SPEZZARE LA CATENA DEL MALE · Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia, Università di...

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SPEZZARE LA CATENA DEL MALE Esiste un modo per riparare quello strappo profondo prodotto da chi ha commesso un reato?

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SPEZZARE LA CATENA DEL MALE

Esiste un modo per riparare quello strappo profondo prodotto da

chi ha commesso un reato?

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La pubblicazione “Spezzare la catena del male”è stata realizzata grazie al contributo di:

Centro di Servizio per il Volontariatodella Provincia di Padova

Progetto editoriale ed editing di Ornella Favero,in collaborazione con Francesco Morelli, Marino Occhipinti, Elton Kalica

Progetto grafico, impaginazione di Andrea Andriotto

Hanno collaborato al progetto:Redazione di Ristretti Orizzonti - Casa di reclusione di PadovaSalvatore Allia, Mel Alì, Andrea Beltramello, Maurizio Bertani, Vincenzo Boscarino, Sandro Calderoni, Gianluca Cappuzzo, Franco De Simone, MohamedElins, Antonio Floris, Filippo Filippi, Franco Garaffoni, Gentian Germani, MilanGrgic, Giuseppe Malvetta, Dritan Iberisha, Bardhyl Ismaili, Elton Kalica, PierinKola, Davor Kovač, Jovica Labus, Marco Libietti, Vanni Lonardi, Enos Malin, Michele Montagnoli, Igor Muntenau, Marino Occhipinti, Halid Omerovic, PietroPollizzi, Elvin Pupi, Salem Rachid, Oddone Semolin, Walter Sponga, Hasin Taha,Germano Vetturini, Serghej Vitali

Segreteria RedazionaleGabriella Brugliera, Vanna Chiodarelli, Lucia Faggion

Sede esterna Ufficio stampa e Centro studiAndrea Andriotto, Paola Marchetti, Francesco Morelli, Nicola Sansonna

Redattori esterni e collaboratori Paolo Moresco, Bruno Boscato, Elisa Nicoletti, Francesca Rapanà, AlessandroBusi

Supplemento al numero 7/2009 di Ristretti OrizzontiPubblicazione registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999Spedizione in A.P. art. 2 comma 20/C Legge 662/96 Filiale di PadovaDirettore responsabile Ornella Favero

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SOMMARIO

Capitolo I Perché questo libro? Perché arriva dal carcerepag. 8 - Un modo diverso di pensare alla pena

Ornella Favero, Direttore di Ristretti Orizzonti

pag. 10 - Qualsiasi reato lascia dolore e distruzione nella vita di qualcuno Marino Occhipinti, Ristretti Orizzonti

pag. 11 - In carcere si impara subito a non parlare delle vittime Elton Kalica, Ristretti Orizzonti

pag. 12 - Quella frattura creata dal reatoMaria Pia Giuffrida, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

Capitolo II Testimonianze di vittimepag. 18 - La perdita di fiducia nell’altro

Manlio Milani, presidente dell’Associazione famigliari delle vittime di Piazza della Loggia

pag. 21 - Ci sono ferite che rimangono aperte in un modo particolarmente dolorosoAndrea Casalegno, figlio di Carlo, giornalista ucciso dalle B.R.

pag. 25 - In tanti mi dicono: ma tu hai perdonato? Giuseppe Soffiantini, vittima di un sequestro che è durato 237 giorni

pag. 27 - Ci sono debiti che non si possono saldare Silvia Giralucci, nel 1974 suo padre è stato ucciso dalle B.R.

pag. 30 - Ho sentito che dovevo essere portatrice di una parola di ragionevolezza Olga D’Antona, vedova di Massimo D’Antona, giurista ucciso dalle B.R.

pag. 33 - Spero che dalla morte di mio figlio possa venire un aiuto per gli altriRoberto Merli, padre di Alessandro, ucciso a 14 anni in un incidente stradale

pag. 35 - Serve rispetto della dignità e del dolorePaola Reggiani, sorella minore, di Giovanna, la donna aggredita a Roma il 30 ottobre 2007 e deceduta pochi giorni dopo

pag. 36 - Ho toccato con mano una cosa che avevo letto, ma rispetto a cui ero scetticaBenedetta Tobagi, figlia di Walter, giornalista ucciso da un commando di terroristi

pag. 41 - Leggere la realtà “con gli occhi del nemico”Silvia Giralucci, oggi volontaria della redazione di Ristretti Orizzonti

pag. 42 - Io credo profondamente nell’uomo e credo nella sua possibilità di cambiareSabina Rossa, figlia di Guido Rossa, operaio dell'Italsider ucciso dalle B.R.

Capitolo III Testimonianze di famigliari di detenutipag. 46 - Quelle bugie raccontate ai figli “a fin di bene”

Marino Occhipinti, Ristretti Orizzonti

pag. 49 - Non è stato facile crescere senza di teBruno De Matteis, Ristretti Orizzonti

pag. 52 - I nostri famigliari sono sì delle vittime, ma perché noi abbiamo scelto di punirliDritan Iberisha, Ristretti Orizzonti

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pag. 53 - Lettera di un figlio a un padre detenutoEugenio Romano, Ristretti Orizzonti

pag. 56 - Volevo capire cosa era passato nella testa a mia figlia finché io ero in carcerePaola Marchetti, Ristretti Orizzonti

pag. 57 - Non avevo più una madre, mia madre era in carcereintervista a Giulia

pag. 61 - Quello che subisce la famiglia di un detenutoN. A. padre di un detenuto

Capitolo IV Testimonianze di detenutipag. 64 - Confrontarsi con la sofferenza altrui, farla propria,

è un altro modo per espiarePaola Marchetti, Ristretti Orizzonti

pag. 65 - Camminare a testa bassa non è perdere la dignitàElton Kalica, Ristretti Orizzonti

pag. 68 - L’essere vittima di un reato non ha scadenza, non si è mai una ex vittimaMaurizio Bertani, Ristretti Orizzonti

pag. 70 - È possibile una detenzione che stimoli riflessioni portatrici di un cambiamento della persona detenuta?Marino Occhipinti, Ristretti Orizzonti

pag. 72 - L’enorme sofferenza delle vittime è rimasta incollata alla nostra pelleMarino Occhipinti, Ristretti Orizzonti

pag. 75 - Quella vita dura delle sezioniDaniele Barosco, Ristretti Orizzonti

pag. 76 - Comprendo, ma la testa non credo di doverla abbassareBruno De Matteis, Ristretti Orizzonti

pag. 77 - Oltre alle loro sofferenze ci hanno trasmesso una enorme quantità di culturaPierin Kola, Ristretti Orizzonti

pag. 78 - È umano avere paura di quello che non si conosceJovica Labus, Ristretti Orizzonti

pag. 79 - Non voglio provocare ferite “aggiuntive” alle persone a cui ho già fatto del maleElvin Pupi, Ristretti Orizzonti

pag. 80 - È possibile arrivare a una riconciliazione?Prince Obayanbon Maxwho, Ristretti Orizzonti

pag. 82 - Non ho percepito l’odio o la voglia di vendettaMilan Grgic, Ristretti Orizzonti

pag. 83 - La strada che porta al futuroMarco Libietti, Ristretti Orizzonti

pag. 85 - Spesso penso di vivere oggi una vita che non merito di vivereAndrea Andriotto, Ristretti Orizzonti

pag. 87 - Noi raccontiamo il carcere, loro ci insegnano come stare al mondoElton Kalica, Ristretti Orizzonti

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Capitolo V La mediazione penale: fare incontrare non due ruoli, il reo e la vittima, ma due persone

pag. 92 - La scommessa: fare incontrare non due ruoli, il reo e la vittima, ma due persone. La mediazione penale raccontata da Federica Brunelli, mediatrice dell’Ufficio per la Mediazione di MilanoA cura della redazione di Ristretti Orizzonti

pag. 101 - Quella sottile linea rossa che unisce tutte le esperienze delle vittimeAdolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca e Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano

pag. 104 - La comunità può essere un facilitatore del contatto, del confronto e del dialogoCarlo Alberto Romano, docente di Criminologia all’Università di Brescia

pag. 106 - Le vittime devono trovare risposte fuori dal meccanismo processo/sanzioneRosanna Tosi, professore ordinario di Diritto Costituzionale, volontaria nella Casa di reclusione di Padova

pag. 108 - Come sanare le fratture prodotte dai reatiGiovanni Maria Pavarin, Magistrato di Sorveglianza di Padova

pag. 112 - La vittima può ritrovare il proprio equilibrio indipendentemente da una dimensione vendicativaGiuseppe Mosconi, docente di Sociologia del Diritto dell’Università di Padova

pag. 118 - La mediazione penale nell’ambito della giustizia minorileIntervista a Claudia Mazzucato, docente di Diritto Penale all’Università del Sacro Cuore di Milano e Mediatore penale dell’Ufficio per la Mediazione di Milano

Capitolo VI Chi ha scontato una pena per reati di sangue ha diritto ad avere un ruolo pubblico?

pag. 126 - Il dolore delle vittime si rinnova quando prendono la parola i “colpevoli”?Stefano Bentivogli, Ristretti Orizzonti

pag. 128 - Una persona che ha ucciso non può permettersi di perdere il senso della propria diversitàMarino Occhipinti, Ristretti Orizzonti

pag. 130 - Ma davvero il mondo si divide fra quelli che vogliono cacciare, escludere, condannare a una pena perpetua Caino, e quelli che invece pensano che Caino, quando si è fatto la galera, ha chiuso i conti e nessuno può pretendere da lui più nulla?Uno scambio di riflessioni tra Sergio Segio e Ornella Favero

Capitolo VII Il sapore amaro della vendettapag. 138 - Nell’Albania delle interminabili faide e vendette trasversali

Elton Kalica, Ristretti Orizzontipag. 140 - Il perdono è stato come respirare un’aria che non mi spettava

Dritan Iberisha, Ristretti Orizzontipag. 141 - Droga, coltelli e desiderio di vendetta ti trascinano a fare una brutta fine

Kamel Said, Ristretti Orizzontipag. 143 - Io ho applicato la giustizia fai da te

Pierin Kola, Ristretti Orizzontipag. 144 - Con il coltello in tasca ho ucciso un altro ragazzo

Rachid Salem, Ristretti Orizzonti

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Capitolo VIII La fatica, la passione, la sofferenza di un percorsodi mediazione collettiva tra carcere e “mondo libero”

pag. 146 - Che senso ha la mediazione per le persone già condannate? Una discussione nella redazione di Ristretti Orizzonti

pag. 152 - Bisogna avere la capacità di ascoltare con l’anima le ragioni dell’altro. Un incontro con Olga D’Antona nella redazione di Ristretti Orizzonti

pag. 162 - È importante che chi ha fatto del male possa vedere il dolore che ha causato: Alcune riflessioni in redazione con Silvia Giralucci e Benedetta Tobagi su come “spezzare la catena del male” anche attraverso l’incontro tra vittime e autori di reato

pag. 171 - Se ripenso al rapinatore che mi ha usata come ostaggio per una rapina in bancaElena Baccarin, insegnante che ha partecipato al progetto scuole-carcere

pag. 173 - Due detenuti e un tentativo di risposta all’insegnante, vittima di una rapina: Per una volta mi sono trovato col pensiero dall’altra parte di un’armaSandro Calderoni, Ristretti Orizzonti

pag. 174 - Un confronto che a me può fare solo del bene, anche dentro la sofferenzaMaurizio Bertani, Ristretti Orizzonti

pag. 176 - Egregio signor ladro... Uno “strano” carteggio tra un “cittadino incensurato” la cui casa è stata più volte visitata dai ladri, e qualche “ex ladrone fornito di coscienza”

pag. 180 - Abbiamo bisogno di evitare di asserragliarci nel nostro personale fortinoAlberto Verra

pag. 183 - L’esperienza del progetto “Riparare” in LombardiaFrancesco Di Ciò e Claudia Mazzucato

pag. 185 - È vedere la sofferenza provocata che inchioda alle proprie responsabilitàOrnella Favero, Direttore di Ristretti Orizzonti

Capitolo IX Buone letture per “spezzare la catena del male”pag. 190 - “Spingendo la notte più in là” Recensioni

di Elton Kalica e Franco Garaffoni, Ristretti Orizzontipag. 193 - I silenzi degli innocenti e il chiasso assordante di certi colpevoli

di Giovanni Fasanellapag. 197 - Strage continua

di Elena Valdinipag. 199 - Lotta civile

di Antonella Mascalipag. 203 - Eredi. Da Pietro Maso a Erika e Omar

Gorgo. In fondo alla pauradi Gianfranco Bettin

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Perché questo libro? Perché arriva dal carcere

Tutto quello che in questo libro è raccontato ha una caratteristica, che lo rende di-verso da altri testi più tecnici, più documentati, più profondi sulla mediazione pe-nale e sulla giustizia riparativa: arriva dal carcere, anzi parte dal carcere e ritornaal carcere portando un’aria diversa, allargando gli orizzonti di chi sta dentro, maanche arricchendo l’esperienza di chi ha voglia di misurarsi su questi temi conmente sgombra, di chi qualche volta ha voglia di provare a leggere, come dice Sil-via Giralucci usando il titolo di un bel saggio di David Grossman, la realtà “con gliocchi del nemico”.Dal carcere di Padova, dalla redazione di Ristretti Orizzonti, si è deciso di affrontareun percorso faticoso, che però può portare davvero a una assunzione di respon-sabilità: ascoltare le vittime, ascoltarle e basta, in un primo momento non ci puòneppure essere dialogo, ci deve essere quasi un monologo, tanto è rara e preziosal’opportunità di ascoltare vittime che hanno accettato di entrare in un carcere nonper parlare di odio, ma di sofferenza, della loro sofferenza. E poi faticosamentepuò nascere il momento del dialogo, del confronto, del cammino fatto insiemeper “spezzare la catena del male”.

Capitolo I

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Un modo diverso di pensare alla penaPiù il carcere è aperto al confronto, più costringe a riflettere su se stessi: la pena allora da una parte è anche più dura, perché assumersi la responsabilità del male fatto è una fatica, ma dall’altra è più importante e più significativa

di Ornella FaveroDirettore di Ristretti Orizzonti

Quando abbiamo iniziato, anni fa, a parlare di mediazione, non immaginavamo certo diintraprendere un percorso così duro e così denso di sofferenza, come poi si è rivelato. Laprima volta che abbiamo avuto la percezione di quanto ognuno di noi, volontari e dete-nuti, doveva imparare a mettersi in gioco è stata nel progetto con le scuole: a lungo,quando gli studenti chiedevano “Ma tu, perché sei dentro?”, abbiamo pensato che fossegiusto che le persone detenute non parlassero del proprio reato, però poi, un po’ allavolta, è diventato invece un momento fondamentale di confronto con la società proprioil racconto del reato. E non certo per rispondere a una curiosità morbosa, quanto piutto-sto per ragionare sui percorsi che portano a uscire dalla legalità, su quello che succedenella testa di una persona che perde il senso del limite fino ad arrivare anche a sentirsipadrona della vita di un altro essere umano. È stato come prendere le proprie esperienzepiù negative e metterle a disposizione di tutti, con l’idea che quella sofferenza potevaforse diventare utile a evitarne altre, inducendo i ragazzi a riflettere sui comportamentia rischio, sul mito della trasgressione, sulla responsabilità di fronte ai propri comporta-menti. Quello che è successo invece nel carcere di Padova nella Giornata di studi “Sto imparandoa non odiare” è un percorso in qualche modo stranamente “speculare” a quello con lescuole: a mettere, in un certo senso, “a disposizione” di tutti la propria sofferenza questavolta non sono stati i detenuti, ma le vittime di reato. Ci piace pensare che il nostro giornale, Ristretti Orizzonti, abbia ora la maturità per faredel rapporto tra vittime e autori di reato uno dei temi più importanti della sua attività:quindi chiediamo ai nostri lettori di restare con noi dentro questo “percorso”, di scriverci,di mandarci un loro contributo, di ripensare alle parole-chiave che sono state al centrodelle nostre riflessioni, come odio, perdono, riconciliazione, bisogno di verità e di giustizia,per fare in modo che anche nella società “libera” se ne torni a parlare fuori dagli schemie dalle semplificazioni.Quando è venuta Olga D’Antona nella nostra redazione ci ha suggerito di leggere un libro,il libro di Giovanni Fasanella, “I silenzi degli innocenti”. Allora io credo che da quella lettura sia venuta la percezione chiara che questo percorsocon le vittime non è importante solo per le persone detenute, per le quali senz’altro con-frontarsi con la propria responsabilità dovrebbe essere un momento fondamentale; no,è importante anche per il volontariato, è importante per tutti noi, che a volte, venendoin carcere, occupandoci magari di garantire alle persone detenute una carcerazione digni-tosa, dimentichiamo che cosa vuol dire subire un reato. Per me è stato sconvolgente,oltre alla lettura del libro di Giovanni Fasanella, parlare con le persone che avevano subito

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un lutto per reati di sangue per invitarle a venire in carcere a confrontarsi con noi, e aquesto proposito devo ringraziare in particolare Silvia Giralucci, perché mi ha fatto capireuna cosa fondamentale: che ci sono dolori che non passano, ci sono lutti che non si chiu-dono dopo venti o trent’anni, e quando parli con lei o con Benedetta Tobagi, ti accorgi cheè come se tutto fosse successo ieri, capisci che un lutto dovuto a una morte violenta nonsi rielabora mai, non si chiude, non passa. Allora prendere consapevolezza di cosa vuol dire subire un reato ci ha fatto ragionareanche sulle parole, “le parole per dirlo”, per riflettere su questi temi. Mi colpisce in par-ticolare, e credo che le persone detenute debbano fare i conti con questa questione, unafrase che sento dire spesso, “abbiamo pagato il nostro debito con la giustizia”. Ecco, iocredo che il debito con la giustizia è una cosa, il male e la responsabilità rispetto al maleè un’altra. Allora io non voglio certo pene più lunghe, al contrario penso che le pene nelnostro Paese siano anche troppo pesanti, però una assunzione di responsabilità rispettoal dolore provocato, questo mi sembra importante. Perché la pena di Silvia, o di OlgaD’Antona o di tanti altri non si esaurisce, uno non può dire “ho chiuso, ho finito di soffrire”,e credo che questa consapevolezza debba restare anche in chi il reato lo ha commesso,e quella frase sui “conti pagati” non dovrebbe dirla. Penso allora che questo sia uno degliargomenti di cui dovremmo parlare di più: il fatto che bisogna scegliere anche le paroleper capire che assumersi la responsabilità del male compiuto va al di là degli anni di penascontati. Ritengo che questa sia una delle riflessioni che dobbiamo portare avanti e, lo ri-peto, penso che sia importante che lo facciamo anche noi volontari, a volte distratti,troppo distratti rispetto a questa questione.

Più il carcere è aperto al confronto, più costringe a riflettere su se stessiUna seconda osservazione che vorrei fare riguarda ancora le parole: quando noi incon-triamo le scuole, centinaia di studenti che entrano in carcere in piccoli gruppi di una o dueclassi, questi incontri credo siano momenti importantissimi perché le persone che stannoin carcere comincino a capire che cosa vuol dire la responsabilità, a capire che cosa pro-duce il reato nella vita di chi lo subisce. I ragazzi delle scuole e gli insegnanti tante voltepongono veramente delle domande forti, chiedono di raccontare il reato, e come si puòarrivare a commetterlo. So che è faticoso, però credo che sia importante anche capirecome si parla del proprio reato: io invito proprio a fermarsi a riflettere su ogni parola. Hosentito per esempio dire “è successa una rissa, c’è scappato il morto”. No guardate, nonsi possono usare le parole così, se una persona guida una macchina ubriaco, se una per-sona gira con un coltello, e poi succede qualcosa, non si può dire che c’è scappato il morto.Allora assumersi la propria responsabilità significa capire che ci sono dei comportamenti,e ci sono delle conseguenze di quei comportamenti, e sono conseguenze con cui io credoche le persone debbano fare i conti: se guidi ubriaco e provochi un incidente e qualcunomuore, non c’è “scappato il morto”, no, hai ucciso una persona. Vorrei concludere con una riflessione sul carcere e sul senso della pena: io credo che que-sto carcere di Padova, che spesso si apre alla società esterna, sia un esempio che il carcerechiuso, chiudere una persona in carcere e buttare la chiave come si vorrebbe tante volteoggi, non serve a niente. Un carcere aperto invece significa il confronto, significa ancheimparare ad assumersi le proprie responsabilità, a riflettere su se stessi: la pena allora dauna parte è anche più dura, perché assumersi la responsabilità del male fatto è una fatica,

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Qualsiasi reato lascia dolore e distruzione nella vita di qualcunoMa in carcere non sempre è facile riflettere e ripensare ai propri reati

di Marino OcchipintiRedazione di Ristretti Orizzonti

Nella storia di Ristretti Orizzonti, il percorso di incontro tra vittime e autori di reato nonnasce all’improvviso, ma fonda le sue radici almeno tre o quattro anni fa, nell’ambito ditutte le attività che facciamo: infatti, il primo contatto vero che abbiamo avuto con unavittima di reato, sempre parlando come redazione, è stato quando Alberto Verra mandòun messaggio sul nostro sito, dicendo “Egregio signor ladro (proprio queste parole, egre-gio signor ladro) io sono già stato derubato quattro volte, e vorrei parlare un po’ con teper capire meglio”. Ecco questa forse è stata la prima volta che ci siamo trovati a dialogarecon una vittima, e ne è nata una corrispondenza, tanto che Alberto viene a tutti i nostriconvegni, è venuto in redazione ed è sempre in contatto con noi.Poi c’è stato il progetto con le scuole, ragazzi che ci mettono di fronte alle nostre respon-sabilità, ragazzi che non fanno tanti complimenti, ed è giusto così perché ci obbligano aconfrontarci non solo con loro ma anche con noi stessi, e nell’ambito di questi incontri cisono stati due episodi importanti: uno, di una studentessa vittima di un furto in casa checi ha spiegato come la sua vita fosse cambiata enormemente dopo quel fatto, come daallora non avesse solo la paura di uscire alla sera, ma anche di rientrare in casa, in quelloche era il suo luogo di sicurezza per eccellenza, e poi c’è stato il racconto di una inse-gnante, che ci ha spiegato cosa vuol dire trovarsi ostaggio di una rapina in banca. Se leg-gete Ristretti troverete una sua lettera, e oltre alla sua testimonianza la risposta di duedetenuti, che dicono “Io non avevo mai pensato che facendo una rapina in banca potevopoi creare tutto questo, credevo che la rapina si risolvesse in cinque minuti di paura pertutti quanti, invece adesso mi rendo conto che nella vita delle persone, nelle vittime que-ste cose non passano in fretta”. Queste testimonianze ci hanno portato con forza a riflet-

ma dall’altra è più importante e più significativa. C’è un’ultima considerazione che voglio fare: in una società in cui c’è una continua istiga-zione all’odio, ci hanno colpito le parole di Olga D’Antona, quando ha esordito nella nostraredazione dicendo “Io ho una fortuna, non sono capace di odiare”; ecco, io credo che lepersone che hanno subito un reato hanno anche il diritto di odiare, però noi che non ab-biamo dentro questa sofferenza dovremmo avere la capacità di lavorare per spezzare lacatena dell’odio.Finisco con una piccola dedica del nostro lavoro a Stefano, un detenuto della redazioneche non c’è più, che ci ha insegnato tante cose sulla sofferenza, perché non dimentichia-molo, anche in carcere c’è sofferenza, il carcere è comunque luogo di solitudine, dolore,paura. Stefano era tossicodipendente e ci ha fatto capire che dovremmo imparare di piùa rispettare la sofferenza, che non bisogna avere paura della sofferenza, bisogna parlarne,bisogna dialogare, bisogna imparare a non voltarci dall’altra parte.

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tere su come certi gesti segnano la vita delle persone, dunque anche chi aveva delle dif-ficoltà a capirlo ha dovuto arrendersi di fronte al fatto che qualsiasi reato lascia dei segniindelebili nella vita di qualcuno, spesso lascia il dolore, la distruzione, quindi siamo staticostretti a fare queste riflessioni.Infine c’è stato un incontro fondamentale senza il quale noi oggi non saremmo qui, inquesta giornata, che è stato quello con Olga D’Antona. Olga D’Antona è venuta con uncoraggio incredibile, con una sofferenza forte che ci ha trasmesso e ci ha lasciato, e questoè stato un punto di svolta delle attività della redazione, perché noi prima avevamo orga-nizzato un convegno sugli affetti, un convegno sulle misure alternative, un convegno sullariforma del Codice penale, ma nelle discussioni successive all’incontro con Olga D’Antonaabbiamo deciso che era ora di organizzare un convegno sulle vittime, poi però i ragiona-menti sono andati avanti, il convegno sulle vittime è diventato il convegno con le vittime,fino a diventare il convegno di ascolto delle vittime. Quindi crediamo che questo sia unpercorso in fondo coraggioso anche da parte nostra, di tutti i componenti della redazionee di chi ha partecipato a queste attività. Ma è stato proprio l’incontro con Olga D’Antonalo snodo cruciale, ha cambiato davvero qualcosa questo incontro, è stato fondamentaleper aprire la strada a un grande lavoro che ci sta coinvolgendo tutti, un lavoro per avvici-nare noi, che i reati li abbiamo commessi, a una presa di coscienza vera e profonda dellenostre responsabilità.In conclusione vorrei soltanto citare una poesia che non ho scelto io, ma che ho trovatoin un articolo di Federica Brunelli su Dignitas del 2003, è una poesia di Biagio Marin del1968, quindi quarant’anni fa, che spiega come solo con il dialogo si può sperare di ricucireun legame altrimenti irrimediabilmente spezzato: “La parola non detta lascia in aria ilvuoto, è difetto di vita, non fa nessun nodo. Non c’è realtà senza parole, hanno battezzatola pietra, le donne più dolci, il mattino e la sera, la parola dà un viso anche a chi non cel’ha, fa nascere il fiordaliso, appena fa estate. Il silenzio che tace è solo un deserto, sen-z’albero né case, solo di morte esperto”. Credo che questa poesia racchiuda veramente ilsignificato di tutto il nostro lavoro.

In carcere si impara subito a non parlare delle vittimeIl muro di cinta ci impedisce anche di vedere le sofferenze che abbiamo causato

di Elton KalicaRedazione di Ristretti Orizzonti

Quando si finisce in carcere, io ci sono finito che ero giovanissimo, avevo poco più di ven-t’anni, l’assurdo del carcere è che, da qualsiasi ambiente si provenga, si impara subito anon parlare delle vittime. In carcere, all’aria, in cella, si parla di processi, si parla di con-danne, si parla dei nostri problemi, delle nostre famiglie distrutte, ma delle vittime nonsi parla mai, mentre là fuori, nella società libera, quando si va per le strade, nei negozi, ascuola, quando si guarda la televisione, capita di conoscere delle vittime, di incontrarnei famigliari, di parlare con loro, parlare di loro, pensare a loro. Io mi trovo in carcere da undici anni, e la lezione che ho tratto da questa esperienza è che

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quel muro di cinta che ci circonda, oltre ad impedirci di scappare da qui, ci impedisce divedere le sofferenze, di vedere il dolore, quel muro ci divide anche dal dolore, quindi pernoi è difficile, da qui dentro, vedere le sofferenze che spesso abbiamo causato. Ecco iocredo che sia una cosa unica, che sia la prima volta che dal carcere emerge questa fortenecessità di dialogo, e questo è stato possibile perché noi qui siamo fortunati ad avere unvolontariato capace di educarci al dialogo, capace di insegnarci a parlare, a confrontarci,qui abbiamo avuto prima Ornella Favero che è venuta dentro e ci ha tirato fuori dallecelle e ci ha detto “Dai parliamone, ragioniamoci su”, poi lei ci ha portato Olga D’Antona,che è venuta a raccontarci che cosa vuol dire essere vittima di un reato, e così anche noiabbiamo cominciato a conoscere, a vedere da vicino che cosa significa la sofferenza. La speranza che abbiamo noi della redazione è che il dialogo con tante vittime, che ab-biamo iniziato con Olga D’Antona e stiamo proseguendo, non rimanga un episodio isolato,un caso eccezionale, ma abbia una continuità, perché noi dentro in galera e voi, cittadiniliberi, ci siamo tutti barricati dentro le nostre sofferenze. I mediatori penali, secondo noi, proprio questo dovrebbero fare, dovrebbero andare atirare fuori dai gusci del proprio dolore le persone che hanno subito reati, convincerle avenire qui dentro a raccontare le proprie storie, raccontarle ai detenuti per far vedere, perfar conoscere la loro sofferenza, perché solo così il detenuto può prendere coscienza delmale fatto. Io, o meglio noi speriamo che ci sia una continuità in questa direzione, perché il processoche viene fatto in tribunale, una volta che la giustizia ha punito il colpevole, è finito lì, maè dopo che si dovrebbe cominciare a parlare, si dovrebbe cominciare a dialogare con levittime, perché soltanto così si può arrivare a capire la sofferenza che abbiamo provocatoe a misurarci con le nostre responsabilità.

