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1 ECONOMIE DI SCALA E DI SCOPO NEL SETTORE BANCARIO: UNA RASSEGNA TEORICA Simona Costagli e-mail: [email protected]; Il lavoro presenta una rassegna dei principali contributi all’analisi delle eco- nomie di scala e scopo nelle banche e mostra come i risultati ottenuti siano fortemente condizionati dalle definizioni di input e output adottate, dalla considerazione o meno dei canali distributivi e del rischio. Negli anni più re- centi, l’attenzione è stata posta sul modo in cui la forma della funzione di co- sto influisce sul risultato finale. Infine, seppure mai esplicitamente, la nor- mativa sulla regolamentazione sembra aver costituito uno sfondo importante agli studi condotti, quanto meno nell’offrire spunti di riflessione. A parte gli Stati Uniti, l’Italia è l’unico paese che abbia prodotto un flusso regolare di studi sul tema. Per tale motivo, la rassegna analizza prima la let- teratura statunitense, illustrandone la ricchezza dei contributi tecnici e teori- ci, poi quella italiana, ponendo maggiore attenzione ai risultati raggiunti. This paper presents a review of the literature on scale and scope economy in banks. It shows that the conclusions of these models are often conditioned by input and output definitions, by the inclusion of bank distributive channels and by the consideration of the role of risk. In the last years the literature has stressed the relevance of the functional form of the cost function. Even the regulatory regime appears to has been relevant at least to stimulate the analyses on these themes. The USA studies on the theme are more rich and detailed than any others, so in this paper we first consider them: in particular their technical elements; then, in the second section we consider the results of Italian studies, which are interesting even if less careful. JEL CLASS.: C21; C31; G21 Keywords: modelli di analisi delle economie di scala; costi e dimensioni del- le banche.

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ECONOMIE DI SCALA E DI SCOPO NEL SETTORE BANCARIO: UNA

RASSEGNA TEORICA

Simona Costagli e-mail: [email protected]; Il lavoro presenta una rassegna dei principali contributi all’analisi delle eco-nomie di scala e scopo nelle banche e mostra come i risultati ottenuti siano fortemente condizionati dalle definizioni di input e output adottate, dalla considerazione o meno dei canali distributivi e del rischio. Negli anni più re-centi, l’attenzione è stata posta sul modo in cui la forma della funzione di co-sto influisce sul risultato finale. Infine, seppure mai esplicitamente, la nor-mativa sulla regolamentazione sembra aver costituito uno sfondo importante agli studi condotti, quanto meno nell’offrire spunti di riflessione. A parte gli Stati Uniti, l’Italia è l’unico paese che abbia prodotto un flusso regolare di studi sul tema. Per tale motivo, la rassegna analizza prima la let-teratura statunitense, illustrandone la ricchezza dei contributi tecnici e teori-ci, poi quella italiana, ponendo maggiore attenzione ai risultati raggiunti. This paper presents a review of the literature on scale and scope economy in banks. It shows that the conclusions of these models are often conditioned by input and output definitions, by the inclusion of bank distributive channels and by the consideration of the role of risk. In the last years the literature has stressed the relevance of the functional form of the cost function. Even the regulatory regime appears to has been relevant at least to stimulate the analyses on these themes. The USA studies on the theme are more rich and detailed than any others, so in this paper we first consider them: in particular their technical elements; then, in the second section we consider the results of Italian studies, which are interesting even if less careful.

JEL CLASS.: C21; C31; G21 Keywords: modelli di analisi delle economie di scala; costi e dimensioni del-le banche.

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ECONOMIE DI SCALA E DI SCOPO NEL SETTORE BANCARIO: UNA RASSEGNA TEORICA∗

Simona Costagli

1. Introduzione

Negli Stati Uniti il tema relativo alla relazione tra costi, dimensioni e re-te distributiva nel sistema bancario si inserisce nel corso del tempo in un ampio dibattito circa l’opportunità di modificare un sistema caratterizzato da un forte localismo e da una dimensione ridotta della maggior parte degli isti-tuti bancari. Per questo motivo, spesso le conclusioni cui i modelli empirici giungono risultano strumentali a sostenere determinate posizioni circa la di-rezione da intraprendere per riformare la struttura bancaria del paese. In par-ticolare, gli studi pioneristici sul tema tendevano a valorizzare la piccola di-mensione di gran parte delle banche USA rilevando per queste economie di scala positive, al contrario delle banche maggiore in cui invece prevalevano rendimenti decrescenti. Successivamente, l’affinamento delle tecniche utiliz-zate (sia per la definizione della funzione di costo, sia per la gestione dei da-ti) ha permesso di rendere più robusti i modelli di analisi, includendo varia-bili che permettono di tener conto dell’influenza della struttura dei mercati, dei canali distributivi e soprattutto (in epoca recente) dell’impatto che la non neutralità verso il rischio da parte dei manager bancari può avere sulla de-terminazione dei costi. Alcuni modelli più recenti hanno quindi in parte modificato le conclusioni più antiche, rilevando economie di scala crescenti anche per le grandi ban-che. Vi è comunque da sottolineare che, come si vedrà, il diverso impianto tecnico utilizzato nei vari modelli può costituire uno dei principali motivi della diversità dei risultati raggiunti, insieme, ovviamente, alla scelta del si-gnificato da attribuire a concetti fondamentali come quelli di input e output bancari.

A parte gli Stati Uniti, l’Italia è l’unico paese che, a partire dagli anni Sessanta, abbia prodotto un flusso considerevole e regolare di studi sul tema delle economie di scala e di scopo nel settore bancario (seppure di portata non paragonabile a quello statunitense). Anche in questo caso, tuttavia, le indicazioni fornite seguono abbastanza fedelmente la traccia indicata nel corso del tempo dalla regolamentazione, e in particolare da quella specifica sulla rete degli sportelli. In Italia, inoltre, raramente le analisi empiriche sono contributi originali al tema, più spesso esse prendono le mosse da analoghi modelli elaborati negli Stati Uniti (che peraltro presentano una continuità di analisi e una ricchezza di spunti di riflessione senza eguali). Per tale motivo,

∗ Ringrazio il professor Roncaglia per la paziente lettura di una versione prelimina-re del lavoro. Resto comunque l’unica responsabile delle opinioni espresse.

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la rassegna analizza nella prima parte la letteratura statunitense, avendo cura di sottolineare la ricchezza dei contributi tecnici e teorici. Nella seconda par-te sono poi presentati i principali contributi italiani, avendo cura di porre in maggiore evidenza i risultati raggiunti.1

Preliminare a tale rassegna è tuttavia un rapido accenno al concetto di prodotto bancario; a ciò viene dedicato il paragrafo seguente.

2. Il prodotto bancario nella letteratura: alcuni cenni

2.1. Il punto di vista macro e microeconomico

In letteratura la definizione di prodotto bancario riflette le ipotesi fatte sulle ragioni dell’esistenza e della specificità dell’intermediario banca. In termini generali le interpretazioni prevalenti ricadono in due filoni detti ma-cro e microeconomico.2 Nell’interpretazione “macroeconomica”, ben rias-sunta dalla posizione di Goldschmidt (1981), la funzione monetaria svolta dalle banche assume una rilevanza maggiore rispetto a quella creditizia (che si realizza attraverso la concessione di prestiti). Tale visione giustifica l’esistenza dell’operatore banca in virtù della sua capacità di offrire parte dei mezzi di pagamento esistenti nel sistema economico attraverso il processo di moltiplicazione dei depositi. La peculiarità del prodotto bancario risiedereb-be quindi nella capacità della banca di generare liquidità (moneyness) e poi-ché questo è un attributo delle sue passività, occorre privilegiare il momento della raccolta su quello dell’impiego dei fondi. I depositi sono quindi l’aggregato più adatto per approssimare l’output bancario.3

Diverso è l’aspetto rilevante nell’ambito dell’approccio microecono-mico, in cui viene privilegiato l’aspetto creditizio, ovvero il ruolo delle ban-che in quanto intermediari che prendono a prestito dalle unità in surplus per offrire risorse a quelle in deficit e che quindi offrono un insieme di servizi finanziari ai creditori e ai prestatori. L’essenza dell’attività bancaria secondo tale visione risiede nell’utilità addizionale che il prodotto bancario arreca al singolo utente; la definizione di output deve pertanto essere derivata da una valutazione empirica del livello di utilità apportato dai depositi e dai prestiti.

Nell’ambito di tale approccio, alcuni autori (Benston 1965, Bell e Murphy 1968a e 1968b, Mullineaux 1978, Gilligan, Smirlock e Marshall 1984 e Berger, Hanweck e Humphrey 1987) definiscono “produzione banca-

1 I modelli presentati nel lavoro riguardano solo la parte della letteratura basata sul

calcolo di indicatori di scala e di scopo a partire dalla stima di funzioni di costo con sti-me parametriche e semi non parametriche. Segnaliamo comunque, senza entrare in un’analisi dettagliata di tale letteratura, che esiste un altro filone di ricerca basato su modelli di frontiera a disturbi asimmetrici e sulla Data Envelopment Analysis.

2 Tali interpretazioni tendono a privilegiare rispettivamente la funzione monetaria e quella creditizia svolta dalle banche.

3 Goldschmidt ritiene che i servizi associati alle voci di attivo siano trascurabili e poco rilevanti per comprendere il ruolo delle banche in un’economia monetaria.

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ria” tutti i servizi offerti alla clientela (compresi i depositi) che determinano costi operativi. Sealey e Lindley (1977) invece riassumono la posizione di coloro i quali ritengono che una misura adeguata del prodotto bancario deb-ba essere scelta attraverso una rappresentazione del processo produttivo che colga gli aspetti di trasformazione economica (e non solo tecnica) che la produzione implica. In base a tale visione i depositi appaiono più un input che un output.

Secondo i due autori, per avere una teoria completa delle scelte delle i-stituzioni finanziarie è necessario superare una descrizione puramente tecni-ca del processo di produzione introducendo una valutazione in termini di va-lore. Come sottolinea Frisch (1965), la produzione in termini economici è il tentativo di creare un prodotto che abbia un valore più elevato rispetto agli input originari. Il problema diviene allora quello di chiarire cosa si intenda per valore più elevato e per chi.

Sia i prestatori sia i creditori della banca valutano i servizi bancari in virtù dell’utilità che da questi ricevono; tuttavia è l’impresa stessa che deve considerare output della produzione economica le attività che hanno un valo-re più elevato rispetto a quello degli input utilizzati e che siano tali che il lo-ro valore sia misurabile su un mercato di riferimento. In altre parole, secon-do questa impostazione lo sviluppo di una teoria della produzione bancaria deve partire dal presupposto che ciò che rileva è la valutazione che il merca-to dà delle attività, non i benefici che riceve la società.

I servizi offerti ai creditori e ai prestatori sono allora output in senso tecnico, non economico. I servizi offerti ai depositanti in particolare sono le-gati all’acquisizione di un input; infatti nell’erogarli l’impresa finanziaria so-stiene dei costi senza ottenere ricavi diretti. In un certo senso è come se i de-positi fossero un output intermedio. I servizi associati ai conti di deposito sono quindi semplicemente un pagamento per l’utilizzo dei fondi necessari a svolgere l’attività di intermediazione; di conseguenza, i costi che l’impresa finanziaria (banca) sostiene per attrarre i fondi sono in parte impliciti (legati all’utilizzo di lavoro e capitale necessari a offrire i servizi ai depositanti) e in parte espliciti, rappresentati invece dai tassi d’interesse pagati sui depositi.4

Secondo questo approccio, un concetto appropriato di output dal punto di vista dell’impresa finanziaria dovrebbe riferirsi esclusivamente ai servizi offerti ai debitori. Diviene quindi necessario quantificare tali servizi in ter-mini di unità fisiche.

4 La produzione per una impresa finanziaria è pertanto un processo a più stadi

che coinvolge output intermedi e in cui i fondi mutuabili acquisiti dai depositanti e serviti dall’impresa con l’utilizzo di lavoro, capitale e input materiali vengono utiliz-zati per la produzione di attività che generano reddito. Si tratta di un processo analo-go a quello che si verifica nelle imprese manifatturiere verticalmente integrate, dove è possibile che qualche comparto produca e offra output che vengono utilizzati diret-tamente come input in un altro processo.

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Secondo Sealey e Lindsay (1977), solo i servizi che la banca associa all’erogazione di attività fruttifere (earning assets) possono essere considera-ti prodotto in senso economico, poiché solo per queste il mercato è in grado di realizzare il processo di valorizzazione. In base a tale approccio, pertanto, i depositi sono il prodotto intermedio di un processo produttivo verticalmen-te integrato. In realtà, più che ai depositi tale definizione dovrebbe applicarsi a tutti i fondi utilizzati per lo stesso scopo dalla banca, come il patrimonio, i fondi rischi, i prestiti ottenuti dalla banca centrale, i fondi acquisiti sul mer-cato interbancario, le passività subordinate, le obbligazioni e così via. Nel caso specifico di fondi acquisiti tramite il canale dei depositi (debiti verso clientela ordinaria), tuttavia, la controparte per l’acquisizione prevede, oltre al pagamento di un interesse esplicito, un insieme di servizi tra cui gli asse-gni, le operazioni di pagamento utenze, e così via, che implicano l’impiego di risorse reali da parte della banca. In tal senso vengono quindi considerati input intermedi non solo l’ammontare dei depositi, ma anche tutti i servizi connaturati e inscindibili dalla fornitura dei depositi (amministrazione, mec-canismi di pagamento, e così via).

Se quindi viene privilegiata la visione che considera la banca trasfor-matrice di fondi (totale delle passività al netto delle riserve e della parte di patrimonio immobilizzato in macchine e beni immobili) dalle unità in sur-plus verso quelle in deficit, attraverso una combinazione con gli altri input rappresentati da lavoro e capitale fisico, i fondi messi a disposizione ai debi-tori dell’impresa bancaria (prestiti alla clientela, titoli e partecipazioni di proprietà della banca e prestiti ad altre banche) rappresentano il vero prodot-to.

2.2. L’approccio della “produzione” e quello dell’“intermediazione”

In letteratura le riflessioni teoriche sul concetto di prodotto bancario si riferiscono talvolta anche a due diversi approcci detti dell’“intermediazione” e della “produzione”, questi, grosso modo, riflettono le caratteristiche micro e macro dell’attività bancaria appena viste. In particolare, l’approccio dell’intermediazione fa riferimento alla funzione di trasformazione delle passività con un elevato grado di liquidità in attività finanziarie con diversa scadenza e rischio creditizio. In base a tale approccio, dai costi (reali e finan-ziari) sostenuti dalla banca per effettuare tali operazioni è possibile indivi-duare i fattori produttivi e le materie prime impiegate nel processo produtti-vo, mentre dai ricavi di natura finanziaria è possibile risalire alle diverse ti-pologie di prodotto. Gli input sono quindi il lavoro, il capitale e l’insieme dei fondi raccolti, mentre gli impieghi, che figurano all’attivo dello stato patri-moniale della banca, e le altre attività in servizi che non risultano strettamen-te collegate all’intermediazione creditizia rappresentano gli output del pro-cesso produttivo.

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L’approccio della produzione sottolinea invece l’aspetto tecnico dell’attività bancaria identificando come prodotti tutti i servizi che implicano un qualche utilizzo di fattori produttivi. Tra gli output quindi rientrano non solo le attività che originano ricavi finanziari, ma anche quelle passività che, pur figurando come costo nella determinazione del rischio economico della banca, comportano tuttavia un impiego di lavoro e capitale. In questo senso i depositi non rappresentano la materia prima del processo produttivo ma un prodotto intermedio della funzione di intermediazione che risulta da un pro-cesso produttivo di cui occorre valutare l’efficienza.

Per quanto riguarda gli input, coerentemente con la rappresentazione a-dottata del processo produttivo, questi sono lavoro e capitale nella forma di macchinari e immobili.

3. La letteratura statunitense sulle economie di scala e di scopo

3.1. Gli elementi alla base dei modelli empirici: le prime analisi e l’uso della funzione Cobb-Douglas

Il procedimento standard nei modelli di analisi delle economie di scala prevede la costruzione degli indicatori a partire dalla stima di una funzione di produzione. Una tale impostazione richiede scelte oltre che sulla defini-zione output e input bancari, sul tipo di relazione funzionale con cui rappre-sentare la funzione di produzione, sull’opportunità di considerare i canali di-stributivi o il ruolo del capitale proprio come variabili indipendenti insieme ai prezzi degli input. Nel corso del tempo, l’attenzione dei vari studiosi si è concentrata diversamente su ognuno di questi elementi, e ancora oggi non vi è un’opinione condivisa né sulla loro effettiva rilevanza né, soprattutto, sui risultati delle analisi.

In realtà, sin dagli studi pionieristici di Alhadeff (1954) e Horvitz (1963), le analisi sui rendimenti di scala, tranne alcune eccezioni, (Mulline-aux 1978) sono state condotte utilizzando al posto della funzione di produ-zione quella di costo (di più facile gestione) sfruttando la proprietà duale.

L’idea fondamentale alla base dei primi studi sul tema (Alhadeff 1954, Horvitz 1963, Bell e Murphy 1968a e Benston 1972) è che le banche (in par-ticolare le commercial banks e le savings & loan associations,5 tipologie considerate in queste prime analisi) siano imprese multiprodotto in cui ogni

5 Negli Stati Uniti il termine commercial banks si riferisce a banche di credito ordinario puro. Esse svolgono operazioni di provvista rimborsabili a vista (o con breve preavviso), operazioni di impiego come anticipazioni o sconti e una serie di servizi accessori come custodia di titoli e valori, servizi di tesoreria e così via. Le savings & loan associations sono istituzioni di risparmio private che concedono mu-tui garantiti da ipoteca di primo grado su immobili ubicati entro un raggio di 50 mi-glia dalla propria sede, con fondi che si procurano con la vendita di certificati azio-nari di investimento.

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output e servizio offerto può essere realizzato con un processo produttivo se-parato dagli altri. Si tratta di un’ipotesi fondamentale che giustifica la stima di n distinte funzioni di costo, una per ogni output considerato, per le grandi banche e implica invece la costruzione di un indicatore complessivo dell’output per le banche di minori dimensioni, per le quali l’imputazione dei costi alle varie attività diviene impossibile.6

Sia nel modello di Bell e Murphy sia in quello di Benston la rappre-sentazione della funzione di costo avviene attraverso una forma funzionale di tipo Cobb-Douglas. Nel primo dei due studi l’output è rappresentato da depositi a vista, a risparmio, prestiti rateali, mutui e prestiti immobiliari mi-surati in termini di numero di conti e la funzione è arricchita da una serie di variabili dummies necessarie a rendere omogenea la misura prescelta dell’output (i conti possono infatti differire per dimensione, tipo di servizio reso e composizione) e a tener conto del modo in cui avviene l’espansione della scala di produzione.7

Il modello rileva la presenza di economie di scala per quattro delle cinque funzioni stimate; questo, associato alla lettura dei coefficienti delle dummies indicative della struttura per filiali, porta gli autori alla conclusione che le economie di scala rappresentano un fattore significativo nella riduzio-ne dei costi delle banche, ma solo quando l’espansione avviene a parità di numero di filiali.

Come si è accennato, in questi primi modelli la forma funzionale adot-tata per la rappresentazione della funzione di costo è una Cobb-Douglas.8 In base a tale relazione funzionale è possibile ottenere stime coerenti delle eco-nomie di scala se si assume implicitamente che l’output sia esogenamente determinato e che l’impresa operi in modo da minimizzare i costi (Bell e Murphy 1968b, Benston 1972).9

6 Tale impostazione non permette evidentemente di considerare le complemen-

tarità di costo che si realizzano in un’impresa multiprodotto. Per una trattazione più approfondita di questo punto si veda la critica a questo tipo di impostazione proposta nel paragrafo 4.

7 L’aumento della produzione infatti può avvenire sia con un aumento dell’output a parità di numero di sportelli, sia con un aumento del numero delle di-pendenze associato all’aumento dell’output; il costo associato all’aggiunta di nuove dipendenze deve pertanto essere distinto da quello connesso all’espansione di una struttura esistente.

