’accettazione
del patto di non concorrenza da parte del lavoratore presuppone un vincolo stabile e certo, che il lavoratore abbia
potuto valutare in termini di convenienza prima di accettare la limitazione alla propria libertà di progettare il proprio
futuro lavorativo, in cambio di un corrispettivo da parte del datore di lavoro. Consentire quindi al datore di lavoro di
liberarsi ex post dal vincolo di non concorrenza e di non dover pagare il relativo corrispettivo priverebbe di certezza
tale pattuizione e configurerebbe, conclude la Corte di Cassazione, una violazione palese dell’art.2125 c.c.
Principali precedenti giurisprudenziali Conformi Cass., Sez. Lavoro, sent. 16 agosto 2004, n.15952 Cass., Sez. Lavoro, sent. 13 giugno 2003, n.9491
Contrari Cass., Sez. Lavoro, sent. n.3625/83 Cass., Sez. Lavoro, sent. n.1968/80 Cass., Sez. Lavoro, sent. n.1686/78
RETRIBUZIONE
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza 4 gennaio 2013, n.110 Lavoratore delle ferrovie – termine del turno dopo le fasce previste per mangiare – diritto al buono pasto giornaliero – sussiste
Massima
Il lavoratore delle ferrovie che termina il servizio dopo una delle due fasce previste dal contratto collettivo per
mangiare ha diritto a ricevere un buono pasto giornaliero.
Commento
La vicenda sottoposta all’esame della Cassazione riguarda un dipendente del gruppo Ferrovie dello Stato Italiane che
vantava il diritto alla corresponsione del buono pasto nei giorni in cui terminava il turno di servizio in un orario nel
quale era interamente ricompresa la fascia oraria deputata dalla contrattazione collettiva al consumo dei pasti, ovvero
dalle 12.00 alle 14.00 e dalle 19.00 alle 21.00. La Suprema Corte ribalta il decisum della Corte d’Appello: questa,
infatti, aveva previsto che il presupposto di diritto rivendicato dal ricorrente andava individuato nell’impossibilità di
consumare il pasto in ambedue le fasce orarie previste dal contratto, con la conseguenza che laddove il servizio ne
pregiudicava una sola, il lavoratore non aveva diritto ad alcun beneficio. La Corte ha invece statuito che qualora il
servizio reso dal lavoratore copra entrambe le fasce orarie previste dalla contrattazione collettiva e, per conseguenza,
questi sia impossibilitato a consumare i relativi pasti presso la propria dimora proprio per la coincidenza con un turno
lavorativo, ha diritto a un buono pasto (quindi al pasto aziendale). In altre parole, la norma collettiva di settore in
questione va interpretata nel senso che i lavoratori hanno diritto ad un solo buono pasto laddove il servizio
comprenda l’una o l’altra delle fasce, mentre hanno diritto a due pasti aziendali nell’ipotesi in cui il servizio pregiudica
entrambe.
Principali precedenti giurisprudenziali
Conformi Cass., Sez. Lavoro, sent. 2 luglio 2009, n.15496 Cass., Sez. Lavoro, sent. 17 giugno 2005, n.13067
Contrari