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Quella frattura creata dal reatoDobbiamo passare dall’attenzione al soggetto che deve scontare una pena, a una dimensione relazionale dove il detenuto ha il “diritto” di essere incoraggiato a riflettere sul danno provocato a un altro, alla vittima

di Maria Pia GiuffridaDirigente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

e presidente della Commissione di studiosulla mediazione penale e la giustizia riparativa

Sulle tematiche della mediazione penale e della giustizia riparativa è ormai dal 2000-2002che la Commissione di studio dell’Amministrazione penitenziaria si è avventurata in unaserie di riflessioni. Vedete, io sono nell’Amministrazione penitenziaria dal ‘79, quindi sonotra i primi “operatori del trattamento” entrati con la legge penitenziaria del ‘75, e credodi poter affermare che il problema dell’Amministrazione penitenziaria è in qualche modoquello di non aver saputo gestire appieno il mandato trattamentale. Mi interrogo su que-sto giornalmente e cerco risposte che ci aiutino a dare attuazione al dettato normativo.Credo che tutti gli operatori penitenziari, ma anche tutti coloro che ci aiutano come co-

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munità esterna, si interroghino sul trattamento, e su quale è stato il limite del trattamento,sul perché l’Amministrazione non è riuscita a dimostrare il valore della norma penitenzia-ria che, accanto al modello retributivo, inseriva con il paradigma trattamentale questaspinta al reinserimento del condannato, obiettivo sancito dalla nostra Costituzione all’ar-ticolo 27. Riflettere sulla giustizia riparativa ci ha portato a capire che forse nei primi trent’anni noiabbiamo trascurato una parte, anzi senza forse, nei primi trent’anni l’Amministrazionepenitenziaria ha trascurato un soggetto, la vittima. Noi operatori del trattamento, entrando nel ‘79, abbiamo avuto il compito di parlare conil detenuto, per “trattarlo”, per risolvere i problemi che avevano causato il reato, e per ri-muovere gli ostacoli a un reinserimento. Una posizione che oggi mi sento di definire di-fensiva, sicuramente di significato per il detenuto, ma che non risolveva quella fratturacreata dal reato, quella frattura che vedeva dall’altro lato un soggetto vittima, e in qualchemaniera, scusatemi la franchezza, noi operatori penitenziari, io stessa ho contribuito alla“cancellazione della vittima” durante il tempo della pena. Noi infatti non abbiamo parlato molto spesso con i detenuti della vittima, abbiamo avutoun pudore, una incapacità, un senso di impotenza, ma forse il limite dei percorsi di vitanuovi, socialmente accettabili che avremmo voluto contribuire a far fare al detenuto èproprio quello.

Il detenuto ha il diritto di essere incoraggiato a riflettere sul danno provocato a un altroNoi operatori dell’Amministrazione penitenziaria dobbiamo oggi prendere nelle nostremani il compito che è stato ben ridefinito dall’articolo 27 del nuovo Regolamento di ese-cuzione che, rinnovando il significato dell’osservazione e trattamento, ci richiama tutti a“sostenere” il condannato durante il percorso di osservazione e trattamento in una “rifles-sione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e conseguenze ne-gative delle stesse per l’interessato medesimo, e sulle possibile azioni di riparazione delleconseguenze del reato, incluso il risarcimento delle persone offese”.Quindi in realtà c’è una norma nel nostro Ordinamento penitenziario in cui è oggi benchiara la prospettiva riparativa, che sposta il focus da una attenzione rivolta soltanto alsoggetto che deve scontare una pena attenendosi a delle regole penitenziarie e deve es-sere aiutato a fare un progetto di vita per sé, all’attenzione a una dimensione relazionaledove il detenuto ha diritto, passatemi il termine forte, ha il diritto di essere incoraggiatoa riflettere sul danno provocato a un altro, alla vittima. Senza questo pezzo di strada chegli operatori devono fare, io credo che non avremo risposto a quanto la norma affidacome compito all’Amministrazione penitenziaria. Qui si aprono due problemi, perché se è vero da un lato che la vittima deve essere presain considerazione, se è vero che l’operatore deve con il detenuto fare una rivisitazione delpercorso criminale, e deve pertanto porsi nella prospettiva di rendere di nuovo “visibile”la vittima, di far rifletter il reo sul dolore della vittima, questo non significa che la vittimadeve essere compulsata, per far fare un percorso significativo al reo.In questi ultimi anni abbiamo, ahimè, assistito invece anche a delle situazioni che, mal-grado la spinta positiva che si voleva dare con il dedicare una nuova attenzione a quest’al-tro soggetto, hanno però imposto nei fatti, attraverso le prescrizioni dell’affidamento inprova al servizio sociale, alla vittima di essere compulsata – suo malgrado – nel percorso

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di reintegrazione del reo. Molti di voi sapranno che l’affidamento al servizio sociale all’articolo 27 comma 7, imponeall’affidato di “riparare – ove possibile – nei confronti della vittima, e adempiere agli ob-blighi di assistenza familiare”. Alcuni Tribunali di Sorveglianza hanno prodotto – direi co-raggiosamente – ipotesi di applicazione di tale prescrizione, talvolta però senza pensareche di fatto coinvolgevano un terzo soggetto, la vittima. Imponendo al reo di riparare, dirisarcire il danno, di fatto implicitamente o esplicitamente hanno agito una forma di “im-posizione” nei confronti della vittima che per far fare al reo un’azione di valenza ripara-toria, veniva improvvisamente chiamata in causa. Va detto peraltro che la riparazione“prescritta” al reo perde di fatto il suo significato e diviene strumentale all’ottenimentoo mantenimento dei benefici di legge e la declaratoria di fine affidamento.Non posso non ricordare a questo punto come, prima di pensare ad ogni altro aspetto,lo Stato italiano debba compiere un atto di assoluta necessità, sul quale le Nazioni Unitehanno peraltro recentemente ammonito il nostro governo. La risoluzione internazionaledel 2006 invita gli stati membri a contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica riguardoai bisogni della vittima, e lavorare per la comprensione e il riconoscimento degli effetti deireati, in maniera tale da prevenire la vittimizzazione secondaria, e facilitare il reinseri-mento delle vittime.È vero noi dobbiamo aiutare il reo a comprendere il danno fatto, il dolore provocato, leferite inferte, l’odio che ha suscitato, occorre che il Ministero della Giustizia, il governo ita-liano porti avanti una legge, che recepisca la risoluzione internazionale del 2006, e defi-nisca la vittima come soggetto, non di bisogni ma di diritti. Io credo che questo sia unpassaggio importantissimo che non possiamo eludere e sul quale la nostra Commissionesta lavorando con il Dipartimento Affari di Giustizia, e con il Dipartimento per la Giustiziaminorile. C’è un disegno di legge – come molti di voi sanno – in Parlamento, presentato da ungruppo di associazioni delle vittime, e che secondo me va ripreso e va attualizzato alla lucedella risoluzione del 2006. La vittima ha diritto all’informazione, ha diritto ad una prote-zione ed assistenza adeguata, ha diritto a un risarcimento che è l’unico aspetto al mo-mento valorizzato dalle leggi già emanate in Italia: mi riferisco alle leggi sulle vittime delterrorismo e del reato di usura. La vittima ha diritto alle informazioni relative al proprioprocedimento giudiziario, ha diritto all’integrità fisica e psicologica, ha diritto alla tutelacontro la vittimizzazione ripetuta, ha diritto alla tutela della vita privata. Perché la vittima,questo soggetto senza voce se non nel momento degli attacchi mediatici, e uso attacchinon a caso, sappiamo tutti che non viene tutelata rispetto alla propria privacy, non puòdire di no, e questa si chiama vittimizzazione secondaria. La vittima ha diritto alla riser-vatezza, ha diritto di poter dare o rifiutare il suo consenso per gli atti e le azioni, che altrivogliono compiere anche in suo favore.

La vittima ha il diritto anche a ricevere proposte di mediazioneSe un reo vuole riparare deve chiedere il permesso prima alla vittima, se la magistraturaimpone ai condannati di attivarsi in un percorso riparatorio, bisogna chiedere il permessoalla vittima. Se è vero che tutti dovremmo imparare a non odiare, è vero anche che lavittima deve avere uno spazio di parola, la vittima deve avere la possibilità, se vuole, divedere in faccia il reo che l’ha ferita, ma tutto questo non può accadere in maniera così

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assolutamente improvvisata, perché provocherebbe una sorta, anzi una sicura vittimizza-zione secondaria. La vittima ha diritto di avere servizi sul territorio, e mi permetto di dire che ha il dirittoanche a ricevere proposte di mediazione, secondo modalità però che vanno scritte, e pro-cedure di garanzia e di tutela della vita privata e dei dati sensibili, che stiamo cercandolentamente di rendere chiare, di ipotizzare e di condividere con gruppi di vittime. Nessuno, né l’Amministrazione penitenziaria né la Magistratura, né il semplice cittadino,né l’avvocato del condannato, né il volontario può usare i dati delle vittime, anche se a findi bene, senza un chiaro riferimento di cornice di regole che garantisca le vittime. Questoè un punto su cui la Commissione ha voluto rendersi garante, frenando nel far questotutte le iniziative estemporanee, ma cercando nel contempo di avviare delle sperimen-tazioni caute, attentamente monitorate, perché lo sviluppo sperimentale del paradigmariparativo, perché la spinta verso un cambiamento di prospettiva per i detenuti avvenganel pieno rispetto delle vittime.Tutto quello che ho detto presume necessariamente un percorso di riflessione criticadell’Amministrazione penitenziaria, che deve farsi carico di far compiere ai condannatiun percorso di responsabilizzazione vera, non un percorso di assunzione di buoni compor-tamenti strumentali all’ottenimento dei benefici, ma una riflessione sulla propria respon-sabilità, verso di sé, verso i propri famigliari, verso la vittima e verso la comunità. Per finire vorrei dare anche un senso di prospettiva. Ci sono tante storie, tante esperienzenell’ambito della giustizia riparativa, che come Commissione veniamo a conoscere, mo-nitoriamo, anzi chi fa iniziative in questo ambito ce le porti a conoscenza, perché possiamocreare dei percorsi, possiamo veramente creare una casistica, possiamo monitorare quellesituazioni più delicate. Accade già oggi che un condannato, o una vittima, ci chieda un in-contro, e questo lo facciamo a piccoli e prudenti passi, con delle sperimentazioni moltoattente, singolarmente ponderate in varie realtà, come qui a Padova e con la Magistraturadi Sorveglianza di Milano.Abbiamo realizzato anche tante iniziative riparatorie cosìddette “indirette”: là dove il con-dannato non può incontrare la vittima, ci sono tante iniziative, condivise con il volonta-riato, promosse con gli enti locali, ci sono investimenti seri ed importanti di alcuni soggettiin esecuzione di pena in azioni di significato riparatorio nei confronti della collettività. Il dato di prospettiva è che la Commissione, nel continuare a lavorare su queste tematiche,nel tenere in vita questo osservatorio sempre più attento, nel muoversi anche sul pianodelle proposte normative, ha inteso recentemente lanciare un appello a tutti i mediatorid’Italia a dare all’Amministrazione penitenziaria la disponibilità a collaborare “gratuita-mente” alle caute sperimentazioni che intendiamo continuare. Abbiamo già avuto 167 ri-sposte di persone che offrono spontaneamente e gratuitamente la loro collaborazione equesto ci sostiene nell’impegno di continuare. Non so se tali percorsi porteranno a incontri tra rei e vittima, so comunque che avremofatto un pezzo di strada insieme, ancora nella prospettiva di una diffusione della culturadella riparazione, della cultura di pace.

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Ascoltare le vittime

Il carcere com’è ora spesso significa isolare, separare dalla società gli autori direato, e però anche rendere “invisibili” le vittime. “Vedere” le vittime e imparare ad ascoltarle non è affatto facile, siamo tuttitroppo poco abituati a stare zitti e a dedicare tempo ed energie all’ascolto: eccoperché è importante che prima di tutto parlino loro, per poter poi avviare una ri-flessione attenta a partire dalle loro testimonianze. Molte vittime spesso non se la sentono di affrontare un percorso di mediazionecon chi ha commesso il reato che le ha ferite, ma non per questo sono chiuse aun confronto e alla prospettiva di apertura di un dialogo. Quello che conta inmodo particolare è questa idea di un lavoro collettivo di “tessitura” di un tessutodi mediazione allargata. Un percorso in cui le vittime con le loro testimonianzeaiutano gli autori di reato ad arrivare a una piena assunzione di responsabilità, ein questo modo contribuiscono a spezzare la catena dell’odio, dentro a una so-cietà che ha un enorme bisogno di smetterla di odiare e forse può essere stimo-lata a farlo proprio vedendo le vittime di reato, quelle che sarebbero anche“autorizzate” a odiare, scegliere invece la strada del dialogo.

Capitolo II

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La perdita di fiducia nell’altroÈ la prima reazione quando si subisce un reato, non credere più negli altri. Ed è importante allora decidere di assumersi il ruolo di un testimone, che ogni giorno trova, nel senso e nell’indispensabilità del “trasferire memoria” di una esperienza, le forme di una ripresa della vita

di Manlio Milanipresidente dell’associazione famigliari

delle vittime di Piazza della Loggia

Io mi trovo in una situazione un po’ imbarazzante, nel senso che una delle prime reazioniche ho avuto, immediatamente dopo la strage di Piazza della Loggia, o meglio se voleteil giorno dopo, è stata quella che si vede in un filmato, dove sono purtroppo ripreso checontinuo a picchiarmi un pugno in testa, perché continuavo a dirmi che era assurdo, eratutto assurdo ciò che stavo vivendo. E la cosa che, dopo 34 anni dal fatto, mi succede èancora questa, che io non conosco nessun colpevole. La strage di Piazza della Loggia cheavviene il 28 maggio del 1974, non ha ad oggi alcun colpevole, non esiste, siamo allavigilia di un ennesimo processo, ma a tutt’oggi il fatto è completamente cancellato. E que-sto ha un peso enorme su noi stessi, ce l’ha in senso generale, e ce l’ha perché a volte mitrascino anche dei sensi di colpa.Avevo vicino a me questa mattina Silvia Giralucci, e le dicevo una battuta di questo ge-nere: noi non ci siamo mai conosciuti, eppure siamo legati da quel fatto, perché suo padre,assieme ad un’altra persona, pochi giorni dopo la strage di Piazza della Loggia, viene uc-ciso, e io credo, so da quello che ho letto, che la cosa avviene come vendetta nei confrontidella strage di Piazza della Loggia. In una certa misura ci siamo trovati vicini, la differenzadi fondo è che lei può avere una possibilità di parlare, se lo riterrà opportuno, al terminedi una sua ricerca, di un suo percorso, di potersi anche confrontare direttamente con chiha prodotto quel fatto, e quindi affrontare dentro di sé un percorso preciso, io invecesono costantemente costretto a continuare a cercare di spiegarmi quell’assurdo che primadicevo. Dov’ero io quel giorno? La sera prima ero a cena con mia moglie, aveva 32 anni, e con al-cuni amici, tra cui i coniugi Trebeschi, carissimi amici che sono morti, lasciando un bam-bino di un anno e mezzo, la sera prima dunque eravamo a cena come capita ad un gruppodi amici che fanno tante cose insieme, e per esempio quella sera dovevamo anche parlaredel giorno dopo, perché il giorno dopo a Brescia era una giornata particolare. La stragedi Brescia, infatti, avviene nel corso di una manifestazione antifascista, organizzata datutti i partiti dell’arco costituzionale. C’è inoltre lo sciopero generale che faciliterà questapartecipazione, è un evento estremamente importante che è stato dettato dalla necessitàdi respingere la violenza che si respirava in quei giorni, quindi andare in piazza significavascegliere di esserci, partecipare, e affermare con la nostra presenza un dato fondamen-tale: la violenza la si sconfigge con la democrazia, e la democrazia è sempre più forte nellamisura in cui è partecipata e sa riconoscere quanto sta avvenendo. La mattina dopo noi andiamo in piazza, io e mia moglie, contenti di esserci, e responsabiliper ciò che tutto questo significava, vediamo i nostri amici, stiamo andando da loro, in

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quel luogo dove era posta la bomba, nel momento in cui siamo a pochi metri, io vengofermato per una casualità, una domanda a cui dovevo dare una risposta, lei si avvicina ainostri amici, io saluto chi mi aveva bloccato, mi avvicino a loro, ci guardiamo in faccia, cisalutiamo, in quel momento lo scoppio, e quindi mi trovo immerso immediatamente nellaricerca di una persona, perché in realtà mi dimentico di tutti gli altri, di quella persona chefino ad un minuto prima era insieme a me, e insieme continuavamo a sognare i nostriprogetti. Cosa avviene in quell’istante, qual è la reazione che io ho avuto in questa situazione? Ilprimo momento è un senso egoistico, quando tu vedi una persona colpita, o tante per-sone colpite, ciò che speri è che la tua persona, chi era con te non sia colpita, e dimentichicompletamente gli altri. Quello a cui in sostanza quest’egoismo ti porta è ad avere l’istintodi dire: devo difendere solo ed esclusivamente quello che riguarda me stesso e interessame stesso. Il secondo elemento che io ho provato è stata la perdita di fiducia, perché,consapevole ormai di quanto era avvenuto, ho provato proprio una perdita di fiducia nel-l’altro. La perdi totalmente, perché perdi il senso della vita, il senso comune, perdi so-prattutto il senso del valore della relazione con gli altri. Il terzo elemento è un senso dicolpa, ti viene il senso di colpa che è duplice, e dici: perché è accaduto proprio a lei e nona qualcun altro? Quindi scarichi, cerchi di scaricare il problema sugli altri, ignorando la rea-ltà che stai vivendo, nello stesso tempo la paura di dover affrontare una nuova dimensionedi vita ti porta a pensare, o mi ha portato a pensare: ma perché doveva morire propriolei, e invece non morire io? È la presa di coscienza in quel momento di quanto sei statoprofondamente e radicalmente trasformato nella tua vita, nelle tue modalità di vita, eccoquesti sono i punti di partenza di un percorso che ho seguito nel tempo. Intendiamocibene, io sto parlando anche di un reato particolare, il reato di strage, quindi un reato pro-fondamente politico, che ha immediatamente conseguenze non solo sulle soggettività,ma sulla società nel suo insieme, quindi immediatamente tu hai questo tipo di dimen-sione.

Vorrei capire quali sono i meccanismi che portano qualcuno ad uccidereLì ho iniziato un percorso dentro questo fatto, e la prima svolta l’ho avuta praticamentepoche ore dopo. Io ero all’obitorio, a un certo punto nel pomeriggio, la strage avvienealla mattina, nel pomeriggio io non posso più restare in quell’obitorio, davanti a questicorpi con cui fino alla sera prima avevo trascorso tante ore della mia vita recuperandotanti progetti e tanti sogni. Io devo rientrare, e non voglio rientrare a casa, a casa ci rien-trerò, starò anni con la luce accesa, perché non potevo dormire da solo, ritornerò invecein piazza, e qui avrò un problema molto importante. Nel momento in cui rientro in piazzae sono riconosciuto, che cosa avviene? Avviene che intorno a me si sviluppa una solida-rietà, ma che ha un duplice senso, una solidarietà di te persona particolarmente colpita,ma una solidarietà che esprime nuovamente il senso di esserci trovati insieme, di esserenuovamente pronti a rispondere, in quel caso specifico a quel tipo di violenza, ecco questosarà per me un elemento di svolta, perché da quella solidarietà comprenderò il mio nuovoruolo, il ruolo di un testimone, che ha trovato poi, nel senso e nell’indispensabilità del“trasferire memoria” di una esperienza, le forme di una ripresa della vita. Ecco, questi iocredo siano stati gli elementi più importanti, però questo non può bastarmi, e non mibasta assolutamente.

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Io credo che oggi il mio percorso sia la ricerca di qualche cosa di più, di qualche cosa percapire quali sono i meccanismi che portano qualcuno ad uccidere e gli altri a subirne leconseguenze, per questo ci siamo riuniti come famigliari delle vittime delle stragi in par-ticolare in associazioni, per questo conduciamo una certa lotta.Noi recentemente abbiamo presentato al Parlamento la proposta di modifica dell’articolo111 della Costituzione, dove viene inserita la figura della vittima, ma abbiamo anche pro-posto una modifica al Codice di Procedura penale, che a mio avviso è estremamente im-portante, e cioè abbiamo posto il tema della uguaglianza, della parità all’interno delprocesso penale della parte civile con l’accusa. Oggi la parte civile è completamenteesclusa, e questo badate bene è un elemento di straordinaria importanza, perché io misono convinto nei vari iter processuali, che il primo luogo dove avviene il confronto, opuò avvenire il confronto, tra vittima e colpevole è il processo, ma questo reclama ap-punto parità dei soggetti. Se io ho parità anche con il colpevole, posso, nel corso del pro-cesso, partire dal concetto che lui non è colpevole, o posso accettare un presupposto diquesto tipo, e questo deve avvenire in termini diversi e rovesciati, cioè anche il colpevolepuò partire dal presupposto che potrà essere assolto, ma potrà essere condannato, que-sta parità in sostanza che cosa determina nel dibattito pubblico? Il primo confronto verotra vittima e presunto colpevole o colpevole, io credo che questo sia uno dei principi fon-damentali che noi dobbiamo portare avanti. Questo chiude il cerchio, o meglio no, nonchiude il cerchio.

Guai se impostiamo una società che rifiuta la possibilità di un recuperoIo sono convinto oggi che innanzi tutto c’è un percorso da seguire e c’è soprattutto darompere un clima, che corre il rischio di coinvolgere anche i famigliari delle vittime, o levittime stesse, nel senso che oggi si sta sempre di più affermando un principio, attraversola questione della certezza della pena che è intesa come una sorta di slogan, in realtàpassa un discorso in cui si dice “prendiamo la chiave e buttiamola via”, e quindi si negaquel principio profondamente costituzionale del recupero dei soggetti, recupero dei sog-getti che a mio avviso è assolutamente fondamentale, guai se noi impostiamo una societàche rifiuta questa possibilità di recupero.Credo che tanti recenti avvenimenti esprimano invece un concetto in cui davvero la so-cietà sta scivolando sempre di più verso una idea di separazione, di esaltazione del ne-mico, con tutte le conseguenze che da essa emergono. Abbiamo però bisogno che chi èstato condannato per questi reati, sappia assumersi alcune responsabilità fino in fondo.Io sono personalmente d’accordo nel dire che la pena non può essere intesa solo ed esclu-sivamente come una sorta di monetizzazione, e quindi non vorrei più sentire quella frase“Ho pagato il mio debito”. La pena ovviamente deve essere conforme a quelle che sonole indicazioni della legge, e quindi, a mio avviso, va in questo senso specifico affidata allaresponsabilità dello Stato e alle sue leggi, ciò che vorrei eventualmente sempre sentire èl’assunzione di responsabilità da parte di chi ha commesso il reato, il quale può pagare at-traverso la pena, ma non può mai dimenticare ciò che ha prodotto, perché per le vittimedei fatti che prima ricordavo, nella tragicità di questi fatti politici, per noi davvero il finepena non esiste mai, questo è il dato di fondo.Però se io sento che, al di là della pena subita e scontata, esiste in chi ha commesso ilreato quel senso di responsabilità di ciò che è accaduto, davvero si aprono strade nuove

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per un confronto, che deve avere come presupposto di fondo il capire perché determinatecose avvengono, quali sono i meccanismi, che non sono solo ed esclusivamente mecca-nismi di natura personale. Ma il capire attraverso questo dialogo, questo confronto, ciòche è avvenuto, ciò che l’ha determinato, permette alla società nel suo insieme di potersievolvere. Ecco io faccio un esempio, quando si parla di Sergio D’Elia che è stato in Parlamento, iosono completamente d’accordo che sia stato eletto, non sono stato d’accordo peròquando, dopo aver assunto quella responsabilità (e gliel’ho scritto, ma non mi ha rispo-sto), chiedevo che cinque minuti dopo aver assunto una responsabilità di quel genere sidimettesse, lui doveva dimettersi dicendo: io mi devo dimettere da questa funzione par-ticolare per rispetto di quanto ho prodotto. Credo che questo sarebbe stato un gesto distraordinaria importanza e di straordinario valore, e avrebbe aperto strade nuove, stradenuove alle quali io comunque non voglio rinunciare. Io sono alla ricerca di poter dialogare,so che non posso dialogare con chi ha commesso la strage di Piazza della Loggia, ma sonopronto a discutere, a dialogare, a cercare di capire con altre persone che hanno commessoquei delitti, che hanno prodotto così tante conseguenze. E ripeto, sul piano personale esul piano sociale, io questo percorso voglio percorrerlo, voglio percorrerlo fino in fondo,nella reciprocità del rispetto e nelle rispettive assunzioni di responsabilità. Voglio sempli-cemente capire, e per me capire significa anche capire le ragioni e il perché qualcuno haoperato determinate scelte.

Ci sono ferite che rimangono aperte in un modo particolarmente dolorosoSuccede se ti uccidono qualcuno, io però non ho alcun desiderio di intervenire in qualunque maniera su quello che riguarda l’esecuzione della pena, che è una faccenda fra lo Stato con le sue leggi, e la persona “dichiarata colpevole”

di Andrea Casalegnogiornalista del Sole24ore, le Brigate Rosse nel 1977 gli uccisero

il padre, Carlo Casalegno, giornalista del quotidiano “La Stampa”

Io sono un giornalista, quindi mi occupo essenzialmente di parole, allora partirò da que-sto: parlare di vittime è un po’ come parlare di detenuti, è un concetto un po’ vago; le vit-time sono una categoria, le persone colpite da un reato, i detenuti invece sono le personeche stanno in attesa di giudizio o in carcere per scontare una pena, queste persone sonoaccomunate da questa loro condizione ma sono tutte diverse, profondamente diverse. Ioconfesso per esempio che mi sento pochissimo vittima. La difficoltà è mettere insieme icasi individuali che sono tutti diversi, e certe volte l’esperienza può essere addirittura op-posta. Io penso ad esempio all’esperienza di una persona che ha perso il padre quandoaveva 3/4 anni, penso all’esperienza di una persona che ha perso il suo compagno, o lasua compagna di vita: queste sofferenze, usiamo pure la parola giusta, queste sofferenze

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sono completamente diverse dalla mia, che ho perso il padre a 33 anni, quando ero unadulto, avevo una mia famiglia, due figli. È evidente allora che le sofferenze non si possonoparagonare, ciascuno ha le sue. Mio padre è stato ucciso nel novembre del ‘77, io fino ai primi mesi del ‘77 facevo partedi un gruppo della sinistra extraparlamentare, Lotta Continua, quindi pur non condivi-dendo i modi usati da coloro che hanno ucciso mio padre, che appunto avevano sceltoquesta caricatura di rivoluzione che chiamavano lotta armata, facevo parte di un gruppoche, essenzialmente, faceva politica intervenendo davanti alle fabbriche, distribuendovolantini agli operai, nel mio caso gli operai di Mirafiori, discutendo con gli operai la vitadella fabbrica e le lotte che andavano fatte, e partecipando a queste lotte dall’esterno, peresempio ai picchetti, quando c’era uno sciopero, noi eravamo il picchetto. Il picchetto èin se una cosa violenta naturalmente, perché impedisce di entrare con la forza, però puòessere una violenza che si limita a sbarrare la via, allora pur facendo parte di un gruppoche non aveva come suo strumento principale atti di violenza, in un certo senso condivi-devo con il gruppo armato che erano le Brigate Rosse la meta finale, la rivoluzione comu-nista. Che cosa fosse poi questa meta finale non lo sapeva nessuno, perché il nostroobiettivo non era realizzare la stessa società che c’era nei paesi cosiddetti socialisti, anziquella raffigurava una forma di capitalismo di stato, quindi questa società comunista chevolevamo costruire in realtà, se esisteva, esisteva solo nella nostra testa e in modo piut-tosto confuso. La mia posizione è quindi completamente diversa da quella della personache mi ha preceduto, Manlio Milani, io porto un’esperienza diversa, e diciamo anche chele mie esigenze sono di tipo profondamente diverso, io per esempio non ritengo che lepersone colpite da reato debbano dire la loro in tutto ciò che riguarda la pena e l’esecu-zione della pena, e anche il comportamento dopo la pena, è un principio fondamentaledel nostro diritto. A differenza per esempio del diritto islamico, dove c’è il preciso doveredella famiglia di esercitare una forma di vendetta, e quindi di dire sì o no anche rispettoall’esecuzione della pena, nel nostro diritto è lo Stato, cioè la collettività, che si incaricadi punire i comportamenti delittuosi (non è bene che lo facciano le persone colpite), an-ch’io mi sono costituito parte civile nel processo che ha riguardato l’assassinio di miopadre, ma, come voi sapete, la costituzione di parte civile è prevista dalle nostre leggi pertutelare il danno economico subito dalle vittime, solo per questo. È chiaro che in molti casi, e quasi tutti i casi di omicidio, per di più in un omicidio politico,costituirsi parte civile diventa una sorta di intervento morale nel processo, ma è soltantoun dichiararsi, un esporsi, un contrapporsi, con questo significato e basta, quindi riterreiuna mostruosità giuridica per essere molto chiaro (e di solito mi esprimo con parole piut-tosto brutali, odio le reticenze, le ipocrisie) qualsiasi conseguenza, per quanto riguardal’esecuzione della pena, richiedesse l’autorizzazione delle persone colpite. Non ho alcun desiderio di accorciare, allungare, o intervenire in qualunque modo suquello che riguarda l’esecuzione della pena, che è una faccenda fra lo Stato con le sueleggi, e la persona “dichiarata colpevole”, e non dico “colpevole”, perché noi sappiamo chedobbiamo attenerci alla verità giudiziaria e non possiamo andare oltre. Allora tutto questoavviene ovviamente senza odio, l’odio non c’entra niente, il magistrato che condanna, ilgiudice di sorveglianza, la guardia carceraria, non ha alcun odio nei confronti delle personedetenute. Per quanto riguarda le vittime, anche se questa parola comincia a diventarmimolto antipatica, le vittime invece spesso odiano.