8 La funzione Cobb-Douglas, come dimostrato da Nerlove (1965) e Walters (1963), è un’equazione in forma ridotta dalla quale possono essere ottenute stime univoche dei parametri strutturali, ovvero attraverso la quale la funzione di produ-zione è perfettamente identificata, se i coefficienti dei fattori di produzione hanno somma pari a uno.

9 Quest’ultima ipotesi viene considerata valida soprattutto nel caso di istituzioni finanziarie private. Benston non spiega il motivo, ma ritiene che vi possano essere problemi nel caso delle savings and loan associations. La seconda ipotesi, ovvero

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Nel 1972 il modello elaborato da Bell e Murphy viene riproposto da Benston che individua consistenti economie di scala soprattutto consideran-do come output i depositi a vista e i prestiti per l’acquisto di beni immobili.

Tra gli studi di questo periodo uno dei pochi a non rappresentare la funzione di costo con una forma di tipo Cobb-Douglas è quello di Schweiger e McGee (1961) che definiscono una funzione di regressione multipla in cui le variabili indipendenti sono una serie di fattori che influenzano i costi:

Ci/Ai = b0 + b1Mi + b2Di + Σj bjEji + b3Gi + Σk bk Oki;

dove:

Ci/Ai sono i costi operativi totali sulle attività totali della banca i-esima; Mi è una variabile dimensionale posta una volta uguale ai depositi e un’altra alle attività totali; b1 è un coefficiente di scala (se negativo indica la presenza di economie di scala); Di ed Ej rappresentano rispettivamente i depositi a ri-sparmio sul totale dei depositi e un insieme di attività fruttifere; Gi è la per-centuale di crescita delle attività e Ok racchiude altre variabili di struttura.

Studi impostati su tali semplici funzioni di regressione vennero presto messi da parte dagli altri analisti e criticati poiché a una tale impostazione non era sottesa alcuna specifica teoria della produzione. La motivazione data è che il principio che permette lo studio delle economie di scala attraverso l’analisi della funzione di costo è dovuto alla corrispondenza tra quest’ultima e la funzione di produzione in un’impresa che minimizza i costi, cosicché se le economie di scala sono una proprietà della funzione di produzione lo sono anche della funzione di costo associata. Ciò significa che la funzione di costo specificata deve essere coerente con il tipo di struttura organizzativa della produzione dell’impresa, condizione che risulta pertanto violata anche dai primi lavori di Alhadeff (1954), Horvitz (1963), Gramley (1962), Schweiger e McGee (1961), Greenbaum (1967) e Powers (1969). Bell e Murphy (1968a e 1968b) e Benston (1972), d’altro canto, pur considerando funzioni di costo (e quindi di produzione) ben definite, le stimano indipendentemente l’una dall’altra e ciò impedisce loro di tener conto delle interrelazioni esistenti tra i vari output; così, ad esempio, considerare i prestiti per l’acquisto di beni immobili, i mutui aziendali e i prestiti rateali mutuamente indipendenti non

che un modello uniequazionale sia sufficiente a tracciare la curva dei costi solo se l’output risulti esogeno al modello è rispettata se si suppone: che l’output sia deter-minato dalla domanda del mercato locale di riferimento; che la tecnologia utilizzata nell’industria bancaria sia comune a tutte le banche (che possono quindi usarla ai costi più bassi); che vengano esclusi dalla definizione di costi operativi quelli affron-tati per spostare la curva di domanda: spese per interessi e per la pubblicità. Ciò chiaramente nell’ipotesi che i depositi fossero parte dell’output bancario.

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permette loro di considerare la tecnologia della gestione di portafoglio che li lega insieme.

Nel 1972 Schweitzer effettua uno studio su un campione di banche co-stituite nella forma di holding company10 in cui per la prima volta la spesa per interessi viene esplicitamente considerata parte dei costi operativi.11 Tale scelta non indeboliva l’ipotesi di base che l’output fosse esogeno al modello, poiché le banche statunitensi erano all’epoca di dimensioni piuttosto piccole e il loro legame con i clienti così forte che difficilmente manovre sui tassi d’interesse, peraltro rigidamente vincolati dalla Regulation Q,12 avrebbero potuto spostare significativamente la curva di domanda, che quindi poteva essere considerata “data”, come il livello dell’output, senza bisogno di inse-rire funzioni esplicite che ne spiegassero il livello.

L’ulteriore passo in avanti rispetto agli studi precedenti consiste nell’utilizzare un’unica funzione di costo in cui l’output viene sostituito da un indicatore dello stesso. Per costruire tale indicatore l’autore segue l’approccio di Greenbaum (1966), assumendo i rendimenti correnti dei pre-stiti come base per il calcolo. Tale approccio si basa sull’idea che il rendi-mento di un’attività finanziaria sia una buona prima approssimazione delle

10 Date le caratteristiche del campione utilizzato, nello studio non si fa accenno

al confronto tra banche monosportello o con filiali, ciò poiché le bank holding com-panies nacquero come strumento per superare il divieto all’apertura di filiali soprat-tutto in stati diversi da quello di origine.

11 Un’importante caratteristica di molte analisi sui costi bancari di questo perio-do (che sono confinate al solo studio delle economie di scala, senza alcun riferimen-to a quelle di scopo) è quella di escludere la spesa per interessi dal computo dei costi operativi: la motivazione reale di tale scelta, come si è visto, derivava dalla necessità di rendere l’output esogeno al modello. Affinché ciò si verificasse era necessario supporre che questo fosse funzione della domanda del mercato di riferimento, e che questa fosse data; per renderla tale vennero esclusi dal modello gli elementi che po-tevano influenzarla: spese per la pubblicità e, appunto, la spesa per interessi. La giu-stificazione data per argomentare tale scelta era che la spesa per interessi era una spesa “finanziaria” e non reale per la società, e in quanto tale non idonea a misurare l’efficienza sociale. L’obiezione più immediata è però che questa spesa rappresenta un costo reale per le banche che la sostengono e non tenerne conto significa ignorare tutto il processo di “tecnologia finanziaria” con cui i depositi vengono trasformati in prestiti e che viene riassunto nella funzione di produzione. Poiché inoltre l’identificazione dei parametri che costituiscono la funzione di produzione attraverso quella di costo è possibile solo se vale l’ipotesi che i banchieri minimizzino i costi, è evidente che questi terranno conto dei costi che sono “reali” per loro, e non per la società.

12 La Regulation Q fu introdotta dopo i fallimenti bancari dei primi anni Trenta e vietava agli istituti di deposito la remunerazione dei depositi a vista ponendo tetti alle altre tipologie. Venne abolita definitivamente solo nel 1986.

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risorse necessarie a servire un’unità monetaria di attività.13 Per quanto ri-guarda le attività detenute sotto forma di titoli, si assume che il rendimento sia dato e pari a RS; l’ipotesi è infatti che l’offerta di titoli sia perfettamente elastica e che non esistano imperfezioni del mercato che possano modificare tale assunzione. I pesi degli output diversi dai titoli vengono stimati attraver-so un’equazione deflazionata del tipo: (RL/A) = a + Σi ri (Li/A) + u; con RL = Σi ri Li,

dove: Li sono i prestiti, ri i tassi d’interesse, A sono le attività totali della banca (per cui RL/A è il rendimento medio sulle attività) e u è un termine di errore con media pari a zero e varianza costante.

L’equazione stimata viene quindi arricchita con variabili dummies per tenere conto della collocazione geografica (in particolare per distinguere le banche che operano in aree metropolitane, più competitive, da quelle che o-perano nelle aree rurali). Il valore stimato di r (r^) viene quindi utilizzato come peso per definire l’output: Y = Σ r^Li + Rs.

Il modello proposto da Schweitzer viene quindi completato dall’introduzione di una serie di variabili strutturali che rilevano se la banca faccia o meno parte del Federal Reserve System o se sia o meno parte di una holding company. Queste vengono riassunte in una funzione che, combinata con una funzione dell’output, in modo da ottenere una funzione di produzio-ne omotetica con isoquanti omotetici, dà luogo (grazie al teorema di Shepard sulle funzioni di produzione omotetiche) a una funzione di costo che, espres-sa in termini logaritmici, assume una forma del tipo:

logC = log a + (1/γ) log Y + β1 log Hi + β2 log Fj + log e dove: Hi indica una serie di variabili dummies inserite per tenere conto se le banche siano affiliate a holding grandi o piccole o se facciano parte del Federal Re-serve System; Fj rappresenta un insieme di dummies inserite per catturare l’impatto sui costi dei diversi livelli salariali dovuti alla collocazione geogra-fica delle banche; Y è un indicatore dell’output definito sopra.

Lo studio rileva la presenza di economie di scala per banche con attivi-

tà totali inferiori ai 3,5 milioni di dollari, rendimenti di scala costanti per banche con attivo tra i 3,5 e i 25 milioni di dollari e rendimenti decrescenti per quelle con un attivo superiore. È interessante notare come mentre per banche con attivo inferiore ai 3,5 milioni di dollari e superiore ai 25 milioni non si rileva una relazione significativa tra efficienza e affiliazione, per le banche della fascia intermedia l’appartenenza a una holding company divie-

13 L’approssimazione non è perfetta perché può riflettere imperfezioni del mer-

cato e soprattutto non rispecchia gli effetti di lungo periodo legati ai guadagni o alle perdite in conto capitale sui rendimenti effettivi.

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ne una possibile fonte di riduzione dei costi. L’affiliazione alle holding com-pany poteva quindi rappresentare una via che le banche monosportello ave-vano per sfruttare i benefici (legati alla maggiore articolazione territoriale) altrimenti usufruibili solo da banche situate in stati con legislazione più per-missiva in termini di apertura di sportelli.

Se si esclude il ricorso a una misura complessiva dell’output, che ha permesso la stima di un’unica funzione di costo, gli studi di questo periodo (inizio anni Settanta) non hanno aggiunto granché alla conoscenza dell’efficienza operativa delle banche rispetto agli approcci pioneristici di Alhadeff (1954) e Horvitz (1963). Secondo Mullienaux (1978) ciò sarebbe dovuto al fatto che questi studi facevano riferimento solo a ciò che egli defi-nisce “efficienza tecnica” (ovvero alla capacità di un’impresa di produrre più output a parità di input, rispetto ad altre imprese) mentre sarebbe stato utile considerare anche un’“efficienza di prezzo” (allocativa) che consiste invece nell’eguagliare il valore del prodotto marginale di ogni input al suo costo.

La novità dello studio di Mullineaux consiste nell’uso della funzione di profitto14 per lo studio di entrambi i tipi di efficienza: allocativa e tecnica.

L’approccio basato sulla funzione di profitto per lo studio dell’efficienza gode di una serie di proprietà; tra queste il fatto che il livello dell’output non compare come variabile nella funzione di profitto. Questo secondo Mullineaux rappresenta un vantaggio notevole;15 inoltre, poiché la funzione di profitto considera esplicitamente i prezzi, essa permette di defi-nire un concetto più ampio di efficienza rispetto agli studi precedenti sui co-sti bancari che considerano solo quella tecnica.16

Una tappa obbligata, anche in un modello basato sulla funzione di pro-fitto, consiste poi nella scelta di una forma funzionale per la rappresentazio-ne della funzione da stimare. La soluzione adottata da Mullineaux è partico-

14 La funzione di profitto esprime il profitto massimo che può essere ottenuto da

un’impresa che opera in un contesto concorrenziale in funzione dei prezzi dell’output e degli input (entrambi variabili) e delle quantità di fattori produttivi fis-si. Essa è non-negativa, convessa, non decrescente nel prezzo dell’output e nelle quantità di fattori fissi e non crescente nei prezzi degli input, omogenea di grado uno nei prezzi dell’output e degli input. Nel definire la funzione di profitto si assume che l’impresa operi in modo da massimizzare il profitto, che sia price-taker, sia nel mer-cato dell’output sia in quello degli input e che la funzione di produzione sottostante sia concava negli input.

15 La definizione dell’output bancario è infatti uno dei problemi che caratterizza gran parte degli studi sulla presenza di economie di scala basati sulla stima della funzione di costo.

16 Vi è tuttavia da sottolineare che nel modello di Mullineaux il profitto è e-spresso, oltre che in funzione dei prezzi degli input e della quantità dei fattori (fissi) della produzione, anche dei prezzi dell’output. Ciò significa che, se pure non inserito esplicitamente nella funzione, una definizione di output è comunque necessaria, e ciò ripropone gli stessi problemi che l’autore sosteneva di aver superato.

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lare. Egli infatti utilizza una funzione ibrida: translog nei prezzi dell’input lavoro e Cobb-Douglas nei prezzi dell’output, degli altri input e delle quanti-tà di fattori produttivi fissi. Ln π = a0 + Σi ailnqi + Σj bjlnpj + Σm smlnvm + 1/2ΣmΣj hmjlnvmlnvj + Σk ckzkin cui qi (i = 1, …, m) sono i prezzi degli m output; pj (j = 1, …, n) sono i prezzi degli n input diversi dal lavoro; vm (m = 1, …, t) sono i prezzi dell’input lavoro e zk (k = 1, …, w) le quantità di fattori fissi della produzione.17

Lo studio di Mullineaux considera quindi l’efficienza delle one-bank

holding companies (OBHC) e delle multi-bank holding companies (MBHC) (società finanziarie che controllano una o più banche rispettivamente) rispet-to alle banche non costituite sotto forma di holding.18 La variabile dipenden-te, i profitti bancari, è definita come ricavi operativi meno spese operative al netto dei costi di locazione.19 Le variabili esplicative considerate sono: i prezzi degli output (tasso sui prestiti per l’acquisto di beni immobili, sul cre-

17 Il vantaggio della “componente” translog è di rendere meno restrittive le ipo-

tesi sulle possibilità di sostituzioni tra input e output rispetto alla Cobb-Douglas. 18 I dati utilizzati sono quelli del Functional Cost and Profit Analysis Program-

me del Federal Reserve System. A tale proposito, vi è da dire che i diversi risultati cui gli studi giungono possono essere in parte imputati alle diverse basi dati cui fan-no riferimento. Le due fonti più utilizzate: il Functional Cost and Profit Analysis Programme (FCA) del Federal Reserve System e il Call Report and Financial Sta-tement Data della Federal Deposit Insurance Corporation della Federal Savings and Loan Insurance Corporation e del National Credit Union Share Insurance Fund, inol-tre, non sono tali da garantire una elevata rappresentatività dell’intero universo delle banche USA. In particolare, la prima tra le due fonti (anche per frequenza con cui è stata impiegata nei vari studi) ha il vantaggio di essere costruita con criteri contabili che permettono di isolare i costi per ciascuna funzione svolta dalla banca. Il proble-ma è che la partecipazione al programma FCA è volontaria: la mancanza di criteri oggettivi per la presentazione dei dati fa sì che le cifre fornite siano spesso frutto di manipolazioni di tipo “window dressing” operate dalle banche per mettere in risalto aspetti particolari della loro gestione. Inoltre, il campione della FCA è sbilanciato verso le banche di minori dimensioni con depositi solitamente inferiori ai 200 milio-ni di dollari.

Il Call Report contiene informazioni su una serie più ampia di istituzioni, e ri-chiede condizioni standard di segnalazione da parte delle banche che vi partecipano, cosa che facilita l’estensione dei risultati all’intero sistema. Mancano tuttavia tra le informazioni fornite il numero e l’ammontare medio delle relazioni di deposito e di finanziamento, e ciò rappresenta una notevole limitazione al campo di applicabilità di tali dati.

19 Seguendo McFadden (1966), dal cui modello prende spunto, l’autore esclude i costi di locazione dal calcolo dei profitti in quanto costi fissi (si veda Mullineaux 1978, p. 265).

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dito al consumo, sui prestiti commerciali e per l’agricoltura e canone d’affitto sulle cassette di sicurezza); i prezzi degli input (tasso salariale dei funzionari e degli impiegati, tasso sui depositi a vista, su quelli a risparmio, sui certificati di deposito, affitto per i computer – questa variabile viene inse-rita come indicatore della diversa produttività delle macchine); le quantità di fattori fissi (sportelli pienamente operativi, sportelli ad attività limitata, sta-zioni di pagamento e deposito, dimensione media degli sportelli a piena ope-ratività); lo status organizzativo (l’inserimento di queste due variabili serve a misurare l’influenza della struttura organizzativa sulla dimensione dei profit-ti); la struttura di mercato (numero relativo equivalente).

La presenza o meno di economie di scala è rilevata attraverso la stima dei coefficienti dei fattori fissi.20 Questa tuttavia può essere influenzata dalla regolamentazione in vigore nei vari stati, in particolare da quella relativa agli sportelli. Per tenere conto di questa intuizione nel modello viene inserita una variabile che misura l’impatto della struttura di mercato sui profitti: si tratta del “numero equivalente” (NE), che misura il numero di ipotetiche banche della stessa dimensione che genererebbero lo stesso grado di concentrazione esistente in quel mercato.21

I risultati della stima di quest’ultimo modello indicano una forte in-fluenza della regolamentazione nella misura delle economie di scala, in par-ticolare potenziali economie di scala sono rilevabili soprattutto nelle banche commerciali operanti negli stati a regolamentazione monosportello; tuttavia, come si è visto, la regolamentazione impedisce loro di sfruttare questo van-taggio attraverso l’ampliamento del numero di sportelli. Le economie di sca-la presenti nelle banche degli stati che permettono un libero insediamento delle filiali sono consistenti ma di intensità inferiore.22

In generale, le economie di scala individuate con lo strumento della funzione di profitto appaiono più consistenti rispetto a quelle stimate utiliz-zando la funzione di costo.

20 In particolare, se la somma di tali coefficienti è pari all’unità si può conclude-

re a favore dell’ipotesi di economie di scala costanti nel settore bancario. Ciò di-scende dalla condizione necessaria e sufficiente affinché la funzione di produzione sottostante a quella ibrida considerata sia omogenea di grado k (Mullineaux 1978, p. 268).

21 Il NE cattura informazioni sia relativamente al numero sia alla dimensione dei concorrenti presenti su un mercato ed è pertanto migliore di un semplice indice di concentrazione da utilizzare come misura proxy del grado di concorrenza di un mer-cato. Un valore consistente di NE suggerisce un elevato grado di concorrenza.

22 Lo studio di Mullineaux sembra quindi confermare l’utilità della costituzione delle MBHC come strumento per superare le limitazioni all’insediamento di nuovi sportelli: tale struttura organizzativa permetterebbe infatti alle banche monosportello

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3.2. La rappresentazione della funzione di costo con la translogarit-mica

Come si è visto, negli studi condotti prima del 1978 l’analisi delle eco-nomie di scala avveniva attraverso la stima dei coefficienti di una funzione di costo rappresentata con una relazione funzionale di tipo Cobb-Douglas. Questa presenta tuttavia una serie di limiti.23

lo sfruttamento di economie di scala altrimenti precluse dal divieto di aprire dipen-denze.

23 La funzione Cobb-Douglas «può essere interpretata nei termini della teoria marginalistica della produzione se risponde a un certo numero di requisiti. L’elenco di tali requisiti è impressionante ed è impressionante il loro totale divorzio dalle ca-ratteristiche dell’economia contemporanea» (Sylos Labini 1996, p. 259). Sylos La-bini (1996) elenca tali requisiti, tra questi: il fatto che sia necessario presupporre condizioni di concorrenza nei mercati coinvolti e che i rendimenti siano costanti af-finché possa essere applicato il teorema di Eulero (si veda Giusti 1994).