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Non ho alcun desiderio di dialogare con gli assassini di mio padreIo sono venuto a partecipare ad un convegno che si chiama “Sto imparando a non odiare”,ora apprezzo molto queste parole perché vengono da una persona reale, Antonia Custra,la figlia di un poliziotto assassinato da giovani completamente “privi di intelligenza”, perusare un’espressione che le riassume tutte, perché la bontà è una forma di intelligenza,e quindi la parola intelligenza secondo me ha anche un significato morale, non solo razio-nale. In questo senso apprezzo queste parole, direi le ammiro, però la mia esperienza ècompletamente diversa, io non provo e non ho mai provato alcun odio. L’esperienza del-l’odio è una esperienza strettamente personale, io non conosco personalmente le personeche hanno ucciso mio padre, ne conosco i nomi ma non le conosco di persona, ho lettoperò l’intervista a una di queste, tra l’altro quella che ha materialmente premuto il grillettodella pistola che ha ucciso mio padre, sappiamo che la responsabilità è perfettamenteidentica per tutti coloro che hanno partecipato al delitto, ma in questo caso è proprioquello che ha premuto il grilletto di questa rivoltella cecoslovacca, la Nagant, che tren-t’anni fa era molto celebre perché ha ucciso molte persone. Questa persona, intervistatada un giornalista, ha dichiarato, e le sue parole sono contenute in un libro intitolato “L’ul-timo brigatista”, che nei confronti di mio padre non aveva nulla di personale. Ci manche-rebbe altro!, avendolo visto in faccia per la prima volta nel momento in cui gli ha sparato,era piuttosto difficile che avesse qualcosa di personale, quindi certamente non lo odiava,per lui era un obiettivo. Allora siamo proprio sicuri che uccidere senza odio sia meglioche uccidere con odio?No, io ritengo che sia molto peggio, se una persona uccide con odio in qualche modo ri-conosce l’umanità di colui che sta aggredendo, il classico delitto con odio è il capovolgi-mento dell’amore, uccido la persona che mi ha tradito, cioè quella che amavo di più. Nondico che questo sia bene, ritengo che sia malissimo, però siamo nella gamma dei senti-menti umani, tutti noi siamo pieni di sentimenti di amore, di odio, di avversione, ma lapersona che uccide senza odio commette un’azione incomparabilmente più orribile, siache si tratti dell’attentatore che ha messo la bomba in Piazza della Loggia, o sul treno Ita-licus, nella Banca dell’Agricoltura, alla stazione di Bologna, che naturalmente non odiavaminimamente tutte le persone, uomini, donne, bambini, che ha sterminato, le erano sem-plicemente del tutto indifferenti, sia che si tratti dell’estremista sedicente rivoluzionario,che ha assassinato delle persone del tutto innocenti, con un obiettivo totalmente irrea-lizzabile, perché qualsiasi persona dotata di senso capisce che può ammazzare quantepersone vuole, ma tutto questo alla rivoluzione non l’avvicina nemmeno di un millimetro,e quindi sta letteralmente giocando, giocando a fare il rivoluzionario. Allora questa per-sona commette un’azione incomparabilmente più orribile di una persona che uccide conodio, quindi mi terrei il più lontano possibile dai luoghi comuni. L’odio è sempre male? Neiconfronti di una persona sì, certamente nei confronti di un’azione no, odiare l’ipocrisia èmolto bene. Inoltre io ritengo che l’odio sia, tutto sommato, con tutta la sua violenza, unsentimento abbastanza raro. Io però, a differenza di altre persone dolorosissimamente colpite, non ho alcun desideriodi dialogare con gli assassini, nel mio caso sono persone perfettamente conosciute tutte,nome e cognome, e lo erano anche prima, perché tra le quattro persone che compone-vano il commando che uccise mio padre ce n’era una, Patrizio Peci, che è stato il primocosiddetto pentito, la prima persona che ha collaborato con la giustizia più a fondo e

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prima di tutti, e quindi ha descritto per filo e per segno tutto su tutti gli attentati a cui hapartecipato, compreso quello di mio padre. Quindi se volessi andarli a cercare, potreifarlo, so chi sono, ma non ho alcun desiderio di dialogare con loro, anzi alcun desideriodi incontrarli, assolutamente mi tengo ben lontano.

Chi calpesta i sentimenti altrui necessariamente disprezza anche i propriPer quanto riguarda gli autori delle stragi, provatevi un po’ a dialogare con loro, perchésono quasi tutti liberi, oppure del tutto sconosciuti e dubito che verranno fuori; questorende la ferita delle stragi assolutamente non rimarginabile, perché fino a che non si co-nosce la verità su un fatto non si può, non dico riconciliarsi, ci mancherebbe altro che ciriconciliassimo con cose così terribili come le stragi, ma cominciare a curare le proprieferite. Le ferite non si chiudono mai, ma in questo caso rimangono aperte in un modoparticolarmente doloroso, quindi c’è dialogo e dialogo, il dialogo è una scelta, si può sce-gliere di dialogare o di non dialogare, questa è una mia posizione del tutto personale, cisono altre persone, che io tra l’altro ammiro moltissimo, come Sabina Rossa, figlia diGuido Rossa operaio dell’Italsider, che è stato assassinato nel gennaio del ‘79, quandoSabina aveva se non ricordo male 14 anni, che hanno fatto scelte diverse. Adesso Sabinaè una parlamentare, lei per lungo tempo ha completamente negato questa tragedia, nonpartecipava a nessuna commemorazione, non voleva più parlarne, poi ad un certo puntonon molti anni fa ha condotto una vera e propria indagine sull’assassinio di suo padre, neè venuto fuori un libro, che è stato scritto con una persona che è qui tra l’altro, e lei è an-data a cercare proprio le persone che avevano sparato a suo padre, uno dei due del com-mando è ancora dentro, l’altro è stato ucciso in un conflitto a fuoco a Genova, allora ioritengo che ogni soluzione sia pienamente legittima. Le vittime sono delle persone esattamente come lo sono i detenuti in carcere, le personeche hanno colpito non è che siano persone diverse da noi, sono persone esattamentecome noi, quindi il rispetto deve esserci per tutti, quando noi chiediamo un po’ di riserboa coloro che hanno finito di scontare una pena e scrivono libri, vengono intervistati, e as-sumono incarichi anche istituzionali, io lo chiedo più per loro che per me, ritengo chenon facciano una bella figura ad esprimersi in un modo che chiarisce a chiunque che nonhanno fatto i conti fino in fondo con la loro storia, anche se i conti fino in fondo non sifanno mai, ma nemmeno li hanno fatti in piccola parte, quindi piuttosto che tirino fuorifrasi piene di reticenza, frasi talvolta false, sarebbe meglio a volte stare zitti, ma ripetosono fatti loro, mi guardo bene dal commentare. L’ho anche scritto sul mio giornale, Ilsole 24ore, quando mi hanno chiesto di commentare le parole del Presidente della Repub-blica, Giorgio Napolitano, che ha invitato appunto a non procurare ribalte a simili figuri.Io ho sostenuto che certo nessuno può limitare i diritti costituzionali di una persona, nonchiediamo che ci sia un regime più severo per coloro che hanno commesso delitti di ter-rorismo rispetto a coloro che hanno commesso altri tipi di delitti, e quindi è assoluta-mente fermo il loro diritto di parlare, come il diritto di chi li interroga di ascoltarli.Quello che vorrei è forse un uso di questo diritto più rispettoso dei diritti propri e altrui,perché chi calpesta i sentimenti altrui necessariamente disprezza anche i propri, è unapersona che ha un cattivo rapporto con la sfera dei sentimenti, che è l’unica che ci per-mette un contatto con la realtà. La realtà è fatta solo di questo, la persona che uccide èuna persona che astrae, no?, perché se no come faresti ad uccidere, astrae dalla realtà

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della persona che colpisce, non è che non ci pensa, non ci vuole proprio pensare, chequesta persona ha un padre, una madre, una compagna, dei figli, degli amici, tutta unaserie di legami affettivi che sono a loro volta distrutti, calpestati, torturati, allora lo saperfettamente, semplicemente non ci vuole pensare, e quindi in un certo senso agiscenell’irrealtà. Sono persone che spesso restano abbarbicate all’universo mentale che le hacondotte a uccidere, continuano a vivere nell’irrealtà, a pensare che hanno fatto benis-simo, che sono state sconfitte solo militarmente, ma che in realtà avevano assolutamenteragione. Naturalmente ognuno è padronissimo di pensare quello che vuole, però mi sem-bra chiaro che per tutte le persone dotate di buon senso, questo significa rifugiarsi in unmondo a parte, in una prigione mentale, cioè uno può uscire dal carcere, ma può restareprigioniero di una sua visione completamente falsa, oppure far finta, proclamare che ècosì semplicemente per salvarsi la faccia, se questo si può chiamare salvarsi la faccia…

In tanti mi dicono: ma tu hai perdonato?Il sentimento dell’odio è un sentimento montante che fa solo male a chi ce l’ha nell’animo

di Giuseppe Soffiantinivittima di un sequestro che è durato 237 giorni

Io sono forse un testimone un po’ particolare, perché ho vissuto io stesso direttamenteuna terribile esperienza, ho vissuto una violenza, ho subito una violenza terribile in questi237 giorni di sequestro, e con tutti i problemi e le vicissitudini che si sviluppano in situa-zioni di questo genere. Veramente una cosa inaudita perché è una violenza che dura neltempo, e però nello stesso tempo io ho avuto la fortuna di essere qui a raccontare,quando invece qui ci sono molti testimoni che hanno perso le persone care, e quindi lamia voce forse è un po’ diversa. Vorrei subito raccontarvi un fatto che è avvenuto proprio il secondo giorno che mi trovavoin quella terribile situazione. Io mi lamentavo perché, avendo subito un intervento a cuoreaperto, e avendo avuto un intervento alla valvola mitralica, ho la protesi meccanica allavalvola mitralica. Avevo avuto questo intervento quattro anni prima del sequestro e do-vevo prendere dei farmaci, la seconda sera io mi lamentavo e dicevo: se voi non mi pro-curate le pastiglie salvavita del Sintrom o Coumadin, comunque questa pastiglia che ilmio cardiologo mi diceva sempre “Mi raccomando Giuseppe, tutte le sere prendi la tuapastiglia se no rischi la vita”, se non mi procurate questa pastiglia voi non raggiungetenessuno scopo, e io muoio. Ad un certo punto il carceriere mi dice “Ma piantala!” be-stemmiando, “sapessi cosa ho sofferto io nella mia vita, altro che la tua condizione”. E lodice con parole diverse ma molto più cattive, e allora io gli ho risposto: “Cosa hai detto?Fermati un momento, tu hai potere di vita o di morte su di me, però non ti permetto diparagonarti a me, perché io sono una persona che ha sempre lavorato, mi sono semprecomportato bene, e tu sei un feroce bandito, per di più pazzo, perché solo un pazzo puòfare quello che tu stai facendo a me”.Allora ero all’inizio della carcerazione, poi ho avuto 237 giorni per pensare a tante cose,e a questo proposito vi dirò, quando si è in pericolo di vita da un momento all’altro, come

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tutti noi in qualche occasione abbiamo sperimentato, capita che si pensa con una velocitàincredibile, tante volte in un minuto secondo, si pensa quello che in una condizione nor-male si riesce a fare in tutta la vita, quindi in 237 giorni si ha tempo di pensare a tutto. Ioallora mi sono fatto questa domanda: ma un po’ di ragione non ce l’avrà anche questoqui? Come ha fatto ad arrivare a diventare così? Probabilmente, e questo lo vedevo dagliscarponi, sarà un pastore, da giovane è stato mandato sui monti, magari il padre qualchesera ha dovuto scendere in paese per fare le spese, lui si è trovato solo e ha dovuto di-mostrare a se stesso che era forte e coraggioso per vincere l’istinto della paura. Quandopoi magari a 16-17-18 anni, quando il fuoco della vita comincia a bollire dentro al giovane,è sceso al paese, che cosa ha trovato? Ha trovato che i suoi coetanei magari lo scherni-vano, guarda quello lì, non è capace neanche di camminare, di vestirsi, e di parlare. E luisi sentiva invece di non essere così negativo, quindi ha cominciato a fare delle bravateper poter dimostrare che lui era forte e intelligente, bravate su bravate, violenze poi suviolenze, ma forse anche qualche violenza subita, se non altro dall’indifferenza dei suoicoetanei e da altre persone, che in una mente debole pesano di più.Certamente questo non giustifica nessuno a commettere questi reati, però bisogna capireche tante volte anche noi possiamo essere complici di una indifferenza nei confronti dellepersone, e invece magari in un momento o con una parola si potrebbero evitare tantiguai. Però oggi, oggi siamo qui in un carcere e so che ci sono anche dei detenuti, e non èper fare il buonista, ma vorrei esprimere questo concetto: chi sbaglia deve pagare, la penadeve essere immediata e certa, però poi quando queste persone sono in prigione, lì è ilmomento più opportuno per lavorare per il cambiamento.

La vera libertà è capire che non bisogna fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a teÈ per questo che è importante dare dei messaggi positivi, e cercare di far capire a questepersone che hanno sbagliato, che la vera libertà la raggiungeranno, la troveranno, nonquando usciranno di prigione, ma quando capiranno che non bisogna fare agli altri ciò chenon vorresti fosse fatto a te.Qui oltretutto, siccome io sono un imprenditore, vedo anche il discorso della convenienza:se noi riusciamo a chiedere con forza alle istituzioni, ai nostri governi di investire nei si-stemi penitenziari, avremo ottenuto che molte di queste persone che hanno sbagliato sirecupereranno e quando usciranno di prigione avranno la possibilità di inserirsi a pienotitolo nella società, riducendo quindi, scusatemi la cosa sarà banale ma è importanteanche questo, riducendo i costi di mantenimento e riportando anche la polizia peniten-ziaria ad una vita più dignitosa. Io sono stato in qualche carcere e quello che mi ha impressionato di più è la tristezza deicarcerati, perché chi ha provato come me la mancanza di libertà, sa bene cosa vuol dire“mancanza della libertà”, anche se io in più ero completamente incolpevole, ma comun-que sempre di mancanza di libertà si tratta. Alcune carceri poi sono davvero fatiscenti, so-vraffollate, ed è importante aiutare chi sta dentro a ritrovare, tramite la scuola, epossibilmente anche il lavoro, dignità. E siccome noi siamo esseri umani e abbiamo bisogno di vivere insieme, immaginate, im-maginiamo come potremmo vivere isolati da tutti gli altri, è impossibile. Quindi abbiamobisogno di vivere insieme, per vivere insieme dobbiamo stare alle regole, e per stare alleregole bisogna, come diceva papa Wojtyla, lavorare per la costruzione del villaggio glo-

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bale, e nelle carceri è il punto più sensibile e importante dove fare qualcosa. E nessunodi noi può esimersi da questo impegno sociale, anche per convenienza personale.

In tanti mi dicono: ma tu hai perdonato? Cosa vuol dire perdonare? Cominciamo a dire cosa vuol dire perdonare. Quando peresempio si sente che succede qualcosa come è capitato a me, subito mi vengono vicinocon il microfono per chiedermi: ma lei ha perdonato? Ripeto, cosa vuol dire perdonare?Se vogliamo dire che continuo a odiare, io mi auguro di no, perché il sentimento dell’odioe della vendetta è un sentimento montante che fa solo male a chi ce l’ha nell’animo. Ilprendere le distanze dall’odio, o se vogliamo dire perdonare, tanto per semplificare, nonè un atto di generosità, è una necessità per quanto mi riguarda. Forse io lo vedo sotto unpunto di vista un po’ personale, ma questi pensieri sappiate che li ho fatti ancora quandoero là prigioniero, quando ero là pensavo: se avrò la fortuna di venir fuori da questa ter-ribile esperienza, non starò zitto, perché queste riflessioni cercherò di portarle anche aglialtri, non starò zitto anche perché forse, se l’opinione pubblica è sensibile su certi reati,probabilmente si trova anche la possibilità se non di debellarli, almeno di attenuarli.Ecco io voglio dare questo messaggio: dovremmo, vi prego rifletteteci, dovremmo tuttifare la nostra parte sul versante dell’esecuzione penale e del reinserimento dei condan-nati, se ognuno di noi fa la sua parte probabilmente le cose davvero possono migliorare.

Ci sono debiti che non si possono saldareSono i “debiti” di chi ha deliberatamente ucciso un altro uomo. Io sono felice se gli ex terroristi, che hanno finito di scontare la propria pena, si danno da fare per aiutare gli ultimi, ma credo che un ex terrorista rimanga comunque un assassino

di Silvia Giraluccisuo padre è stato ucciso dalle Brigate Rosse a Padova

Sono entrata in questo carcere, al Due Palazzi, in altre due occasioni della mia vita. Laprima volta nel 1990 stavo preparando l’esame di maturità, e nell’aula bunker si celebravail processo per l’omicidio di mio papà, Graziano Giralucci. È stato ucciso dalle Brigate Rossequando avevo appena compiuto 3 anni e non ne ho nessun ricordo diretto. La sua morte,a 29 anni, è stata una tale devastazione nella famiglia, che mia madre, per trovare in qual-che modo la forza di andare avanti, ha scelto di chiudere dentro di sé il suo dolore, e dinon parlare più di lui. Io vedevo girare ritagli di giornale, afferravo mezze frasi, e non comprendendo che cosaquesto alone di mistero dovesse nascondere, pensai che quel papà di cui non si potevaparlare ad alta voce non fosse davvero morto, ma che mi avesse abbandonata. Avevootto anni quando mia madre mi ha spiegato, nella maniera in cui si può spiegarlo ad un

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bambino, che papà era stato ucciso per le sue idee. Ma ci sono voluti ancora anni, tanti,per accettare la sua morte, e anche oggi, dentro di me rimane sempre un senso di attesa,un desiderio fortissimo di vederlo in qualche modo tornare. Il processo è stato il primo contatto reale con quello che era accaduto. Mi ricordo l’aulabunker: enorme e vuota. Questa storia aveva riempito i telegiornali, le pagine dei giornali,eppure quando si è celebrato il processo non interessava più a nessuno. Non c’erano gliamici di mio padre – e mi dicono che ne avesse tantissimi – non c’erano nemmeno i suoifratelli. C’eravamo noi e qualche amico dei brigatisti. Quando uscivamo dall’aula, vedevoi brigatisti salire nelle loro auto e mi colpiva che queste persone avessero una vita nor-male, quando la nostra, la mia vita normale non era stata proprio per niente.Arrivò il giorno della sentenza. Quando i giudici popolari entrarono in aula mi guardavanosorridendo. Non so se immaginai, ma nei loro occhi lessi che avevano compreso il nostrodolore e che volevano dirci che giustizia, finalmente, era stata fatta. Tecnicamente, dalpunto di vista della pena detentiva, quella condanna per gli imputati significava ben poco.Per quasi tutti non aggiungeva nulla agli anni che già dovevano scontare per altri reatidello stesso tipo. Ma per noi era importante. Mia mamma, che è una persona poco inclinea mostrare i propri sentimenti, alla lettura della sentenza si commosse. Mi raccontò chequando i giudici stavano entrando nell’aula si era voltata e aveva visto mio padre, appog-giato allo stipite della porta, che le sorrideva, come se anche lui avesse trovato finalmentegiustizia per quello che gli era capitato. La seconda volta che sono entrata al Due Palazzi l’ho fatto per lavoro. Da giornalista do-vevo seguire un progetto di teatro carcere del “Tam Teatromusica”. Sono entrata qui conun atteggiamento direi presuntuoso: ero convinta che il carcere fosse il posto dove stannogli assassini, e che fosse bene tenerli lì, in modo da liberare la nostra società da questepresenze indesiderate. Entrando in carcere però ho trovato delle persone, delle personeche valevano, che avevano anche molto da insegnarmi, e ho capito che sarebbe statodavvero un peccato che la società si privasse di ciò che avevano da dare. Sono diventataamica di uno di loro, un mio coetaneo che a 18 anni aveva ucciso un gioielliere, che in quelperiodo aveva la sua prima semilibertà. Il confronto tra noi era complicato da gestire,perché lui metteva in crisi tutte le mie certezze, però credo che alla fine sia stato proficuoper entrambi.Il laboratorio di teatro carcere del “Tam Teatromusica” prevedeva che l’esperienza siaprisse alla città. Venne organizzata una serata al teatro delle Maddalene. I detenuti, conuno speciale permesso premio, presentarono il loro spettacolo ai padovani. Ero con loroalle prove, quando mi accorsi che nel cortile antistante il teatro c’era uno dei detenuti at-tori che anziché fare le prove, perdeva tempo a giocare tra i bambini. Lo trovai strano,forse anche poco corretto, e chiesi informazioni. Rimasi di sasso quando mi spiegaronoche quei bambini avevano per la prima volta la possibilità di vedere il loro papà fuori dalcarcere e di giocare assieme a lui. Mi sono resa conto che la nostra società, la società deigiusti, stava infliggendo a quei ragazzini la stessa pena che era stata inflitta a me, e cheanche loro, assolutamente innocenti, avrebbero portato i segni di quella privazione peril resto della loro vita. Quella prospettiva ribaltata non mi ha più abbandonato. Questaesperienza è stata, come dire, fondante in quello che ho cercato di essere e di fare. Anchenel lavoro, cerco sempre di scavare le ragioni profonde, e di comprendere anche le mo-tivazioni di chi sento diverso da me.

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Un assassino, che ha scontato la pena, non può considerarsi comunque a posto con la societàNon credo di aver mai odiato i terroristi, non trovo proprio dentro di me il sentimentodell’odio. Devo dire però che quel che ho sentito spesso in questi anni è il desiderio di es-sere lasciata in pace. Credo di non aver mai avuto il tempo, nonostante siano passati 34anni, di avere un momento privato in cui elaborare il mio lutto, perché questo lutto èfinito continuamente sui giornali: nei momenti importanti della mia vita, quando avreivoluto essere solo me stessa, ero sempre la figlia di mio padre. Sembra incredibile mapersino nella laurea è entrata questa storia. La discussione è stata fissata il 17 giugno, ilgiorno dell’anniversario dell’omicidio. Per evitare di mescolare la mia festa con le mani-festazioni che la destra ogni anno organizza per il mio papà, ho dovuto chiedere alla re-latrice di allungare la discussione. Mi rimangono diverse foto con la corona di alloro alcollo e le camionette della polizia sullo sfondo. Ogni anno la cerimonia di commemora-zione viene presidiata da uno schieramento di polizia in assetto anti sommossa, con i ca-schi e gli scudi, strade limitrofe bloccate e camionette blindate nei punti strategici. È unascena che non mi piace per nulla, mi chiedo se sia la cerimonia di ricordo di due vittimedel terrorismo o siamo ancora comunque dei bersagli. Tornando ai miei sentimenti nei confronti degli assassini di mio padre, devo dire che il ten-tativo costante di comprendere anche le ragioni di chi è diverso da me è stato messo adura prova l’anno scorso. Nel tempo ci sono stati diversi episodi che mi hanno ferita, se-gnata. Dalle parole, a volte inconsapevoli, di chi mi sta intorno, fino all’assurdo di un Pre-sidente della Repubblica che voleva graziare uno dei terroristi responsabili della morte dimio padre, Renato Curcio, prima ancora che arrivasse la sentenza definitiva di condanna.L’anno scorso, dicevo, una degli assassini di mio padre, Susanna Ronconi, è stata nominatadal ministro Ferrero consulente nel forum droghe. Io so che ci sono persone, anche lastessa Ornella, che hanno difeso quella scelta. A Padova c’è stato un intenso dibattito,che prendeva, secondo me, spunto da questa vicenda per discutere sul passato di questacittà. In ogni caso quel dibattito mi ha ferita moltissimo. Non credo sia il caso di entrarenel merito di quello che penso dell’atteggiamento di Susanna Ronconi, al processo e dopo.Ma se riesco a comprendere perché un ex terrorista rifiuti di accettare il peso della re-sponsabilità che si porta dietro, mi ferisce vedere che quella parte della società cui misento più vicina non abbia per i diritti delle vittime la stessa attenzione che ha per i dirittidei detenuti.Io sono felice se gli ex terroristi, che hanno finito di scontare la propria pena, si danno dafare per aiutare gli ultimi, ma credo che un ex terrorista rimanga comunque un assassino.Non è che sia così perché lo dice una vittima rancorosa, è semplicemente una condizionefrutto di una scelta irreversibile. Non è retorica dire che le vittime portano ogni giorno eogni notte il peso delle conseguenze di quella scelta. E non vedo proprio come un assas-sino, una volta scontata la pena, possa considerarsi “ripulito”, a posto con la società. Nonè che sono i parenti delle vittime a chiedere una pena senza fine per chi ha ucciso i lorocari. È che chi ha deliberatamente ucciso un altro uomo non può pensare che il debito sipossa saldare.Ornella in un suo intervento ha scritto che gli ex terroristi dovrebbero avere la delicatezzadi rientrare nella società in punta di piedi. Io sarò molto più dura, io direi “a testa bassa”,perché quello che mi aspetto io da un assassino è che tutte le mattine alzandosi si chieda:“Che cosa ho fatto?”, che consideri ogni giorno della sua vita regalato rispetto a quello che

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ha tolto, e che si comporti di conseguenza. Mettendo sulla bilancia il diritto di un ex ter-rorista a vivere una vita piena, e il mio diritto a vivere tranquilla, ecco credo che il mio di-ritto sia prevalente, e che l’ex terrorista debba adeguarsi. È pesante, me ne rendo conto,però la condizione di ex terrorista è frutto di una scelta - compiuta nel passato, ma comun-que una scelta - mentre io la mia condizione non l’ho scelta assolutamente. Devo dire che il fatto che tra le persone con cui io mi sento di condividere molto questonon venga compreso, che ci sia più attenzione per i diritti degli ex detenuti che per i dirittidelle vittime, è una cosa che mi ferisce ancora oggi moltissimo.

Ho sentito che dovevo essere portatrice di una parola di ragionevolezzaHo avuto la fortuna di non bere il veleno dell’odio, e di non desiderare la morte di altri, di non voler colpire al cuore nessuno

di Olga D’Antonavedova di Massimo D’Antona, giurista ucciso dalle Brigate Rosse

È la seconda volta che mi trovo nel carcere di Padova, in due circostanze molto diversel’una dall’altra. La prima volta io ero in una piccola stanza con circa 40 detenuti, la reda-zione di Ristretti Orizzonti. In quell’occasione le persone detenute hanno riconosciuto lamia sofferenza e il mio dolore, ma io ho potuto riconoscere la loro sofferenza e il loro do-lore. Da quella esperienza siamo usciti cambiati, forse arricchiti tutti noi, come credo che,anche da questa esperienza di oggi, usciremo cambiati e arricchiti tutti noi. Venendo quioggi, come del resto la prima volta, non sapevo che cosa avrei detto in questa circostanza,perché mi sembra utile che da questi nostri incontri scaturisca una riflessione collettiva,libera da stereotipi o discorsi preconfezionati. La nostra riflessione si è soffermata sultempo che non sempre lenisce il dolore. Nel mio caso il tempo è stato di aiuto perché èstato un tempo di elaborazione ed io oggi mi sento serena. Credo che questo lo debbo alfatto di non aver mai rinnegato il dolore, di averlo affrontato, averlo vissuto, ma soprat-tutto di averlo condiviso. Ho capito da subito, essendo stato l’atto di violenza, che la miafamiglia ha subito, un atto di violenza politica, che non era soltanto un lutto personale,che non apparteneva soltanto a me, e che per questo andava condiviso.In me non è mai stato presente, cosa che ho visto soprattutto in associazioni di vittime delterrorismo, un’esigenza risarcitoria, io ho sentito dentro di me crescere una responsabilità.Non mi aspettavo che la società dovesse qualcosa a me, ma paradossalmente sentivo chedovevo essere io ad impegnarmi nei confronti della società. Proprio per la responsabilitàche assieme al lutto cadeva su di me, io dovevo essere portatrice di una parola di ragio-nevolezza, di consapevolezza, di testimonianza soprattutto nei confronti di tanti giovani.Il tema di oggi è superare l’odio. Mi sono segnata su questo foglietto, nel corso di questanostra riflessione, delle parole chiave. La prima parola chiave di oggi è stata odio, eccoposso dire che io ho avuto la fortuna di non bere quel veleno, e di non desiderare la mortedi altri, di non volere colpire al cuore nessuno. Io ho vissuto l’evento più che la ricerca delcolpevole. All’inizio non sapevo da che parte mi venisse l’aggressione, quindi c’era il fan-

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tasma dell’aggressore, ma immediatamente ho sentito il bisogno di conoscerne l’uma-nità.Il mio primo pensiero, la mia ossessione, era l’irreversibilità dell’accaduto: anche se quellapersona, e io non sapevo chi fosse, si fosse pentita fino al dolore più profondo per l’attocompiuto, quel pentimento non avrebbe potuto portare l’orologio indietro. Non c’eraatto, non c’era ravvedimento che potesse sanare la gravità di quel delitto. Ma anche que-sto, se volete, era un modo di cercare l’umanità dell’aggressore, l’umanità di quella per-sona che aveva cambiato per sempre non soltanto la mia vita, ma anche la mia persona.Sì, perché io non sono più la persona di prima. Per questo ho scelto di cambiare anche ilmio cognome. Non porto più il mio nome da ragazza, ho scelto di portare, come segno ditestimonianza, il cognome dell’uomo che avevo sposato, del compagno della mia vita chemi era stato sottratto. A questo poi, non vi sembri contradditorio, ha corrisposto la con-sapevolezza dello stigma che viene invece messo addosso alle donne che restano vedove.È una riflessione che ho cominciato a fare in pubblico, perché sono convinta che sia ne-cessario acquisire consapevolezza anche su un tema che credo sia ancora inedito: se unuomo rimane vedovo non è vedovo a vita, è vedovo per un po’, ma se è una donna a ri-manere vedova quella donna è vedova per sempre. Io questo lo vivo sulla mia pelle.Oggi sono qui a portare una testimonianza, quindi è giusto che domani appaia sul giornaleche la vedova D’Antona era qui; ma se io dopo nove anni dalla perdita di mio marito vadouna sera a teatro, o a una sfilata di moda, o sono nel pieno svolgimento della mia attivitàlavorativa, allora è giusto che, ogni volta, io debba apparire sul giornale come la vedovaD’Antona? Non è un modo di metterci sulla pira come le vedove indiane o, come qualcunoha detto, di chiuderci nella tomba insieme ai nostri mariti? L’altro elemento che io voglio portare ad una riflessione, di cui ho acquisito consapevo-lezza in questi anni, è quanto noi tutti non siamo stati educati a rapportarci con il doloree la sofferenza degli altri. Siamo goffi, maldestri, incapaci di non ferire le persone conl’apparente intento di consolarle. Badate bene, le ferite più fastidiose mi sono venutedalle persone benpensanti, dalle tante persone per bene: ma come ti sei ripresa!, macome stai bene!, ma sono contenta di vedere che finalmente stai bene! Ti inchiodano lì,a quel giorno, a quella mattina del 20 maggio del ‘99, tu non sei altro che quella cosa lì,quella vittima, quella persona che deve dare mostra di sé ogni giorno, ogni momento,per soddisfare quella morbosità voyeuristica che c’è in ognuno di noi, badate bene inognuno di noi. Questa mia denuncia non vuole essere né accusatoria né vendicativa, vo-glio invece introdurre un argomento di consapevolezza e di riflessione sull’incapacità direlazione e sul disagio che le persone vivono quanto incontrano qualcuno colpito da unevento doloroso. Io non parlo soltanto di vittime di atti violenti, io parlo di dolore in ge-nere, non siamo stati educati ad affrontarlo, non lo sappiamo fare, non sappiamo da cheparte prenderlo, come rapportarci, e feriamo le persone. È giusto che io, dopo nove annidalla morte di mio marito, non possa scendere ancora a comperare un giornale sotto casaall’edicola, senza che il giornalaio mi ricordi che cosa stava facendo la mattina del 20 mag-gio del ‘99, a quell’ora in quel momento, che cosa ha provato? È giusto che io non possaandare in un bar del mio quartiere a prendere un caffè senza che mi venga ricordato quelgiorno?Ecco, io ho cominciato, dopo nove anni dalla morte di mio marito, l’8 marzo, il giorno de-dicato alle donne, in un pubblico dibattito a parlare di questo. C’è voluto un tempo moltolungo a capire quanto costa, quanta fatica costa tutto questo, e quanta sofferenza, e sic-

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come non sono l’unica donna rimasta vedova e non sono l’unica donna colpita dal dolore,io credo che questa consapevolezza debba essere acquisita. Vedete, io ho imparato fati-cosamente a mettere a disagio le persone che mettono a disagio me, a non farne passarepiù una liscia. Certo però educarne uno alla volta è faticoso, e io quindi chiedo aiuto a voi,a questi momenti collettivi di dibattito, per ragionare anche su questo: quanto sottile èl’inconsapevole aggressività delle persone per bene. C’è un’altra parola che suona spesso in questi nostri incontri, ed è la parola perdono. Ognivolta che vengo interrogata su questo tema, io mi sento a disagio, la parola perdono mimette a disagio, perché io non so come funziona, non so da che parte si prende, non laso utilizzare, non mi appartiene. Io sono qui, come l’altra volta in cui ho incontrato i de-tenuti, a riconoscere l’umanità dell’altro, a guardarci negli occhi e a cercare di capire l’unole ragioni dell’altro, non sono cattolica, non sono educata al perdono, non so che cos’è,forse perché non conosco l’odio non posso conoscere il perdono. Però c’è una frase diGiovanni Bachelet che io ho apprezzato, e che in qualche modo mi aiuta un po’ forse a ca-pire la forza del perdono: quando lui dice “Il perdono è un’arma potente, che sconfiggel’aggressore”, e forse in questo posso dargli ragione, nel senso che, nel momento in cuinoi mostriamo la disponibilità a capire l’altro, diventiamo automaticamente più forti, e nelmomento in cui noi tendiamo la mano, e riusciamo a recuperare l’altro, e a portarlo versodi noi, noi abbiamo vinto la nostra battaglia.

Sento di avere vinto quando recupero l’altroIo non sono fra quelli che intendono mettere il marchio a vita alle persone, neanche aquelli che compiono i delitti più efferati, perché se io mettessi il marchio a vita a quellapersona mi sentirei sconfitta. Sento di avere vinto quando recupero l’altro, quando loporto ad un ravvedimento vero, profondo, sincero, quando lo porto alla consapevolezzadell’errore. In ognuno di noi ci sono molteplici aspetti della personalità, la parte buona,la parte cattiva, l’amore, l’aggressività, e allora quali di queste parti noi vogliamo alimen-tare, questo è il punto, quali parti di noi scegliamo di alimentare? E allora se insieme riu-sciamo a fare in modo che più persone siano dalla nostra parte a dare alimento alla partebuona delle persone, al senso di solidarietà, a darsi la mano l’un l’altro, ma soprattutto ariconoscersi l’un l’altro, ecco, in questo senso, io credo che il perdono possa essereun’arma potente. Io lo chiamo in un altro modo, lo chiamo riconoscimento dell’altro, lochiamo ricerca dell’altro, lo chiamo ritrovarsi, parlarsi, ma se lo vogliamo chiamare per-dono è una convenzione che possiamo scegliere insieme per dare forza a questo concetto. Un’altra delle parole di oggi è verità, parola che metterei insieme a giustizia e riconcilia-zione. La giustizia non è un fatto che mi riguardi personalmente, io sono d’accordo conchi dice che la vittima può anche essere espropriata della giustizia che, in una società de-mocratica evoluta, appartiene allo Stato, ma la verità sì, la verità ci riguarda, perché la ve-rità ci aiuta, ci serve. Per me è stato fondamentale dare un volto e un nome agli aggressori,perché finalmente sapevo con che cosa dovevo fare i conti: chi? come? perché? Sono do-mande che pretendono risposta, quindi io capisco fortemente il disagio, il dolore, lo scon-certo dei parenti delle vittime delle stragi, che in questo Paese ancora non conoscono laverità, perché i fantasmi fanno più male delle persone in carne ed ossa. Però io credo cheproprio la mancanza di verità abbia prodotto la mancanza di una memoria condivisa, inquesto mi riferisco alla violenza politica che è stata un germe malefico, un virus maleficoin questo Paese. Io credo che la memoria condivisa senza verità non può essere ricono-

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sciuta. Ho avuto occasione di dirlo altre volte: se non c’è una memoria condivisa come puòesserci riconciliazione? È un percorso che questo Paese deve fare, deve fare i conti con unpezzo della sua storia. Il segreto di Stato ora, almeno su una parte di quello che restadelle carte di Moro, è stato tolto. Nel mio lavoro di parlamentare, sono fra quelli che halavorato nella commissione che si è occupata della riforma dei servizi segreti, e la rego-lamentazione del segreto di Stato. Abbiamo imposto un limite, trent’anni sono passatidall’uccisione di Moro, quei carteggi sono accessibili, ora gli storici e la magistratura hannoun lavoro da compiere, perché davvero con quel pezzo di storia di questo Paese dobbiamofare i conti. Però credo che qui oggi stiamo facendo qualcosa di più, perché il nostro lavoro non è cir-coscritto alla violenza politica, questo è un lavoro che fa un passo in avanti: noi stiamo par-lando della violenza in generale. Come superare l’odio per sconfiggere la violenza. Stiamo,tutti insieme, io credo, facendo un lavoro straordinario. Ringrazio Ornella di questo, comeringrazio tutte le persone che sono qui, perché qui ci sono sì i detenuti, gli autori di reato,che già nell’essere qui vuol dire che hanno fatto un percorso impegnativo e apprezzabile,ma qui ci sono anche le tante persone che rappresentano un ponte, tra quelli che sonofuori e quelli che sono dentro, tra i buoni e i cattivi, anche se, secondo me, i buoni e i cat-tivi sono dentro e sono fuori. Qualcuno lo ha detto prima di me, gli autori di reato sonopersone, come persone sono le vittime, ognuno reagisce in un modo diverso, ognuno haun modo diverso di sentire e acquisisce diversa consapevolezza via via negli anni di rifles-sione. Io guardo con grandissima attenzione e apprezzo tutti i casi in cui il carcere non è soltantoil luogo di detenzione e di pena, ma diventa il luogo della riflessione, il luogo della con-sapevolezza.

Spero che dalla morte di mio figlio possa venire un aiuto per gli altriNoi non andiamo a dire “dovete fare questo o quello”, assolutamente no, noi raccontiamo solo quello che è successo a noi e perché si deve cambiare, perché c’è l’obbligo di cambiare

di Roberto Merli,padre di Alessandro, ucciso a 14 anni in un incidente stradale

Sono Roberto Merli, il padre di Alessandro, un ragazzo di 14 anni che l’8 gennaio del 2.000purtroppo ha perso la vita per colpa di un automobilista, che in stato di ebbrezza me loha ucciso.Quando succedono questi incidenti mortali continui a chiederti il perché, perché si de-vono perdere i figli così facilmente sulle strade, perché a chi ha ucciso mio figlio, sebbenefosse ubriaco, non hanno fatto né la prova del palloncino, né gli esami del sangue, mentrea mio figlio hanno fatto l’autopsia.Quando succedono queste cose continui a porti tanti perché, io sono andato alla ricercadi qualcuno che mi potesse dare delle risposte concrete nella mia provincia, ma non c’eranessuna associazione che mi potesse aiutare, mi hanno perciò indirizzato ad una associa-

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zione a livello nazionale che è “L’associazione italiana famigliari vittime della Strada”, cheha sede a Roma, e lì ho fatto a loro una domanda specifica. Ho chiesto come mai Brescia,che purtroppo è una realtà drammatica a livello di incidentalità mortale, la provincia dellaLombardia con la più alta percentuale di mortalità sulle strade, non avesse nessun refe-rente di questa associazione, dal momento che ogni anno ci sono tantissime famiglie ro-vinate proprio per incidenti mortali. Mi hanno risposto dicendomi che purtroppo ilproblema è questo, che quando succedono questi incidenti mortali la famiglia non sempreha la voglia di mettersi a disposizione di altri, non ne ha la forza, perché fa troppo male.Ognuno poi elabora il lutto in modo diverso dall’altro, io, per fare un esempio, avevo bi-sogno di parlare per scaricare la mia tensione, così mi son fatto un esame di coscienza eho pensato che, come io stavo cercando qualcuno che mi potesse aiutare, se mi fossifatto portavoce di questa associazione, forse avrei potuto aiutare quelle famiglie, chepurtroppo si sarebbero trovate a porsi questi perché. E cosi nel giugno 2002 ho apertola sede nella nostra provincia, sono diventato referente provinciale.Il nostro primo scopo è quello di essere vicini alle famiglie, quando succedono incidentimortali scriviamo sempre alle famiglie e offriamo loro un conforto umano, un’assistenzapsicologica e legale, abbiamo una convenzione con degli psicologi e abbiamo tra l’altroaperto dei consultori permanenti, proprio per le vittime della strada. E poi dobbiamocontinuare a sensibilizzare a 360 gradi, perché siamo noi che sappiamo cosa vuol direperdere un proprio caro, quindi siamo noi per primi che dobbiamo darci da fare per farcapire che cosa significa “il dopo incidente stradale”.

È una guerra civile con 19 morti e 54 mutilati tutti i giorniL’associazione vittime della strada in Italia ha più di cento sedi dislocate su tutto il terri-torio nazionale, ma la sede di Brescia è l’unica in Italia a fare educazione civica perma-nente, grazie alla Provincia e all’ufficio scolastico provinciale che ci hanno dato questaopportunità, sono tre anni che noi entriamo nelle scuole costantemente. Dico la verità,non tutti i giorni, perché a me tutti i giorni fa male, però un giorno sì e un giorno no entronelle scuole, parlo con i ragazzi, tra l’altro con un numero non altissimo, nel senso che pre-ferisco avere 50, 60 ragazzi alla volta, proprio per mandare un messaggio e far sì che ilmessaggio venga recepito. Purtroppo in Italia siamo gli unici a farlo, anche quest’annoabbiamo organizzato 98 incontri dall’inizio dell’anno scolastico, parlando a più di 6.000 ra-gazzi e questo mi dà molta soddisfazione, nel senso che ho trasformato questa realtà,purtroppo negativa, in solidarietà. Io e gli altri volontari siamo convinti che tutto questoserva per prevenire: con la nostra testimonianza, abbiamo la speranza di far capire adaltri, abbiamo la speranza che altri per lo meno si godranno la vita con la loro famiglia,che saranno i figli a portare al cimitero i genitori e non i genitori a portare al cimitero i figli. Ecco perché io spero che dalla morte di mio figlio possa venire un aiuto per gli altri, ecerco di pormi con molta umiltà, è difficile perché ha un costo anche psicologico doverraccontare sempre la storia di tuo figlio e la storia di altri ragazzi, però noi siamo convintiche sia la strada giusta, proprio perché con molta semplicità noi non andiamo a dire “do-vete fare questo o quello”, assolutamente no, noi raccontiamo solo quello che è successoa noi e perché si deve cambiare, perché c’è l’obbligo di cambiare, perché prendiamo controppa superficialità questa realtà e invece bisogna riflettere, perché ogni anno muoiono7.000 persone in Italia.

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E come dico ai ragazzi, per capire i numeri, cosa vuol dire 7.000, dobbiamo dividere que-sta cifra in giorni della settimana, dal lunedì alla domenica, e se cominciamo a dire “lunedìmuoiono 19 persone, martedì muoiono 19 persone, così mercoledì, giovedì, venerdì, sa-bato e domenica”, tutti i giorni della settimana in Italia muoiono 19 persone da incidentistradali, allora questa cifra assume un significato drammaticamente diverso.E poi non è finita qui, magari fosse solo così, ci sono anche 300.000 feriti, dei quali 30.000disabili gravi, se anche qui dividiamo 30.000 per 365 giorni all’anno, il lunedì oltre ai 19morti dobbiamo purtroppo aggiungere 54 feriti gravi, che, se andrà bene, camminerannocon le stampelle, altrimenti saranno in carrozzina o in un letto, da cui non si muoverannopiù. In pratica è una guerra continua, ecco perché noi diciamo che è una guerra civile, perché19 morti al giorno e 54 mutilati tutti i giorni non è altro che una guerra, però siamo noiche la creiamo, questa guerra, e siamo noi che dobbiamo far di tutto per far diminuirequesti numeri.

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Serve rispetto della dignità e del doloreChi fa informazione deve raccontare con precisione, evitando la superficialità, e anche la strumentalizzazione

di Paola Reggiani, sorella minore di Giovanna, la donna aggredita a Roma

il 30 ottobre 2007 e deceduta pochi giorni dopo

Per anni ho lavorato in una casa di riposo, e ho imparato che la morte fa parte della vita,che a volte era un vero atto d’amore. Come credente ritengo che possa essere un vero eproprio atto d’amore per chiudere un periodo di lunga sofferenza. Sono ancora convintadi questo, quello che mi ferisce è il modo in cui la morte ha preso mia sorella, perchéquello non è stato una atto d’amore.Nell’intervista rilasciata a Lorenzo Guadagnucci, e che è stata pubblicata nel libro “Lava-vetri”, ho espresso il mio disagio su come la cosa è stata raccontata dai media, perché infondo è questo ciò che più mi ha ferito.Prima di tutto c’era il desiderio di poter vivere come persona e come famiglia il propriodolore, e il desiderio e la volontà di poterlo fare senza doversi giustificare. Non so nem-meno io come descriverla questa cosa, perché non credo che nelle interviste ci vengachiesta una giustificazione, ma non avevo voglia di andare a raccontare niente a nessuno,e anche come famiglia non avevamo voglia di andare a raccontare niente. Punto.Quindi la difficoltà di dover in qualche modo arginare l’intervento dei media, per un lungoperiodo, perché non si è trattato di un periodo breve, è stata una delle cose più difficilida fare. Non so come spiegare, ma la domanda che mi è venuta spontanea è stata: i gior-nalisti sono tutte persone laureate, che dovrebbero comprendere che cosa significa “no”.

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Invece era difficile per loro, eppure è una parolina così semplice che diventava, però in-comprensibile: Da qui nasce la mia rabbia, e diventa ancora più forte per le imprecisionicon cui venivano raccontate determinate notizie. Ringrazio tantissimo Elena Valdini, perché da giornalista ha parlato appunto di quanto èimportante raccontare con precisione, evitando la superficialità, il qualunquismo, e iodirei anche la strumentalizzazione, perché comunque quello di mia sorella è stato un casoabbastanza strumentalizzato, non soltanto dai media, ma anche dalle istituzioni pubbli-che.Il giorno successivo all’aggressione, i media hanno dato la notizia nei notiziari, con nomee cognome, alcuni hanno detto anche che mia sorella era morta. I miei fratelli sono partitiper Roma e solo nel primo pomeriggio abbiamo saputo con certezza quello che era acca-duto. Le emozioni sono state tante, ma una delle preoccupazioni più grandi è stato come im-pedire ai nostri genitori di sapere la notizia da estranei, oltre tutto sbagliata. Questo fe-risce. Ferisce tanto quanto l’aggressione a mia sorella. Nei mesi successivi sono state detteanche delle cose che non erano vere, come ad esempio che mia sorella era stata vittimadi uno stupro, grazie a Dio non è successo. Quindi quello che mi piacerebbe mettere in evidenza e sottolineare, rispetto a quanto horaccontato, è la necessità del rispetto delle persone coinvolte, del rispetto nel raccontarele cose che devono essere vere e documentate, si deve avere rispetto della dignità e deldolore. Il giorno del funerale, il quattro novembre, subito prima nella chiesa è stato celebratoun altro funerale, ai familiari della signora defunta è stato detto dal sacerdote: “Scusatedobbiamo fare una liturgia più breve, perché dopo c’è l’altro funerale che ha bisogno dispazio”. Questa è mancanza di rispetto del dolore, davanti alla morte, perché quella mortenon era diversa dalla morte di mia sorella, e il dolore che provavano quelle persone erain quel momento un grande dolore.

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Ho toccato con mano una cosa che avevo letto, ma rispetto a cui ero scettica Ho visto davvero che la vittima può trarre un giovamento dall’entrare in contatto con i pensieri, le domande, i sentimenti di persone che hanno compiuto atti violenti, simili a quelli che la vittima, che io, avevo subito

di Benedetta Tobagi,figlia di Walter Tobagi, giornalista ucciso da un commando di terroristi

Prima di tutto vorrei fare una piccola premessa: ero stata invitata anche a partecipareal convegno di Ristretti dell’anno scorso, “Sto imparando a non odiare”, ed ero stata moltoonorata di quell’invito, però avevo detto ad Ornella che, per quanto mi sembrasse unacosa bellissima, io non me la sentivo. Avevo già parlato spesso anche in pubblico della sto-ria di mio padre, di terrorismo, degli anni settanta, però non me la sentivo di venire da-

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vanti ad una platea ampia a parlare della mia esperienza come vittima.Se io sono in questo carcere adesso è perché avevo promesso ad Ornella che sarei comun-que venuta ad incontrare i detenuti di Ristretti, e ho accettato perché mi aveva spiegatoche facevano questi percorsi di “mediazione penale indiretta” e per me è stata un’espe-rienza molto forte. Ogni tanto si incontra qualcosa che ti apre proprio una finestra nellatesta, l’esperienza nella redazione di Ristretti ha avuto questo effetto: ho capito che, sela mediazione diretta, attraverso l’incontro con gli assassini di mio padre, era qualcosa chenon sarei stata pronta ad affrontare, ero attratta invece da questa mediazione indirettaperché conteneva l’idea che l’incontro con la sofferenza di una vittima possa incideremolto nel percorso di rielaborazione, di riabilitazione e quindi di quella rieducazione chela Costituzione prescrive per i detenuti.Questo si legava con un pensiero, che avevo sempre avuto, più che un pensiero in realtàerano una serie di fantasmi: mio padre è stato ucciso, per cui al di là delle sofferenze col-legate al fatto stesso, specialmente se ti capita una cosa di questo genere quando sei cosìpiccola, c’è una devastazione che è una distruzione di senso. Io sono cresciuta avendoquesto pensiero, questo fantasma ossessivo: che è possibile che un essere umano, nonun mostro, proprio una persona normale, che ha degli affetti, una famiglia, ha anche unavita di benessere, uccida oppure danneggi atrocemente un’altra persona.E poi più ci pensavo e più mi rendevo conto che questo discorso non poteva limitarsi soloai reati contro la persona: mi chiedo per esempio come possa guardarsi allo specchio allamattina una persona che compie un reato finanziario e getta sul lastrico migliaia di per-sone. Ecco, non solo esiste questa possibilità, ma oltre tutto può accadere che le persone chefanno questo non passino attraverso il cambiamento drammatico di sé di cui parla AdolfoCeretti, un cambiamento che è precondizione di una trasformazione intima della persona,cioè non si rendano pienamente conto, non solo di quello che hanno fatto, della sua gra-vità, ma anche dell’impatto che questo ha sulla vita degli altri.Questa circostanza per me sottraeva senso a che cosa è l’essere umano e gettava un’om-bra molto buia sul tipo di mondo in cui viviamo. Questa “mediazione indiretta” mi sem-brava invece una forma di educazione all’empatia e mi è sembrato un miracolo che sipotesse fare qualcosa in questa direzione. Allora per me è stato importante pensare chepotevo anch’io fare un pezzettino, piccolo, piccolo, che poteva servire a spezzare la catenadel male, e appositamente ho usato la parola “male” al posto di odio. L’odio è un senti-mento che non è automatico provare – il soggetto può reagire in modi diversi alla violenzasubita - mentre qui ci si muove sul piano oggettivo, credo sia più opportuno parlare pro-prio di male, ma non un Male archetipico con la emme maiuscola, bensì il male che c’èdentro a tutti noi e che “circola” nella vita quotidiana. Così ho pensato “Vado in questa redazione e ci vado al posto di una donna sconosciuta,che probabilmente come me non se la sente di incontrare direttamente le persone chehanno portato la distruzione nella sua vita, però ci vado perché questo magari può avereuna utilità”.Quindi l’ho fatto cosi, con una specie di spirito, non lo so, spero che capiate se dico cheforse contrastava anche una sensazione di impotenza, che credo accomuni le esperienzedi tante vittime, e a proposito di questo ho riflettuto su una frase che ha detto di recenteil Cardinal Martini “Se ti siedi davanti alla televisione e guardi tutto quello che succede nelmondo ti senti sopraffatto, se invece cominci a fare qualcosa allora ti senti una persona

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utile”.Però francamente lo dico perché è importante, io non mi aspettavo niente per me, mi di-cevo solo: ”Mi sento sufficientemente bene in questo periodo, per caricarmi anche diquesto mattone”. Vivevo fondamentalmente quest’incontro come un servizio, ma ancheun peso.

Ho trovato un ascolto rispettosoInvece voglio veramente ringraziare i redattori di Ristretti, perché è grazie al percorso percui mi hanno condotto che io sono qui e ho toccato con mano una cosa che avevo sololetto, ma rispetto a cui ero scettica: cioè che la vittima può trarre un giovamento dall’en-trare in contatto con i pensieri, le domande, i sentimenti di persone che hanno compiutoatti violenti, simili a quelli che la vittima, che io, avevo subito. Ecco, per me è stata veramente una scoperta, perché io sono andata a raccontare loroche cosa significa per me “essere vittima” e mi sono resa conto che di questo non parlavoneanche con gli amici cari, e non perché gli amici cari non siano sensibili, ma perché è unacosa di cui ti vergogni quasi a parlare, perché comunque è molto difficile, veramente è unacostellazione di sentimenti che sarebbe troppo lungo spiegare. Con loro ne ho parlatoperché il discorso aveva una finalità precisa, cioè c’era il disegno di un percorso. La cosache mi ha impressionata è stato il rispetto e l’attenzione con cui mi hanno ascoltato. Hoparlato in totale libertà e quindi ho mostrato dei sentimenti che avevo dentro. Perchédentro una persona adulta ci può essere un bambino ferito che ha bisogno di essere ascol-tato ed eventualmente piangere, ed è questo che ho trovato a Ristretti.È stato un ascolto rispettoso, che era totalmente diverso, sia dalla pietà che dalla curiositàmorbosa di certi giornalisti su cui Paola Reggiani ha detto delle parole importanti, sonomolto emozionata anche perché io mi sono riconosciuta in moltissime cose che lei hadetto.Ho ricevuto molto, poi ho letto l’articolo che loro hanno scritto sulla discussione che ab-biamo fatto in redazione e uno dei detenuti diceva “Benedetta aveva un gran bisogno diparlare, di comunicare”. E io allora ho pensato: ”Caspita!” Un detenuto ha capito una cosache veramente un sacco di persone non avevano neanche immaginato, non avevano ca-pito, non avevano intuito o avevano frainteso. Quindi oltre a quanto ho ricevuto e che mi ha portato a tornare in redazione, a fare altrecose e ad essere qui oggi, io sono entrata in contatto con “l’altro”: sapevo che c’eranoanche degli assassini, delle persone condannate per omicidio, una realtà che è lontanamille miglia da quelle che conosco e in cui vivo abitualmente, anche questa è una espe-rienza dirompente, perché ti rendi conto di tante cose che non ti hanno neanche mai sfio-rato. Ripeto, c’è questo fantasma, per cui ti domandi: “Ma come fanno a fare certe cose,che cosa provano dopo?”, e incontri delle persone, che hanno commesso reati gravi con-tro la persona, in cui il passaggio doloroso del “riconoscimento” e il “cambiamento di-rompente” ci sono stati, ed è molto consolante, io veramente non trovo altre parole: è unfarmaco. La catena del male si può interrompere. Tutto questo ha innescato una serie di considerazioni che ricostruiscono senso, oltretuttoin uno spazio che è quello comunque di un carcere, uno spazio pubblico paerché appar-tiene alla sfera della società, e al tempo stesso uno spazio che questa società nascondee marginalizza.Si immagina che le vittime, o così i media ci vogliono far credere, siano possedute soprat-

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tutto da un grande desiderio di vendetta, dall’odio e dalla rabbia, ora non è sempre così.Per me la parola chiave è complessità. Le cose sono molto più complesse, per esempioper me entrare in questo mondo della mediazione indiretta, entrare in contatto con que-ste persone, mi ha aiutata a mettere ordine in mezzo a dei sentimenti molto confusi e con-trastanti, che io avevo rispetto alle persone che avevano colpito mio padre.Perché vedete tante volte il reo non è una persona sola, un simbolo, un tipo. Mio padreè stato colpito da una banda di sei persone, che poi si sono comportate in maniera moltodiversa, ed io in proposito prendo in prestito un bellissimo titolo di Primo Levi: “I som-mersi e i salvati”.