Essa gode di una serie di proprietà analitiche che ne hanno facilitato l’impiego tra cui: l’applicabilità del teorema di Eulero (nel caso, come si è visto, in cui sia va-lida l’ipotesi di omogeneità lineare); il fatto che i coefficienti rappresentano le ela-sticità del prodotto rispetto ai diversi input e che l’elasticità di sostituzione tra i fat-tori sia pari all’unità. L’impostazione “statica”, che prevede l’omogeneità lineare della funzione, può essere adattata a situazioni dinamiche ipotizzando l’esistenza di una relazione sistematica tra l’efficienza del sistema produttivo e il livello di produ-zione, ovvero, dal punto di vista analitico, che la somma dei coefficienti sia diversa dall’unità. Tale soluzione (oltre a impedire l’applicazione del teorema di Eulero) presenta una forte implicazione soprattutto se la Cobb-Douglas viene utilizzata per studiare l’eventuale presenza di economie di scala poiché richiede, come ipotesi a priori, di stabilire se i rendimenti di scala siano costanti o meno.

Un’alternativa può essere quella di tenere conto di aumenti autonomi di effi-cienza che possono caratterizzare gli effetti e le variazioni della produttività globale indipendentemente dai fattori introducendo un termine di trend (ad esempio di tipo esponenziale). Se si mantiene la condizione che la somma degli esponenti sia pari all’unità, esso finisce per inglobare anche gli effetti degli eventuali rendimenti di scala. Rimane comunque irrisolto il problema di dover stabilire a priori la presenza o meno di rendimenti di scala costanti.

Per quanto riguarda la stima dei parametri della Cobb-Douglas, il metodo più applicato nelle ricerche empiriche è quello dei minimi quadrati ordinari, il problema viene affrontato introducendo un termine moltiplicativo stocastico eu e linearizzan-do la funzione con i logaritmi. Si dimostra (Griliches 1957) che le stime da questa ottenute applicando il metodo dei minimi quadrati ordinari sono distorte se la lista dei fattori inclusi non è completa: se ad esempio l’n-esimo fattore viene erroneamen-te omesso l’h-esimo coefficiente stimato presenta un errore sistematico pari a dnhαn, dove dnh è il coefficiente di lnxh nella regressione lineare (sull’espressione in termini logaritmici) del fattore omesso rispetto a quelli inclusi. Inoltre, se la stima dei para-metri non presuppone alcuna ipotesi condizionante (ad esempio che i mercati siano concorrenziali o che il profitto sia massimizzato) gli input possono non essere com-pletamente indipendenti e quindi far emergere fenomeni di collinearità (solo in parte

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Lo studio condotto nel 1982 da Benston, Hanweck e Humphrey è uno dei primi tentativi di utilizzare una funzione alternativa alla Cobb-Douglas per rappresentare la funzione di costo; essi adottano una specificazione di tipo translogaritmico trascendentale24 che nel caso specifico assume la for-ma: ln C = αC + αYlnY + βYY1/2(lnY)2 + αSlnS + βSS1/2(lnS)2 + βSYlnSlnY + αNlnN + βNN1/2(lnN)2 + βNYlnNlnY + αHH + βHSHlnS + Σjαj lnPj + ΣjβjYlnPjlnY + ΣjΣkγjk 1/2(lnPjlnPk) con j, k= L, K dove: C sono i costi operativi totali (esclusa la spesa per interessi) dei cinque prin-cipali prodotti bancari individuati nei: depositi a vista, a tempo e a risparmio, prestiti per l’acquisto di beni immobili, prestiti rateali e prestiti industriali e commerciali (che complessivamente contano per circa il 72% dei costi ope-rativi totali); Y è l’output bancario definito in tre modi diversi: indice di Di-visia, numero dei conti di deposito e prestito o loro ammontare in dollari. In ognuno dei tre casi la funzione di costo stimata è quindi unica, e fa riferi-

riducibili applicando stime ridge). Questo inconveniente non si presenta nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti. Un metodo di stima alternativo utilizzato in letteratu-ra, che offre stime migliori di quelle ottenibili con i minimi quadrati, è quello di Klein (1953) che utilizza i dati delle quote di valore del prodotto afferente ai fattori. Il problema è che questo richiede una serie di ipotesi di partenza (tra cui quella di rendimenti di scala costanti) che non permettono di verificare alcuna ipotesi alterna-tiva circa le economie di scala.

24 La funzione trascendente logaritmica (funzione translog) è stata introdotta a-gli inizi degli anni ’70 da Christensen, Jorgenson e Lau (1971, 1973). Essa esprime un’approssimazione locale del secondo ordine (talvolta del terzo) di un’arbitraria funzione due volte derivabile, ed è derivata da un particolare sviluppo in serie di Taylor-McLaurin troncato ai termini del secondo (terzo) ordine. Nella formulazione originaria della funzione (funzione di produzione, ma il caso è facilmente generaliz-zabile a quella di costo) non si assume alcuna ipotesi, tuttavia, si richiede che i pa-rametri soddisfino alcune condizioni affinché la funzione abbia un comportamento regolare: tra queste il fatto che la variabile dipendente cresca in modo monotóno ri-spetto alle esplicative e che i parametri siano simmetrici. Possono tuttavia esserci regioni dello spazio delle variabili esplicative in cui tali condizioni non sono soddi-sfatte. L’uso frequente di tale approssimazione in letteratura deriva dalla possibilità offerta da questa relazione funzionale di calcolare indicatori tra cui i rendimenti di scala. La procedura usuale di stima della funzione (di costo) prevede il calcolo di tante equazioni semilogaritmiche quanti sono i fattori, ciascuna delle quali fornisce la quota di costo di un dato fattore come funzione lineare dei logaritmi degli altri fat-tori. Tuttavia, se le assunzioni di base viste non sono valide, non è agevole accertare se i parametri stimati sono quelli di una translog o se costituiscono invece un insie-me spurio derivante da un’errata specificazione della funzione. Possono inoltre sor-gere problemi di stima (con i minimi quadrati ordinari o generalizzati) se i regressori sono variabili endogene.

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mento a una misura complessiva dell’output;25 S indica il numero degli spor-telli, sia a operatività piena sia a operatività limitata; N è una variabile inseri-ta per tener conto delle differenze nei costi operativi tra banche grandi e pic-cole, è data dal rapporto tra il valore in dollari dei conti di deposito e prestito e il numero dei conti. Tanto maggiore è il valore di questo rapporto tanto maggiore viene ritenuta la dimensione della banca;26 H è una dummy che indica l’appartenenza o meno a una holding.27 P, infine, è il prezzo del lavoro e del capitale (input utilizzati per la produzione dell’output bancario).28

Le stime mostrano la presenza di economie di scala nelle banche con filiali e diseconomie nelle monosportello (particolarmente consistenti quan-do i depositi sono superiori ai 50 milioni di dollari), per tutti i quattro anni considerati (1975-1978). In definitiva, in presenza di una maggiore domanda le monosportello aumentano il numero dei conti e dei servizi, cosa che viene fatta anche dalle banche con sportelli che tuttavia, aprendo nuove dipenden-ze, riescono a mantenere basso il numero medio di conti per filiale evitando diseconomie di scala (a livello di impianto). In base a tali considerazioni, gli studi che considerano fisso il numero degli sportelli nella funzione di costo (ovvero tutti quelli riportati dalla letteratura fino ai primi anni Ottanta) hanno senso secondo gli autori solo quando il confronto avviene a livello di “im-pianto”, divengono inappropriati quando questo avviene a livello di “impre-sa”, di organizzazione complessiva. In questo caso sarebbe necessario un modello che permetta sia all’output sia al numero di sportelli di variare.

25 Misurare quest’ultimo con il valore monetario di prestiti, depositi o totale del-

le attività equivale a pesare il numero di conti per il loro ammontare medio in dolla-ri. Con ciò tuttavia si assume che un dollaro di depositi a vista abbia sui costi opera-tivi lo stesso peso di un dollaro di prestiti, o di depositi a tempo o a risparmio e che questo peso sia uguale in ogni genere di banca. Secondo gli autori questi limiti sa-rebbero superati con l’utilizzo dell’indice di Divisia, che in termini semplificati è una somma del numero dei conti corretto per tenere conto del fatto che la struttura delle quantità e i costi unitari dei conti di deposito e prestito differiscono tra le varie banche

26 L’idea è che gli istituti di grandi dimensioni sopportino maggiori costi opera-tivi poiché offrono ai propri clienti una gamma di servizi più vasta; questa attrae de-positi di maggiori dimensioni che richiedono un monitoraggio più accurato e quindi più costoso.

27 Come già rilevato in precedenza, si tratta di una variabile importante perché permette di verificare se l’affiliazione a una holding sia un modo per sfruttare eco-nomie di scala garantite dall’apertura di nuovi sportelli in stati in cui tale operazione non era permessa.

28 I dati utilizzati in questo studio sono quelli del Federal Reserve Functional Cost Analysis Programme in cui (come si è visto) sono sotto-rappresentate le grandi banche.

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Interessante è a tale proposito la definizione di una nuova misura delle economie di scala (data da Benston, Hanweck e Humphrey) che viene “au-mentata” proprio per tenere conto delle due fonti di aumento dell’output nel-le banche con filiali: ESC* ≡ ESC + ESCS(dlnS/dlnY) dove ESC è la misura tradizionale delle economie di scala, ESCS è una misura delle economie di sportello e dlnS/dlnY indica la percentuale di variazione di sportelli associa-ta all’espansione dell’output. Il valore di tale rapporto per le monosportello è praticamente nullo cosicché, di fatto, ESC* = ESC.

In definitiva quindi le economie di scala “aumentate” misurate per le banche con sportelli sono il corrispondente delle semplici economie di scala per le monosportello.

I risultati del modello di Benston, Hanweck e Humprey, in generale, suggeriscono che la riduzione dei costi non sia l’incentivo principale a spin-gere le banche verso operazioni di fusione o costituzione di holding. I dati mostrano infatti che la fusione tra banche di dimensione superiore ai 25 mi-lioni di dollari di depositi determina un incremento dei costi operativi. Ciò significa che l’espansione in nuovi mercati ha un effetto benefico sui costi solo se si tratta di un’entrata “de novo” o se implica una fusione tra piccole banche.

4. L’evoluzione degli indicatori di scala e di scopo

Da quanto si è detto finora dovrebbe apparire piuttosto chiara la difficol-tà di gestire il concetto di banca come impresa multiprodotto. Come si è vi-sto, tale questione è stata affrontata da alcuni autori ricorrendo a una misura sintetica dell’output (Flannery 1981; Benston, Hanweck e Humphrey 1982), da altri trattando un insieme di funzioni separate per ogni singolo prodotto bancario (Bell e Murphy 1968a e 1968b, Benston 1972). In entrambi i casi queste soluzioni permettevano agli autori di riportare la questione al caso “monoprodotto”, e di considerare quindi esclusivamente le economie di sca-la, ignorando concetti invece fondamentali nell’analisi dei costi delle impre-se multiprodotto, come le economie di scala di prodotto specifico e le eco-nomie di scopo. Già nel 1977, tuttavia, W.J. Baumol aveva definito un con-cetto − il costo medio lungo il raggio (RAC – ray average cost) − che gene-ralizza quello di costo medio al caso multiprodotto senza ricorrere ad arbitra-ri indici per la rappresentazione dell’output. Il RAC collega i costi totali di produzione a un incremento proporzionale di tutti gli output.29 Rendimenti di

29 L’idea è di definire un output “paniere” costituito da proporzioni fisse dei vari

beni. Al variare delle quantità il “luogo” dei panieri a proporzioni fisse definisce un raggio (nel caso di due soli beni) o un iperpiano (nel caso di n beni) che si muove nello spazio degli output. Il RAC è definito come: c(ky*)/k con k scalare che indica

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scala crescenti implicano costi medi lungo il raggio decrescenti (DRAC); il concetto di economie di scala, valido nel caso di un’impresa monoprodotto, viene quindi esteso al caso multiprodotto da quello di costi medi lungo il raggio decrescenti (DRAC).

Nel caso di imprese che producono più beni, tuttavia, un’analisi dei costi che semplicemente generalizzi quella delle economie di scala mono-prodotto è insufficiente; occorre infatti considerare esplicitamente le com-plementarità di costo che, in un’impresa multiprodotto, intervengono quando il costo di produzione di un bene varia rispetto al livello di produzione di un altro bene. Queste danno luogo alle economie di scopo che si realizzano quando la produzione congiunta di m beni, da parte di una singola impresa, è meno costosa rispetto alla somma dei singoli costi di produzione degli m be-ni da parte di m diverse imprese. In base a tali considerazioni, per esaminare in modo appropriato la struttura dei costi nelle imprese bancarie è necessario costruire una funzione di costo in grado di evidenziarne la natura multipro-dotto. La metodologia prevalente degli studi pionieristici sul tema (Benston 1972, Bell e Murphy 1968a e 1968b) si basava, come si è più volte ribadito, sulla possibilità di rappresentare il processo produttivo delle banche attraver-so la stima di m diverse funzioni di costo per le m attività svolte dalla banca, ma ciò implica l’assunzione di indipendenza tra il costo marginale di produr-re l’output yi e quello di produrre l’output yj. Se esistono complementarità di costo, le stime che ne derivano sono certamente distorte. A tale proposito, Gilligan, Smirlock e Marshall in uno studio del 198430 sottolineano che, an-che quando il vettore di output è sostituito da uno scalare (come appunto il caso dell’indice di Divisia) e la funzione di costo stimata è unica, si preclude la possibilità di scorgere eventuali economie di scopo che sono invece fon-damentali nell’industria bancaria; l’output infatti non è trattato come un pa-niere, ma come un bene unico. Si rende quindi necessario adottare una rap-presentazione flessibile della funzione di costo, che sappia cogliere la carat-teristica della banca di essere un’impresa multiprodotto, che preveda come assunzioni a priori solo quelle necessarie per l’esistenza di una relazione duale tra la funzione di costo e di produzione e che permetta il calcolo delle economie di scala, di scopo e di prodotto specifico.

Secondo Gilligan, Smirlock e Marshall (1984), la funzione translog ri-assume tali caratteristiche; nel loro modello essa assume la forma: lnC = α0 + α1lnDN+ α2lnYN + ½ δ11(lnDN)2 + ½ δ22(lnYN)2 + δ12lnDNlnYN + c0lnD + ½ c1(lnD)2 + c11lnDlnDN + d0lnY + ½ d1(lnAVGLOAN)2 + d11lnYlnYN + β1lnPL + β2lnPK + ½ γ11(lnPL)2 + ½ γ22(lnPK)2 + γ12lnPLlnPK + ρ11lnPLlnDN + ρ12lnPLlnYN + ρ21lnPKlnDN + ρ22lnPKlnYN

un’espansione di k volte del raggio emanata dall’origine e passante per y* che rap-presenta un vettore m-dimensionale dell’output.

30 I dati utilizzati sono quelli del Federal Reserve Functional Form Analysis Programme del 1978.

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dove: C è la somma delle spese (escluse quelle per interessi) imputabili ai depositi a vista e a quelli a risparmio, ai prestiti per l’acquisto di beni immobili, ai prestiti commerciali e prestiti rateali; DN è la somma dei conti di deposito a vista e a risparmio; YN è la somma dei prestiti per l’acquisto di beni immobi-li, commerciali e i prestiti rateali; D è l’ammontare in dollari dei depositi a risparmio e di quelli a vista diviso per la variabile DN; Y è l’ammontare in dollari dei prestiti per l’acquisto di beni immobili, commerciali e dei prestiti rateali diviso per la variabile YN;31 PL è il salario medio orario del 1978 nell’industria manifatturiera dello stato in cui ha sede la banca considerata assunto come proxy dei salari bancari; PK sono i costi di affitto e locazione dei locali in cui ha sede la banca considerata (variabile proxy del costo del capitale).

I risultati in generale suggeriscono che il mercato bancario non è carat-terizzato da un monopolio naturale e che le economie di scala esistono solo in banche molto piccole. La produzione bancaria, d’altra parte, sembra carat-terizzata da complementarità di costo, in particolare si verifica una riduzione dei costi incrementali offrendo insieme depositi e prestiti. Tali considerazio-ni portano a ritenere che i risultati degli studi precedenti (in cui non si teneva conto della complementarità nei costi) siano poco affidabili, anche se in al-cuni di essi erano stati fatti tentativi di costruire indicatori di scala di prodot-to specifico.32

In base ai risultati delle stime del loro modello Gilligan, Smirlock e Marshall conclusero che la presenza di significative complementarità di co-sto tra le voci di bilancio delle banche indicava che meccanismi di regola-mentazione che cercano di imporre proporzioni o ammontari fissi di depositi e prestiti (ad esempio attraverso il controllo dei prezzi o delle quantità) pos-sono precludere il raggiungimento del punto di minimo efficiente del vettore dei costi. Il verificarsi inoltre di diseconomie di scala in corrispondenza di livelli di output piuttosto bassi implica che una politica che tenta di ampliare la scala di produzione delle banche attraverso il controllo all’entrata o inco-raggiando le fusioni non può essere giustificata sulla base di un presunto ri-sparmio in termini di costi. Le fusioni tra le piccole banche dovrebbero per-

31 Queste ultime due variabili sono inserite per tener conto del fatto che la di-

mensione media dei conti varia all’aumentare della dimensione della banca. 32 In particolare Brown, Caves e Christensen (1979) e Caves, Christensen e Tre-

theway (1981) avevano definito una misura complessiva delle economie di scala da-ta dalla somma delle elasticità di costo in corrispondenza di ogni output concluden-do a favore della presenza o meno di economie di scala a seconda che questa fosse maggiore o minore di 1. Sebbene tale misura fosse un “passo indietro” rispetto al RAC (poiché non teneva conto dell’espansione lungo tutte le linee di prodotto) essa arrivava tuttavia a risultati analoghi rispetto a quelli riassunti sinora.

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tanto essere preferite rispetto a quelle tra le grandi poiché solo nel primo ca-so i costi rimangono bassi.33

Nel 1986 Kim,34 aggiornando uno studio proposto nel 1983 da Murray e White, rileva la presenza di economie di scala globali modeste per la media delle credit unions (tipologia di banche che costituisce il campione di riferi-mento). Le economie di scopo risultano positive, in particolare quelle globali risultano superiori a quelle di prodotto specifico. Ciò indica che le credit u-nions possono ottenere risparmi dalla produzione congiunta di tutti gli output piuttosto che dall’aggiunta di un output a quelli già esistenti. In definitiva i risultati sembrano indicare che le credit unions di grandi dimensioni e multi-prodotto sono più efficienti in termini di costi rispetto alle piccole monopro-dotto. La maggiore efficienza deriverebbe dall’utilizzo congiunto degli in-put, dal risparmio in termini di costi di transazione, di informazione e dall’eliminazione di “frizioni” presenti sul mercato. L’analisi infine eviden-zia diseconomie di scala di prodotto specifico per i servizi diversi dai mutui ipotecari, cosa che non depone a favore dell’ipotesi che i costi incrementali medi siano decrescenti in ogni linea produttiva.

Nel 1987 Loretta Mester, con riferimento a un campione di savings & loan associations, ripropone l’utilizzo della translog per la rappresentazione della funzione di costo, ponendo particolare attenzione sul ruolo svolto dai canali distributivi (sportelli) nel determinare l’ampiezza dei costi operativi (e di conseguenza nell’influenzare la stima degli indicatori di scala e di sco-po).35

L’autrice stima due modelli: nel primo gli sportelli (S) vengono trattati come una componente tecnologica della produzione, una vera e propria ca-ratteristica del processo produttivo dell’impresa. La variabile S in questo ca-so interagisce con tutte le altre della funzione di costo. Gli indicatori che mi-surano le relazioni tra costi, output e prezzi degli input vengono quindi cal-colati supponendo che il numero degli sportelli sia costante. Nel secondo modello gli sportelli sono invece considerati una funzione dell’output che viene prodotto secondo la relazione: ln S = q0 + Σi qiln yi; il loro numero non

33 L’esistenza delle grandi banche sarebbe comunque giustificata per il fatto che

nonostante il RAC aumenti all’aumentare della dimensione dell’output, vi sono co-munque risparmi in termini di costo indotti dalle complementarità di costo. Inoltre, all’aumentare della dimensione la banca può espandersi verso nuove linee di prodot-to per creare complementarità di costo addizionali.