Spezzare qualche anello della catena del maleNon faccio i nomi perché qui non è il caso, però per dirvi quanto diverse possano esserele tipologie dei comportamenti e delle reazioni e poi in che genere di tempesta ti trovi tuvittima, sballottata tra sentimenti fortemente contrastanti.io mi sono resa conto molto presto che le emozioni violente non sono coerenti e ci mettimolto tempo a capirle. Vediamo per esempio due dei salvati, diversissimi, uno un killer,viene arrestato e collabora immediatamente con la giustizia, per cui usufruisce di gran-dissimi benefici di pena, quindi uno dei due killer di mio padre esce dal carcere meno ditre anni dopo la cattura. Questo scatena un conflitto tra il rispetto della legge e un sensodi impunità che tu percepisci e che è molto faticoso da accettare, ma ancora più difficileda accettare è il fatto che questa persona poi ostenta platealmente una conversione re-ligiosa, fa un ricco matrimonio, si costruisce una vita pubblica, in parte anche di grandesuccesso e di grande affermazione.Ora io nei gesti pubblici, perché poi il cuore dell’uomo lo conosce soltanto l’interessato,e per chi ci crede Dio, però nei gesti e nelle parole pubbliche di questa persona io – emolti altri - non ho visto quel cambiamento drammatico dell’animo di cui si parlava, hovisto un grande opportunismo.L’altro “salvato” invece è stato in carcere un sacco di anni perché non ha collaborato conla giustizia. Questo ha generato in me un altro conflitto, perché la pena soddisfaceva, di-ciamo cosi, il mio senso di retribuzione, però urtava il mio senso di cittadinanza, perchécomunque lui è stato in carcere perché non voleva denunciare dei compagni assassini,scusate la brutalità. Tuttavia quest’uomo ha fatto un percorso importante, ha usufruitodei benefici della legge Gozzini, perché è diventato un volontario con i tossicodipendenti,si è sposato e ha avuto una figlia, questo è molto bello. Voleva però incontrarci, essereperdonato e questo mi ha creato un altro conflitto, perché io non volevo, non mi sentivodi farlo, pensavo “Sono contenta che questa persona si sia riabilitata, ma io non so se cela faccio a dargli anche la mia benedizione, a che può servire?”. Il perdono è un di più.I sommersi invece. Uno risultava morto in carcere per un aneurisma nel 1984, invece pocotempo fa ho scoperto, da un giudice istruttore che me lo ha detto con una freddezza im-pressionante, ”No, no avevano cambiato la scheda, si è impiccato me lo ricordo benis-simo”.Ora questa notizia mi ha sconvolto, mi ha sconvolto sapere che c‘era un dato, scusate l’in-genuità, di questa gravità, alterato con dei documenti pubblici, e poi soprattutto pensareche dall’omicidio di mio padre era venuto fuori un suicidio non mi ha dato nessun tipo disollievo, e non perché sono buona, ma perché crea un’ulteriore distruzione di senso, an-cora più male.

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L’altro killer che ha collaborato con la giustizia, e dopo poco è uscito, non ha avuto unavita di gratificazione materiale, ha avuto una vita infame e veramente infelice, per cuioggi è un uomo distrutto, in crisi. Anche l’incontro con la disperazione, il senso del falli-mento di quest’uomo non ha fatto che accrescere il mio senso di dolore.Ecco, ho raccontato queste cose per farvi capire quanto ascoltare tutta una galassia di di-scorsi, che raccontano di piccole cose concrete che si possono fare contro ogni forma dimale, le testimonianze di percorsi e vie di uscita reali dalla trappola del male agito e su-bito, che sono molto sentite, molto faticose, per me ha grande valore.Ho visto anche qualcuno di Ristretti che si è commosso nel raccontare la propria espe-rienza, so che ha fatto fatica a raccontare.Questo riduce un po’ il mio imbarazzo di essermi messa a piangere.Ecco sono proprio queste le immagini concrete di percorsi attraverso cui si può spezzarequalche anello della catena del male, che da sola non produce altro che un’iterazione disofferenze e di traumi a cascata, potenzialmente all’infinito. Per finire, visto che si parla del peso dell’informazione nella costruzione del “mostro”, iovolevo portare come contributo un pezzo di una poesia, secondo me splendida, che vienedall’antologia di Spoon river, Aner Clute:

“Più e più volte mi chiesero, mentre mi pagavano birra o vino, prima a Peoria e poi a Chicago,

Denver, Frisco, New York, dove vissi, perché mai divenni una ragazza di vita,

e come avessi cominciato, Bene, dicevo, per un abito da sera,

e la promessa di matrimonio d’un ricco signore — (era Lucius Atherton).

Ma le cose non stavano così. Immaginate che un ragazzo rubi una mela

dal cesto del droghiere, e tutti incomincino a chiamarlo ladro,

il giornalista, il prete, il giudice e tutta la gente — “ladro”, “ladro”, “ladro”, dovunque vada.

E non può avere un lavoro, né procurarsi il pane se non rubando, perciò, quel ragazzo ruberà. È come la gente considera il furto della mela

che rende il ragazzo quello che è.

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Leggere la realtà “con gli occhi del nemico”Ascoltare le storie e vivere l’umanità di questi detenuti ha risvegliato in me il desiderio di leggere sempre l’animo umano, anche quello che può apparirci più abietto, sotto diversi punti di vista

di Silvia Giralucci, oggi volontaria della redazione di Ristretti Orizzonti,

aveva tre anni quando, nel 1974, le Brigate Rosse le uccisero il padre

Marino Occhipinti è la persona che ha scardinato le mie certezze. La sua umanità e la suasofferenza profonda, senza tentativi autoassolutori, mi hanno messo di fronte a un per-sonaggio per me inedito: l’assassino che ha compiuto un reale percorso di revisione criticadel suo passato e porta ogni giorno sulle spalle il peso del male inflitto alle vittime e allasua famiglia. L’incontro con lui ha scalfito anche quella che per me è sempre stata una gra-nitica certezza: il non volere nessun contatto in nessun modo con gli assassini di miopadre. Non è che io oggi abbia il desiderio di incontrarli, ma mi sono chiesta perché co-noscere Marino e altri detenuti condannati per omicidio abbia mutato il mio atteggia-mento.Tra le risposte che mi sono data c’è il fatto che crescere in situazioni disgraziate comesono state quelle mia e di Benedetta, significa diventare contratti, fisicamente e mental-mente, sempre sul chivalà, sempre pronti e tesi al prossimo dolore… Alla lunga si diventapaurosi a porsi in modo pieno e lucido davanti al prossimo, poco disponibili ad esporsi allanatura composita delle persone.Quel che ho trovato in questa redazione – e mai in altre – è un ascolto attento e un ri-spetto dell’altro che esercitati con costanza possono dar vita a una capacità di cambiarela prospettiva in cui si è bloccati.Le vittime sono spesso impiegate per orientare politiche penali conservatrici. Usate ed esi-bite come rappresentazione “in carne ed ossa” del problema sicurezza, utilizzate percreare consenso su un inasprimento delle pene con un impiego più esteso della deten-zione e un minor investimento nei programmi di riabilitazione per gli autori di reato. Inquesta visione la sensibilità verso le vittime significa automaticamente essere inflessibilicon gli autori di reato. E la richiesta di riconoscimento della vittima di reato, quando nonviene disattesa e delusa, viene strumentalizzata. Una mediazione indiretta come quellache è avvenuta all’interno di Ristretti Orizzonti ha consentito a me di tramutare il soffrirein agire, di scacciare la nebbia che da sempre staziona nella mia testa, per incominciareun percorso di riappropriazione dell’incontro con l’altro.In questa redazione Ornella è riuscita a far vivere insieme storie antitetiche di persone di-verse e a contaminarle. Ascoltare le storie e vivere l’umanità di questi detenuti ha risve-gliato in me il desiderio di leggere sempre l’animo umano, anche quello che può apparircipiù abietto, sotto diversi punti di vista. Se proviamo a conoscere l’altro dall’interno – anche se l’altro in questione è o assomigliaal nostro nemico – non possiamo più essere completamente indifferenti a lui, siamo co-stretti a riconoscerne il diritto all’esistenza, alla storia, alla sofferenza e alle speranze.Pensare all’individualità delle persone che ho conosciuto qui dentro non significa in alcun

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modo giustificarle. L’ho detto lo scorso anno, e continuo a essere convinta che un assas-sino, anche quando ha finito di scontare la sua pena, dovrebbe portare dentro di sé unpeso almeno pari a quello che porta la vittima. Considero ancora offensiva la visibilitàcercata e trovata da diversi ex terroristi. Cercare di comprendere le persone che ho conosciuto qui dentro significa invece tentaredi capire la loro visione del mondo, la storia che narrano a loro stessi. Cercare di leggere,per usare il titolo di un bel saggio di David Grossman, la realtà “con gli occhi del nemico”.E quando riusciamo a leggere il testo della realtà con gli occhi del nemico, allora quellarealtà in cui noi e il nostro nemico viviamo diventa improvvisamente più complessa e rea-listica, possiamo riprenderci parti che avevamo espunto dal nostro quadro del mondo.Sul cartellino che indosso quando entro qui dentro c’è scritto “volontario”, una parolache ha una connotazione di altruismo, ma sono sicura che qui è più quel che ho ricevutoche quel che ho dato.

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Io credo profondamente nell’uomo e credo nella sua possibilità di cambiarePer questo sono convinta che i parenti di una vittima non debbano decidere della sorte di chi è ritenuto colpevole

di Sabina Rossa,figlia di Guido Rossa, operaio dell’Italsider ucciso dalle Brigate Rosse

Io inizio cosi, con quella massima, che siamo soliti ricordare, di Voltaire, per la quale ilgrado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri.In uno Stato di diritto ci sono norme scritte che dicono che il trattamento penitenziariodeve essere conforme ad umanità, deve assicurare il rispetto della dignità della persona,e che dall’osservazione del comportamento si deve desumere una schietta revisione cri-tica del passato criminale e la sincera volontà di partecipare all’opera di rieducazione e diinserirsi nella società civile, accettandone legalità e valori. Quindi nelle norme e nei rego-lamenti penitenziari trova forma quello che è il principio costituzionale del fine rieducativodella pena, contenuto nell’articolo 27 della nostra Costituzione, che recita che le penenon possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere allarieducazione del condannato. Queste sono poco meno di tre righe che devono essereconsiderate un esempio di quello che è la nostra Costituzione, e purtroppo anche unatestimonianza della sua distanza dalla realtà attuale delle nostre carceri.Occorre anche riconoscere che quelli che erano gli auspici dei padri costituenti non sonoriusciti a tradursi in realtà concrete, certo le pene e le carceri di allora non sono più quelledi oggi, ma quelle di oggi non sono sicuramente quelle che auspicavano i costituenti, evorrei citarne solamente alcuni.Giuseppe Bettiol ci ricorda che la pena, particolarmente nella sua esecuzione, deve esseretale da non avvilire e da non degradare l’individuo; Costantino Preziosi, che il condannatodeve essere trattato in modo tale da poter essere successivamente riassorbito dalla so-cietà; Giovanni Leone, che occorre stabilire che la pena debba realizzare il fine della rie-ducazione e del recupero morale del reo, non vi è creatura umana che possa subire da

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parte della società una condanna fine a se stessa. Infine Giuseppe Fusco, secondo il qualenon si può raggiungere la rieducazione del reo se non lo si mette in una condizione in cuiegli non senta ogni giorno la desolazione e l’asprezza del sistema carcerario.La nostra Costituzione ci indica quindi in modo molto chiaro quello che dovrebbe essereil percorso, cioè l’istituzione carceraria dovrebbe operare per restituire alla società un in-dividuo che abbia fatto propri il valore e la convenienza della legalità. Il carcere è una isti-tuzione dello Stato e in quanto tale ha l’obbligo di porre in essere tutto quanto ènecessario per applicare le norme, ma quando questo non accade, avviene che la que-stione esce dalle mura del carcere, e va a investire tutta la società, va a investire la politicae la cultura, e c’è da chiedersi se, nella drammatica situazione in cui oggi sono le nostrecarceri, abbia senso continuare a credere nel principio della rieducazione.Abbiamo carceri gonfie di arrestati e condannati, a fine anno saranno 67.000 le presenzea fronte di una capienza di 43.000, che si traduce in un sovraffollamento insostenibile eanche la situazione del nostro apparato giudiziario fornisce dati drammatici, perché par-liamo di un arretrato pendente che sfiora cinque milioni e mezzo di procedimenti penali,che sarebbero poi molti di più se 200.000 non fossero prescritti ogni anno. Quindi in uncontesto del genere il concetto di pena certa, di esecuzione reale della pena lascia per lomeno dubbiosi, cosi come è certamente difficile pensare alla possibilità di cambiamentoe di reinserimento del detenuto nella comunità civile, quando la comunità stessa non èin grado e non sa dare esempio di civiltà. Oggi di fronte a tutto questo lo Stato, la societàsono direttamente chiamati in causa, chiamati in causa anche di fronte a quelle che sonole loro responsabilità istituzionali.Ma io sono qui per raccontare anche la mia storia personale: cioè quello che io pensooggi, quello che muove anche le mie azioni è il risultato di un percorso che probabilmenteinconsciamente è cominciato 30 anni fa, anche se io per un lungo periodo ho avuto, comedire?, un atteggiamento di rimozione rispetto a quello che mi era accaduto. Ma questopercorso mi ha portato ad un certo punto a ricercare un incontro e soprattutto un con-fronto con Vincenzo Guagliardo. Vincenzo Guagliardo è stato condannato all’ergastolo edè in carcere dal 1980, oggi è in regime di semilibertà. Il 14 gennaio del 1979 era in viaFracchia a Genova, dove io abitavo con la mia famiglia, ad aspettare mio padre, colpevoleper le Brigate Rosse di aver denunciato un fiancheggiatore che svolgeva azione di propa-ganda nella fabbrica in cui egli stesso lavorava. Colpevole di aver scelto allora, in quelclima, quando le Brigate Rosse cercavano una legittimazione da parte della classe operaia,di aver scelto da che parte stare. Questo incontro devo dire mi ha cambiata, mi ha cam-biata nel profondo, quello che io sono oggi penso che sia il frutto di tante rielaborazionidi questo incontro e credo che questo incontro abbia cambiato anche lui.È l’esigenza di ottenere giustizia che le vittime in primo luogo manifestano, l’esigenza diottenere giustizia non è un fatto privato, che riguardi solo le vittime dei reati, ma è unbene collettivo che si rifà alla salvaguardia dei principi democratici e tende a ricostruirequell’ideale di comunità, quel sistema di regole, che vengono infrante quando viene com-messo un atto criminoso.

Una proposta di legge che va anche nella direzione dell’abolizione dell’ergastoloDopo aver incontrato Vincenzo Guagliardo ho parlato con il giudice di Sorveglianza, chedeve decidere sulla sua scarcerazione, per dire che il brigatista che nel gennaio del ‘79sparò al sindacalista Guido Rossa oggi è un’altra persona.

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Sono convinta di quello che dico, quando dico che questa persona oggi per quello che ioho potuto verificare e constatare merita di lasciare il carcere, e questo dopo trent’anni direclusione, quell’uomo invece è ancora in carcere, per la seconda volta gli è stata rifiutatala richiesta di liberazione condizionale, perché non ha voluto pubblicizzare quello che èstato l’incontro con me, né si è rivolto ad altre vittime, ritenendo che la sua fosse la formamigliore per rispettarle.Io sono profondamente convinta che i parenti di una vittima non debbano decidere dellasorte di chi è ritenuto colpevole, questa è, come dice anche Mario Calabresi nel suo libro“Spostando la Notte più in là”, un’idea medievale, inaccettabile e assurda: per i condan-nati è ovvio anche il possibile uso strumentale finalizzato unicamente all’ottenimento delbeneficio, per le vittime è una pesante incombenza, della quale non hanno assolutamentebisogno e che spesso va a riaprire ferite mai rimarginate. Resta il fatto che questo percorso è ad uso discrezionale dei magistrati e dei tribunali diSorveglianza, a volte viene posto come condizione irrinunciabile, in altre non viene affattovalutato. Il caso di Vincenzo Guagliardo a mio giudizio può rappresentare i limiti emble-matici di questa normativa, anche perché personalmente io rispetto chi, con riservatezzae rimanendo in silenzio, compie un proprio percorso di rieducazione e di reinserimento.Ed è in questo senso che ho ritenuto necessario avanzare quella che è una proposta di in-tervento legislativo, che riconduca a criteri oggettivi la valutazione per la concessionedella libertà condizionale. Ho presentato una proposta di legge per sostituire il “sicuroravvedimento”, richiesto dal Codice penale per concedere la liberazione condizionale, eche per molti giudici si misura proprio dal contatto diretto tra colpevoli e vittime, con unaformula diversa per la quale può uscire dal carcere, nel caso degli ergastolani dopo 26anni, chi ha tenuto un comportamento tale da far ritenere concluso positivamente il per-corso rieducativo di cui all’articolo 27 comma tre della nostra Costituzione. È una propostaquesta che va anche nella direzione dell’abolizione dell’ergastolo, ergastolo che di fatto,fra differenziazioni, divieti e prassi contorte, nega ogni possibilità di reinserimento ancheper chi ha preso definitivamente la distanza dall’esperienza del reato, quindi nega ognipossibilità di cambiamento.Io credo profondamente nell’uomo e credo nella sua possibilità di cambiare, la mia è unaproposta che va nella direzione soprattutto indicata dalla nostra Costituzione, secondo cuila pena deve operare in stretta similitudine tra il concetto di rieducazione e quello di re-cupero del condannato.Concludendo questo mio intervento vorrei citare alcuni passi di una lettera che mi hannoscritto Giovanni Spada e Sebastiano Milazzo, dal carcere di Spoleto, coloro che hannoportato avanti insieme a tanti altri la campagna “Mai dire mai” per la dignità e i diritti deidetenuti e per l’abolizione dell’ergastolo: “Il tormento interiore fa rinnovare più di quantoprevedono le attuali norme che avviliscono e sviliscono gli aspetti più intimi e personali del-l’esistenza, quando affermano che le uniche prove valide per dimostrare un sicuro ravve-dimento sono le richieste di perdono ai famigliari. La sua proposta di legge va nelladirezione di rendere i benefici penitenziari meno incerti, in modo che adottando criteripiù oggettivi e meno discrezionali, la vita del condannato non possa essere lasciata inbalia delle convinzioni di singole interpretazioni. Proposta che se approvata ci solleverebbedall’attuale avvilimento perché va nella direzione della lotta, che noi ergastolani abbiamointrapreso da tempo, per invocare l’abolizione dell’ergastolo, che altro non è che una penadi morte camuffata, perché alla stragrande maggioranza degli ergastolani è negata ognipossibilità di reinserimento.

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Famigliari di detenuti: vittime diverse, ma sempre vittime

Quando si parla di vittime dei reati si pensa subito a chi il reato l’ha subito diret-tamente, o ai suoi famigliari, non si pensa quasi mai alle famiglie dei detenuti. Ep-pure, spessissimo il reato si abbatte con violenza anche sulle mogli, le compagne,i figli, i genitori di chi il reato l’ha commesso, e distruggono le loro vite: ci sono per-sone che hanno dovuto cambiare cognome per non essere additate come “i pa-renti di…”, mogli che si sono trovate di punto in bianco con il marito in galera, equindi senza più la fonte prima di sostentamento della famiglia, genitori anziani co-stretti per la prima volta, magari dopo una vita di assoluta onestà, a varcare leporte di un carcere. Ma sono i figli le prime vittime, quei figli che faticano a perdonare ai loro genitoridi averli abbandonati, perché di fatto la carcerazione di un padre o di una madreper loro è anche un abbandono. Quei figli che sanno essere giudici spietati, e il cuigiudizio comunque nessun detenuto e nessuna detenuta si azzarderà mai a met-tere in discussione.

Capitolo III

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Quelle bugie raccontate ai figli “a fin di bene” Sono convinto della necessità di essere spietatamente schietti con i propri cari, ma qualche volta è davvero una fatica immane imparare a non mentire più

di Marino Occhipinti

Il dottor Pavarin, il Magistrato di Sorveglianza di Padova, ha invitato più volte i detenutia dire sempre e comunque la verità, anche quando dire la verità – per chi ha commessoun grave reato – significa mettere a rischio l’unico autentico appiglio morale ed emotivoa cui può aggrapparsi una persona che, sia pure per sua colpa, si sente d’un tratto tuttoil mondo contro: l’affetto e la fiducia “di appartenenza” che nutrono ancora in lui i suoifamiliari. Per quanto in linea di principio apprezzi e condivida l’invito del Magistrato di Sorveglianzadi Padova ad avere il coraggio della verità sempre e comunque, sono dell’idea che è dif-ficile stabilire e “codificare” comportamenti-standard validi per tutte le situazioni. Ognicontesto è infatti diverso dall’altro, in special modo quando a dover subire il peso deva-stante di confessioni tanto gravi sono i figli. E sulla decisione se dir loro la dura verità o ri-fugiarsi dietro lo schermo di un rassicurante castello di bugie pesano almeno due fattori:il primo è di ordine anagrafico, perché spiegare a un bambino di cinque anni che suopadre è in carcere perché ha commesso un crimine è sicuramente più complicato chespiegarlo a un bambino che di anni ne ha dieci; il secondo è invece di carattere morale,perché chi è responsabile di un reato “minore”, come un furto, avrà certamente meno dif-ficoltà a confessare la propria colpa di uno che ha commesso un delitto ben più inquie-tante, come l’omicidio. Per cercare di spiegarmi meglio provo a raccontare, seppure per sommi capi, quella cheè stata la mia situazione, o meglio il mio “percorso”. Quando fui arrestato le mie due figlieavevano tre e sei anni, e per giustificare l’improvvisa sparizione del loro padre i miei scel-sero la scusa più banale e apparentemente più rassicurante, dicendo loro – proprio comeha descritto il dottor Pavarin nel suo intervento – che… “papà è via per lavoro, ma torneràpresto…”. Francamente credo che in quei momenti non avessero alternative, perché tra-volti com’erano loro stessi dalle angosce e dai mille problemi anche pratici provocati dalmio improvviso arresto (ero un “regolare”, e nessuno si sarebbe aspettato da me qualcosadel genere) non avevano certo il tempo, né la serenità, per approntare strategie giustifi-catorie più sofisticate, e tantomeno per mettere le bambine di fronte a una verità troppopiù grande, e più dura, di loro. Lo stratagemma, comunque, ebbe un’efficacia molto limitata nel tempo. Dopo un paio dimesi, a ogni mia telefonata la più grande delle mie figlie cominciò a dirmi di aver smessodi piangere, che non mi pensava più e che non mi voleva più bene. Un comportamentotutto sommato comprensibile, in una bambina ormai abbastanza sveglia da non crederepiù, dopo tante settimane di mia assenza, alla pietosa “balla” del papà via per lavoro. Chealtro poteva pensare, se non che l’avessi abbandonata? Una psicologa consigliò allora aimiei di raccontarle la verità, perché la pur bruciante delusione che avrebbe provocato inlei sapere che suo padre aveva sbagliato ed era finito in prigione sarebbe stata comunquemeno grave del senso di abbandono indotto dalla mia improvvisa e immotivata spari-

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zione. La verità le fu detta, anche se solo in parte e in maniera edulcorata (“papà ha fattouna cosa sbagliata e dovrà stare in carcere per un po’…”), e in effetti la situazione, quantomeno sotto il profilo affettivo, cominciò a stabilizzarsi: mia figlia tornò a dimostrarsi affet-tuosa con me, perché aveva capito che non me n’ero andato di casa di mia volontà. In-somma: che non l’avevo “tradita”.

Chi avevo ingannato, dunque, se non me stesso?Quanto al secondo fattore, quello di carattere morale, pesa ancora di più di quello “ana-grafico”, e influisce molto più a lungo nel tempo. Più un bambino cresce e acquista capa-cità di comprensione, più diventa arduo confessargli di aver commesso un reato, tantopiùse molto grave: se ha l’età per capire, ha infatti anche l’età per giudicare, e dirgli la verità– quando la verità è tremenda – vuol dire aprire nella sua coscienza e nei suoi sentimentiscenari imprevedibili. Io comunque, proprio perché ero consapevole di avere imputazionida ergastolo, scelsi all’inizio con le mie figlie – come del resto con tutti i miei parenti – lastrategia difensiva più sfrontatamente banale, che era anche la più lontana dalla verità:mi ostinai infatti per mesi e per anni a rivendicare la mia innocenza nonostante tutte lecircostanze fossero contro di me. Ai magistrati ribadivo continuamente che erano incappati in un errore, che io proprio nonc’ero la sera dell’omicidio, che la perizia balistica non dimostrava un bel niente perchéquel fucile non era in mio possesso, che le dichiarazioni di quella tal persona erano fruttodi pura fantasia, eccetera… Col mio cocciuto negare, in realtà, non facevo che ingannareme stesso, dal momento che bastava un decimo degli elementi in possesso della magistra-tura per condannarmi, come poi è puntualmente avvenuto. E io in fondo ero consapevole– mentre protervamente la sostenevo - che la mia proclamata innocenza faceva acqua datutte le parti, ma la mia ostinazione trovava alimento nella mia stessa difesa, che all’epoca- anche per il clamoroso risalto che il processo aveva nell’opinione pubblica - era finalizzatapiù a sganciarmi del tutto da quella tremenda vicenda che a limitare i danni, alleggerendole mie personali responsabilità almeno sotto il punto di vista giudiziario: “Potranno anchecondannarmi per la partecipazione all’omicidio – pensavo – ma io continuerò a dire chenon è vero. Forse almeno i miei familiari mi crederanno e potrò continuare a guardarlinegli occhi… Quanto alle mie figlie, non dovranno mai sapere quello di cui è responsabileil loro padre…”.Ora, mentre scrivo, ripenso alla mia ottusa testardaggine di allora e la trovo patetica:qualche anno dopo, quando decisi che era giunto il momento di voltare pagina e di am-mettere finalmente le mie responsabilità, le mie sorelle e mio fratello mi dissero infattiche avevano smesso da un pezzo di credere alla mia innocenza. Chi avevo ingannato, dun-que, se non me stesso?Quello della chiarezza è stato un momento doloroso, ma è quantomeno servito a sanareparzialmente, se non del tutto, una delle tante “fratture” (per usare quest’efficace espres-sione del magistrato) che ho causato con i miei reati. In seguito infatti i miei parenti mihanno confidato che all’epoca dei miei cocciuti dinieghi la loro fiducia nei miei confrontiera ridotta al lumicino, mentre ora che avevo trovato la forza di dire loro la verità avevanoriscoperto la voglia di credere in me e nel mio riscatto come uomo, come persona. Il chenon è poco, quando ti rendi conto che senza la fiducia e l’affetto delle persone che ti vo-gliono bene non ce la potresti mai fare a uscire dal buco nero in cui ti sei cacciato. Rista-bilire un rapporto di verità con i miei mi ha dato una grande forza, anche se è stato e

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continua a essere doloroso pensare ai lunghi anni in cui li ho ingannati rivendicando un’in-sostenibile innocenza. Nonostante mi ostinassi a tradirli, mentendo, non mi hanno mai ab-bandonato, e questo mi fa sentire doppiamente grato ma anche doppiamente in colpa neiloro confronti. E però mi dà anche forza, perché per un uomo chiuso in gabbia con “finepena mai” è fondamentale conservare robuste radici affettive.

Le mie figlie avrebbero bisogno di risposte più approfondite di quelle che sono riuscito a dare loro finoraMio padre non lo vedo da sei anni e mezzo, ma mica perché mi abbia rinnegato come fi-glio. Tutt’altro. Nei primi anni della mia carcerazione veniva di tanto in tanto a trovarmi,ma l’emozione era più forte di lui. Al punto che riusciva a malapena a farfugliarmi un sa-luto all’inizio e alla fine del colloquio: per il resto, lacrime, solo lacrime, in un uomo cheprima non avevo mai visto piangere. Ha preferito smettere di venire a trovarmi, piuttostoche vedermi qui dentro. Di mia madre, invece, ogni mese vedo la fatica sul viso quando, per venire ai colloqui, sialza alle tre di notte. Dopo un’ora di macchina, il cambio di tre treni e trecento chilometripercorsi, alle 7.30-8 si presenta ai cancelli del Due Palazzi, in prima fila; un’ora di colloquioe via, in un percorso a ritroso fatto in tutta fretta “perché poi, altrimenti, non ce la faccioa guidare per l’ultima ora di tragitto con il buio”.Mio fratello me lo “rivedo” il giorno di Natale del ‘94, anno in cui sono stato arrestato, da-vanti alle mura del carcere in cui allora ero rinchiuso. All’epoca poco più che ventenne, inquel giorno di festa lasciò la sua ragazza, si fece duecentocinquanta chilometri tra la nevee si presentò all’istituto in cui ero recluso con un panettone in mano, a implorare gli agentiaffinché me lo consegnassero. In quel periodo, però, mi trovavo in totale isolamento equindi non potevo avere contatti né visivi né telefonici con nessuno: quando la sera miofratello giunse a casa, quel panettone era ancora lì, sui sedili della sua vettura…Dopo il mio arresto la mia sorella più grande si separò. Non le ho mai chiesto se la mia vi-cenda giudiziaria possa aver in qualche modo influito sulla sua “scelta”, e credo che nontroverò mai il coraggio di domandarglielo. L’altra mia sorella, invece, dopo pochi mesi dalmio arresto cedette il negozio di estetica che con tanti sacrifici aveva avviato in un piccolopaese. “Oramai mi ero stancata”, mi confidò un giorno. Ma anche in questo caso ho sem-pre cercato di non approfondire troppo.Dei problemi psicologici e anche di salute che la mia vicenda ha causato alle mie figlie, edei tanti disagi materiali e morali che ho procurato loro, ho già scritto in altri articoli e pre-ferisco evitare di tornarci sopra, fatta eccezione per un aneddoto che riguarda la piùgrande. Mi ha raccontato mia moglie che all’epoca del processo, quando i giornali eranopieni di articoli che parlavano della mia brutta storia, al bar dove l’accompagnava per farecolazione, prima dell’ingresso a scuola, si dimostrava molto più interessata ai quotidianiposati sui tavoli che al suo cappuccino e alla sua brioche. Evidentemente “sentiva” che incasa non le veniva raccontata tutta la verità su suo padre, e cercava di carpire qua e làqualche notizia in più. Anche per me, del resto, è stato molto più difficile aprirmi con le mie figlie che con gli altrimiei parenti. E sono persuaso che sarei ancora prigioniero della mia indecisione se ungiorno non mi fossi trovato, del tutto inaspettatamente, davanti al fatto compiuto.13 settembre 2001: un giorno che non potrò mai dimenticare. Mi fu concesso di incon-

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trare mia moglie e le mie figlie, che erano venute a trovarmi, non nell’affollata e spessoassordante sala-colloqui ma nella cosìddetta “area verde”, ovvero in una piccola fetta digiardino appositamente attrezzata che quel giorno era a nostra esclusiva disposizione,per via di una fastidiosa pioggerella che aveva indotto tutti gli altri colloquianti a disertarla.“Hanno già dieci e tredici anni – dissi a mia moglie, osservando le nostre figlie che gioca-vano a qualche metro di distanza – e prima o poi dovrò raccontare loro la verità… Ma nonso se troverò mai il coraggio di farlo”.“Guarda che sanno già tutto, ho pensato che fosse giusto così…”.A quella notizia, insieme dolorosa e liberatoria, fui letteralmente sopraffatto dalle lacrime.Ero consapevole che era giusto che le mie figlie sapessero, ma mi angosciava l’idea chela verità potesse abbattersi fra loro e me come un macigno, mettendo a repentaglio l’af-fetto e la stima che fino ad allora, nonostante la mia carcerazione, avevano conservato perme. Riuscii a farfugliare a malapena qualche parola confusa, e non so davvero come sareiuscito da quella situazione se loro, intuendo il motivo della mia angoscia, non mi avesseroanticipato assicurandomi che io ero e sarei rimasto il loro papà, che nulla sarebbe cam-biato nel loro rapporto con me. A distanza di anni le mie figlie hanno mantenuto la loro “promessa”, ma io continuo a vi-vere con l’angoscia che un giorno possano cambiare atteggiamento nei miei confronti.La verità non è più un tabù, fra di noi. Ma tutta la verità è un’altra cosa, e a volte pensoche avrebbero bisogno di risposte più approfondite di quelle che sono riuscito a dare lorofinora. Forse, occorrerà prima o poi qualche ulteriore “sblocco”, da parte mia. Ma non èfacile: anzi, è terribilmente difficile. E così, sebbene in linea di principio sia assolutamented’accordo sulla necessità di essere spietatamente schietti con i propri cari, resto dell’ideache la strada della verità non è uguale per tutti. È, infatti, un percorso tanto più difficilequanto è più grave il reato di cui ci si è macchiati.