34 Kim nel suo articolo svolge un’interessante rassegna sul concetto di economie di scopo e sulle implicazioni che esso comporta nell’industria bancaria.

35 Uno dei principali limiti che la Mester rileva negli studi precedenti, in cui la rete di sportelli veniva considerata esplicitamente come variabile indipendente, era l’assunto sottostante che i costi operativi di ogni singola dipendenza fossero una percentuale costante dei costi operativi totali della banca.

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è quindi costante quando si considera la relazione tra costi, output e prezzi degli input.36

Nel modello a sportelli costanti sembra emergere la presenza di eco-nomie di scala nelle savings & loan medio-grandi mentre le piccole sembre-rebbero soffrire di consistenti diseconomie di scala.

Nel secondo modello le economie di scala, pure se presenti ad ogni li-vello dimensionale, tendono a diminuire all’aumentare della dimensione del-le banche. In definitiva, quindi, quando si tiene esplicitamente conto della possibilità di espandere la rete degli sportelli, il possibile guadagno derivante dall’incremento della scala delle operazioni appare piuttosto ridotto. Nessu-no dei due modelli mostra complementarità di costo per coppie di output per alcuna classe dimensionale di savings & loan associations. In nessuno dei due modelli è quindi verificata l’ipotesi che le savings & loan associations siano un monopolio naturale.

Il calcolo delle economie di scala di prodotto specifico richiede la de-terminazione del livello dei costi fissi associati a ogni produzione. Come già messo in evidenza da Kim (1986), uno dei problemi nell’utilizzo della tran-slog per la specificazione della funzione di costo è la difficoltà di stimare la funzione in corrispondenza di un output nullo. La Mester evita il problema calcolando la funzione di costo in corrispondenza di un output y* = (y1*, y2*, y3*) dove yi* è uguale al 10% di yi nel punto di minimo del campione.

In entrambi i modelli stimati le economie di scopo globali sono positi-ve ma esigue, come pure le economie di scopo di prodotto specifico degli output mutui ipotecari, titoli e fondi comuni, mentre non sono significative quelle degli altri prestiti e denaro liquido. La mancanza di economie di scopo è un’ulteriore evidenza dell’assenza di subadditività dei costi. Lo studio della Mester rileva in definitiva che le savings & loan associations non esibiscono né economie di scala globali o di prodotto specifico, né economie di scopo, né infine vi sono coppie di output che presentano complementarità di costo. In base a tali risultati empirici la tendenza riscontrata (verso la metà degli anni Ottanta) alla costituzione di savings & loan associations di maggiori dimensioni sembra derivare da considerazioni del tutto estranee alla possibi-le riduzione dei costi.37

Sempre nel 1987 Berger, Hanweck e Humphrey applicano per la prima volta il concetto di vitalità concorrenziale in un’impresa multiprodotto allo

36 Entrambi i modelli vengono completati imponendo le condizioni di simmetria e omogeneità dei coefficienti che permettono la corrispondenza tra la funzione di produzione e quella di costo.

37 Verso la metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti molte savings & loan asso-ciations fallirono (anche a causa dell’abolizione della Regulation Q, che fino a quel momento aveva limitato la concorrenza dal lato della raccolta). Le fusioni potrebbe-ro essere state quindi semplicemente frutto dell’annessione delle S&L in difficoltà da parte di quelle “sane” che in tal modo potevano ampliare il loro raggio d’azione limitato dalla regolamentazione sugli sportelli e sulla costituzione di holdings.

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studio sull’efficienza di costo nel settore bancario. Nella loro interpretazione una banca, in quanto impresa multiprodotto, è vitale in un mercato concor-renziale (competitively viable) se nessun altro gruppo di imprese con una di-versa scala di produzione e/o che producono un diverso mix di output può realizzare congiuntamente la stessa combinazione di prodotti a costi inferio-ri. La vitalità concorrenziale coincide con il produrre al costo medio minimo nel caso di un singolo prodotto. Tale concetto, così definito, implica la su-badditività dei costi; non è invece vero il contrario.

Gli autori rilevano come gli studi degli anni precedenti abbiano limita-to l’analisi a due contesti: alle economie di scala lungo il raggio (che con-frontano i costi tra imprese che differiscono nella scala di produzione ma non nel mix produttivo) e alle economie di scopo (che invece confrontano i costi di imprese che differiscono nel mix produttivo ma che hanno la stessa scala di produzione per ogni output). Tali analisi sono di poca utilità nella valutazione dei rapporti concorrenziali tra le banche, perché queste raramen-te (se non mai) producono lo stesso mix di output o si specializzano comple-tamente.

L’uso della translog nei vari modelli ha poi comportato ulteriori pro-blemi: in primo luogo la valutazione delle economie di scopo è sempre basa-ta sull’analisi delle complementarità di costo per una sola coppia di osserva-zioni (d2C(Y)/dYidYj ≥ 0) solitamente corrispondente alla media del cam-pione, quando invece la condizione sufficiente per la presenza delle econo-mie di scopo è che le complementarità di costo siano osservate per tutte le coppie di prodotti e per tutti i punti inferiori alla media (cosa che solitamente non è verificata). In secondo luogo tali economie di scopo tecnicamente non possono essere calcolate con l’uso della translog. Inoltre, quando in alterna-tiva sono calcolate in corrispondenza di livelli dell’output prossimi allo zero, la misura ottenuta può risultare inappropriata, e comunque fortemente di-pendente dalla “fedeltà” dell’approssimazione. I risultati relativi alle econo-mie di scopo possono pertanto essere drasticamente diversi a seconda di quanto si riesce ad approssimare a zero la misura dell’output.

Per cercare di superare questi limiti Berger, Hanweck e Humphrey u-tilizzano il concetto di vitalità concorrenziale e propongono due misure: il sentiero di espansione delle economie di scala e il sentiero di espansione del-la subadditività, che non si basano sull’ipotesi di mix produttivo costante o di specializzazione completa.

Si dice che un’impresa è vitale in un mercato concorrenziale se il costo che questa sostiene per produrre un determinato output non supera quello so-stenuto da un gruppo di imprese che producono complessivamente lo stesso output.38

38 Un’impresa che non soddisfa tale criterio può essere espulsa dal mercato da

concorrenti che operano a costi inferiori. Se quindi Y è il vettore degli output, C(Y) è la funzione di costo e t un fattore di scala, diremo che un’impresa che produce Y è

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Il sentiero di espansione delle economie di scala (SEESC) è definito come l’elasticità del costo incrementale rispetto all’output incrementale lun-go il sentiero che va da A a B (dove A e B sono due banche rappresentative di due diverse classi dimensionali) con B maggiore di A. SEESC(YA;YB) = dln[C(YA + t(YB – YA)) – C(YA)]/dlntt=1 = Σi [((YI

B – YI

A)/YIB)/((C(YB) – C(YA))/C(YB))]*dlnC(YB)/dlnYi .39

Sia le economie di scala lungo il raggio sia il sentiero di espansione delle economie di scala possono essere valutate a livello di impianto e a li-vello di impresa: analogamente agli altri studi sul tema ciò è ottenibile po-nendo il numero degli sportelli come variabile indipendente nella funzione di costo; questa sarà quindi una costante nel caso dell’impianto e varierà inve-ce in funzione dell’output Y nel caso dell’impresa (sportelli variabili). Igno-rando i costi legati alla costruzione fisica delle filiali, le economie di scala a livello di impianto e di impresa dovrebbero equivalersi se i costi sostenuti dalla banca fossero minimizzati, poiché in ogni caso dovrebbe essere dlnC(Y,S)/dS = 0 (con S numero delle filiali). Tuttavia, si verificano spesso fenomeni cosiddetti di overbranching, ovvero spesso le banche espandono la rete delle filiali oltre il limite che garantisce la minimizzazione dei costi semplicemente per favorire i clienti e ottenere maggiori ricavi; in questi casi dC/dS > 0. Di conseguenza è possibile che ESCR e SEESC a livello di im-pianto siano diversi dai valori a livello di impresa.

Come si è accennato, le economie di scopo sono uno “strumento” utile per misurare l’efficienza solo se l’ipotesi di specializzazione estrema è una possibilità realistica e vitale per una banca. In realtà ciò appare quanto mai improbabile: solitamente infatti banche di dimensioni diverse si specializza-no nella produzione di combinazioni di output diverse. Sembra allora più re-alistico indagare se i costi sostenuti da un’ipotetica banca B (rappresentativa delle banche della sua dimensione), che produce un determinato paniere di output, siano o meno più bassi di quelli sostenuti da due banche più piccole

vitale in un mercato concorrenziale se, per tutti i vettori di output Yi ≥ 0 e per ogni t>0 tale che ΣYi = tY, risulta che:

C(Y) ≤ tΣi C(Yi) (1). È quindi evidente che la subadditività dei costi è un caso particolare della vitalità concorrenziale che vale nel caso in cui t=1, ovvero i costi sono subadditivi se nessun altro gruppo di imprese può produrre lo stesso mix di output con la stessa scala di produzione più economicamente. La misura solitamente utilizzata per le economie di scopo è poi un sotto-caso della subadditività che richie-de che la (1) valga nel caso in cui t=1, e ogni vettore Yi contenga uno o più elementi di output pari a zero.

39 Come si vede, in questo indicatore il numeratore rappresenta la variazione percentuale dei costi che si ha quando ogni output varia nella stessa proporzione passando dal paniere di A a quello di B, mentre il denominatore è la differenza per-centuale nei costi tra le due banche calcolata dalla funzione di costo.

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A e D che producono complessivamente lo stesso paniere di output.40 Tale misura viene data dal sentiero di espansione della subadditività definito da: SESUB41 (YB) = [C(YA) + C(YD) – C(YB)]/C(YB); dove YA + YD = YB

Per valutare l’attendibilità di tali diversi approcci metodologici nel modello di Berger, Hanweck e Humphrey del 1987 vengono stimate diverse funzioni di costo utilizzando assunzioni diverse: due modi di misurare l’output bancario (seguendo una volta l’approccio della produzione e una volta quello dell’intermediazione); due livelli di organizzazione delle banche (impianto e impresa); due ambienti competitivi (l’appartenere o meno a stati con regolamentazione sugli sportelli).42

L’analisi viene riferita a due campioni, uno costituito da 413 banche attive in stati che permettono l’apertura di sportelli, l’altro a 214 banche di stati a regolamentazione monosportello. Il modello basato sull’approccio della produzione suggerisce che le banche piccole godono di economie di scala lungo il raggio che però divengono diseconomie man mano che la di-mensione aumenta. L’approccio dell’intermediazione fornisce risultati simi-li, eccetto che per le banche della classe dimensionale minore che sembrano invece molto vicine alla scala efficiente. Negli stati dove la legislazione im-pedisce alle banche l’apertura di sportelli, le conclusioni sono diverse: le banche godono di economie di scala quando sono molto piccole, ma si scon-trano con forti diseconomie quando le loro dimensioni aumentano.

I risultati relativi al sentiero di espansione delle economie di scala so-no molto erratici, nella crescita tra le varie classi dimensionali le banche al-ternano fasi in cui godono di economie di scala e altre in cui invece soffrono di diseconomie. Ciò suggerisce che le banche non scelgono di aumentare il loro mix produttivo solo sulla base della possibile minimizzazione dei costi.

I risultati per le banche con filiali mostrano economie di scopo mode-ste per le classi minori e severe diseconomie di scopo per le più grandi, an-cor più marcate per le grandi banche degli stati a legislazione monosportello.

La formalizzazione dei concetti di sentiero di espansione delle econo-mie di scala e di sentiero di espansione della subadditività, e la loro applica-zione al caso dell’industria bancaria, nonché il riconoscimento dei limiti dei concetti “più antichi” di economie di scala e di scopo hanno accomunato tut-ti gli studi sull’analisi dei costi bancari successivi a quelli della Mester e di

40 Dove A è rappresentativa delle banche della sua dimensione e D è una banca che produce l’output residuo pari alla differenza tra quello prodotto da B e quello prodotto da A.

41 Se SESUB (YB) < 0, l’impresa B non è vitale e può essere espulsa dal merca-to da una combinazione delle imprese A e D. Se al contrario SESUB (YB) >0, un’impresa che si trova ad un livello di produzione pari ad YA può essere invogliata ad ampliare la sua rete di sportelli e/o acquisire o fondersi con un’altra banca per ag-giungere l’output YD.

42 I dati utilizzati sono quelli del Functional Cost Analysis Programme (FCA) relativi al 1983.

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Berger, Hanweck e Humphrey (1987). Nonostante la similitudine dei model-li adottati, tuttavia, dall’inizio degli anni Novanta gli studi condotti utiliz-zando campioni di banche di varie dimensioni giungono a risultati contra-stanti. La diversità di questi risultati sembra suggerire che la stima della fun-zione di costo varia in modo sostanziale a seconda del campione utilizzato (si vedano a tale proposito Hunter et al 1990 e Noulas et al 1990). Gli studi considerati, infatti, impiegano la stessa tecnica econometrica adattando una funzione di costo di tipo translog a una popolazione di banche che presenta ampie variazioni in termini di dimensione e di output. L’adozione “globale” della translog sembra quindi inappropriata per la rappresentazione dei costi di alcuni tipi di banche, e ciò può essere la causa delle disparità dei risultati descritti.

5. Le tecniche di stima non parametriche e “semi non parametri-che”

La maggior parte degli studi realizzati nei primi anni Novanta rilevano la presenza di economie di scala solo nelle piccole banche (solitamente con at-tivo inferiore ai 100 milioni di $) e rendimenti decrescenti per le grandi ban-che. Berger e Humphrey (1990), ad esempio, trovano un picco nell’efficienza di scala in corrispondenza dei 100 milioni di $, questa decre-sce poi gradualmente nelle banche più grandi. Al contrario, Noulas, Ray e Miller (1990) con riferimento a un campione di sole grandi banche (con atti-vo superiore al miliardo di dollari) rilevano efficienza di scala per le banche con attivo compreso tra i 2 e i 10 miliardi di dollari. Ciò sembrerebbe indica-re che la stima della funzione di costo varia sensibilmente a seconda delle dimensione delle banche incluse nel campione.

Nel 1993 McAllister e McManus cercano di porre rimedio a tale pro-blema utilizzando tecniche di stima non parametriche. Secondo questi autori inoltre, gli studi precedenti sarebbero caratterizzati da un errore di fondo, ovvero dal fatto di ignorare il capitale finanziario necessario a proteggere i creditori dal rischio bancario, che invece rappresenta un importante input per il processo di intermediazione. Secondo gli autori l’ammontare di tale input dipende dal grado di diversificazione del portafoglio, e poiché le banche maggiori hanno più opportunità di diversificare l’attività, sia in termini terri-toriali sia di clienti, esso risulta correlato alla dimensione delle banche.

Riguardo al primo problema, vi è da dire che la funzione translog è stata sviluppata originariamente come un’approssimazione locale di qualche “sconosciuta” funzione di costo “sottostante” la relazione indagata. L’interesse per questo tipo di approssimazione deriva, come si è visto, dal fatto che essa non impone restrizioni sulle elasticità nel punto di approssima-zione. Tuttavia, una metodologia statistica che si basa sull’estrapolazione di un’approssimazione locale per ottenere risultati “globali” può avere poco successo se il comportamento della funzione in tal modo approssimata diffe-

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risce di molto rispetto al suo “comportamento locale”.43 L’applicazione della translog, per questo motivo, può portare a serie distorsioni nei risultati delle stime. Per cercare di quantificarle, McAllister e McManus stimano tre fun-zioni di costo (rappresentate con l’usuale translog): una sull’intero campio-ne,44 una sulle banche con un attivo superiore ai 500 milioni di dollari e una su quelle con attivo superiore ai 2,5 miliardi di dollari. Rispetto a quella sti-mata sul primo campione, l’efficienza stimata sulle banche con attivo com-preso tra 500 milioni e 2 miliardi di dollari cresce invece di decrescere, come solitamente riportato in letteratura (Berger e Humphrey 1992). Per il terzo campione questa si incrementa ulteriormente fino a circa 7 miliardi di dollari di attivo. Tali discordanze appaiono dovute alle distorsioni cui si è accenna-to; pertanto, anche il risultato “classico”, secondo cui le grandi banche sa-rebbero afflitte da rendimenti decrescenti, potrebbe essere falsato. In realtà il problema sembra derivare anche dalla confusione che spesso viene fatta tra effetti di scala ed effetti di sostituzione: le piccole banche producono vero-similmente mix di prodotti diversi dalle grandi, ciononostante la metodolo-gia utilizzata è standard per entrambe, ovvero, la translog viene utilizzata per l’intero campione anche se è verosimile che un’identica funzione dei costi non può rappresentare adeguatamente le due strutture produttive.

L’alternativa proposta dagli autori è quella di utilizzare tecniche non parametriche, in particolare la tecnica di Kernel (Hardle 1990) che permette di costruire una stima globale della funzione di costo formando medie pon-derate nelle diverse regioni localizzate; questa presenta tuttavia lo svantaggio di richiedere campioni molto ampi.

Le stime condotte da McAllister e McManus con le tecniche non pa-rametriche differiscono ampiamente rispetto a quelle condotte con la tran-slog; esse mostrano rendimenti di scala crescenti, oltre che nelle piccole banche, anche nella classe tra i 500 milioni di dollari e i 5 miliardi di dollari di attivo; oltre questa soglia prevarrebbero rendimenti di scala costanti. Le stime sull’efficienza di scala calcolate includendo il costo del capitale finan-ziario necessario affinché la banca possa svolgere la sua funzione di inter-mediario finanziario mostrano consistenti rendimenti crescenti per le banche fino a 500 milioni di dollari di attivo, che divengono poi costanti per quelle più grandi. In particolare, si rileva un ampio incremento dell’efficienza (cir-ca 35%) quando la dimensione delle banche aumenta da 10 milioni di dollari a 500 milioni di dollari di attivo totale.

Nonostante i provati limiti della translog, la maggior parte degli studi sull’efficienza di costo per il calcolo delle economie di scala e di scopo si

43 In particolare, già nel 1980 White aveva dimostrato che le stime ottenute con

il metodo dei minimi quadrati su un polinomio del secondo ordine come una tran-slog generalmente non corrispondono all’espansione in serie di Taylor della funzio-ne nel punto di espansione e sarebbero pertanto distorte.

44 Il campione fa riferimento ai dati del Call Report per il periodo 1984-1990.

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basa su tale forma funzionale. Ciò getta dubbi sull’attendibilità delle conclu-sioni cui questi giungono.45

Una valida alternativa potrebbe essere data dall’utilizzo di una forma funzionale di tipo Fourier flessibile (d’ora in poi FF) (Gallant 1981 e 1982), che è potenzialmente in grado di approssimare ogni funzione nell’intero spa-zio dei dati a disposizione. Tale approssimazione, inoltre, permette di rileva-re le distorsioni indotte dall’uso della translog, che ne rappresenta un caso particolare.46, 47

45 Nella maggior parte degli studi che utilizzano questa forma funzionale le sti-

me portano ad accettare l’ipotesi che nelle banche di grandi dimensioni prevalgano diseconomie di scala, rifiutando l’ipotesi che i rendimenti di scala siano costanti co-me dimostrato invece da studi più moderni (McAllister e McManus 1993). In realtà a proposito di tale studio vi è da dire che questo risultato, oltre che dall’impiego di un metodo di stima non parametrico, può essere stato influenzato dalla scelta di inse-rire tra i costi operativi quello del capitale finanziario. Come si è argomentato, que-sto risulta nelle grandi banche proporzionatamente inferiore rispetto a quello soste-nuto dalle banche di piccole dimensioni al punto da controbilanciare i rendimenti di scala decrescenti fino a renderli, appunto, costanti.

46 La Fourier flessibile rappresenta un approccio detto semi-non parametrico al problema di utilizzare dati per inferire una relazione tra variabili quando la vera forma della relazione è sconosciuta (si vedano a tale proposito Gallant 1981 e 1982, Elbadawi, Gallant e Souza 1983, Chalfant e Gallant 1985 e Gallant e Souza 1991). È noto che una combinazione lineare di funzioni in seno e coseno (serie di Fourier) può approssimare esattamente ogni funzione multivariata f(x) dotata di alcune pro-prietà desiderabili grazie al fatto che le funzioni in seno e coseno sono mutuamente ortogonali e in grado coprire l’intero spazio di definizione delle variabili considera-te. Rappresentare una funzione arbitraria mediante una serie di Fourier equivale a rappresentare un vettore n-dimensionale come combinazione lineare di n vettori base mutuamente ortogonali costituiti da funzioni che coprono l’intero spazio di defini-zione. Se quindi la vera forma della funzione di costo non è nota, è possibile evitare l’utilizzo di specificazioni che spesso si rivelano arbitrarie utilizzando proprio una serie di Fourier. L’utilizzo della serie di Fourier, tuttavia, mentre risolve un proble-ma di specificazione ne pone uno di approssimazione: infatti, un’esatta rappresenta-zione di una funzione può richiedere una serie con un numero infinito di termini tri-gonomentrici i cui coefficienti (coefficienti di Fourier) possono essere stimati solo avendo a disposizione un numero infinito di osservazioni. Se quindi (come di nor-ma) si ha a disposizione un campione finito di osservazioni, è necessario scegliere un sottoinsieme di termini trigonometrici da inserire nella relazione.

47 Si dimostra (si veda Gallant 1981) che la rappresentazione di una funzione sconosciuta attraverso una serie di Fourier in presenza di un numero limitato di os-servazioni permette di ottenere un errore di approssimazione accettabile se nella se-rie viene incluso un polinomio del secondo ordine nelle variabili esplicative. In par-ticolare, se la variabile dipendente e le variabili esplicative sono espresse in logarit-mi naturali il polinomio del secondo ordine è proprio la funzione translog. La forma funzionale ottenuta con l’innesto del polinomio del secondo ordine in una serie di Fourier troncata viene definita Fourier flessibile (Gallant 1981).

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Un’interessante applicazione della Fourier flessibile (FF) per la rap-presentazione della funzione di costo nell’industria bancaria si trova in uno studio di Mitchell e Onvural del 1996. Essi utilizzano una forma semplificata della FF del tipo:

Ln C = u0 + b’z + 1/2z’Gz + Σh=1H uhcos(k’

hz) + vhsen (k’hz)+ ε

dove: ε è un termine di errore additivo normale multivariato con ε ~ N (0, σ2In); u0 è una costante da stimare; b = [by1, …, byM; bp1, …, bpN; bs] è un vettore di M + N + 1 coefficienti da stimare (M è il numero di output, N il numero dei prezzi degli input, 1 è la variabile sportelli); z = [Y’, P’, S’] è un vettore che contiene gli M + N + 1 logaritmi delle quantità degli output (Y), dei prezzi degli input (P) e degli sportelli (S) espressi in scala; G = [gij] è una matrice simmetrica (N+M+1)(N+M+1) di coefficienti da stimare; uh e vh sono coefficienti da stimare; kh = [ky1, …kyM; kp1, …kpN; ks]’ è un vet-tore di coefficienti interi scelti dal ricercatore.

È evidente che l’espressione u0 + b’z + 1/2z’Gz della funzione indica,

nel caso generico, la parte translog, mentre il termine Σh=1H uhcos(k’

hz) + vhsen(k’

hz) rappresenta la serie di Fourier troncata.48,49

Il campione utilizzato è costituito da banche operanti in stati a legisla-zione multisportello con attivo compreso tra 0,5 e 100 miliardi di dollari per gli anni 1986 e 1990.50

Gli autori stimano due gruppi di modelli, il primo seguendo l’approccio della produzione, il secondo quello dell’intermediazione, in o-gnuno dei due gruppi vengono quindi considerate combinazioni diverse di termini trigonometrici. Quelli stimati nell’ambito dell’approccio dell’intermediazione contengono rispettivamente 51 (INT 51),51 15, 6 e zero termini trigonometrici; da rilevare che, nel caso contenga zero termini trigo-nometrici, la funzione Fourier flessibile coincide con la funzione translog.

I quattro modelli stimati nell’ambito dell’approccio della produzione: (con 43, 19, 10 e 0 termini trigonometrici), sono simili ai precedenti, la diffe-renza risiede nel numero degli input e degli output utilizzati nei due diversi

48 Si noti che affinché la funzione di costo rappresentata attraverso una forma Fourier flessibile sia utilizzabile è necessario limitare il periodo delle funzioni in se-no e coseno a un intervallo pari a [0; 2π], ciò implica una riduzione in scala delle variabili esplicative.

49 La funzione di costo così definita viene posta a sistema con le equazioni di costo parziale (ottenute calcolando le derivate prime della funzione di costo rispetto ai prezzi dei singoli input); la stima congiunta di queste equazioni aumenta l’efficienza grazie ai maggiori vincoli posti sui coefficienti.

50 I dati sono del Call Income Report data 51 Il numero dei parametri di questo modello (131) è più o meno quello richiesto

dalla regola dei due-terzi (Gallant 1982) che garantisce che le stime ottenute siano asintoticamente normali e consistenti.

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approcci (4 input e 3 output per il primo e 3 input e 4 output per il secondo). Per tutti i modelli esaminati vengono stimate insieme le funzioni di costo generale e quelle di costo parziale utilizzando la tecnica di regressione SUR.52

Un primo risultato importante di questo studio è che la funzione tran-slogaritmica approssima male la vera funzione di costo in entrambi gli ap-procci considerati. Tale conclusione, già ottenuta nello studio di McAllister McManus (1993), appare qui più fondata; nel primo infatti poteva essere de-terminata dall’estrema eterogeneità del campione, mentre qui il campione utilizzato è molto più omogeneo (costituito solo da banche molto grandi).

Le banche analizzate vengono divise in 5 classi dimensionali (0,5-1; 1-2; 2-5; 5-10; 10-100 mld di $). Le stime delle economie di scala lungo il raggio basate sui parametri di INT-51 mostrano che le banche del 1° gruppo nel 1986 e del 1° e del 2° gruppo nel 1990 godono di rendimenti di scala cre-scenti mentre quelle degli altri gruppi presentano rendimenti costanti, (ad ec-cezione della classe 5-10 che nel 1986 presenta rendimenti crescenti). Le stime relative alle economie di scopo non risultano statisticamente diverse da zero in alcuno dei due modelli; non è quindi possibile per gli autori trarre conclusioni di alcun genere. Le stime del sentiero di espansione della subad-ditività, ottenute dal modello INT-51, infine, suggeriscono che i costi sono solo occasionalmente additivi, in entrambi gli anni risultano subadditivi per le due classi dimensionali inferiori: per queste ultime il risparmio di costi de-rivante dal produrre in un’unica banca l’ammontare considerato di output, invece che in due distinte banche, sarebbe pari a circa il 5,5-6,5%. Con rife-rimento al 1986, in particolare, i costi risultano subadditivi anche nella classi maggiori (5-10 e 10-100 mld di $) con risparmi stimati del 6,5%. Nell’ambito dell’approccio della produzione l’evidenza a favore della pre-senza di subadditività è molto debole.

Come si è accennato, l’applicazione della funzione di costo Fourier flessibile non ha avuto molto seguito in letteratura. Nel 1996 lo studio di Mahajan, Rangan e Zardkoohi ripropone l’utilizzo della translog riferita però a un campione di dati panel relativi a banche statunitensi nazionali e multi-nazionali. I campioni considerati (banche multinazionali e banche domesti-che) sono divisi rispettivamente in sette classi per dimensione dell’attivo (le banche multinazionali infatti sono mediamente più grandi ma meno numero-se). Per la stima empirica sono considerati tre output espressi in dollari (se-condo l’approccio dell’intermediazione): i prestiti totali, i depositi a vista e i titoli governativi; e tre input: lavoro, fondi acquisiti diversi dai depositi e ca-pitale. La funzione di costo complessiva viene stimata simultaneamente a

52 SUR – Zellner’s seemingly unrelated regression technique – si tratta di un

metodo di stima che generalizza quello dei minimi quadrati tenendo esplicitamente conto della correlazione esistente tra i termini di errore delle equazioni stimate, nell’ipotesi che il modello sia lineare e non simultaneo.

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due equazioni di costo parziali derivate utilizzando il lemma di Shepard (per migliorare l’efficienza delle stime). Il sistema di equazioni utilizzato è il se-guente: LnC = α0 + Σi αi lnPi +ΣkβklnYk + ½ ΣiΣj σij lnPilnPj + ½ ΣkΣlθkl lnYklnYl + ΣiΣkρik lnPilnPk + λlnS + ½ ϖ(lnS)2 + Σk ΩklnSlnYk + τH + σHlnS + µ; Si = α + ΣjσijlnPj + ΣkρiklnYk i = 1, … , n - 1; con i vincoli: Σαi = 1, Σiσij = Σiρik = 0, che impongono l’omogeneità lineare nei prezzi de-gli input; σij = σji e θkj = θjk che impone le condizioni di simmetria. dove: lnS = α0 +ΣkβklnYk + ε, ovvero gli sportelli vengono posti in funzione lineare dell’output. Si è l’equazione che indica la quota di costo dell’input lavoro e la quota di costo del fattore fondi acquisiti.53 C i costi totali; Y è l’output; P i prezzi; S il numero degli sportelli e H una dummy che indica se la banca è affiliata a una holding.

Nello studio sono riportati i confronti tra le due categorie di banche

(nazionali e multinazionali) sia in termini di economie di scala lungo il rag-gio (ESR) sia di sentiero di espansione delle economie di scala. A livello di impianto le stime mostrano per le banche nazionali (BN) diseconomie di sca-la per tutte le classi dimensionali, mentre per le multinazionali (BM) le eco-nomie di scala si esauriscono in corrispondenza dei 500 mld di $ di attivo (1° classe dimensionale). Inoltre, a livello di impiano le BN e le BM sembrano avere un’analoga struttura dei costi. A livello di impresa le BM risultano ca-ratterizzate da diseconomie di scala per tutte le classi dimensionali, che au-mentano monotonicamente all’aumentare della dimensione. Al contrario, le BN (ad eccezione della 1° classe) sono caratterizzate da economie di scala a livello di impresa che tendono a crescere con la dimensione in tutte le classi. Le BN sembrano inoltre caratterizzate da un sentiero di espansione delle e-conomie di scala sia a livello di impianto sia di impresa; al contrario, per le BM questo si realizza solo per la classe 2,5-5 mld di $; oltre questa dimen-sione tutti i benefici di costo tendono a svanire. Da questi risultati sembra emergere che le banche nazionali hanno un potenziale vantaggio in termini di costo rispetto alle multinazionali. Tuttavia, affinché tale vantaggio possa essere sfruttato, esse devono poter accrescere le loro attività. Ciò, come si è visto, è stato spesso impedito dalla regolamentazione USA che, fino all’epoca dell’articolo poneva severi limiti alla diversificazione di prodotto e di mercato alle banche nazionali, impedendo lo sfruttamento dei potenziali benefici di scala; per questo, la via dell’internazionalizzazione può aver rap-

53 Le equazioni di costo parziali stimate sono sempre n–1 (con n numero degli input): infatti, poiché la somma delle quote di costo è pari all’unità, su n equazioni solo n–1 sono indipendenti.

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presentato un possibile canale di sfruttamento di potenziali benefici altrimen-ti non utilizzabili.

6. Gli studi più recenti: il ruolo del capitale finanziario e la qualità dell’output

Nonostante le questioni controverse rimaste irrisolte su cosa rappresenti l’output e cosa l’input per una banca, e una sostanziale diversità metodologi-ca dei modelli utilizzati (peraltro riferiti a campioni di banche di ogni dimen-sione), la letteratura più recente sembra aver trovato un sostanziale accordo sull’idea che le banche USA non siano caratterizzate da rilevanti economie di scala. Gli studi rilevano infatti lievi economie per le banche più piccole e diseconomie per le maggiori.

I modelli utilizzati, d’altro canto, possono essere affinati includendo variabili in precedenza escluse e che si rivelano al contrario importanti. Nel 1998 Hughes e Mester osservano ad esempio come la maggior parte degli studi condotti non considera il ruolo che il rischio può avere nella determi-nazione e misurazione delle economie di scala. Essi sottolineano come il ri-schio di credito e quello di liquidità definiscono la tecnologia di una banca e il ruolo del capitale finanziario nel prevenire difficoltà finanziarie. L’idea è che la maggiore dimensione favorisce una maggiore diversificazione del por-tafoglio prestiti e della base di depositi; ciò diminuisce i costi per la gestione dei rischi, poiché lo stesso grado di protezione può essere raggiunto con un rapporto capitale/attività inferiore. D’altro canto, se si tiene conto del ruolo svolto dal capitale nella segnalazione del rischio al mercato, occorre anche considerare che la maggiore diversificazione riduce il costo della segnala-zione, poiché abbassa il costo di protezione del capitale e il livello richiesto del segnale, infatti sia il grado di diversificazione sia la scala delle operazio-ni sono perfettamente osservabili agli operatori esterni. Se vi sono economie di scala che derivano in parte da queste economie nella gestione del rischio, scoprirle può essere complicato dalla riduzione del costo marginale di tale gestione. Infatti la riduzione del costo marginale del rischio (indotto dalla maggiore dimensione delle banche) può rappresentare un incentivo ad acqui-sire maggiore rischio e a ridurre la qualità dell’attivo con la prospettiva di un maggiore rendimento. In queste condizioni, un’analisi sulla eventuale pre-senza di economie di scala richiede un controllo non solo sulla quantità dell’output, ma anche sulla sua qualità. Il livello della capitalizzazione deve quindi essere reso endogeno.

La procedura standard di calcolo delle economie di scala che consiste nel minimizzare la funzione di costo rispetto al vettore degli input implica l’ipotesi che la banca sia neutrale al rischio. Tuttavia, se i manager sono av-versi al rischio essi possono ritenere il livello di capitalizzazione che si de-termina in una situazione di minimizzazione dei costi troppo elevato. Essi

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possono cioè preferire minori profitti in cambio di un minor rischio; il trade off tra questi due elementi dipende dalla dimensione, dalla composizione e dalla qualità del portafoglio prestiti.

In definitiva, l’idea è che se nel determinare le scelte dei manager oltre alla minimizzazione dei costi rileva anche il controllo del rischio, le econo-mie di scala non possono essere calcolate assumendo l’ipotesi che il livello di capitalizzazione minimizzi i costi.

Gli autori analizzano in questa ottica un campione di 286 banche sta-tunitensi con un attivo superiore al miliardo di dollari negli anni 1989 e 1990 (ossia la quasi totalità delle banche con attivo superiore al miliardo di dolla-ri) attive in stati a regolamentazione multisportello.54 Essi dimostrano che l’ipotesi di neutralità del rischio è infondata, e che il livello del capitale fi-nanziario è un utile segnale del rischio. Nella funzione di costo (oltre alle va-riabili solitamente considerate) viene inserito anche il capitale finanziario come elemento di misurazione del rischio assunto dalla banca.55 Per far que-sto viene costruita una funzione di domanda del capitale finanziario: km (y, z, m), dove y è il vettore delle quantità di output; z = (g, θ, τ, q, p, ω, γ),56 e m rappresenta i ricavi non derivanti dal prodotto qy.

Sostituendo tale funzione di domanda nella tradizionale funzione di costo si ottiene una relazione che non è vincolata dal capitale: C(y, g, p, ω, θ, km,(y, z, m)). Quando i manager sono neutrali al rischio e gli obblighi sul ca-pitale non sono vincolanti, la funzione di costo che risulta dalla sostituzione vista sopra è una ordinaria funzione di costo minimo. Al contrario, quando i manager non sono neutrali al rischio, la loro funzione di domanda del capita-le è influenzata dalle componenti del ricavo, dai prezzi degli input e dalla quantità dell’output. La funzione di costo derivante dalla precedente sostitu-zione, pertanto, risulta anch’essa influenzata dalle determinanti del ricavo.

54 Dal campione sono escluse le banche con fini speciali e quelle operanti in sta-

ti a regolamentazione monosportello. 55 Il capitale finanziario diviene quindi un elemento condizionante nella funzio-

ne di costo; inoltre, poiché esso è una fonte dei fondi che possono essere dati in pre-stito, può essere pensato come un input nel processo produttivo della banca. Ci si può pertanto attendere che il costo variabile condizionato al livello del capitale risul-ti più basso quando il livello di capitalizzazione è alto, poiché ciò permette una ridu-zione delle altre fonti utili per fare attività di prestito. In realtà, i dati riportati dagli autori dimostrano che l’aumento del capitale finanziario corrisponde a un aumento dei costi variabili (indicando quindi un aumento degli altri input variabili); ciò indica che il capitale finanziario si comporta più come un output che come un input.

56 Dove: g e θ sono vettori di variabili che caratterizzano rispettivamente la qua-lità dell’output e la rischiosità ma che non influiscono sulla funzione di trasforma-zione; q è il vettore dei prezzi degli output, p quello dei prezzi degli input; ω è un tasso di interesse determinato in condizioni di assenza di rischio e γ è una misura del prezzo del capitale finanziario nella sua componente priva di rischio.

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Nel modello principale Hughes e Mester considerano cinque output: mutui (per l’acquisto di beni immobili, aziendali, individuali), altri prestiti, titoli, attività in conto merci, fondi federali. Viene poi considerata una se-conda specificazione che include il rischio di credito come sesto output, que-sto è rappresentato da alcune voci fuori bilancio (ad esempio commissioni di impegno, lettere di credito, derivati e così via). Per quanto riguarda gli input, oltre al capitale finanziario e ai depositi non assicurati, vengono considerati il lavoro, il capitale fisico, i depositi assicurati e altra moneta in prestito. La variabile dipendente C, infine, è data dalla somma di salari e benefit, spese per l’occupazione, il prodotto tra gli interessi pagati sui depositi assicurati e non (al netto delle spese per servizi), attività vendute con accordo di riacqui-sto, obbligazioni del Tesoro e altra moneta in prestito moltiplicata per i pre-stiti totali sommati al rapporto tra obbligazioni e totale attività che generano reddito.

Per la rappresentazione della funzione di costo gli autori scelgono l’usuale translog, mentre per la domanda del capitale finanziario adottano una relazione di tipo log-lineare. Il modello, composto dalla funzione di co-sto, dalle funzioni di costo parziale per i quattro input e dalla funzione di domanda del capitale finanziario è dato dalla seguente espressione:57

lnC = a0 + Σi ailnyi + Σj bjlnpj +1/2ΣiΣj sijlnyilnyj+1/2ΣiΣj gijlnpilnpj+ΣiΣj di-

jlnyilnpj + fklnk+fglng+fθlnθ + 1/2rkklnklnk +rkglnklng + rkθlnklnθ+1/2rgglnglng + rgθlnglnθ + 1/2rθθlnθlnθ + Σihkilnklnyi + Σihgilnglnyi + Σihθilnθlnyi + Σjtkjlnklnpj + Σjtgjlnglnpj + Σjtθjlnθlnpj + bωlnω + 1/2gωωlnωlnω + Σjgjωlnwjlnω + Σidiωlnyilnω + tkωlnklnω + tgωlnglnω + tθωlnθlnω + ε Sj = bj + Σigijlnwi + Σidijlnyi + tkjlnk +tgjlng + tθjlnθ + gωjlnω + ξi Con j=1, 2, 3, 4. lnk = A0 + ΣiAilnyi + ΣjBjlnpj + Bωlnω + Rglng + Rθlnθ + Rmlnm + ΣiRilnqi + ν dove: C sono i costi variabili (condizionali); yi le quantità degli output; wp i prezzi degli j input (diversi dai depositi non assicurati); ω è il tasso di interesse pri-vo di rischio specifico di ogni banca; k è il capitale finanziario; θ è il rischio; m è il ricavo diverso da qy; qi è il prezzo dell’output i; Sj è la j-esima equa-zione di costo parziale: Infine, ε, ξi e ν sono errori per i quali, al solito, si as-sume una distribuzione normale.