Non è stato facile crescere senza di te “Non è facile essere tua figlia nel nostro paese, dove tutti mi etichettano come la figlia di…”. Parole difficili, che fanno capire che la figlia di un detenuto certo un padre almeno ce l’ha,ma con tanta sofferenza e nessuna colpa

di Bruno De Matteis

“(…) Non è stato facile crescere senza di te. Ho conosciuto troppo presto l’invidia. Quantoho invidiato le mie amiche, quanto volevo che ci fossi stato quando avevo bisogno di te.Quando ero piccola pensavo sempre che prima o poi saresti arrivato da quella porta e miavresti portato in giro e invece gli anni passavano. Da bambina mi sono ritrovata adole-scente… il primo amore, il motorino, le pagelle a scuola, le gite… da adolescente sono di-ventata donna… e tu da quella porta non sei ancora entrato. Ora sono grande, mi sonolaureata, posso fare a meno di te… eppure non vedo l’ora di conoscere mio padre, di par-lare con lui, di abbracciarlo e di dirgli mi sei mancato… sì papà mi sei mancato e anche

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tanto… mi sei mancato ogni giorno e ogni giorno di più…”. Si potrebbe pensare che queste frasi siano state scritte verso un Papà che è stato vittimadi un qualcosa… un Papà ad una bambina ancora sconosciuto. Ebbene no, non è così. Miafiglia sa che sono un padre detenuto che ha subito una condanna infinita, sa che nonposso nascondere di aver fatto una vittima, o quanto meno di aver concorso nel delitto,il che è più o meno lo stesso. Una persona che non c’è più che ben conoscevo. Eravamodello stesso quartiere di una città del sud dove esisteva la legge della sopravvivenza. Nelloscontro fra noi poveri sono sopravvissuto. Sono in carcere dal 1991, se facciamo un po’ iconti: una vita fa. Quasi 17 anni vissuti dove la vita non c’è, dove tutto devi inventare persopravvivere. Qualcuno può pensare che sono stato fortunato a respirare ancora e poterricevere le lettere di mia figlia. Sicuramente qualcuno penserà, come è giusto che sia: da17 anni in un’altra famiglia non si ricevono né lettere né altro, resta solo il ricordo di undolore tremendo, di cui ancora oggi portano i segni. Quasi tutti pensano al dolore della vittima che non c’è più, e io stesso posso affermare checi penso più di quanto qualcuno possa immaginare o credere. Sono lunghi anni che ho vis-suto nelle realtà più dure delle carceri. Ho voluto vivere con la dignità di una personaconvinta che ha fatto del male ed è giusto che paghi per gli errori commessi. Ed ognigiorno per forza il pensiero va a chi non c’è più, altrimenti anch’io sarei a casa mia. Quindici penso sempre e ne soffro. Sono un uomo che forse non ha potuto scegliere fra il benee il male. Sono rimasto orfano da ragazzo, mi sono sposato e a 18 anni ero già padre. Non ho vissuto certo in paradiso, anzi guardo oggi al passato e mi rendo conto che forseho vissuto più in un inferno. Ha molte facce l’inferno, quella del carcere è una tra le tante,e forse neanche la peggiore… e comunque è un incontro con gli aspetti più crudi della vita,un viaggio nel più misero squallore, dove spesso le persone hanno perso tutto, anche ilpiù flebile barlume di dignità. Ho imparato a percepire il passaggio del tempo da una sta-gione all’altra soltanto dal cambio della temperatura, poiché ai detenuti sono preclusitutti quei mutamenti che il paesaggio assume con un infinito sfumare di colori ad ogni sta-gione. Ho appena accennato a quanto pesante sia vivere in questi posti per noi detenuti, che inparte, ripeto, è giusto per il male procurato. Ma vorrei far capire l’importanza dei miei fa-migliari che non hanno fatto nulla per subire una dura condanna all’infinito, se non peril fatto che a distanza di tanti anni mi sono vicini e mi vogliono bene. Quante volte hannodovuto vivere umiliazioni solo perché moglie o figlio di un detenuto, e subire la lontananzacontinua dal luogo di residenza, e ancora oggi non mi spiego perché io debba stare a oltremille chilometri da casa, quando nella mia regione ci sono ben sette carceri. Tutto questomi fa pensare che ci sia qualcosa che non va… ci sono situazioni che sembrano fatte ap-posta per distruggere psicologicamente e fisicamente una persona, portarla alle condi-zioni di non poter far più nulla, di diventare una specie di automa. Spesso sono duro congli altri, ma anche con me stesso, se continuo ad affermare che la colpa è solo mia che hoportato sull’orlo di uno sfacelo una famiglia meravigliosa, che ancora dopo 17 anni di car-cere è unita. Ed un’altra della quale non so quasi nulla. Sicuramente il dolore procurato non passerà mai, parlarne ancora non mi sembra il casosolo per il rispetto delle persone che continuano a soffrire per causa mia, non è uno scrittodi pentimento che potrebbe alleviare il loro vivere senza la persona che gli è venuta amancare. Mi permetto di dire che forse in parte il loro dolore può assomigliare a quellodei nostri famigliari, ma… almeno loro hanno noi, una figura seppur virtuale che fa ancora

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dire loro: ho un padre, sono una moglie, almeno sui documenti. Riporto ancora branidella lettera che mi ha inviato mia figlia a Natale scorso, per far riflettere sul fatto che infondo la vittima non è una sola. “Caro Papà, come stai? Qui tutto bene… cioè è tutto uguale… non ci sono grandi novità.Sono andata a sostenere un esame e purtroppo ho avuto un attacco d’ansia (questa èanche colpa tua, è una scusa per mamma) e non mi ricordavo niente quindi l’esame noncredo di averlo superato. Inoltre la mia Professoressa non era d’accordo a farmi scriverela tesi in un mese perché troppo poco il tempo, e non sarebbe uscito un buon lavoro, perquesti motivi mi laureo tre mesi più tardi. Ho fatto il concorso per la specialistica e sonorientrata, quindi è stata una bella soddisfazione. L’Università va bene, certo vivere a Romalontano anche da mamma è triste, papà. Mi capisci vero? Sai, il titolo della tesi è: “Il ri-tardo mentale: Diagnosi e cura nell’approccio sistemico relazionale”. Se hai qualche libroo qualcos’altro me lo puoi mandare? Come ti ho già detto, qui va tutto bene. È arrivato un’altra volta Natale. Come ogni annonon sarà una bella festa. Più passa il tempo e più la mancanza delle persone a cui vogliobene si sente. Sai benissimo che non ho un bellissimo carattere e sai anche quanto mi èdifficile dimostrarti quello che provo realmente. Non è stato facile crescere senza di te.Non è facile essere tua figlia nel nostro paese, dove tutti ti etichettano come la figlia di…Sei un mito in negativo. Tu non sai quante volte ti ho odiato… ma si sa l’odio è una sfu-matura dell’amore forse più grande… Mia madre l’ho vista soffrire tanto in questi anni eanche questo non è stato facile… mio fratello Mirko ha sempre voluto essere come te, nonperché tu eri chissà quale modello di vita ma perché in quel modo lo avresti notato piùfacilmente… Luca, poi, il mio angelo, la persona che più d’ogni altro spero di incontrarepresto se n’è andato via… a 25 anni. Papà!? Spesso rivolgo gli occhi al cielo, mi sembra chemi veda che lo saluto. Vorrei che fosse qui… Invece non c’è… Come non ci sei tu… Lo so che anche per te non è stato facile, come so benissimo che negare la libertà a unapersona è la cosa più brutta che ci possa essere. Non è stato facile per te stare lontanodalla tua famiglia come non lo è stato per noi, ma spero con tutto il cuore che presto po-tremo cominciare a ricostruire la nostra famiglia. Con questa lettera non voglio dirti chenon ci sono stati momenti belli in passato, ma sono stati troppo pochi per compensaretutti questi anni che non ci sei stato. Ti voglio bene, ed è questa la cosa più importanteche devi capire, come devi anche capire che da parte mia c’è la voglia e il desiderio di co-noscere e farmi conoscere da mio padre. Siamo due perfetti estranei che nonostantetutto sono uniti da un grande amore. Lo so che da parte mia non c’è stata comprensione nei tuoi confronti, anzi il più dellevolte ho sputato sentenze solo per la voglia di farti soffrire come tu avevi fatto soffrireme… ma non credere che tutto quello che ti ho detto lo pensavo. Sono stata cattiva conte… prepotente e arrogante ma vai oltre alla mia apparenza e conoscerai come è real-mente tua figlia… una persona debole che ha bisogno solo di stabilità, proprio quella sta-bilità che le è mancata in questi anni… Comunque spero che tu riesca a capire il significatodi questa lettera e mi risponderai… Ci sentiamo domenica, telefona più tardi farò la sor-presa a mamma. Ti voglio bene… ma tanto… tantissimo, un bacio enorme tua M. Elena”.

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I nostri famigliari sono sì delle vittime, ma perché noi abbiamo scelto di punirliAnch’io considero vittime i miei famigliari,mia figlia sta crescendo senza di me,ma loro sanno che se sonoqui è per colpa mia ehanno scelto di continuare comunque a volermi bene

di Dritan Iberisha

Di solito quando mi presento dico nome e cognome, oppure dichiaro la mia origine alba-nese, ma ora voglio iniziare raccontando di essere in carcere per aver ucciso due persone.Mi vergogno tanto a dirlo, ma ormai il mio reato è questo e fa parte di me, come ne fannoparte il nome e la mia origine. Ho detto subito il mio reato perché voglio raccontare le emozioni che ha provocato in meil convegno “Sto imparando a non odiare”. Era la prima volta in vita mia che partecipavoa un convegno, sia in carcere sia nella vita libera, e in quelle poche ore mi sono ritrovatoin un mondo diverso dal mio. Mi sentivo strano a stare in mezzo a così tanta gente, e no-nostante stia in carcere da quattordici anni mi sembrava di essere in un posto estraneo. Quando è iniziato il convegno mi sono seduto con altri carcerati e ascoltavo in silenzio leparole di tutti quelli che hanno parlato e raccontato le loro storie. Devo dire che ogni pa-rola detta si incastrava subito dentro di me e sono rimasto continuamente con gli occhiincollati sulle persone che parlavano. A volte però c’erano affermazioni che mi colpivano maggiormente. Ad esempio quandoho sentito che il padre di Andrea Casalegno è stato ucciso dai terroristi praticamente per-ché era un giornalista intelligente e sensibile, sono rimasto particolarmente confuso. Misono chiesto come sia possibile una COSA ASSURDA come uccidere un essere umano per-ché intelligente, e in un certo senso mi sono sentito quasi “giustificato” in quello che hofatto, perché io ho ucciso per vendicarmi perché mi avevano ucciso un famigliare. Peròascoltando Casalegno mi sono reso conto che il punto non è mai la motivazione dell’omi-cidio, che non c’è comunque mai nessuna buona ragione per uccidere, perché il male chesi produce è enorme e non si cancella nemmeno dopo anni e anni. Anche Silvia Giralucci ha detto qualcosa che mi ha toccato. Per lei gli assassini devonocamminare a testa bassa per tutta la vita. Per la mia mentalità da albanese penso che leiabbia ragione, perché non è giusto che una vittima innocente veda le persone che lehanno ucciso un famigliare comportarsi con strafottenza, sentendosi del tutto libere.Io mi rendo conto che chi ha ucciso, come me, anche se ha scontato la sua pena, deve ri-cordare ogni mattina il male che ha fatto, deve pensare che lui è vivo, ma altri non ci sonopiù, e deve avere rispetto per i famigliari delle vittime, comportandosi con umiltà e conla consapevolezza che sono innocenti e soffrono ancora oggi, e che nessuno gli può re-stituire i loro cari.

Quello schiaffo di mio padre mi ha fatto capire quanto stava maleDopo il convegno ho sentito alcuni detenuti dire che anche i nostri famigliari sono dellevittime, visto che i nostri figli crescono senza i padri o senza le madri, che stanno scon-tando la loro pena. Io penso che il discorso dei nostri famigliari cambia rispetto ai fami-gliari delle persone che abbiamo ucciso. Anch’io considero vittime i miei famigliari, mia

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figlia sta crescendo senza di me e altri miei cari senza colpe stanno soffrendo forse peggiodi me, ma loro sanno che se sono qui è per colpa mia e hanno scelto di continuare a vo-lermi bene. Invece i famigliari delle vittime soffrono per colpa di altri, e non hanno sceltoloro di separarsi dal proprio caro. Per questo dico che i nostri famigliari sono sì delle vit-time, ma perché noi abbiamo scelto di punirli quando abbiamo “deciso” con il nostrocomportamento di venire in galera. Nel convegno ha parlato anche il padre di un nostro compagno detenuto, e mentre par-lava mi sono ricordato di mio padre e gli occhi mi si sono riempiti di lacrime. Sono tornatoindietro al 1980, quando per la prima volta sono entrato in carcere per una rapina. Ero ilprimo della mia famiglia che entrava in carcere e tutti, famigliari e parenti, stavano male,si vergognavano di fronte ai vicini di casa, di fronte a tutti. Ma io ero stupido e a questecose non pensavo minimamente. Poi, nel 1982 in Albania hanno dato un indulto genera-lizzato e io sono uscito dal carcere. All’uscita mi aspettavano tutti i miei famigliari ed ioero contento di essere di nuovo libero, così sono corso per abbracciarli, ma mio padre hafatto un passo in avanti e invece di abbracciarmi mi ha dato uno schiaffo. Non mi avevamai picchiato prima e quello schiaffo era molto significativo, perché mi ha fatto capirequanto stava male. Alla fine mi ha abbracciato anche lui dicendomi “Non ripeterlo mai più,perché la vita non è questa e non sei da solo in questo mondo”. Mio padre ci ha lasciati nel 1986 e sono sicuro che se fosse stato vivo oggi, e se veniva alconvegno, avrebbe detto le stesse parole di quel padre di un detenuto che parlava quasipiangendo. Il coraggio che hanno dimostrato le persone che sono venute a parlare, a por-tare le loro testimonianze rimarrà per sempre dentro di me, e credo davvero che non lodimenticherò mai, quindi posso solo dire grazie a tutti.

Lettera di un figlio a un padre detenutoTu non mi conosci, non sai niente dei miei modi di fare, delle mie passioni e dei miei pensieri

Quella che pubblichiamo è la lettera di un figlio stanco e deluso a un padre che ha passato metà della sua vita in carcere: una lettera severa, che pubblichiamo perché dare voce anche ai figli, alle mogli, ai parenti, è utile, è importante, spinge a una riflessione profonda e impietosa e a una più forte assunzione di responsabilità delle persone detenute nei confronti dei propri famigliari. La lettera è preceduta da una breve introduzione delpadre, che spiega dove e come è esploso tutto il disagio del figlio.

Tempo fa ero ricoverato in ospedale perché stavo facendo uno sciopero della fame. Miofiglio, che mi è stato sempre particolarmente vicino, era venuto in ospedale (per l’enne-sima volta) per convincermi a interrompere il mio rifiuto del cibo che, per motivi giusti osbagliati, aveva superato i 40 giorni. Era preoccupato. L’ora di visita era finita, e lui, al mo-mento dei saluti, non riuscì a trattenersi. Aveva lottato contro se stesso per non lasciarsiandare, ma, per la prima volta, l’ho visto piangere. Ero confuso, disorientato da quella rea-zione, e reagii a mia volta in modo stupidamente duro: "Ma smettila di piangere!", gli

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dissi, "Non è così che puoi chiedermi di tornare alla ragione. E poi, cosa ne sai tu, suidiritti dei carcerati?".Lui si ricompose, mi salutò e andò via. Per mesi non mi ha fatto avere più sue notizie, fin-ché non gli ho spedito una lettera con una sola domanda: "Perché?".La risposta arrivò dopo circa tre settimane. Ampia e, considerato il tempo di attesa, sicu-ramente sofferta. Eccola.

Eugenio Romano

Un figlio ha bisogno di attenzioni costanti

So per certo che più che sapere il "perché" non mi sono più fatto sentire, vorresti saperecosa pensa tuo figlio di te. Vuoi essere giudicato da tuo figlio. Non è bello, e non è facileper me trovarmi in questa situazione, ma purtroppo…Non credo che potresti capire il disagio che ho provato in tutti questi anni, dal canto mio,non ho mai manifestato obiezioni sul tuo modo di gestire le varie opportunità che la vitati ha offerto.I figli crescono, e col passare del tempo cominciano a farsi spazio nella mente tanti pen-sieri e tanti dubbi. Ho avuto la fortuna di avere accanto quella grande donna che è miamadre, mi ha fatto da guida fino ad ora, e lo farà sempre. Mi ha cresciuto lei, si è spessoannientata per farlo e nonostante la sua poca cultura, è stata in grado di tirarmi su consani princìpi.Anche tu hai fatto la tua parte, predicando bene e razzolando male. Un figlio ha bisognodi attenzioni costanti, e non basta una lettera o un regalo per soddisfare un bisogno cosìfondamentale.Sono cresciuto sapendo che potevo contare sulla tua presenza a sprazzi, senza quella cer-tezza (basilare) che è il padre come modello. Molte, troppe volte sei mancato, e nono-stante tutto ti sono sempre stato accanto, ti ho sempre difeso, ti ho sempre innalzato aidolo… Ma quando sono venuto a trovarti quell’ultima volta in ospedale, ho capito chenon sei quell’uomo forte che credevo.Ho perso la fiducia in te, e non c’è parola o cosa che tu possa fare per far tornare in mequesto pilastro portante. Ripenso al momento in cui piangendo ti chiedevo di tornarealla ragione, e rivedo quella faccia… quell’espressione infastidita e orgogliosa impressa sultuo volto mentre, con un tono di disprezzo, mi dicevi: "Ma smettila".Ho smesso. Ho smesso di star male per te. Ho smesso di preoccuparmi di te. Ho smessodi pensare a te come ad un padre.Tu non mi conosci, non sai niente dei miei modi di fare, delle mie passioni e dei miei pen-sieri. Non mi sei stato sufficientemente accanto per dire che mi conosci, eppure credi dipoter gestire i miei sentimenti nei tuoi riguardi come meglio ti aggrada.I figli sono pezzi di cuore, si dice, e non appigli. Quante volte avremmo potuto stare as-sieme? Quante volte avremmo potuto giocare? Quante volte avremmo potuto chiacchie-rare del più e del meno? Quanti compleanni, o eventi simili, abbiamo perso? Troppi, esono troppe le lacune. E tornare indietro non si può. Sappi che la bocciatura a scuola dimia sorella, io l’attribuisco interamente a te, e nulla mi farà cambiare idea.

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Hai passato una buona parte della tua giovinezza nelle carceri e sei cresciuto, col passaredegli anni, con una mentalità troppo egoista. Tutto ti è dovuto.Pensi forse che me ne sia fregato qualcosa delle belle macchine? Pensi che se tu fossistato un semplice "facchino", mi sarebbe importato qualcosa agli occhi della gente? Crediche fare insieme il tragitto da una parte all’altra dell’Italia, per poi essere lasciato lì, dainonni o tra sconosciuti, equivale a dire fare un viaggio assieme?No papà, ti sbagli se credi che tutto ciò possa essere sufficiente. Quando avevo bisognodi te non c’eri. Ora sono grande, o, per lo meno, mi so arrangiare.Comportati da padre almeno con mia sorella, che è piccola ed ha ancora bisogno di te.Non farla soffrire, come hai fatto fino ad ora, e stalle vicino. Zia A. è una santa donna,abbi il massimo rispetto per lei che cresce tua figlia da sola.Non ho altro da dirti adesso. Forse un domani sarò io a cercarti, ma fino ad allora, per fa-vore, lasciami vivere in tranquillità. Sono un uomo oramai, e non più un ragazzino. Soquello che faccio. Riguardati.

E.P.S.: Non odiarmi per questa lettera, ma apprezza la mia onestà.

La difficile risposta del padre al figlio

Sto male. Il suo rancore, emerso dopo un’incomprensione, è diventato un incubo che miperseguita. Oggi, il nostro straordinario rapporto, un misto d’amicizia sincera e amore fi-liale, si è dissolto nel nulla. Il suo sfogo è stato duro e crudo come una vera e propria "re-quisitoria" che accetto senza riserve, e che rispetto, perché mio figlio è cresciuto con ildoppio handicap di essere figlio di genitori divorziati, e di un padre pregiudicato: una mi-scela che avrebbe potuto "giustificare" qualsiasi forma di disagio o di devianza.Soffro, però, perché lui è convinto che, a mia volta, possa nutrire rancore: non sa, invece,che l’ammiro ancora di più per la sua onestà e sincerità. E sono felice perché, in fondo, èquesto che ho sempre sperato: che crescesse mentalmente lontano dal mio modo di es-sere, che compensasse i miei errori di sempre, che fosse lui, il mio alter-ego…A novembre ho finito la mia pena: due giorni dopo la mia scarcerazione, lui ha compiuto24 anni. Intanto, continuo a chiedermi se dovrò cercarlo subito, oppure se rispettare il suodesiderio di "tranquillità". Non so cosa sia giusto fare. E ho paura di una nuova decisionesbagliata.

Eugenio Romano

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Volevo capire cosa era passato nella testa a mia figlia finché io ero in carcereE intanto mia figlia ha intuito che forse un poco di quello che avrei dovuto dare a lei, lo sto dando ad altri ragazzi,e questo ha fatto sì che lei si sia riavvicinata a me, e ora mi veda con occhi diversi

di Paola Marchetti

Io vorrei iniziare leggendo dei pezzi di una lettera che una ragazza di terza media mi hamandato, una ragazzina di 14 anni che ha l’età di mia figlia, o meglio che mia figlia avevaquando mi hanno arrestata.

“Siamo tutti abituati a sentire parlare di ragazzi o uomini, italiani o stranieri che finisconoin carcere, ma molto raramente di donne. Sentire la testimonianza di una che è finita incarcere per spaccio, forse non è cosi avvincente come sentire la storia di un pazzo omicida,ma forse è la cosa migliore che carcerati o ex carcerati come voi possano fare nei nostriconfronti, perché a questa età ben pochi di noi uccidono, ma molti di noi si mettono sullacattiva strada del fumo e della droga. Se fossi stata in carcere non sarei stata in grado di mettermi a nudo come avete fatto voi,l’ultima cosa che avrei fatto, sarebbe stata quella di parlare della mia esperienza, e unavolta uscita da lì avrei cercato solo di dimenticare.Penso che se tutto ciò fosse successo a mia madre, io l’avrei proprio presa molto peggiodi come l’ha presa tua figlia, perché io con mia madre non ho proprio un bel rapporto.Ma anch’io se mi fossi trovata nella situazione in cui ti sei ristrovata tu, forse avrei fattocome te, considerando che io mi arrendo facilmente, e sarei caduta nella trappola primadi te”.

Ecco io vorrei partire da questa lettera, per fare due considerazioni, che riguardano pro-prio il rapporto con i figli. È chiaro che un figlio che ha una madre che finisce in carcere,non perdona facilmente, e cosi è stato per me nel mio rapporto con mia figlia. Questo pro-getto, questa esperienza con le scuole, mi ha dato modo di capire cosa poteva passarenella testa a mia figlia finché io ero in carcere, cioè il confronto con i ragazzi dell’età cheaveva Giulia quando io sono stata dentro, mi fa comprendere, mi fa anche un po’ riviveredelle cose che non ho potuto vivere nei miei rapporti con lei, oltre ad essere una espe-rienza di crescita continua, e di esame di coscienza, e di presa di coscienza. Però questacosa alla fine ha avuto un risvolto positivo anche nel mio rapporto con Giulia, e infatti aseguito di questa esperienza e a seguito di alcune cose che mia figlia ha letto, di conside-razioni mie su questo progetto, ci siamo riavvicinate. Perché il rapporto con i figli, pur-troppo, per uno che è in carcere è la cosa più lacerante, cioè la mancanza del rapporto coni figli. Ma mia figlia ha capito che forse sto dando un pochino di quello, che avrei dovutodare a lei, ad altri ragazzi, e questo ha fatto sì che lei si sia riavvicinata a me, e ora mi vedacon occhi diversi.

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Non avevo più una madre, mia madre era in carcereQuando l’hanno arrestata avevo 15 anni. Me l’ha scritto lei per lettera, ma io non mi rendevo conto di quel che era successo, ed ero molto arrabbiata

Un buon esercizio da fare sempre, per essere meno intransigenti rispetto a chi commettereati, sarebbe quello di provare a pensare ogni tanto alle pene e al carcere, visti dallaparte dei famigliari dei detenuti, di quelle persone che quasi sempre sono a loro voltavittime. E pensare anche che potrebbe succedere a ognuno di noi di essere padre, madre,figlio di una persona che ha commesso un reato. Quella che segue è una intervista alla fi-glia di Paola, una donna che ha avuto una lunga esperienza di carcere, e che ora spessomette al servizio degli altri la sua esperienza negativa, parlandone agli studenti nellescuole, in un percorso dedicato alla legalità e alla devianza. È una intervista coraggiosa,che fa capire in modo straordinariamente chiaro quanto è difficile avere un genitore in car-cere, e quanto è importante che la società riesca a superare la rabbia istintiva verso chicommette reati, e ritrovi la capacità di punire in modo umano e, sì, anche mite.

Come hai saputo dell’arresto di tua madre?Quando hanno arrestato mia madre avevo 15 anni. Me l’ha scritto lei per lettera, è acca-duto tutto in Germania, ma io non mi rendevo conto, non capivo. Comunque poi mia zia,la sorella di mia madre che dopo la sua separazione era venuta a vivere con i nonni, haspiegato sia a me che ai nonni cosa era successo. Non ho reagito bene comunque. Eral’unico genitore che avevo. Ero molto arrabbiata.

Prima che rapporto avevi?Era come una zia, non era la classica mamma. Come lei sa benissimo, sono i nonni i mieigenitori. Era abbastanza presente ma non come dovrebbe essere una mamma secondouna figlia, secondo me, secondo i “canoni standard”. Non era presente quanto ne avreiavuto bisogno. Ho compensato con la nonna e la zia.

Quando sei andata a trovarla per la prima volta?Circa un anno dopo, quando avevo già 16 anni.

I tuoi nonni e tua zia come avevano reagito?Mia zia è stata la prima a saperlo. È stata brava perché all’inizio, finché non ha capitobene cosa era successo e come potersi muovere, non ci ha detto nulla. Non ricordo lascusa che aveva trovato per giustificare la “sparizione” di mia mamma, ma ha aspettatoun po’ a dirlo. I nonni sono i genitori e ci sono rimasti molto male, ma sono stati comunque abbastanzaforti, specie la nonna. È stata lei che per prima ha detto che dovevamo stare vicino allaloro figlia, comunque e in ogni caso, quindi hanno fatto secondo me la cosa giusta. Il nonno è andato su con la zia la prima volta e lui era quello che ne era rimasto più scon-volto perché la mamma era la figlia su cui aveva riversato le maggiori aspettative. Da gio-vane era brava a scuola, era sportiva, e per lui che è un uomo molto orgoglioso è stata unagrande batosta. Ormai ora è tutto passato, ma al momento eravamo tutti piuttosto scioc-cati.