I coefficienti stimati vengono quindi utilizzati per costruire gli indica-

tori di scala calcolati per ognuna delle quattro classi dimensionali in cui le banche sono suddivise (inferiore a 1,77; tra 1,77 e 3,22; tra 3,22 e 6,72 e su-

57 A queste vanno aggiunte le consuete condizioni che garantiscono la simme-

tria e l’omogeneità lineare.

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periore a 6,72 miliardi di dollari di attivo). I test proposti dimostrano la non neutralità al rischio dei manager e, di conseguenza, la validità di un modello in cui si considera esplicitamente il trade off tra costi e rischio, essi rilevano infatti significative economie nel livello di capitalizzazione (ossia, quando la dimensione delle banche aumenta un’espansione proporzionale di tutte le at-tività richiede un incremento meno che proporzionale del capitale finanziario necessario per mantenere lo stesso livello di protezione da rischio di insol-venza). Inoltre, i dati dimostrano una significativa influenza delle variabili di ricavo sui costi in tutte le quattro classi dimensionali e per entrambe le speci-ficazioni di output. Ciò sembra indicare la possibilità che i manager siano disposti ad accettare maggiori costi in cambio del raggiungimento di altri o-biettivi. In un contesto di intermediazione finanziaria, questo trade off è coe-rente con l’ipotesi di non neutralità verso il rischio.

I risultati mostrano, inoltre, per entrambe le specificazioni analizzate del vettore degli output, ampie economie di scala per tutte le categorie di banche considerate. Pertanto, secondo gli autori, gli studi tradizionali che ri-levano economie di scala costanti o decrescenti per le banche di grandi di-mensioni sarebbero affetti dall’errore di non considerare il ruolo del capitale finanziario e di considerare i manager bancari neutrali al rischio.

Nel 2000 Stiroh riprende il tema dell’importanza della specificazione di output bancario e della sua qualità nella rilevazione e misurazione degli effetti scala. In particolare, l’autore analizza funzioni di costo e di profitto per un campione chiuso di 661 bank holding company (BHC)58 divise in sei categorie dimensionali (da quelle con attivo inferiore ai 200 milioni di $ a quelle con attivo superiore ai 5 miliardi di $) per il periodo 1991-1997 adot-tando diverse specificazioni di output che includono sia la tradizionale attivi-tà di prestito, sia attività non tradizionali come reddito da commissioni o vo-ci fuori bilancio (OBS). Nella specificazione del vettore degli output Stiroh sceglie di seguire l’approccio dell’intermediazione. La rappresentazione del-la funzione di costo avviene tramite l’usuale translog,59 e assume la forma: lnC(/(f2*pI)) = α0 + Σi=1

I-1 αiln(pi/pj) + Σj=1J βjln(yj/f2) + Σi=1

IΣj=1J

φijln(yj/f2)ln(yj/f2) + Σi=1I-1Σj=1

J-1 δijln(pi/pI)ln(pj/pI) + Σi=1I-1Σj=1

J

θijln(pi/pI)ln(yj/f2) + γ1ln(f1/f2) + γ2(ln(f1/f2))2 + Σi=1,I-1 λiln(pi/pI)ln(f1/f2) + Σj=1

J

ϕjln(yj/f2)ln(f1/f2) + ρ1ln(ν1) + ρ2ln(ν2)2 + lnε

58 L’analisi viene riferita a un campione di BHC poiché secondo l’autore, anco-

ra oggi (nonostante il Riegle-Neal Act e la deregolamentazione relativa all’apertura di nuovi sportelli) questa struttura mantiene alcuni vantaggi rispetto alle banche sin-gole (ad esempio permette di espandere le attività parzialmente vietate alle banche ordinarie).

59 L’autore sostiene che l’adozione di forme funzionali più flessibili (come ad esempio la Fourier flessibile) portino a un guadagno minimo in termini di efficienza a fronte di un considerevole aumento nella complessità della gestione matematica.

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dove: p rappresenta il vettore dei prezzi degli input; y il vettore delle quantità va-riabili degli output; f è un vettore di netput (ovvero alternativamente di input o output); ν è un vettore di variabili ambientali e ε un termine di errore.60

Come si è detto, il lavoro di Stiroh pone particolare attenzione al con-

cetto di prodotto bancario e soprattutto alle voci non tradizionali il cui peso sul totale delle attività è andato gradualmente crescendo soprattutto nelle banche di maggiori dimensioni.61 La mancata considerazione di queste voci sarebbe pertanto un errore. Nel vettore degli output vengono quindi conside-rate anche le fonti di ricavo diverse da quelle tradizionali: attività fiduciarie, ricavi dalla gestione delle carte di credito, servizi da ipoteca, commissioni su fondi comuni d’investimento e rendite e commissioni sugli ATM.

Vengono quindi definiti quattro modelli corrispondenti a quattro alter-native specificazioni dell’output: nella prima si considerano solo le voci tra-dizionali (prestiti alle imprese e al consumo e titoli); nella seconda come quarto output si includono anche i ricavi non derivanti da interesse al netto dei ricavi sulle commissioni applicate sui depositi; nella terza specificazione il quarto output è rappresentato dai crediti equivalenti alle voci fuori bilancio (impegni, derivati sui crediti e contratti su tassi di cambio e di interesse); nella quarta, infine, sono inclusi i crediti equivalenti delle voci fuori bilancio come netput fissi f.

Per tutte le quattro specificazioni i costi sono rappresentati dalle spese per i fondi acquisiti e per i depositi più il totale di salari e benefit.

Dal modello vengono calcolate sia le economie di scala lungo il rag-gio, sia il sentiero di espansione delle economie di scala. I risultati, per en-trambi gli indicatori, rilevano economie di scala consistenti per le BHC con attivo superiore ai 500 milioni di $, soprattutto nel periodo 1991-94, in se-guito, con l’avvicinarsi della BHC alla scala ottimale, il vantaggio di costo si sarebbe in parte attenuato. Vi sarebbe tuttavia ancora spazio per sfruttare le economie di scala residue.

Da sottolineare che poiché le voci fuori bilancio sono concentrate so-prattutto nelle BHC di maggiori dimensioni, le differenze più rilevanti in termini di economie di scala, tra l’approccio che considera la terza specifica-zione del vettore degli output e quello che considera la quarta, si rilevano soprattutto nelle BHC con un attivo superiore ai 5 miliardi di dollari. Per le altre categorie di BHC i risultati nelle quattro specificazioni sono piuttosto simili. Ciò potrebbe indicare che le attività non tradizionali abbiano

60 Il modello viene completato con le usuali condizioni che garantiscono la

simmetria dei coefficienti e l’omogeneità lineare. 61 Tali attività, secondo studi recenti (si veda soprattutto English e Nelson 1998)

generano circa il 38% dei ricavi totali delle banche, soprattutto di quelle di grandi dimensioni.

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un’influenza maggiore nella determinazione dei ricavi, piuttosto che sui co-sti.62 Tale risultato, va tuttavia verificato nel tempo.

Il tema relativo all’importanza di includere gli strumenti di gestione del rischio da parte delle banche nei modelli di analisi delle economie di sca-la viene ripreso da Hughes, Mester e Moon nel 2001.

Gli autori ripropongono parte delle considerazioni svolte nel 1998 sul-la necessità di incorporare il rischio nella teoria della produzione per scoprire la presenza di eventuali economie di scala. Essi operano una doppia innova-zione, da un lato infatti incorporano la struttura del capitale nel modello di produzione, dall’altro generalizzano gli obiettivi dei manager considerando non solo il problema della massimizzazione del profitto, ma anche quello della massimizzazione del valore. Attraverso la definizione di un modello in cui i manager scelgono i piani di produzione che non necessariamente mas-simizzano la profittabilità corrente attesa, si rilevano economie di scala che tendono a divenire più consistenti all’aumentare della dimensione delle ban-che considerate.

Nel lavoro l’ipotesi che i depositi siano input nel processo produttivo delle banche viene verificata attraverso un semplice test: gli autori ipotizza-no infatti che qualora questi fossero un output l’aumento della produzione di depositi comporterebbe una maggiore spesa variabile, in tal caso si dovrebbe avere dCp/dD >0. Al contrario, i dati mostrano che dCp/dD < 0 (per un esem-pio di applicazione di questo test si veda anche Hughes e Mester 1993). Per-tanto, nell’analisi dei costi, i depositi vengono considerati come un input.

Per dimostrare l’influenza del capitale proprio nel permettere la rile-vazione delle economie di scala gli autori partono dalla stima di una funzio-ne di costo in cui tale variabile non viene inclusa. La forma funzionale adot-tata è l’usuale translog.

Al pari di quanto rilevato dalla maggior parte degli studi sul tema, an-che in questo caso i risultati mostrano economie di scala costanti. L’alternativa che essi propongono è allora quella di partire da una funzione di costo “economica” in cui compaia esplicitamente il capitale proprio. La difficoltà di ottenere una misura del costo del capitale viene superata adot-tando i prezzi ombra come sostituti del prezzo di mercato del capitale pro-prio. Neanche in questo caso, tuttavia, si ottengono risultati sostanzialmente diversi da quelli rilevati in precedenza e ciò secondo gli autori è imputabile in larga misura alla non considerazione dell’atteggiamento verso il rischio dei manager coinvolti e del grado di diversificazione geografica delle attività svolte dalle banche. Per isolare gli effetti di questi due elementi sulla misura delle economie di scala si opera una regressione delle economie di scala cal-colate con la funzione di costo “economica” sulle variabili di controllo che rappresentano appunto le fonti di rischio e diversificazione. Come misura del

62 Ciò potrebbe indicare che i costi rilevati negli studi in cui non vengono espli-

citamente considerate le attività non tradizionali non siano sottostimati.

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grado di diversificazione si considera il livello di esposizione al rischio ma-croeconomico, a sua volta, come proxy del rischio macroeconomico fronteg-giato dalle BHC viene utilizzata la deviazione standard del tasso di disoccu-pazione medio ponderato degli stati in cui le BHC operano nel 1994, con i pesi rappresentati dalla quota di depositi della BHC nello stato considerato. L’espressione: 1/[s’Vs]1/2, (con V matrice di varianza e covarianza in cui gli elementi rappresentano, appunto, il tasso di disoccupazione negli stati in cui le BHC considerate operano per il periodo 1985-94) è considerata una misu-ra della diversificazione macroeconomica. Un riduzione nella varianza pon-derata del tasso di disoccupazione aumenta la diversificazione.

Come proxy delle fonti di rischio gli autori utilizzano il rapporto capi-tale/attività e prestiti /attività, misure ex ante (tasso d’interesse medio sui de-positi) ed ex post (rapporto tra crediti in sofferenza e attività) della qualità. La regressione63 delle economie di scala calcolate a partire dalla funzione di costo “economica”, sulle variabili proxy mostra risultati interessanti, in par-ticolare: 1) un aumento della diversificazione è associato a un incremento delle economie di scala; 2) un aumento nelle dimensioni delle attività è associato a un incremen-to delle economie di scala;64

Interessanti risultano anche i risultati relativi al controllo del ri-schio, in particolare:

1) un aumento del rischio dovuto a una riduzione della qualità dell’attivo è associato a maggiori economie di scala (ciò poiché verosimil-mente le BHC che scelgono attività più rischiose impiegano meno risorse per la gestione del rischio); 2) un aumento nel grado di rischio dovuto a una sostituzione dei prestiti con titoli e attività liquide è associato a minori economie di scala; 3) una riduzione del rapporto leverage è associato a minori economie di scala.

7. Gli studi sul sistema bancario italiano

In Italia le indicazioni fornite dagli studi sulle relazioni tra costi, dimen-sioni e rete distributiva delle banche seguono abbastanza fedelmente la trac-cia indicata nel corso del tempo dalla regolamentazione sul tema. In partico-lare, è interessante notare la corrispondenza tra i modelli utilizzati per lo stu-dio delle economie di scala (e le conclusioni cui questi giungono) e partico-lari fasi regolamentative vissute nel nostro paese, prima fra tutte quella dei “piani sportello”. La letteratura sul tema delle economie di scala e di scopo

63 La relazione in esame viene stimata attraverso il metodo dei minimi quadrati generalizzati.

64 Un aumento dell’ordine dell’1% nel grado di diversificazione e nella dimen-sione delle attività è associato a un aumento dello 0,01084 nelle economie di scala.

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nelle banche in particolare, ha cominciato a divenire sistematica dall’inizio degli anni Sessanta ripercorrendo in larga misura gli spunti offerti di volta in volta dalla più ricca produzione statunitense sul tema.

Nel corso degli anni Sessanta l’opinione diffusa era a favore della pre-senza delle economie di scala nel settore bancario. Tale posizione si è andata confermando nel tempo, anche se i risultati appaiono in parte ridimensionati includendo esplicitamente nei modelli i canali distributivi (sportelli). Ciò ha spesso indotto gli studiosi ad avanzare l’ipotesi che per il sistema bancario italiano sia esistito un problema di overbrabching.

Ruozi nel 1968 è probabilmente il primo a formalizzare uno studio sul-le economie di scala nel settore bancario italiano con un modello di analisi empirica; prima di lui alcuni autori65 avevano intrapreso studi sui costi ban-cari, ma senza spingersi oltre una trattazione teorica del tema e soprattutto senza elaborare veri e propri indicatori quantitativi del fenomeno. L’analisi empirica svolta da Ruozi su un campione di 90 casse di risparmio e monti di credito su pegno copre il periodo 1961-1965, e consiste in una serie di re-gressioni lineari multiple svolte su due gruppi distinti di variabili dipendenti, uno rappresentativo dei costi e l’altro dei ricavi, posti in relazione lineare con una serie di variabili esplicative. Per ogni variabile dipendente vengono effettuate due regressioni ponendo nella seconda solo le variabili esplicative che nella prima sono risultate statisticamente significative; il grado di bontà della stima viene valutato ricorrendo all’indice R2. Tra le variabili esplicative considerate interessanti sono il rapporto percentuale tra il totale dei depositi e la somma tra depositi e patrimonio (che mette in luce il diverso peso assun-to nelle banche rispettivamente dal capitale di credito e dal capitale proprio) e il tasso di espansione delle dimensioni delle aziende bancarie misurato dal-la percentuale annua di incremento medio del totale delle sue attività di bi-lancio per l’intero periodo considerato.

Il modello dà luogo a una serie di perplessità: tra cui il fatto che lo studio non sottende alcuna specifica teoria della produzione; non viene fatto accen-no alle complementarità di costo e alla eventuale presenza delle economie di scopo; manca qualunque accenno al problema della definizione del concetto di output bancario; il campione, infine, comprende solo casse di risparmio e monti di pegno.

In generale, l’indagine evidenzia un aumento di efficienza legato alle dimensioni. Quando tuttavia come variabile dipendente viene posto il rap-porto tra utili di esercizio e riserve, che evidenzia la diminuzione dei redditi unitari aziendali all’aumentare delle dimensioni bancarie, il grado di effi-cienza (misurato in questo caso dalla remunerazione percentuale del capitale proprio) diminuisce passando dalle banche più piccole a quelle di maggiori

65 Dell’Amore 1967, Mazzantini 1954, Castiglioni 1965 e alcune analisi condot-

te all’interno della Banca d’Italia.

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dimensioni. Tale risultato offusca in parte le considerazioni fatte a proposito del legame tra efficienza e dimensione evidenziate dall’analisi dei soli costi.

Nel 1974 Ciocca, Giussani e Lanciotti propongono uno studio basato su una funzione di costo formalizzata attraverso una Cobb-Douglas in cui gli input sono capitale e lavoro, (dai costi è quindi esclusa la spesa per interessi) e in cui il numero degli sportelli viene inserito come una variabile organizza-tiva necessaria per valutare l’effetto accrescitivo sui costi operativi. Tale va-riabile viene considerata esogena poiché soggetta al controllo delle Autorità; esogeno è anche il prodotto bancario in base all’ipotesi che l’azienda non possa influire sulla domanda della propria clientela, né sottrarre clienti alle rivali, modificando i prezzi o con altri metodi.

Gli autori riconoscono nella banca un’impresa multiprodotto e riten-gono che adottare un indicatore unico come misura complessiva dell’output determini distorsioni. Ciò li induce a rappresentare il prodotto con una serie di variabili (rapporto tra impieghi e totale attivo, grado di rischio degli im-pieghi, rapporto tra depositi a risparmio e totale depositi, ammontare medio dei fidi concessi ai clienti) che vengono inserite contemporaneamente in u-n'unica funzione di costo. Per quanto riguarda i prezzi degli input, viene e-scluso dalla funzione di costo quello del capitale (fisso e circolante) in base all’ipotesi che questo sia simile in tutte le aziende di credito, non altrettanto viene fatto per il prezzo dell’input lavoro che viene inserito nella funzione di costo all’interno del termine costante.

Dalla stima risulta confermata la presenza di economie di scala e un impatto netto e rilevante del numero di sportelli sui costi operativi che è in generale tale da compensarle. Le stime effettuate su sottogruppi di banche di dimensioni omogenee rivelano che sia le economie di scala sia l’elasticità dei costi rispetto al numero di sportelli risultano più elevate nelle banche di maggiori dimensioni. Ulteriori verifiche empiriche (condotte introducendo nella funzione di costo alcune variabili dummies indicatrici del livello di svi-luppo tecnologico raggiunto dalle diverse banche) portano gli autori a esclu-dere che la fonte principale delle economie di scala risieda nella possibilità di sfruttare congiuntamente apparati tecnici più evoluti e a sostenere invece la prevalenza di economie di scala di tipo “smithiano” ottenibili con la sem-plice specializzazione degli addetti in determinate procedure. Tale specializ-zazione, pur essendo in misura notevole influenzata dalla composizione dell’attività bancaria, è secondo gli autori realizzabile con maggiore facilità a elevati livelli dimensionali delle unità operative.

Il modello in esame è soggetto a tutte le critiche riguardanti l’uso della forma funzionale Cobb-Douglas e alla mancata considerazione delle econo-mie di scopo. Manca inoltre una riflessione sul concetto di prodotto banca-rio.

Dopo lo studio di Ciocca, Giussani e Lanciotti (1974) il problema del-lo studio delle economie di scala non è stato fatto oggetto di analisi rilevanti nel decennio successivo. L’apparente disinteresse degli studiosi italiani nei

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confronti del problema potrebbe essere a prima vista interpretato come sin-tomo di adesione alla tesi di fondo sostenuta dagli autori che si occuparono del tema, ovvero che il sistema bancario italiano fosse caratterizzato da rile-vanti economie di scala. In realtà, alcuni ritenevano che le economie di scala non solo non esistevano, giacché la redditività delle banche di minori dimen-sioni risultava maggiore di quella delle maggiori, ma anzi esistevano forti diseconomie al crescere delle dimensioni.

Conigliani (1983) in base a tale considerazione ritenne degna di inte-resse una ripresa del tema; nel suo modello egli aggiorna lo studio di Ciocca, Giussani e Lanciotti utilizzando i dati del 1980 relativi a due campioni, uno costituito da banche e l’altro da casse di risparmio e utilizzando la stessa funzione Cobb-Douglas. I risultati cui giunge sono del tutto analoghi a quelli dello studio da cui prende le mosse sia relativamente alla presenza di eco-nomie di scala, sia al fatto che queste vengono neutralizzate dai maggiori co-sti derivanti dall’ampliamento della rete di sportelli. Come nello studio di Ciocca, Giussani e Lanciotti le uniche perplessità tecniche che l’autore rileva sul metodo adottato riguardano la possibile collinearità tra le variabili espli-cative e l’assenza di omoschedasticità.

Uno dei contributi italiani più interessanti al tema in esame è quello di Lanciotti e Raganelli (1988). Nel loro studio gli autori ritengono che preli-minare alla stima di una funzione di costo sia la definizione di prodotto ban-cario; a tale scopo essi adottano l’impostazione di Greenbaum del 1966 (pe-raltro già utilizzata da Schweitzer nel 1972, si veda il par. 3.1.).

Per cercare di superare i limiti della funzione Cobb-Douglas per la rappresentazione della funzione di costo (o di produzione) gli autori, ripren-dendo un’idea di Clark del 1984, adottano una forma funzionale basata su una trasformata di tipo Box-Cox.66

Tale trasformazione, applicata separatamente alla variabile dipendente e agli argomenti della funzione di costo, nel modello di Lanciotti e Raganelli assume la forma: [Cl1 – 1]/l1 = B0 + B1[Yl0 – 1]/l0 + B2[Sl0 – 1]/l0 + B3[PL

l0 – 1]/l0 + B4[HPl0 – 1]/l0 + B5[PR

l0 – 1]/l0 in cui: C sono i costi medi totali; Y è l’ammontare del prodotto bancario; S è il nu-mero di sportelli; HP l’indice di concentrazione di Herfindal introdotto per

66 Data una funzione di produzione a m fattori Y = F(x) la trasformazione di

Box-Cox è rappresentata dalle seguenti relazioni: Xi (λi) = [Xiλi – 1]/λi; Y(δ) =[Y2δ –

1]/2δ. Tali relazioni sono in grado di dar luogo (a seconda del valore scelto per i pa-rametri) a un’ampia varietà di funzioni trasformate. Tra i sottocasi più rilevanti della Box-Cox vi è la funzione translog che si ottiene ponendo λ = δ = 0 da cui lnY = ΣiαilnXi + ½ ΣiΣjbijlnXilnXj, omogenea lineare se Σiαi = 1 e αi = 2 Σjbij ∀i.

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tener conto dei diversi mercati in cui si trovano le banche; PR è il costo me-dio della raccolta e PL il costo unitario del lavoro.

La trasformata Box-Cox non è tuttavia esente da critiche. In particola-

re si osserva che la varianza dei coefficienti, stimati con il metodo dei mini-mi quadrati ordinari condizionato alla trasformazione, è generalmente sotto-stimata; risulta pertanto inficiata la verifica delle ipotesi basata sui valori del-la T di Student.

I risultati del modello in esame rilevano economie di scala crescenti. Per ogni gruppo dimensionale di banche considerato lo studio riscontra l’esistenza di un ammontare di prodotto al di sopra del quale l’effetto netto di un incremento equiproporzionale del prodotto sui costi medi è negativo. Ovvero, per qualsiasi numero di sportelli, il livello di prodotto per stabili-mento presenta una soglia al di sopra della quale sono conseguibili vantaggi in termini di costo medio. Le banche di maggiori dimensioni possono quindi conseguire vantaggi di costo proporzionatamente più elevati con un’espansione di prodotto.

Lo studio di Lanciotti e Raganelli tenta di superare i limiti dei modelli tradizionali considerando la dimensione spaziale della produzione bancaria attraverso l’introduzione della variabile numero di sportelli (che introduce l’articolazione territoriale come fatto organizzativo) e dell’indice di Herfin-dal che tiene conto dell’influenza della struttura dei mercati sui costi medi aziendali.

Nel 1990 Baldini e Landi ripropongono il modello della Mester nel 1987 (si veda il par. 4) applicandolo al caso italiano. Nel loro studio i costi operativi totali (spese per il personale, ammortamenti e altri costi) vengono posti in relazione con l’attività di raccolta (depositi), con la consistenza me-dia degli impieghi e con l’insieme dei servizi collegati all’attività d’intermediazione, di pagamento e di consulenza nella gestione del rispar-mio. Gli autori non includono nella funzione di costo i prezzi degli input per la scarsa qualità dei dati a loro disposizione assumendo l’ipotesi di concor-renza perfetta per i mercati dei fattori produttivi.

Gli indicatori relativi alle economie di scala di sportello indicano la presenza di costi medi decrescenti lungo il raggio, cosa che rafforza l’idea (piuttosto comune tra gli studiosi italiani) che per il sistema bancario italiano esista un problema di sub-ottimalità del livello produttivo degli sportelli de-terminato da una condizione di overbrancing. Le elasticità globali (ottenute facendo variare il numero di sportelli) risultano invece molto contenute, a testimonianza del fatto che l’ampliamento della rete di sportelli riduce i ri-sparmi dei costi unitari che derivano dall’aumento dei livelli produttivi. La riduzione è tale da rendere trascurabili le economie di scala a livello di im-presa, soprattutto nelle classi dimensionali maggiori, per le quali il vantaggio potenziale di poter operare con sportelli di dimensioni più ampie si traduce

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in un aggravio dei costi unitari derivante dall’utilizzo sub-ottimale della pro-pria rete territoriale.

L’anno seguente Conigliani, De Bonis, Motta e Parigi riprendendo un’idea di Benston, Hanweck e Humphrey del 1982 (si veda il par. 3.2) uti-lizzano dati relativi a singole aziende di credito e ai gruppi bancari per stima-re una funzione di costo rappresentata con l’usuale translog. Nella definizio-ne dell’output gli autori criticano la scelta fatta da alcuni studiosi di conside-rare un unico indicatore complessivo (ad esempio l’indice di Divisia) poiché ciò equivale a supporre che i costi marginali relativi alla produzione di ogni singolo output siano tra loro indipendenti e che quindi non esistano comple-mentarità di costo. Ciò, come si è visto, impone a priori l’ipotesi di assenza di economie di produzione congiunta e, qualora ciò non corrisponda a realtà, può condurre a formulare un giudizio errato circa l’esistenza di economie di scala. Gli autori adottano quindi il metodo utilizzato da Lanciotti e Raganelli (ripreso a sua volta da un’idea di Greenbaum del 1966) che pure, si è visto, non è immune da critiche. Gli sportelli (considerati una grandezza tecnologi-ca che contribuisce a determinare i costi) vengono inseriti prima come un e-lemento costante, poi in funzione loglineare dell’output.67 Vengono quindi calcolate due stime cross-section relative al 1987: una riferita alle singole banche e l’altra basata sui dati consolidati dei gruppi bancari.

Tutte le classi dimensionali di banche (sia singole sia costituite sotto forma di gruppi) sembrano caratterizzate da rendimenti crescenti quando gli sportelli sono mantenuti costanti. Quando questi vengono fatti variare l’indicatore delle economie di scala si riduce a circa un quinto del valore ot-tenuto in precedenza (per le banche singole). Ciò sembra confermare i risul-tati prevalenti emersi dalla letteratura italiana precedente in base ai quali, nel caso di sportelli variabili, le economie di scala sarebbero rilevabili solo per le banche medio-piccole. Per quanto riguarda i dati consolidati, le economie di scala calcolate facendo variare il numero di sportelli si riducono di un ammontare inferiore rispetto al caso delle banche singole. L’elemento inte-ressante è anzi che esse sembrano aumentare al crescere della dimensione.

Le stime delle economie di scopo e di prodotto specifico non forni-scono indicazioni univoche per le banche singole; per i gruppi di maggiori dimensioni sembra invece esistere una complementarità di costo per i servizi bancari, cosa che può essere interpretata come una maggiore convenienza per i gruppi bancari ad offrire servizi insieme alla tradizionale attività credi-tizia.

Un’applicazione dell’usuale modello basato sulla stima della translog ri-ferito alle sole banche popolari si deve a Goisis, Parravicini e Porrini (1992). Gli autori assumono come output alternativamente il totale delle attività e il

67 Sostituendo questa espressione nel sistema formato dalla funzione di costo e

delle relative quote si ottiene una forma ridotta in cui il numero degli sportelli non è costante quando si calcola la relazione tra costi, output e input.

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totale degli impieghi verso la clientela e dei rapporti intercreditizi (entrambe espresse in valore); come input lavoro, capitale (espresso come somma di fondi di riserva, capitale sociale e utile di esercizio) e la raccolta dalla clien-tela, che viene considerata una sorta di materia prima (o prodotto interme-dio) strategica per il processo di creazione del credito e delle altre attività.

Dalle stime ottenute emerge l’esistenza di rendimenti di scala crescen-ti per gli istituti di minori dimensioni. I rendimenti divengono costanti all’interno del gruppo intermedio e di nuovo crescenti, anche se in modo meno nitido, per il gruppo delle banche maggiori. Per quanto riguarda la va-riabile dimensionale, mentre una minore dispersione sembra determinare minori costi per le banche grandi e medie, un risultato opposto vale per le piccole.

Un contributo interessante e originale agli studi sul tema è rappresen-tato dal modello di Parigi, Sestito e Viviani (1992), i quali osservano che la stima delle variabili condotta su dati di tipo cross-section, comune alla mag-gior parte degli studi condotti sull’argomento, comporta una serie di distor-sioni. In primo luogo i dati, strutturati in tal modo, trascurano eventuali fe-nomeni di aggiustamento delle variabili che, anche nell’industria bancaria, possono essere rilevanti. Inoltre, i dati cross-section non permettono di rile-vare l’eterogeneità tra le diverse banche considerate.

Nel costruire la funzione di costo si ipotizza solitamente che i costi operativi siano funzione degli output e dei prezzi degli input (a volte della rete distributiva); per applicare i vari metodi di stima si inserisce inoltre un termine casuale che si suppone abbia media zero e varianza costante. Esso può essere pensato come costituito da due componenti: un vettore di disturbi stocastici e uno di variabili specifiche della banca non comprese in quelle esplicative, come ad esempio le caratteristiche del management, la localizza-zione geografica o la struttura patrimoniale. Tuttavia, se alcune di queste va-riabili sono correlate con quelle esplicitamente considerate la stima dei pa-rametri può risultare distorta. In altre parole, il timore è che risulti celato il fatto che le banche più grandi sono tali perché intrinsecamente più efficienti e non più efficienti perché di dimensioni maggiori.

L’analisi dell’eterogeneità rappresenta un problema difficilmente trat-tabile utilizzando dati di tipo cross-section poiché il numero delle variabili da inserire per tener conto delle diverse caratteristiche aziendali potrebbe es-sere superiore a quello delle osservazioni. Esso può tuttavia essere superato adottando stime per panel data, ovvero considerando osservazioni campiona-rie che contengano informazioni di carattere longitudinale. Nel modello in esame68 gli autori ripropongono la struttura degli studi sul tema (senza quin-di approfondire o soffermarsi sulla definizione di prodotto bancario e sui

68 I dati utilizzati sono tratti dalla Matrice dei conti della Banca d’Italia e rap-

presentano quindi un campione assolutamente rappresentativo dell’universo delle banche italiane.

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problemi legati all’uso della forma funzionale translog) per verificare la ro-bustezza dei risultati raggiunti in precedenza ma adottano una rappresenta-zione dei dati di tipo panel che permette l’inserimento dei valori ritardati di alcune variabili (ad esempio si considerano fra le esplicative i costi sostenuti nel periodo precedente) e di tener conto della loro dinamica di aggiustamen-to. Il numero degli sportelli viene inserito attraverso una funzione loglineare dell’output; la funzione di costo rappresenta quindi, al solito, una sorta di forma ridotta in cui i coefficienti dell’output colgono anche gli effetti deri-vanti dalla rete distributiva. Il modello stimato è il seguente: log Cit = λi + A(L) logCit-i + βXit + uitdove: A(L) è una polinomiale nell’operatore di ritardo (L); Xit racchiude tutti i re-gressori e alcune variabili dummies temporali; λi è un effetto individuale che sintetizza altre variabili, non misurate e supposte costanti nel tempo per cia-scuna banca; uit è una componente stocastica.69

Il modello indica la presenza di economie di scala sia a livello di im-

pianto sia a livello di impresa, cosa che di fatto contraddice tutti gli studi ita-liani condotti sul tema. Per quanto riguarda le economie di scopo lo studio non offre risultati significativi.

Pur essendo un passo in avanti, tale modello si limita tuttavia ad appli-care la metodologia panel a una struttura di analisi consolidata che soffre di vari limiti riguardo soprattutto alla relazione funzionale adottata che, come si è visto, è di tipo translog. Il modello a effetti fissi, inoltre, elimina le distor-sioni che possono derivare dall’eterogeneità delle banche ma non ne spiega l’origine. Il fatto che una banca a parità di condizioni abbia costi più o meno elevati può dipendere da una serie di fattori difficilmente misurabili, ma non può essere considerata un attributo intrinseco della stessa. Uno sviluppo è quindi possibile oltre che nelle direzioni finora indicate, nel tenere esplicita-mente conto di tali caratteristiche (come ad esempio i mutamenti del mana-gement) che potrebbero aver influito sull’operatività delle banche.

Il tema relativo alla ricerca di una relazione funzionale che rappresenti nel modo meno arbitrario possibile la funzione di costo da stimare e il ruolo

69 La procedura di stima nei modelli panel dipende dalle ipotesi fatte riguardo il

parametro λ. Se si suppone che le caratteristiche aziendali da questo riassunte non siano correlate in qualche modo con quelle inserite in Xit, il metodo di stima più ef-ficiente sarebbe quello a “effetti casuali” (Hsiao 1986) che sfrutta la variabilità di tipo cross-section tra le imprese, oltre alla variabilità nel tempo di ciascuna impresa. Tale ipotesi non si adatta tuttavia al caso in esame in cui è plausibile ritenere che molte variabili inserite in Xit siano endogene; pertanto, il termine λi deve essere ri-mosso dal modello. A tale scopo gli autori adottano un modello a effetti fissi stimato con il metodo generalizzato dei momenti.

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svolto dai canali distributivi nella determinazione dei costi delle banche vie-ne ripreso da Costagli (2002 e 2003). I lavori, riferiti a un campione rappre-sentativo di banche popolari nel periodo 1996-1999, ripropongono l’utilizzo della Fourier flessibile adattando il modello di Mitchell e Onvural (si veda il par. 5), a un contesto in cui sia possibile includere anche una variabile relati-va ai canali distributivi. In particolare, attraverso un’analisi empirica preli-minare, si dimostra che per il periodo in esame il ruolo dei canali distributivi innovativi (e-banking) non è stato tale da marginalizzare quello dei tradizio-nali sportelli, che rimangono quindi ancora oggi il principale canale distribu-tivo delle banche italiane, né sembra verificata l’esistenza di una relazione lineare tra numero di dipendenze e livello dell’output (solitamente ipotizzata negli studi sul tema). La numerosità degli sportelli di ogni banca, in ogni an-no considerato, sembra dipendere soprattutto dalla volontà di massimizzare le dimensioni aziendali e di presidiare fisicamente il territorio di insediamen-to. Tra le variabili esplicative risultate significative (seppure in modo deci-samente meno netto) vi è poi il risultato di gestione conseguito l’anno prece-dente e la posizione delle banche sul mercato intercreditizio.70

La relazione così ottenuta ponendo gli sportelli in relazione alle varia-bili individuate viene posta a sistema con la funzione di costo (rappresentata con una forma semplificata della FF), con le funzioni di costo parziale e con le usuali condizioni che garantiscono l’omogeneità lineare. La forma ridotta che si ottiene sostituendo la variabile sportelli nella funzione di costo è la se-guente: Ln C = u0 + b’z + 1/2z’Gz + Σh=1

H uhcos(k’hz) + vhsen(k’

hz)+ ε. Dove: ε è un termine di errore additivo normale multivariato con ε ~ N (0, σ2In); u0 è una costante da stimare; b = [by1, …, byM; bp1, …, bpN; bs] è un vettore di M + N + 1 coefficienti da stimare (M è il numero di output, N il numero dei prezzi degli input, 1 è la variabile sportelli71); Z = [Y’, P’, S’] è un vettore che contiene gli M + N + 1 logaritmi delle quan-tità degli output (Y), dei prezzi degli input (P) e degli sportelli (S) espressi in scala. G = [gij] è una matrice simmetrica (N+M+1)(N+M+1) di coefficienti da sti-mare, in particolare, poniamo G = Σh=1

Hu0hkhkh’ (si veda Rossi 1985), in que-

sto caso la matrice in esame è parametrizzata da H di coefficienti invece che da (M + N+1)*(M + N)/2;

70 La relazione in questo caso risulta di segno inverso. Ciò rivelerebbe la volon-

tà, da parte delle banche, di emanciparsi dalla raccolta interbancaria incrementando la raccolta da clientela ricercata attraverso una rete di dipendenze più capillare.

71 La variabile sportelli è stimata ponendo come esplicative le variabili cui si è accennato nel testo.

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uh e vh sono coefficienti da stimare; kh = [ky1, …kyM; kp1, …kpN; ks]’ è un vettore di coefficienti interi scelti dal ricercatore. È evidente che l’espressione u0 + b’z + 1/2z’Gz della funzione indica, nel ca-so generico, la parte translog,72 mentre il termine Σh=1

H uhcos(k’hz) +

vhsen(k’hz)] rappresenta la serie di Fourier troncata.

L’omogeneità lineare nei prezzi degli input richiede inoltre che vengano im-poste una serie di restrizioni sui coefficienti che compaiono nella funzione di costo, in particolare che: λ Σi=1

Nbli = 1, che Σjgij =0 e che i coefficienti delle variabili di prezzo in seno e coseno (khli) abbiano somma pari a zero.73

I parametri stimati vengono quindi utilizzati per calcolare le economie di scala lungo il raggio, le economie di scopo, il sentiero di espansione delle economie di scala e della subadditività. L’adattamento della funzione ai dati osservati appare buono soprattutto per il 1999; è quindi in base agli indicato-ri relativi a questo anno che si traggono le conclusioni generali. Relativa-mente alle economie di scala lungo il raggio, queste risultano presenti solo nel gruppo delle banche popolari piccole con una diffusione territoriale in-terprovinciale e in quelle medie a diffusione regionale. In particolare, valori più alti si osservano nelle banche che detengono circa la metà delle dipen-denze nella provincia della sede legale. Il resto delle banche (tranne una mi-nore monosportello caratterizzata da economie di scala costanti) è caratteriz-zato da rendimenti decrescenti. Per tutte le banche del campione (tranne in pochi casi sporadici che non evidenziano alcuna regolarità) il sentiero di e-spansione delle economie di scala non mostra valori inferiori all’unità. Ciò sembra indicare che per le banche popolari non si realizza, in generale, un risparmio nei costi operativi nell’associare a un aumento nella scala di pro-duzione una variazione nella composizione del paniere. L’evidenza empirica sembra pertanto suggerire che le popolari di piccole dimensioni godano di un vantaggio legato all’espansione del proprio prodotto ma non a una sua modi-

72 Nel caso in esame, l’esigenza di ridurre il numero dei parametri, dettata dalla

dimensione ridotta del campione, ha indotto ad assumere una rappresentazione sem-plificata di G. Seguendo Rossi (1985) questa viene posta pari a Σhu0hkhkh’. Tale pa-rametrizzazione della matrice della forma quadratica, oltre a ridurre il numero dei parametri da stimare, semplifica l’espressione delle derivate della Fourier flessibile ed elimina la componente translog.

73 Per non complicare ulteriormente la trattazione analitica non vengono poste ulteriori restrizioni per rendere la funzione monotòna e quasi concava nei prezzi de-gli input. Tuttavia, ciò non dovrebbe impedire che la Fourier flessibile approssimi in modo adeguato una qualunque funzione di costo con tali proprietà (per una dimo-strazione formale di questo punto si veda Gallant 1982).

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fica.74 I costi risultano in generale subadditivi, con risparmi che vanno dal 5 al 20% circa tra i gruppi considerati. Ciò significa che per le banche in que-stione conviene continuare a produrre l’output integralmente, piuttosto che in coppie di istituti di dimensioni inferiori. L’analisi, infine, non fornisce in-dicazioni univoche circa la presenza di economie di scopo.