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Io non volevo proprio più vederla mia mamma.

Secondo te perché tua madre si è trovata in quella situazione?Crisi. Dopo che è morto mio padre è andata in crisi. C’è stato un errore dopo l’altro finchénon ha toccato il fondo. Fortunatamente adesso si è ripresa, ha in mano la sua vita. Emeno male sennò… Se dovesse commettere un altro errore per me sarebbe veramentemorta. È stata una situazione molto pesante. Però vedo che si è ripresa bene e l’impor-tante è che stia bene lei adesso.

Ne hai mai parlato con i tuoi amici?Alcuni lo sanno, quelli più stretti. Non son cose da dire a tutti. La mia migliore amica losa. L’ho messa al corrente dopo molti anni da quando è successo. Un mio carissimo amicod’infanzia con cui sono cresciuta, l’ha saputo quasi subito dal giornale e mi è stato moltovicino “senza dire niente”, senza parlarne. Io sapevo che sapeva e che mi stava più vicinoper questo. Ma non avevo voglia di parlarne e lui ha sempre rispettato questa mia volontà.

E quando hai dovuto spiegarlo alla tua amica, come l’hai spiegato?Mia mamma è in prigione per questo e questo motivo. Semplicemente. Lei conosce me,sa come sono, conosce la situazione, la mia famiglia e quindi a un certo punto, quandol’amicizia si era consolidata, non vedevo dove stava il problema nel dirglielo. Infatti dopomi è stata ancora più vicina. Le persone che mi conoscono bene non mi giudicano nega-tivamente per questo.

Come è stata la prima volta entrare in carcere per andare a trovare tua mamma? È successo in Germania e non è stato così traumatico. Sapevo dov’era e poi la sala deicolloqui non era cupa, era piena di vita, insomma non era così male. Invece quella di Ve-nezia… però, la prima volta che sono andata, poiché non ero ancora maggiorenne, hofatto il colloquio in giardino, e non sembrava di stare in un carcere. Invece all’interno,dove si svolgevano i colloqui “normali”, non era molto, diciamo, accogliente. E comunquenon era il problema di andare a trovarla, non era il problema della sala colloqui. Il pro-blema era il fatto che LEI ERA IN CARCERE. Era più pesante sapere che lei era detenuta.

Tu hai detto che all’inizio non volevi più saperne…In effetti sono stati i nonni e la zia che pian piano mi hanno fatto capire che lei era comun-que mia mamma e che dovevo andare a farle visita. Finché era in Germania non le hoscritto praticamente mai. Le uniche lettere che le ho spedito erano cattivissime. Lamamma sa come sono. Infatti se ne rendeva conto e ha mantenuto un po’ le distanze.Quando è tornata in Italia è stato un po’ problematico per me. Finché era in Germaniac’era la distanza, ma qui… andavo a trovarla una volta al mese… non so ma per me era pe-sante andarla a trovare. Ce l’avevo con lei comunque. E ce l’avevo perché mi aveva prati-camente abbandonata.

E sono stati i nonni a mediare in questa situazione?Più che altro la nonna. Il nonno non è uno che parla tanto, e poi in quel periodo sono ini-ziati anche dei grossi problemi di salute. Ha avuto un infarto da cui lo hanno salvato permiracolo e dopo due anni una polmonite fulminante che l’ha tenuto tre mesi e mezzo inospedale. La nonna mi ha convinto ad andare a trovare la mamma almeno una volta almese. Per lei mia madre è comunque sua figlia, nonostante gli errori. Adesso pian pianosto ricostruendo. Del resto non si può pretendere che dopo tutti questi anni le cose si ri-

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costruiscano automaticamente.

Durante i colloqui raccontavi cosa succedeva a te o volevi sapere da lei?Si parlava anche di cosa succedeva a me, a scuola, con gli scout, con gli amici, ma si è par-lato molto di mio padre. Mi ha spiegato la sua storia, perché certe cose a una bambinanon si possono dire e lei ha voluto aspettare che io fossi abbastanza grande, 17 anni emezzo, per potermela raccontare. Parlavamo tanto di quello anche perché io volevo sa-perne di più. Naturalmente mia mamma mi chiedeva, ma lo fa anche adesso, dei “fidan-zati”. Ma io non le dico niente neanche ora! È sempre mia madre e alle mamme certecose non si raccontano. Ci sono le amiche per quello.

Ti vergognavi di quello che lei aveva fatto?All’inizio sì, ma adesso, conoscendola meglio, sono anche orgogliosa di come ne è uscita. Le cose sono passate e lei ha reagito bene e ne è uscita bene, e questo è l’importante. Sono molto fiduciosa sul fatto che non farà più “cazzate”.

Ti ricordi i primi permessi che ha fatto a casa?Mi ricordo che mi sono a volte arrabbiata perché stava con i suoi amici invece di starecon me. Anche se stava in casa per quasi tutto il tempo, visto che era agli arresti domiciliarie aveva solo qualche ora di libertà.

Ma tu eri felice di vederla fuori?No. Non volevo che venisse a casa. A quel tempo ero ancora troppo arrabbiata con lei. Cambiavo umore, ero molto più nervosa. A casa ci vogliamo tutti bene, ma tra miamamma e mia nonna si percepiva la tensione che c’era. Mia mamma non è una che stazitta, neppure se l’ammazzi. Poi era un po’ strano vedersela a casa dopo tutti quegli anni.Anche lì pian piano le cose si sono sistemate.

E i nonni?Non lo so. Certo non si facevano preparativi particolari perché mamma veniva a casa, eradiventato normalità anche quello. Volevamo che fosse tutto più “normale” possibile. Do-vevamo accettarla. Però non so quello che passavano loro.

Prima dicevi che stavi male pensando a tua mamma in carcere…Veramente rimuovevo. Quando era in Germania l’ho rimossa proprio, mia mamma. So cheè brutto da dire, ma è così. La nonna cercava di mediare, di conciliare, ma io non ne volevosapere. Mia nonna però mi capiva, anche se io in quel periodo non parlavo molto e mi te-nevo tutto dentro. Lei invece era quella che stava peggio, che pensava alla figlia e a tuttequelle cose per cui una madre si preoccupa. Non ci dormiva la notte. Ma non si lamentava.

Poi è arrivato l’affidamentoSì, è venuta a vivere con noi e il clima in casa non era dei migliori, la tensione potevi ta-gliarla con il coltello. La mamma la sentivo di troppo a casa, del resto lo dice anche lei chele cose vanno meglio da quando è andata a vivere da sola. Credo sia anche una questione di carattere: mia madre è una persona molto indipen-dente. Lei è una abituata a farsi i c. suoi, come vuole lei. Giustamente direi, anche perchésono anch’io così. La differenza è che io devo vivere là e che sono un po’ più “lenta”, unpo’ più calma di lei.

Secondo te ha avuto un senso il percorso che tua mamma ha fatto, con prima i permessi,

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poi la semilibertà e poi l’affidamento?Certo, ed è servito anche il carcere, anche se, secondo me, la pena che le hanno datonon era equa, era esagerata. Il carcere l’ha “bloccata”, altrimenti non so quanto sarebbeprecipitata.Poi, le misure alternative sono servite per riabituarsi alla vita normale, ma devo anche direche è stata molto brava a reagire.

Oggi che rapporto hai con lei?Oggi ne sto costruendo uno, più che avere un rapporto. Sai, si era rotto. Già prima che fi-nisse in carcere era abbastanza debole. L’ho vista due volte in due anni e mezzo che lei èstata in Germania. Poi in carcere non è semplice. Andandola a trovare una volta al mesenon era possibile instaurarci un rapporto. Da quando è uscita, anzi, da quando è andataa vivere da sola è stato un po’ più semplice. Prima sentendoci al telefono, poi vedendocipiù spesso al di fuori della famiglia. Io ero ancora un po’ arrabbiata, non è che cose cosìvadano via in un lampo. Però poi ho visto che parlandoci, non dico “a cuore aperto” maalmeno sinceramente, le cose cominciavano a cambiare. All’inizio era lei che mi cercavae la cosa a volte mi infastidiva: spesso non le rispondevo al telefono. Era un po’ invadente,ma l’ha capito subito e ha aspettato che fossi io a cercarla. Ha aspettato i miei tempi. Delresto me l’ha anche detto. Insomma è una donna intelligente e certe cose le capisce.

Conosci l’attività che fa tua mamma adesso con le scuole. Cosa ne pensi?Per me è un’ottima cosa. Questo l’aiuta a vedere anche il punto di vista dei ragazzi. Unconto è il mio, un altro quello che pensano anche le altre persone. Un po’ mi racconta ledomande che le fanno. Così ha il modo di affrontare le cose. Si mette in discussione.

Secondo te è utile anche per i ragazzi?Sì, assolutamente. Un conto è vedere la persona che va in carcere e poi ci ricade, un contoè vedere le persone che ce la fanno, come mia madre, che reagiscono bene, che sonoforti. E serve anche come esempio per non commettere certi errori, per pensarci.

Avresti partecipato al progetto se te l’avessero proposto, senza naturalmente la testi-monianza di tua madre?Adesso anche con la sua testimonianza. Prima no. Infatti lei è venuta nella mia scuola manon mi ha neppure chiesto di partecipare. Prima però mi aveva chiesto se ero contrariaalla sua testimonianza, visto che ero ancora in quinta e che quindi avrebbe potuto met-termi in imbarazzo. Nessuno sapeva che aveva una figlia in quella scuola, e a lei non èsembrato il caso di dirlo. Io comunque non avevo parlato della carcerazione di mia madreai miei compagni visto che le malelingue sono ovunque, anche se ho scoperto quest’anno,dopo due anni che non sono più in quella scuola, che sono venuti a saperlo tutti daun’amica a cui lo avevo confidato e con cui avevo litigato.

Ma tua mamma la vedi ancora come una zia?Mia nonna e mia nonno li vedo come mamma e papà. La mamma è sempre mia mammaperché questo è il nome con cui la chiamo, ma… non so come dire, lei e mia zia sono allostesso livello come tipo di rapporto. Quand’è che ti rivolgi a lei? In quali occasioni?Se ho voglio di sentirla la chiamo, anche abbastanza spesso. Magari in questo periodo, tral’università e il lavoro sono molto occupata, e quindi ci sentiamo un po’ meno.

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Quest’estate mi ha lasciato le chiavi di casa sua dove qualche sera ho dormito, dove hoorganizzato qualche cena con le amiche. Anche quello è un modo per entrare in contattocon lei. Mi faceva piacere Il fatto che fosse casa sua e che io potessi andarci liberamente.

Se tu avessi avuto un rapporto più stretto prima, la possibilità di vederti con tua madrein carcere solo per le poche ore dei colloqui ti avrebbe creato più problemi?Credo proprio di sì, che sarebbe stato molto più difficile. Non essendo troppo presenteprima, la mancanza è stata meno pesante. Il colpo è stato duro, ma se avessi vissuto inmodo “normale” con lei certamente sarebbe stato molto più complicato venirne fuori.

Certamente il carcere non aiuta a mantenere certi rapporti...Dipende dal rapporto che c’è. Già un po’ prima che finisse in carcere ce l’avevo con lei, per-ché non viveva con me, e questa cosa ha fatto scoppiare il mio rancore verso di lei e quindiil rapporto si è azzerato. Adesso si può ricostruire ripartendo da zero. Era lei che era in crisi. Questo l’ho capito parlandole e leggendo qualcosa che ha scritto.Era in crisi da quando era morto mio padre. Era innamoratissima di mio padre. Ha fattoun errore dopo l’altro, ma importante è non commetterli di nuovo. Sono convinta chemia mamma non farà altre stupidaggini anche perché in caso contrario… Insomma sono fiduciosa.

Vittime diverse, ma sempre vittimeQuello che subisce la famiglia di un detenutoÈ una pena morale forse più pesante della pena detentiva, e poi c’è la solitudine, e l’isolamento, gli sguardi curiosi della gente

di N. A.padre di un detenuto

Io sono il papà di un ragazzo che è detenuto, volevo solo dire che oltre alle vere vittimedi un reato, ci sono anche altre vittime innocenti e incolpevoli, che sono i genitori, i fami-gliari, i parenti, che si sentono sotto accusa pur non avendo commesso nessun reato, purnon avendo fatto alcunché di male.La mia è una famiglia di sei persone, quattro figli maschi, il più piccolo purtroppo ha de-viato e ha commesso questo reato che l’ha portato qui, la mia era una famiglia che vivein un paese piccolo, un paesino abbastanza piccolo dove tutti ci si conosce, era una fami-glia molto stimata in paese, una famiglia che aveva la fiducia di tutti, però da quando èsuccesso questo fatto, tutto è cambiato.Non c’era più quella considerazione, quella fiducia che c’era prima. Io ho lavorato tanto,ho sacrificato, ho fatto tante rinunce, però purtroppo poi mi sono trovato ad essere inqualche modo additato un po’ da tutti in paese, appunto per questa situazione che si eracreata, perché, come dire, vai a letto alla sera che sei una persona normale, ti ritrovi allamattina che non sei più la stessa persona. Io quando hanno arrestato mio figlio poi sono stato chiuso in casa per due o tre mesi, ese uscivo, uscivo di nascosto, perché sapevo, perché sentivo, sentivo questa diffidenza,

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questa critica nei miei confronti, nei confronti di mia moglie. Fra l’altro ci sono state anchein famiglia accuse reciproche con mia moglie, il mio matrimonio dopo trent’anni circa harischiato di saltare, appunto perché ci si accusava, ci si incolpava a vicenda di questa storia. Quando succedono queste cose in una famiglia, servirebbe almeno un po’ di compren-sione, l’avvicinarsi a questa famiglia, l’avvicinarsi a queste persone, una parola di conforto.Io devo dire invece che anche la chiesa è stata molto assente: da cattolico praticante, conmolto rammarico devo dire che non ho neanche ricevuto la visita del mio parroco, chepure mi conosceva molto bene. Queste sono cose che ti deprimono anche più della pena, perché il carcerato subisce unapena detentiva, ma la famiglia subisce una pena morale forse più pesante della pena de-tentiva, perché non avendo commesso nessun reato, si trova a dover subire una situa-zione nella quale non vede una via d’uscita. Io vorrei solo che ci fosse un po’ più dicomprensione per i famigliari che non hanno nessuna colpa.

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Testimonianze di detenuti

Vedersi di fronte la sofferenza di una donna che piange ricordando il marito, uccisodai terroristi, o una figlia a cui hanno ucciso il padre ha costretto molti detenuti apensare alla loro responsabilità più di tanti anni di carcere. Perché entrare in car-cere spesso significa finire dentro a un ingranaggio mostruoso, dove l’unico pro-blema è la sopravvivenza, e tutto il resto passa in secondo piano, e in questa lottaper non soccombere, per non lasciarsi stritolare dalla galera, per non perdere lapropria dignità, la responsabilità rispetto alle vittime sbiadisce. Per dare un significato alla pena, forse allora bisogna rendere il carcere così apertoe così umano, che le persone non possano in alcun modo sentirsi loro stesse vit-time, e debbano finalmente misurarsi con le conseguenze delle proprie scelte,con le sofferenze provocate, con la devastazione che si lasciano dietro certi reati.E con il fatto che avere pagato il proprio debito con la Giustizia significa sì averscontato una pena, a volte anche pesantissima, ma non può far dimenticare che,quando si guarda in faccia chi il reato l’ha subito sulla sua pelle, si deve capire ericordare sempre che il dolore arrecato alle vittime non ha una data di scadenza.Le testimonianze di detenuti nascono quasi tutte a commento di una grande Gior-nata di studi dal titolo “Sto imparando a non odiare”, che si è svolta nella Casa direclusione di Padova, il 23 maggio 2008 e che, forse per la prima volta, ha messodi fronte in un carcere autori di reato e vittime.

Capitolo IV

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Confrontarsi con la sofferenza altrui, farla propria, è un altro modo per espiareSoprattutto se ad accettare questo confronto sono persone che hanno sofferto per mano di altri e che usano la sofferenza per aprire la loro mente, per vedere a fondo dentro se stesse

di Paola Marchetti

Al carcere Due Palazzi è la prima volta che entro, per un convegno in cui so che parlerannoalcune vittime di reati. Da dove parto allora? Dall’agitazione della notte precedente, in cuile poche ore che ho dormito ho sognato di entrare in un carcere per un convegno (la rea-ltà) e di esservi trattenuta per motivi non chiari (le paure)? O dall’emozione di metterepiede dentro un luogo che tristemente conoscevo? D’accordo, non era lo stesso carcerenel quale sono stata detenuta. Al Due Palazzi non ero mai entrata. Ma la sensazione chei cancelli, i “blindi”, i controlli, il lasciare tutto in portineria, mi risvegliavano, era assolu-tamente devastante.Ci tenevo ad esserci. Avevo fatto la mia richiesta al Magistrato, che mi aveva concesso lapossibilità di ascoltare persone che avevano subito, senza alcuna scelta personale, unasofferenza grande come quella di essere vittime indirette di un’azione che gente come meaveva compiuto. Ci tenevo perché confrontarsi con la sofferenza altrui, farla tua, è un altro modo perespiare. Poi c’è chi se ne rende conto e chi no. È questione di sensibilità, di coscienza.Come dà grande gioia fare qualcosa di positivo per il prossimo, così dovrebbe dare altret-tanto grande sofferenza se al prossimo si fa del male. Purtroppo non è sempre così, anzi.Altrimenti gran parte degli esseri umani si consumerebbe di rimorsi. Davanti al cancello del carcere ho avuto una sensazione di “già visto”, e quando sono pas-sata davanti al tavolo dove raccoglievano i documenti, e poi alla postazione dove si lascia-vano in custodia le borse, mi sono un poco rinfrancata dal turbamento che l’essere lì miprovocava. Ma il percorrere quei lunghi corridoi, passando davanti a guardiole, con gli agenti che tiosservano, con i cancelli ogni venti metri, con il rumore delle chiavi che li aprono e li ri-chiudono – rumore che nessun ex detenuto riesce a dimenticare per il resto dei suoi giorni– mi ha fatto ripercorrere il corridoio che ha aperto la mia detenzione, assolutamente si-mile a quello del Due Palazzi, anche se in un Paese straniero. Già, perché le galere sonotutte simili!Questo rivivere momenti angosciosi e di sofferenza mi ha reso, quella mattina, più prontaa percepire la sofferenza altrui, quella sofferenza che è emersa dalle parole di ognunadelle persone che sono poi intervenute al convegno. Manlio Milani, presidente dell’associazione vittime di piazza della Loggia, ha raccontatogli accadimenti di quel giorno con il dolore di una persona che ha visto morire la sua com-pagna e che ancora oggi, dopo più di trent’anni, non sa chi sono i carnefici di quella strage.Dolore privo però di odio. Voglia di verità, per poter guardare negli occhi i colpevoli echiedere: “Perché”? La stessa domanda che mi sono posta per anni anch’io quando hoperso la persona che amavo, anche se persa senza che nessuno me l’abbia portata via.Ugualmente davanti a quell’immane dolore mi sono chiesta “perché”, per anni, finché iltempo non ha fatto il suo dovere e, anche se non ti fa mai dimenticare, ti lenisce il dolore.

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Figuriamoci se l’avessi persa per mano di qualcuno: come avrei reagito? Sarei stata capacedi “non odiare”?Ognuna delle persone intervenute ha espresso un modo diverso di vivere il proprio lutto,e anche un modo diverso di rapportarsi – ma anche di NON rapportarsi – con gli autoridei reati che hanno rubato loro gli affetti. Sono persone che hanno sofferto per mano dialtri e che usano la sofferenza per aprire la loro mente, per vedere a fondo dentro sestesse. Persone che quel giorno sono riuscite a coinvolgere, a tenere vivissima l’attenzione di unpubblico enorme, parlando sottovoce – dimostrazione che per “interessare” non serve ur-lare se gli argomenti sono importanti – con il coraggio e la forza di raccontare sofferenzeprivate. Sono uscita dal convegno sentendomi una persona più “ricca”.

Camminare a testa bassa non è perdere la dignitàÈ difficile qui dentro convincere le persone ad abbandonare la loro fiducia in una idea deformatadella dignità, anche perché questo significa educare a dei concetti che corrispondono ad un modello di vita fatto di umiltà e rispetto verso gli altri

di Elton Kalica

Le paure che mi avevano disturbato il sonno nelle notti prima del Convegno “Sto impa-rando a non odiare” profetizzavano un duro e ingestibile scontro tra le persone invitatea parlare delle loro storie di sofferenze e le persone detenute presenti per conoscere ilvolto delle vittime, ma ora posso affermare che quelle paure hanno perso la partita conla realtà, che ci ha restituito un incontro pacato fatto di reciproco rispetto. La sera stessa dell’evento finalmente ho fatto “un sonno tranquillo”, abbandonandomialla branda e provando un forte senso di gratitudine verso i miei compagni per il loro ri-spetto, e verso gli invitati che avevano deciso di rendere quella giornata un evento storico,l’inizio di qualcosa di molto più grande. La ritrovata serenità però non era destinata a ral-legrarmi a lungo con la sua compagnia, visto che la mattina successiva ho scoperto chealcuni compagni detenuti avevano stretto i denti con nervosismo al monito che una deifamigliari delle vittime aveva fatto, rivolgendo a chi le ha ucciso il padre un invito a cam-minare a testa bassa.La reazione ostentava come uno stendardo la difesa della propria dignità, considerata undiritto inviolabile, e qualcuno aveva l’aria quasi offesa. “Camminare a testa bassa significaperdere la dignità…”, diceva uno, “Io quando uscirò di qui terrò la testa alta perché la ga-lera me la sto facendo tutta!”, continuava un altro con la fermezza di chi vuole che glivenga riconosciuta una cosa che gli appartiene per natura.Avrei voluto analizzare le impressioni scolpite nella mia mente dalle parole dei relatori epoi scriverle, per offrire al lettore un altro puzzle da mettere nel quadro degli effetti pro-dotti in noi da questo particolare incontro, ma a questo punto non posso sottrarmi dal fareinvece una considerazione su queste inaspettate reazioni.

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Il punto cruciale sta ovviamente nella concezione che si ha della dignità in quella societàche io, per “deformazione professionale”, sono ormai abituato a dividere tra “regolari” e“banditi”.Partendo da questa divisione, penso che una persona regolare intenda per dignità la pre-tesa che uno ha nei confronti degli altri di essere rispettato per le cose buone che hafatto: rispetto dovuto come riconoscimento di una vita vissuta seguendo la legge e i valoricondivisi dalla società in cui si vive. Diversa è secondo me la concezione che si ha della dignità qui in carcere. Ci sono personeche credono di dover essere rispettate per il potere che hanno di fare del male – spessogià dimostrato attraverso le azioni che le hanno portate qui – quindi si tratta di un rispettodovuto come riconoscimento ad una vita dedicata ad accumulare denaro e potere, spessoinfrangendo la legge. Molti sono convinti che la vera dignità la si perde se non si è abbastanza forti, abbastanzafurbi o abbastanza ricchi, e qualsiasi persona regolare troverebbe difficoltà a convincereanche l’ultimo dei banditi che la dignità si ha quando si vive nel rispetto dei valori condivisie non credendo in altre “subculture”. Anch’io, ingenuamente, per un po’ di tempo sono stato affascinato da modelli di vita cheproponevano la forza, la fedeltà e il coraggio come valori fondamentali e assoluti nella vitadi una persona, e quando mi sono ritrovato a vivere clandestinamente per le strade di Mi-lano ho applicato gli stessi valori ad un’azione che non era più improntata a una utopicaciviltà di uomini forti, ma a una quotidiana avidità. Commettere un reato all’età di ven-t’anni, senza però avere la mentalità di un criminale, mi ha gettato nella bocca insaziabiledi quella macchina chiamata giustizia, che con i suoi spietati ingranaggi continua a tor-mentarmi anche dopo più di undici anni di carcere. Un’esperienza che mi accomuna a tanti immigrati dell’Est europeo, che come me hannosì commesso dei reati, ma che non avevano nulla di criminale nella testa quando sono par-titi da casa: l’immigrazione però ci ha corrotti nel comportamento con i valori degeneratidi una libertà mal compresa, e il carcere con i suoi schemi mentali si sta ora radicandonelle nostre teste, a tal punto che la vita sarà sempre più dura per noi, per le nostre fa-miglie e per i nostri Paesi, che dovranno pagare il prezzo più alto di questa immigrazionefinita male. Io ho avuto la fortuna di conoscere in carcere persone e libri che mi hanno riportato allaragione, ma in considerazione del periodo di follia in cui sono rimasto intrappolato perqualche anno, mi sento di affermare che una certa concezione della dignità che si ha quiin galera è difficile da sradicare, soprattutto in quelle persone che credono che per me-ritare il rispetto degli altri si deve essere nelle condizioni di fare paura, perché solo chi titeme ti rispetta.

Essere rispettati per la capacità di far del male è stato un gioco pericoloso La verità è però che oggi non solo chi è stato formato in un ambiente di malavita è statomodellato in un mondo di violenza e paura: no, oggi basta ascoltare i comizi di certi politiciche incitano alla violenza collettiva verso gli “indesiderati” per capire che minacciare, bru-ciare e linciare sono azioni che possono essere accettate e interiorizzate anche da partedi chi con la malavita non ha nulla da spartire. È quindi tanto più difficile qui dentro con-vincere le persone ad abbandonare la loro fiducia in una idea deformata della dignità,

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anche perché questo significa educare a dei concetti che corrispondono ad un modellodi vita fatto di umiltà e rispetto verso gli altri, e questo modello ultimamente viene pre-sentato dai media come una vita da “sfigato”. La lunga esperienza di galera che ho dietro le spalle mi fa credere che alla dignità vengaattribuito anche il significato di grande considerazione per se stessi, che non si discostatanto da quell’autostima che viene identificata come il motore del successo e che è moltosentita un po’ dappertutto nella società. E così come nel mondo degli affari, anche nellamalavita dichiarata che è il carcere, la grande considerazione verso se stessi è vista comeuna corazza che uno si crea per difendere l’unica proprietà che abbiamo, e cioè l’integritàfisica. Allora alla rivendicazione del camminare a testa alta corrisponde l’assunzione diatteggiamenti “dignitosi” per far capire agli altri che non gli è permesso di minacciare oviolare questa proprietà. Del resto, basta pensare che si trattava sempre di una questionedi proprietà, della “propria” donna in quel caso, quando solo pochi anni fa si consideravadignitoso saper salvaguardare la fedeltà coniugale, anche facendo pagare con la vita iltradimento. Se il giorno del Convegno qualcuno ha detto che si doveva camminare a testa bassa, equalcuno poi si è risentito dicendo che non intendeva abbassare la testa, è successo so-prattutto perché abbassare la testa significa anche non fare più paura, significa accettaredi vivere non dimenticando le proprie responsabilità, ma più di ogni altra cosa significa ri-nunciare al proprio orgoglio.E allora la conoscenza della sofferenza altrui, la riflessione sui propri comportamenti e ibuoni propositi di una vita condotta nella legalità vengono immancabilmente a scontrarsicon il nostro orgoglio, che è più grande dell’edificio che ci detiene, e in questo modo con-tinuiamo a rimanere incastrati nella ragnatela della violenza, dell’avidità e del disprezzoper il prossimo. Qualcuno vorrebbe convincermi che, in fin dei conti, questi sono i valoriche ci impone la società di oggi, ma non ci riuscirebbe perché io so bene quanto noi, de-tenuti ed ex detenuti, non saremo più la società. Quelli fuori, lavoratori, dirigenti, ragio-nieri, avvocati, banchieri e politici, se lo possono permettere, di partecipare alla corsaverso il successo, noi invece secondo me non possiamo più permettercelo perché quellacorsa l’abbiamo persa.Non si è perdenti a vita però se si ha l’intelligenza di capire di aver sbagliato tutto, se siarriva a pensare che forse gareggiare in simili gare è stato sbagliato, se si prende coscienzache essere rispettati per la capacità di fare del male è stato un gioco pericoloso per sé eper gli altri, visto che spesso qualcuno finisce per essere ammazzato e altri finiscono in car-cere condannando sempre qualcun altro a crescere senza genitori. Io credo che si è piùvincitori se si abbandona questa assurda gara, anche perché se si mettono da parte l’or-goglio e l’avidità ci sono molte più probabilità di essere rispettati. Camminare a testa bassa non mi fa paura, non è perdere la dignità, ma se mai significainiziare a conquistarsela piano piano, la dignità, senza dover far male a nessuno.