I risultati del modello in generale mostrano la presenza di rendimenti decrescenti per le banche di maggiori dimensioni. Vi è comunque da sottoli-neare che lo sbilanciamento del campione verso banche di dimensione me-dio-piccola ha indotto a utilizzare una definizione di output che tende a ri-specchiare prevalentemente la loro operatività, che risulta orientata soprattut-to verso attività tradizionali di prestito e incassi e pagamenti. I risultati po-trebbero quindi sottostimare la presenza di economie di scala nelle banche più grandi e con una diffusione territoriale più ampia, che risultano più sbi-lanciate verso attività innovative. Ciò ripropone ancora una volta il problema di utilizzare una definizione di prodotto bancario idonea al contesto che si intende analizzare.

8. Conclusioni

Dalla rassegna proposta emerge con chiarezza la grande eterogeneità di risultati cui giungono i modelli, talvolta in contraddizione gli uni con gli al-tri. Ciò tuttavia non deve stupire: si tratta infatti, in molti casi, di studi riferiti a contesti diversi e difficilmente confrontabili: commercial banks, savings and loan associations, credit unions, banche costituite in forma di holdings nel caso statunitense; banche popolari, commerciali, casse di risparmio e monti di credito su pegno in quella italiana.

Il fattore che è utile sottolineare, tuttavia, è che ai diversi risultati si giunge anche a causa del diverso “impianto” tecnico e teorico sottostante i modelli esaminati. Tralasciando di considerare i lavori degli anni Cinquanta e Sessanta (che, come si è visto, presentavano carenze strutturali notevoli), l’analisi di quelli successivi ha mostrato come i risultati siano fortemente condizionati dalle definizioni di input e output di volta in volta adottate, dal-la presenza o meno, nell’analisi, dei canali attraverso i quali quest’ultimo viene distribuito, e dalla considerazione del rischio come elemento caratte-rizzante delle tecnologia di una banca.

Negli anni più recenti, l’attenzione è stata posta sul modo in cui la re-lazione funzionale adottata per la rappresentazione della funzione di costo influisce sul risultato finale (riassunto talvolta attraverso indicatori poco a-

74 Ricordiamo che il principale limite riconosciuto all’indicatore ESR (econo-

mie di scala lungo il raggio) consiste proprio nel non tener conto del fatto che quan-do aumenta la scala di produzione la proporzione di beni (servizi) prodotti può varia-re.

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deguati). Infine, seppure mai esplicitamente, il periodo regolamentativo in vigore nei vari momenti storici considerati sembra aver costituito uno sfondo importante agli studi condotti, quanto meno nell’offrire spunti di riflessione.

In generale, appare piuttosto evidente che l’ulteriore sviluppo della letteratura sul tema debba necessariamente prevedere un approfondimento di alcuni elementi chiave, tra cui una riflessione teorica sul concetto di prodotto bancario e sul ruolo svolto dai vecchi e nuovi canali distributivi, l’utilizzo di relazioni funzionali per la rappresentazione della funzione di costo in grado di superare i limiti di quelle tradizionalmente utilizzate e, infine, l’elaborazione di indicatori idonei a rappresentare il fenomeno che si intende analizzare. Si noti infine che la configurazione di un sistema bancario, mo-dellata, tra l’altro, dalla regolamentazione sottostante e dalla cultura (intesa in senso lato) di un paese, è la fonte delle definizioni adottate (sulle quali quindi non può esistere un’opinione comune) in base alle quali vengono poi scelte le variabili da inserire nei modelli e strutturate le relazioni che le lega-no. Pertanto, confrontare studi condotti in paesi diversi per cercare di trarre conclusioni comuni può rivelarsi un’operazione non sempre efficace.

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APPENDICE TAVOLE RIASSUNTIVE DEI PRINCIPALI MODELLI PRESENTATI: LA LETTERATURA USA

I O CAUTORE ANNO

TIPO DI FUNZIONE

F. FUNZIONALE NPUT UTPUT ANALI DISTRIBUTIVI

PRINCIPALI RISULTATI NOTE

Schweiger McGee

1961 Una funzionedi costo

Lineare multipla ∗ Depositi a ri-sparmio

∗ Attività fruttifere

No Ampie economie di scala

Bell Murphy 1968 Una funzione di costo per ogni output considerato

Cobb-Douglas ∗ Lavoro ∗ Capitale

∗ Depositi a vista ∗ Depositi a ri-

sparmio ∗ Prestiti rateali ∗ Mutui ∗ Prestiti immobi-

liari

No

Economie di scala quando l’espansione dell’output avviene a sportelli invariati

Inserimento di dummies per rendere omogenea la misura dell’output

Benston 1972 Una funzionedi costo per ogni output considerato

Cobb-Douglas ∗ Lavoro ∗ Capitale

∗ Depositi a vista ∗ Depositi a ri-

sparmio ∗ Prestiti rateali ∗ Mutui ∗ Prestiti immobi-

liari

No Consistenti economie di scala per i depositi a vista e i mutui

Schweitzer 1972 Funzione dicosto unica

Cobb-Douglas ∗ Un solo indicato-re del prodotto co-struito consideran-do il rendimento delle attività e dei titoli

No Economie di scala per banche con at-tivo inferiore ai 3,3 mln $; rendimenti costanti tra 3,5 e 25 mln $ e rendimen-ti decrescenti per attivi superiori ai 25 mln $

∗ Per la prima volta la spe-sa per interessi viene inse-rita nei costi operativi

∗ Il campione è costituito da holding company

Mullinaux 1978 Funzione diprofitto

Funzione ibrida: translog e Cobb-Douglas

∗ Lavoro ∗ Depositi ∗ Capitale

∗ Prestiti per l’acquisto di beni immobili

∗ Credito al con-sumo

∗ Prestiti commer-ciali e per l’agricoltura

∗ Canone d’affitto sulle cassette di si-curezza

Si Economie di scala soprattutto nelle banche operanti in stati a regolamen-tazione monosportello Forte influenza della regolamentazio-ne nella misura delle economie di sca-la Economie di scala in generale più evi-denti di quelle stimate con la funzione di costo

∗ Inserimento del Numero Equivalente per tener con-to dell’impatto della strut-tura del mercato sui profitti

∗ Il campione è costituito da one bank holding com-panies e da multi-bank holding companies

Benston, Hanweck

1982 Funzione dicosto

Translog ∗ Lavoro ∗ Capitale

∗ Depositi a vista ∗ Depositi a tempo

Si Economie di scala nelle banche con filiali e diseconomie nelle monospor-

∗ Utilizzo dell’indice di Divisia per la misura del

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Humphrey ∗ Prestiti per l’acquisto di beni immobili

∗ Prestiti rateali ∗ Prestiti industriali

e commerciali

tello (particolarmente ampie quando i depositi superano i 50 milioni di $)

prodotto bancario

Gilligan, Smirlock, Marshall

1984 Funzione dicosto

Translog ∗ Lavoro ∗ Capitale

∗ Depositi a vista ∗ Depositi a ri-

sparmio ∗ Prestiti per

l’acquisto di beni immobili

∗ Prestiti commer-ciali

∗ Prestiti rateali

No Il mercato bancario non è caratterizza-to da monopolio naturale e le econo-mie di scala esistono solo in banche molto piccole

∗ Vengono esplicitamente considerate le complemen-tarità di costo tra gli output

Murray, Whi-te Kim (aggior-namento)

1983 1986

Funzione di costo

Translog ∗ Lavoro ∗ Capitale ∗ Depositi a

vista ∗ Depositi a

risparmio

∗ Prestiti ipotecari ∗ Prestiti non ipote-

cari ∗ Investimenti in ec-

cesso rispetto al minimo di liquidità richiesto

No Economie di scala globali modeste; economie di scopo positive e superiori a quelle di prodotto specifico; diseco-nomie di scala di prodotto specifico per i servizi diversi dai mutui ipotecari

∗ Vengono calcolati anche le economie di scala lungo il raggio (RAC) e indicato-ri di scopo

∗ Il campione è costituito solo da credit unions

Mester 1987 Funzione dicosto

Translog ∗ Lavoro ∗ Capitale ∗ Depositi a

vista ∗ Depositi a

risparmio

∗ Mutui ipotecari ∗ Titoli e fondi co-

muni ∗ Altri prestiti ∗ Denaro liquido

Viene definita una funzione in cui gli spor-telli sono fun-zione log-lineare del li-vello dell’output e messa a siste-ma con la fun-zione di costo

Nel modello a sportelli costanti le e-conomie di scala si rilevano solo per le banche medio-grandi. Le piccole sof-frono di consistenti diseconomie. Nel modello a sportelli variabili le econo-mie di scala pure se presenti a ogni livello dimensionale appaiono esigue e tendono a decrescere all’aumentare del numero di sportelli. Le economie di scopo globali sono positive ma esigue, quelle di prodotto specifico sono significative solo per i mutui ipotecari e i titoli e i fondi co-muni

∗ Si considera per la prima volta la relazione lineare tra sportelli e prodotto

∗ Il campione è costituito solo da savings & loan as-sociations

∗ Si considerano sia indi-catori di scala (RAC) sia di scopo

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51

Berger, Han-weck, Hum-phrey

1987 Funzione dicosto

Translog Due modelli ∗ (Depositi a rispar-mio) 1) lavoro,

Capitale, Depositi;

2) Lavoro e capitale

∗ (Depositi a vista) ∗ Mutui ipotecari ∗ Prestiti commer-

ciali

Si

Le piccole banche godono di RAC che tendono a diminuire all’aumentare del-la dimensione. Negli stati a regola-mentazione monosportello le banche soffrono di forti diseconomie quando le loro dimensioni aumentano. I risul-tati relativi al sentiero di espansione delle economie di scala non fornisco-no risultati univoci. Il sentiero di e-spansione della subadditività rileva “diseconomie di consolidamento” dell’ordine dell’1-3%.

Vengono introdotti il concet-to di vitalità in un mercato concorrenziale e di sentiero di espansione della subadditività

Berger, Humphrey

1990 Funzione dicosto

Translog Picco dell’efficienza di scala in corri-spondenza dei 100 milioni di $ di atti-vo

Noulas, Ray, Miller

1990 Funzione dicosto

Translog Efficienza di scala per banche con at-tivo compreso tra 2 e 10 miliardi di $

Campione di sole grandi ban-che (con attivo superiore al miliardo di $)

McAllister, McManus

1993 Funzione dicosto

Stime non para-metriche (in par-ticolare tecnica di Kernel e Fou-rier Flessibile)

Rendimenti crescenti nelle piccole banche e nella classe delle banche con attivo tra i 500 milioni di $ e i 5 mi-liardi di $. Rendimenti costanti per le grandi banche

Considerazione del capitale finanziario come input del processo produttivo

Mitchell e Onvural

1996 Funzione dicosto

Fourier flessibile Due modelli: 1) Lavoro,

capitale, depositi,

2) Lavoro e capitale

∗ Mutui ∗ Prestiti commer-

ciali ∗ Prestiti industriali

No Nel modello con il maggior numero di parametri (INT 51) le banche con atti-vo fino a 2 miliardi di $ godono di rendimenti crescenti. Tra 2 e 10 mld di $ i rendimenti sono costanti e poi an-cora crescenti. I costi appaiono solo occasionalmente subadditivi. In parti-colare lo sono nella banche fino a 2 mld di attivo

Vengono costruite diverse funzioni con varie combina-zioni di parametri, compresa la translog (caso particolare di Fourier flessibile con zero parametri)

Mahajan, Rangan, Zar-dkoohi

1996 Funzione dicosto

Translog ∗ Lavoro ∗ Capitale

∗ Prestiti totali ∗ Depositi a vista ∗ Titoli governativi

Viene definita una funzione in cui gli spor-telli sono fun-zione log-lineare del li-vello dell’output e messa a siste-

A livello di impianto le banche nazio-nali (BN) mostrano diseconomie (RAC) in tutte le classi dimensionali, mentre per le multinazionali (BM) le economie di scala si esauriscono in corrispondenza dei 500 mld di $ di attivo. A livello di impresa le BM so-no caratterizzate da diseconomie cre-scenti di scala in tutte le classi dimen-

Stima panel distinta per ban-che nazionali e multinazionali

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ma con la fun-zione di costo

sionali. Le BN al contrario godono di economie di scala crescenti in tutte le classi.

Hughes, Me-ster

1998 Funzione dicosto

Translog ∗ Capitale finanziario

∗ Depositi non assicu-rati

∗ Altra moneta in prestito

∗ Lavoro ∗ Capitale

∗ Mutui (per l’acquisto di beni immobili, azienda-li, individuali)

∗ Altri prestiti ∗ Titoli ∗ Attività in conto

merci ∗ Fondi federali ∗ Rischio di credito

No I test dimostrano la non neutralità al rischio da parte delle banche e ampie economie di scala per tutte le classi dimensionali.

Esplicita considerazione dell’atteggiamento dei mana-ger bancari nei confronti del rischio nella funzione di costo (abbandono dell’ipotesi di neutralità al rischio da parte della banca). Definizione della funzione di domanda del capitale finan-ziario (posta a sistema con la funzione di costo)

Stiroh 2000 Funzione dicosto e di profitto

Translog ∗ Lavoro ∗ Capitale

∗ Prestiti alle impre-se

∗ Prestiti al consumo ∗ Titoli ∗ Impegni ∗ Derivati sui crediti ∗ Contratti su tassi di

cambio e di inte-resse

∗ Voci fuori bilancio

No I risultati relativi sia al RAC, sia al sentiero di espansione delle economie di scala rilevano economie di scala crescenti per le banche costituite in Holding con attivo superiore ai 500 milioni di $, sia considerando gli out-put tradizionali, sia quelli meno tradi-zionali, che sembrano quindi influen-zare più le voci di ricavo che quelle di costo

Viene posta particolare atten-zione al concetto di prodotto bancario e soprattutto alle vo-ci non tradizionali

Hughes, Me-ster, Moon

2001 Funzione dicosto

Translog ∗ Lavoro ∗ Capitale ∗ Depositi

∗ Prestiti ∗ Sofferenze ∗ Capitale netto

No Un aumento della diversificazione cor-risponde a un aumento delle economie di scala, un aumento del rischio assun-to sostituendo prestiti con titoli e atti-vità liquide comporta una riduzione delle economie di scala, una riduzione del rapporto leverage è associato a minori economie di scala

Viene effettuato un test pre-liminare per stabilire se i de-positi sono input o output. Viene inserito il capitale pro-prio nella funzione di costo. Il prezzo del capitale proprio viene misurato con i “prezzi ombra”. L’atteggiamento verso il ri-schio viene analizzato me-diante il grado di esposizione al rischio macroeconomico da parte della banca

LA LETTERATURA ITALIANA AUTORE ANNO

TIPO DI FUNZIONE

F. FUNZIONALE INPUT OUTPUT CANALI DISTRIBUTIVI

PRINCIPALI RISULTATI NOTE

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Ruozi 1968 Funzionerappresentati-va dei costi e funzione rap-presentativa dei ricavi

Lineare ∗ Totale attivo ∗ Depositi a rispar-

mio ∗ Impieghi

Si Lo studio evidenzia un aumento di ef-ficienza legato alle dimensioni. Il gra-do di efficienza tende a diminuire dal-le banche più piccole alle maggiori quando come variabile dipendente si utilizza il rapporto tra utili di esercizio e riserve.

Vengono svolte due regres-sioni, una su variabili rap-presentative dei costi, l’altra dei ricavi. In un secondo sta-dio vengono considerate nel-la regressione le sole variabi-li esplicative risultate signi-ficative

Ciocca, Gius-sani, Lanciot-ti

1974 Funzione dicosto

Cobb-Douglas ∗ Lavoro ∗ Capitale

∗ Attivo ∗ Depositi a rispar-

mio ∗ Impieghi

Si Si rilevano economie di scala che ten-dono a ridursi considerevolmente all’aumentare del numero degli spor-telli. Le economie di scala derivereb-bero soprattutto dalla maggiore spe-cializzazione dei lavoratori nelle gran-di banche

Nella funzione non viene in-serito il prezzo del capitale in base all’ipotesi che questo sia simile in tutte le banche con-siderate. Non vengono inoltre svolte considerazione sulla complementarità di costo e sulle economie di scopo

Conigliani 1983 Funzione dicosto

Cobb-Douglas ∗ Lavoro ∗ capitale

∗ Attivo ∗ Impieghi

Si Si rilevano economie di scala che vengono neutralizzate dai costi soste-nuti per l’ampliamento della rete degli sportelli

Non vengono svolte conside-razioni sulla complementarità di costo e sulle economie di scopo

Lanciotti, Raganelli

1988 Funzione dicosto

Trasformata di Box-Cox

∗ Lavoro ∗ Raccolta

∗ Attivo ∗ Crediti vs clientela

a breve e medio-lungo termine

∗ Finanziamenti a istituti di credito

∗ Titoli di proprietà

Si Il modello evidenzia economie di sca-la crescenti. Per qualsiasi numero di sportelli, il livello di prodotto per sta-bilimento presenta una soglia al di so-pra della quale sono conseguibili van-taggi in termini di costo medio

Il prodotto viene rappresenta-to con un’unica variabile at-traverso l’indice di Green-baum. Viene inserito come variabile indipendente l’indice di Herfindal per tener conto dell’influenza della struttura dei mercati sui costi medi aziendali

Baldini, Lan-di

1990 Funzione dicosto

Translog Non vengono inseriti nella funzione i prezzi degli input in base all’ipotesi di perfetta con-correnza nel mercato dei fattori produt-tivi

∗ Depositi ∗ Impieghi ∗ Servizi legati

all’attività di in-termediazione, di pagamento e di consulenza nella gestione del ri-sparmio

Si Il modello evidenzia RAC decrescenti a livello di sportello mentre le elastici-tà globali appaiono contenute. Ciò av-valora l’idea che per il sistema banca-rio italiano esista un problema di o-verbranching

L’autore ripropone un model-lo analogo a quello della Me-ster (1987) al caso italiano.

Conigliani, 1991 Funzione di Translog ∗ Lavoro ∗ Attività fruttifere Si Tutte le classi dimensionali di banche L’analisi viene riferita sia alle

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De Bonis, Motta, Parigi

costo ∗ Capitale ∗ Fondi di

terzi

inclusi i servizi (e di gruppi) appaiono caratterizzate da rendimenti crescenti quando gli sportelli sono tenuti costanti, Quando questi vengono fatti variare si riduco-no di circa un quinto. Le complemen-tarità di costo appaiono rilevanti per le banche maggiori, per le quali si regi-stra un risparmio di costi maggiore offrendo insieme prodotti tradizionali e servizi.

singole banche sia ai gruppi bancari.

Goisis, Parra-vicini, Porrini

1992 Funzione dicosto

Translog ∗ Lavoro ∗ Capitale ∗ Raccolta

∗ Totale delle attivi-tà

∗ Totale impieghi vs clientela e dei rap-porti intercreditizi

∗ Si Le stime rilevano rendimenti di scala crescenti per gli istituti di minori di-mensioni, poi costanti, e infine decre-scenti per le banche maggiori. Inclu-dendo anche la variabile dimensionale (sportelli) una minore dispersione sembra determinare minori costi per le banche grandi e medie, un risultato opposto si ha per le piccole banche

Lo studio viene riferito alle sole banche popolari

Parigi, Sesti-to, Viaviani

1993 Funzione dicosto

Translog ∗ Lavoro ∗ Capitale ∗ Raccolta

∗ Impieghi ∗ Titoli ∗ Titoli in custodia ∗ Altri servizi ∗ Crediti di firma ∗ Posizione

sull’interbancario

Si Si rilevano economie di scala sia a li-vello di impianto, sia a livello di im-presa

Viene utilizzata una stima per panel data

Costagli 2003 Funzione dicosto

Fourier flessibile semplificata

∗ Lavoro ∗ Capitale ∗ Raccolta

∗ Prestiti ∗ Servizi da incasso

e pagamento ∗ Servizi di gestione,

intermediazione e consulenza

Si La stima del ESR mostra rendimenti crescenti solo per le banche piccole, mentre le medio-grandi appaiono ca-ratterizzate da rendimenti decrescenti. I risultati relativi al SEESC indicano che nelle popolari non si realizzano risparmi di costo associando all’espansione del prodotto una sua modifica

Il modello è riferito alle sole banche popolari

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