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L’essere vittima di un reato non ha scadenza, non si è mai una ex vittimaÈ quello che ho capito durante un convegno in cui ho avuto modo di vivere con più intensità che in tanti anni di carcere

di Maurizio Bertani

Impressionante partecipare ad un convegno come quello che si è tenuto il 23 maggio al-l’interno della Casa di reclusione di Padova, con la presenza di più di cento detenuti eoltre 600 ospiti, tra cui numerose vittime di reato. Il convegno è stato improntato sull’ascolto delle vittime, sul desiderio di capire le loro ne-cessità ed esigenze da soddisfare, proprio perché quello che ho capito è che l’essere vit-tima di un reato non ha scadenza, non ha tempo, non si è mai una ex vittima, si è vittimae basta, con il proprio dolore che quasi sempre non si può condividere né “frammentare”per sentirne meno il peso.Il sentire il dolore degli altri è un “sentire pesante” per noi: Silvia Giralucci dice nel suo in-tervento che quando un autore di reato ha finito la propria pena ha diritto al rientro nellasocietà, e che lei non è contraria a questo, però pensa a un rientro in punta di piedi, o me-glio con lo sguardo basso. Ma ancora prima che venissero pronunciate queste parole, perl’emotività del suo racconto, vissuto nella tragedia, e non per colpe personali, era già ri-volto al basso non solo il nostro sguardo, ma anche il capo.La tragedia subita da Manlio Milani, che perse la moglie nell’esplosione di una bomba inPiazza della Loggia a Brescia, lo fa vivere in uno stato di “sospensione”, lui non sa, ancoraoggi, chi sono i colpevoli e non conosce la storia, o meglio ne conosce metà, il cosa e ilcome è successo, ma i mille perché sono senza risposte. E se è vero che non ci si può ras-segnare, è vero anche che non vi è la possibilità di trovare pace dentro il proprio dolorese non si conosce l’altra metà della storia. Soffiantini parla del suo dramma e lo sposta nel sociale, lo sposta sul recupero delle per-sone che hanno commesso reati a volte drammatici: servono carceri migliori, programmidi recupero vero, e questo è anche un interesse per la società, perché più il carcere lavorasul recupero e meno saranno i drammi futuri. Il suo sequestratore era recidivo, e forse Sof-fiantini, che ha vissuto l’esperienza di un sequestro in prima persona e per un tempo cosìlungo, 237 giorni, può anche aver notato che il carcere fatto precedentemete dal suo se-questratore era stato inutile, come lo è spesso tutt’oggi, e lo sarà sempre, finché il carcererimarrà “chiuso nel carcere”.Le carceri “aperte” alla società sono ancora poche, a parte qualche isola che chiameremoper modo di dire felice, dove realmente si può provare a fare quel cammino che passodopo passo, porta a una presa di coscienza e a una assunzione di responsabilità non dicogiuridica, ma almeno morale.Andrea Casalegno, che ha avuto il padre ucciso dalle Brigate Rosse, dice di non provareodio e afferma che i problemi della giustizia e della gestione delle pene non lo toccanoperché non sono suoi, ma dell’intera società che si è data delle regole. La condanna di unreo spetta ai tribunali e ad un giudice che la emette, il tempo dell’esecuzione e le suemodalità spettano ad altri giudici, e Casalegno non ritiene di avere alcun diritto di inter-venire in questo. Ma cos’è che moltiplica il suo personale dolore nel sentirsi vittima? L’in-capacità di molti autori di reato di evitare quella visibilità, che offende il dolore delle

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vittime, quel dolore che non ha “scadenza”.Così per gli autori di reato, un ladro può diventare un ex ladro, un omicida non può dicen-tare un ex omicida e deve confrontarsi e tener conto di questo, sempre e soprattuttoverso coloro che vivono e rivivono ogni volta il loro dolore di vittime. Allora mi dico: nonè forse giusto criticare questo inutile e offensivo bisogno di visibilità che hanno tanti exterroristi?Olga D’Antona, che ha perso il marito, ucciso dalle nuove Brigate Rosse, ci parla della ne-cessita di ascoltare, di dialogare, di capire le ragioni degli altri, proprio perché gli uni e glialtri sono uomini, sono donne, sono umanità. Ma se non si riesce a dialogare e capire lesofferenze delle vittime, e capire le loro esigenze, non si potrà mai arrivare all’abbandonodell’odio. Lei che afferma di essere incapace di odiare, ci spiega però come la verità suifatti può in qualche modo attenuare l’odio, e ci dice che negli autori di reato, se non c’èuna forte presa di coscienza del male fatto, non ci potrà essere recupero, perché ognunosi barricherà sulle proprie ragioni, che per le vittime sono reali e sono rappresentate daldolore, per gli autori sono effimere, perché prive di una vera presa di coscienza per il do-lore provocato.

Sappiamo che per i nostri gesti ci sono altri che hanno più diritto di soffrireDiverso l’intervento del padre di un detenuto, che parla del suo sentirsi vittima del disa-stro che provoca il reato anche nella famiglia di chi lo compie, dell’umiliazione, del perdereil contatto con il tessuto sociale che ti circonda, dei giorni dei mesi e anni di vergogna, purnon avendo fatto nulla di male, di questa pena che una famiglia di un detenuto è costrettaa vivere. E qui ognuno di noi vede la sua famiglia, e la commozione è forte, ma in un certosenso dobbiamo far presto ad accantonarla, perché sappiamo che per i nostri gesti cisono altri che hanno più diritto di soffrire.Ecco, questo è stato per me il “sentire pesante” di tutte queste testimonianze, mi ha fattomale, sì molto, ma credo che abbia fatto anche più bene: capire, accettare, prendere co-scienza, sono cose che lasciano il segno, ho avuto modo di vivere con più intensità in que-sto giorno che in tanti anni di carcere. Non si è parlato certo di “non carcere”, non si èparlato di “non pena”, anzi si è detto che la pena ci deve essere, ed è giusto che ci sia, maciò di cui si è parlato è stato il rispetto, rispetto reciproco, sia per le vittime che per gli au-tori di reato, le vittime con tutte le loro esigenze, di conoscenza, di verità, di saperne dipiù, di essere trattati con delicatezza da parte degli altri, noi autori di reato con la vogliadi una presa di coscienza, di una assunzione di responsabilità morale ancor prima chegiuridica.Gli uni e gli altri chiedono al carcere che sia questo il suo compito, stimolare una presa dicoscienza, e che questo compito lo svolga mettendo in campo tutte le risorse possibili, isti-tuzionali e di volontariato, che il carcere non sia chiuso in se stesso, ma aperto alla società,e nella società, per restituirle chi al momento vive al suo interno, migliore di quando ci èentrato.Questo è quello che ho sentito, quello che ho vissuto, fin dentro nel profondo dell’io, conumiltà, spesso con commozione: la ragionevolezza delle parole delle vittime, la loro sof-ferenza, le loro giuste esigenze.

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È possibile una detenzione che stimoli riflessioni portatrici di un cambiamento della persona detenuta?Fino a quando la vita detentiva continuerà ad offrire soltanto 3-4 ore giornaliere di “aria”, le rimanenti venti ore di cella faranno sentire ancheil criminale più feroce a sua volta una vittima

di Marino Occhipinti

Vorrei provare a esporre – e naturalmente è una interpretazione soggettiva, mia perso-nale – cosa intendo per “senso della pena”, o meglio cos’è per me una pena che abbia unsenso.I miei primi sei anni di detenzione li ho trascorsi in un carcere “completamente chiuso”,dove, solo negli ultimi tempi, avevano cominciato ad entrare alcuni volontari che gesti-vano un corso di legatoria. Le giornate, seppur a celle aperte dalla mattina alla sera, tra-scorrevano quindi nell’ozio più totale, e le uniche “attività” alle quali si poteva partecipareerano delle interminabili partite a carte. Una carcerazione assolutamente inutile…Poi sette anni fa sono arrivato a Padova, in questo carcere. Oltre cinque anni fa ho chiestodi partecipare alle attività della redazione di Ristretti Orizzonti, che a “dispetto” del suonome, ha spalancato di fronte a me degli orizzonti immensi, di cultura, di educazione, divalori, di critica, di analisi e di vita. Ed è proprio su queste attività che vorrei soffermarmiun attimo. Partiamo allora dal progetto che portiamo avanti con numerose scuole. In buona sostanzaorganizziamo un percorso di conoscenza del mondo carcerario, con lo scopo di far com-prendere agli studenti chi sono le persone condannate, spiegando il carcere e raccontandospesso anche le storie che ci hanno portati in galera: la speranza è quella di far capire chese si seguono certe condotte, e certi modelli, finire qui è più facile di quanto si possa im-maginare. A scanso di equivoci una premessa, che ripeto quasi sempre anche agli studenti: quandoparliamo con loro non lo facciamo MAI con l’intenzione di insegnare qualcosa, ed anzi adarci una lezione di vita sono proprio loro, e lo fanno semplicemente venendoci ad ascol-tare. Loro sono le persone libere, che accettano di incontrare noi per capire meglio, e noisiamo quelli che hanno rubato, spacciato, rapinato e anche ucciso, ma a nostra volta ac-cettiamo di metterci in discussione sperando di essere utili a loro. È una fatica immane ritrovarsi ogni volta di fronte a 60-70-80 studenti che fanno le do-mande più “intime” e personali, ragazzi con i quali è giusto e doveroso mettersi in gioco,giovani con i quali non è neppure ipotizzabile – e d’altronde non avrebbe alcun senso –provare a mentire. E allora siamo obbligati a metterci in discussione, e quindi a confron-tarci, con loro ma anche con noi stessi, pure quando non lo vorremmo fare.

Una vita sconvolta da un “semplice” furto Un episodio su tutti mi è rimasto impresso e lo voglio raccontare. Circa venti giorni fa,durante un incontro, una studentessa dell’istituto Selvatico ha chiesto la parola e ci ha

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detto di non essere in grado di perdonare perché una sera, rientrando nella sua casa, siera trovata di fronte ad alcuni ladri. Ci ha spiegato che la casa rappresenta per lei il mas-simo dell’”intimità”, ma che da quel momento non si sente più sicura nemmeno nella suaabitazione, che la sua vita è stata sconvolta: non ha più il coraggio di uscire la sera, tuttoravive nella paura di ritrovarsi di nuovo degli intrusi in casa, insomma odia tutti i delinquentiperché le hanno fatto perdere la tranquillità e la serenità di prima…Ebbene, non soltanto in quel frangente, ma soprattutto nei giorni successivi in redazione,noi, detenuti e volontari, abbiamo discusso animatamente di ciò che quella ragazza ciaveva raccontato. E molti di noi, anche quelli apparentemente più “duri e insensibili”,hanno dovuto per forza ammettere di non aver mai pensato che un “semplice” furto, unreato tutto sommato “lieve”, potesse sconvolgere a tal punto la vita di una persona.

Le lacrime e il dolore di Olga D’AntonaUna seconda cosa che voglio raccontare riguarda gli incontri che facciamo nella nostra re-dazione. Tra i tanti altri, a gennaio di quest’anno è venuta l’onorevole Olga D’Antona, la vedova diMassimo D’Antona, il giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse. Ebbene, non potrò mai di-menticare con quale forza ci ha raccontato la sua drammatica vicenda, e ogni volta checi penso rivivo la stessa sensazione di sofferenza che ho provato in tale occasione. Trovarsidi fronte a quella donna, che ad un certo punto, rievocando alcuni particolari del terribiledramma che l’ha colpita, si è commossa e a fatica ha frenato il pianto, ha sconvolto un po’tutti noi, soprattutto chi si trova detenuto per reati di sangue e quindi, in Olga D’Antona,ha rivisto un po’ la madre o la moglie o la sorella della nostra, di vittima.Ho raccontato questi due esempi perché credo che se si vuole dare un senso alla pena sa-rebbe importantissimo diffondere ed incoraggiare attività come quelle appena descritte,iniziative (integrative e non sostitutive del lavoro degli operatori penitenziari) che obbli-gano a riflettere e che quindi pongono implacabilmente le persone detenute di frontealle proprie scelte e responsabilità.Il senso della pena, a mio avviso, passa necessariamente attraverso una detenzione chenon sia soltanto contenitiva, ma che stimoli riflessioni profonde e portatrici di un cambia-mento della persona detenuta. E, per raggiungere questo obiettivo, il carcere deve ispi-rarsi proprio ad esperienze simili, e questo si può fare soltanto se il carcere saprà essereaperto alla società civile, perché sei anni di carcere “duro” non mi hanno mai fatto riflet-tere in modo così intenso e così critico come mi è successo quando ho sentito la vocetremante di quella studentessa ancora impaurita, oppure quando ho visto il dolore diOlga D’Antona per il marito ucciso. Posso dire che così la pena ha un senso, o almeno un senso più “compiuto”. Quasi sicu-ramente pochi di noi sarebbero riusciti a pensare seriamente alle proprie vittime senzaquesta esperienza, perché fino a quando la vita detentiva continuerà a offrire soltanto 3-4 ore giornaliere di “aria” – come succede nella maggior parte delle carceri italiane – lerimanenti venti ore di cella faranno sentire anche il criminale più feroce a sua volta unavittima, e non gli daranno nessuna occasione per pensare al male che ha fatto: così lapena è davvero senza senso.

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L’enorme sofferenza delle vittime è rimasta incollata alla nostra pellePer questo è importante che chi ha fatto del male conosca il viso, i sentimenti, le angosce delle persone alle quali ha devastato la vita

di Marino Occhipinti

Metà luglio, sabato sera, un’afa opprimente. Ho appena riascoltato le registrazioni degliinterventi del convegno “Sto imparando a non odiare” e ancora oggi, nonostante il tempotrascorso, continuano in particolare a colpirmi, con la stessa intensità di allora, le parolecariche di dolore di Silvia Giralucci. Quel giorno la sua voce, spesso incrinata, ha letteral-mente ammutolito la platea e ha trafitto gli animi di molte delle persone presenti, noidetenuti su tutti.Quando ha raccontato la sua drammatica esperienza ho cercato di trattenermi ma le la-crime scendevano lo stesso. Ho pianto per le cose che ci ha detto, ma anche per il suostato d’animo: mi sono reso conto che chiedendole di ripercorrere la parte più tragicadella sua vita le stavamo infliggendo delle ulteriori sofferenze. Dopo il suo interventosono stato tentato, più volte, di avvicinarla, di parlarle. Avrei voluto domandarle se qual-cuno le aveva mai chiesto scusa per quello che hanno fatto a lei e alla sua famiglia, e secosì non fosse stato, naturalmente per quel che poteva contare, avrei voluto chiederlescusa io per conto loro. Non è la stessa cosa, lo so benissimo, anzi forse è soltanto unpensiero stupido, ma ho sentito fortissimo questo desiderio, e se non mi sono avvicinatoè stato solo per il timore della sua reazione.Non volevo essere invadente, l’ho vista molto tesa e anche per questo sono rimasto sor-preso, e contento, quando al momento dell’uscita è venuta a porgermi la mano spiegan-domi che presto sarebbe venuta in redazione assieme a Benedetta Tobagi, che non avevapotuto partecipare alla Giornata.Spero che Silvia, così come tutti gli altri “relatori”, sia uscita da questo carcere con l’animopiù sollevato e con il cuore un po’ più sereno di quando è entrata, in ogni caso la suaenorme sofferenza, che è rimasta incollata alla nostra pelle, ha lasciato un segno vera-mente profondo e indelebile in tutti i partecipanti.Il 23 maggio con me c’era un mio compagno detenuto per omicidio, una persona abba-stanza “dura” che in questi anni di detenzione trascorsa assieme non ho mai visto farsiprendere dalle emozioni. Ebbene, quando ha parlato Silvia, al fianco del mio compagnoc’era un suo familiare che continuava ad allungargli fazzoletti perché non smetteva più dipiangere. “L’uomo che ho ucciso io aveva una bambina di tre anni, e anche lei, come SilviaGiralucci, non aveva nessuna colpa”, mi ha confidato quella stessa sera.Io, oltre ad aver provato le sue stesse sensazioni, sono rimasto molto colpito anche e so-prattutto dalle parole più dure che Silvia ha pronunciato nei confronti di chi ha ucciso ilsuo papà, e degli assassini in generale. Ho provato disagio perché molti dei comporta-menti che Silvia vorrebbe che fossero tenuti dagli assassini di suo padre io li vivo quoti-dianamente. Attimo dopo attimo.Ogni volta che mi guardo allo specchio, e non solo la mattina, mi chiedo come sia potutoaccadere. Mi chiedo come io abbia potuto, con i miei gesti, infliggere sofferenze alle vit-time e anche alle persone a me care, che pagano quanto e (molto) più di me per i mieierrori.

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Alcuni anni fa sono stato duramente rimproverato dalla mia educatrice perché non riu-scivo a parlare con le persone guardandole negli occhi. Me ne stavo sempre “a testabassa”, proprio come vorrebbe Silvia. Quello del 23 maggio è stato il settimo convegno alquale ho partecipato, e seppur con tanto timore, anche perché era senza ombra di dubbioil più difficile e delicato in assoluto, sono riuscito a parlare per la prima volta. Fino ad ora,proprio per la paura di ripiombare nella vita delle persone che a causa mia hanno soffertoe ancora soffrono, me ne ero sempre rimasto in silenzio.Chissà per quale strano e misterioso presagio, come se le parole poi pronunciate da Silviagià aleggiassero nella mia mente, proprio pochi giorni prima del convegno avevo scrittoa una persona a me molto cara, e le avevo raccontato che la vita mi sta dando moltomolto di più di quello che merito, che “ogni giorno è per me un giorno regalato rispettoa quello che ho fatto”.Sempre alcuni giorni prima del convegno, nell’ambito di un’iniziativa organizzata dallacooperativa per la quale lavoro qui in carcere, un giornalista mi ha ripetutamente chiestose a volte sono felice. A parte che considero la domanda a dir poco inadeguata, ho rispo-sto soltanto che, dopo quello che ho fatto, io non voglio, non posso, non devo essere fe-lice, mi impedisco di essere felice.

La vita di chi ha ucciso non può più essere normaleDopo neanche un mese, così come promesso, Silvia è venuta in redazione con BenedettaTobagi, il cui padre Walter, giornalista, venne assassinato quando lei aveva tre anni. Sia Sil-via sia Benedetta ci hanno confidato che non sarebbero disposte a stare nella stessastanza con chi ha ucciso il loro papà. “Assassini che hanno scontato pochissimo carcere eche si sono rifatti una vita. Uno di loro si è sposato, ha avuto un figlio e conduce una vitanormale”, ha aggiunto Benedetta.Intervengo per dire che non sono sicuro che le persone che hanno ammazzato suo padrepossano vivere un’esistenza normale, semplicemente perché la vita di chi ha ucciso NONPUÒ più essere tale. Ogni volta che vedo o che soltanto penso alle mie due figlie, accantoa loro si “materializza” anche il viso di un’altra ragazzina oramai donna, e cioè la figliadella persona che a causa mia non c’è più, e magari anche alle persone che hanno uccisosuo padre potrebbe capitare la stessa cosa.Sedersi di fronte a vittime di reati così gravi non è mai facile, soprattutto stavolta chenella nostra redazione ci sono due donne, poco più che trentenni, alle quali sono statiuccisi i papà, quindi il timore che le mie parole possano riaprire le loro ferite, e che leloro risposte possano essere conseguentemente “pesanti”, è forte; invece Benedetta, ina-spettatamente, dice che quello che ho appena espresso le fa molto effetto, che forse nonci aveva mai pensato.Lentamente l’atmosfera si scioglie, parliamo di mediazione penale e sia Benedetta sia Sil-via sono categoricamente contrarie a qualsiasi tipo di “contatto” con chi ha ucciso i loropapà. Però sono state disposte a venire qui in carcere, a parlare con noi, noi che abbiamoanche ucciso, e ci sembra un primo significativo passo in avanti, un tentativo di “media-zione indiretta” che ha comunque messo delle vittime di fronte a degli autori di reatimolto gravi.La sera stessa, così come ho già fatto con Silvia all’indomani del convegno, scrivo a en-trambe.

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Scrivendo a Silvia Giralucci e a Benedetta TobagiA Silvia e Benedetta non ho scritto per convincerle di alcunché, quello che mi preme è sol-tanto allargare un po’ il discorso su un tema molto complesso e delicato come la media-zione. Per fare questo, ho però avuto il bisogno di entrare nel personale, ovviamente nel“mio” personale.Nell’ambito di tutta la mia vicenda sono condannato alla pena dell’ergastolo per una ra-pina ad un furgone portavalori, nel corso della quale morì una giovane guardia giurata. Hoappositamente scritto la parola morì, anziché uccidemmo, per una istintiva forma di difesache in tutti questi anni mi ha sempre portato ad evitare l’utilizzo diretto del termine, chetrovo insopportabile, quasi impossibile da scrivere o da pronunciare.Nel 1988, Carlo aveva 22 anni, la stessa età che avevo io allora.Leggendo i quotidiani dell’epoca seppi, fin da subito, che aveva lasciato una bambina didue anni. Nel 2000, sfogliando casualmente Il Resto del Carlino, trovai un articolo cheparlava della commemorazione di quella tragica rapina, e c’era anche la fotografia di unaragazzina, allora 14enne: era la figlia di Carlo. Da quel giorno, il viso di quella adolescentedai capelli neri a caschetto – della quale non voglio nemmeno scrivere il nome perché, cosìfacendo, mi sembrerebbe di entrare, ancor più di quanto ho già drammaticamente fatto,nella sua vita e nella sua intimità – è stampato nella mia mente. E quel viso lo “vedo”ogni volta che sono con le mie figlie o che solamente penso a loro, e cioè sempre.Che dire poi dei genitori di Carlo, dei loro occhi che ad ogni udienza venivano a cercarmidavanti alla gabbia? Non li dimenticherò mai, sono uno dei miei tanti incubi, e ancoraoggi mi riecheggia in testa il pianto sommesso e straziante di sua madre, che più di unavolta il presidente della Corte d’Assise fece accompagnare fuori dall’aula; mica perché“disturbava”, ma perché ad ascoltarla era una pena che graffiava il cuore.Nel 2001 ho chiesto a un amico diacono di Bologna, col quale facevo colloqui, che si in-formasse, in via assolutamente riservata e tramite il loro parroco, di come stavano “quei”genitori. Quando tornò a trovarmi mi disse che ogni tanto il parroco incontrava il padreper strada, ma che non aveva notizie della madre, che non andava neppure più in chiesaperché la chiesa e la messa le ricordavano il funerale del figlio…La moglie di Carlo, invece, so solo che esiste, che dopo l’omicidio del marito, probabil-mente per sopravvivere al dolore, si è nuovamente trasferita in Puglia, sua terra di origine;non l’ho mai vista, quindi non ho nessuna sua immagine concreta, e forse proprio perquesto, e non so se sia strano oppure no, nei miei pensieri lei viene per ultima.Forse è anche per tale motivo che ritengo importante che chi ha fatto del male conoscail viso, i sentimenti, le sofferenze e il vissuto delle persone alle quali ha devastato la vita;sarebbe giusto che le conoscesse non per trarne un vantaggio emotivo personale, e cioèper stare meglio, ma per prendere piena consapevolezza di quel che ha commesso e dicosa i suoi gesti hanno comportato.Per questo, quando a fine incontro Silvia ha detto che lei ha sempre addosso il suo cap-potto di dolore e che quindi lo deve portare anche chi ha ucciso il suo papà, le ho rispostoche la mediazione, anziché liberare quelle persone del loro fardello, potrebbe costringerlea indossare un cappotto ancora più pesante, proprio perché la mediazione non è e nondeve essere intesa come un momento in cui fare la pace per “dimenticare” e mettere daparte quel che è accaduto, che forse è ciò che più “spaventa” le vittime, ma anzi ha loscopo, senza alcun intento vendicativo, di porre chi ha fatto del male davanti agli esiti

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delle proprie scelte.E chi, meglio delle vittime, può narrare il dolore e la devastazione che quelle scelte hannolasciato, proprio come Silvia e Benedetta hanno fatto con noi?

Quella vita dura delle sezioni Dobbiamo restare con i piedi piantati per terra, e ricordarci che le condizioni di vita in carcere spesso fanno dimenticare che un percorso di reinserimento vero si basa su una conoscenza reale dei propri comportamenti e delle conseguenze che hanno avuto sulle vite degli altri

di Daniele Barosco

Faccio parte della redazione di questa rivista da poco più di un anno, ne ho seguito tuttii più recenti sviluppi, compresa la lunga preparazione della Giornata di Studi “Sto impa-rando a non odiare”. E voglio dire senza ipocrisie aspetti positivi, ma anche i dubbi che horispetto a tutta l’attività. Il senso di un’attività di volontariato come questa è secondo mequello di confrontarsi anche con i propri fantasmi, le proprie insicurezze sulla vita e sul fu-turo, che per noi è sempre molto incerto e torbido. Cercare di evadere dalla routine carceraria quotidiana, fatta dei soliti discorsi estenuantisulla possibilità di uscire con una qualche misura alternativa al carcere, è quasi obbliga-torio per chi vede un po’ più in la della miseria della propria condizione. Ma questo nonriguarda certamente la maggioranza dei detenuti in ogni carcere, per i quali vi sono benaltri problemi da risolvere prima di pensare al proprio futuro: Cosa mangiare? Come ac-quistare le sigarette? Quando mi daranno un lavoro? Chi pagherà le bollette a casa questomese? Quando mi porteranno la terapia? Tutti i giorni salgo in sezione e qualcuno è sempre alla ricerca di una carica di caffè, unacipolla, una carota, un buono gas… Parlare del senso di una attività come la nostra, e af-frontare temi complessi come il rapporto tra autori e vittime di reato, è allora difficile inquesta situazione: in carcere ci sono le docce spesso disastrate, le celle che non vengonoridipinte e igienizzate in modo serio da anni perché non ci sono soldi, in queste condizioninon è facile pensare alla nostra formazione, alla nostra cultura della legalità, a dare unaiuto agli altri. Quello che facciamo in redazione, con il giornale, con il sito, con il TG, conl’ufficio di orientamento giuridico e di segretariato sociale è molto, ma a volte ci sembrapoco per l’impotenza che proviamo di fronte alle difficoltà e all’immobilismo della vita car-ceraria. Impegnarsi in attività come la redazione poi significa trovare spesso mille critiche da partedi altri detenuti, e ancora rinunce all’aria e alle uniche ore di svago, perché un conto è fareun’attività quando si è liberi di determinare la propria giornata, un conto in carcere, dovetutto questo è molto relativo. Quanto vale un’ora d’aria? Quanto vale una partita di calcio?Una passeggiata? Certo, i risultati giungono su vari fronti, ma le rinunce per ottenerli nonsono cose da poco, qui dentro.Quanto alle motivazioni con cui si sceglie di stare in redazione, io credo che la logica delbene comune, dell’altruismo sincero e disinteressato non sia, per forza di cose, sempre

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alla base di questa attività. Ognuno ha i suoi scopi più o meno evidenti, può esserci anchequello formativo-educativo, quello del servizio altruistico al prossimo, ma soprattuttoognuno cerca un appiglio verso l’esterno del muro, e ciò non può scandalizzare nessuno,perché è logico che, esauriti i vantaggi di una attività che ti rende la carcerazione menoinutile, la realtà si riaffaccia in modo prepotente nella vita di ognuno di noi, e forse làfuori non ci saranno più i volontari a farci da salvagente. Camminare o nuotare con leproprie gambe e braccia oltre che con il proprio cervello deve allora diventare un obiettivoraggiungibile, e questo avverrà solo se le persone qui dentro lavoreranno sempre con laconsapevolezza che fuori esiste un altro Mondo, in cui è probabile che nessuno si pren-derà cura di loro come fanno qui i volontari. Io credo quindi che un senso a questo tipo di attività culturali possa essere dato solo sevengono riconosciute come percorso integrato che responsabilizza la persona a prendersicura di sé prima di tutto e poi degli altri. Ascoltare le idee degli altri è allora importanteper imparare a riflettere, ad accettare il confronto, a misurarci con realismo e senza illu-sioni sul nostro futuro. Ascoltare le vittime, da questo punto di vista, è doppiamente im-portante perché aiuta proprio a prendersi cura in modo diverso di sé, con una riflessioneprofonda sulla propria responsabilità. E non esiste nessun percorso di reinserimento chenon passi per una conoscenza reale dei propri comportamenti, delle proprie scelte e delleconseguenze che hanno avuto sulle vite degli altri.

Comprendo, ma la testa non credo di doverla abbassareSo di dover chiedere scusa, di voler rimediare e riparare verso chi ho colpito, ma guardando dritto negli occhi chiunque

di Bruno De Matteis

“Un assassino deve sempre girare a testa bassa e i miei diritti vengono e verranno sempreprima dei suoi”… Frase forte, anzi fortissima, dura anzi durissima. L’espressione del doloremai sopito, che resterà dentro tutta la vita in Silvia Giralucci per l’assassinio del padre daparte di terroristi quando aveva solo 3 anni, lo comprendo e, pur essendo a mia volta unomicida, le sono idealmente vicino nel dolore avendo perso dieci anni fa mio figlio di 25anni in un incidente stradale, e non avendo potuto partecipare al suo funerale a causa diuna applicazione insensibile di una normativa assurda e pure disumana… Pertanto ritengodi essere una delle persone più adatte (me ne sento il diritto come carnefice e vittima) arispondere ribadendo che capisco le parole più dure, ma non credo di dover abbassarela testa.Comprendo il dolore, lo condivido intimamente, capisco forse più di ogni altro colpevolequanto può essere profonda e mai del tutto rimarginabile una ferita di questa natura eche la difficoltà, l’impossibilità di metabolizzare in pieno o in parte un evento di tale tra-gicità possa portare ad esprimersi nel modo di Silvia Giralucci, ma non posso, non voglioe non mi sento in dovere di girare a testa bassa… Posso anche accettare che i suoi diritti vengano prima dei miei, ma la dignità data da unpercorso dolorosissimo di ripensamento verso gli atti, compiuti nel mio passato, a cui si

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è aggiunta la tragica morte di mio figlio, che ha reso esponenziale la difficoltà del mio“viaggio interiore”, del mio rivisitarmi in questi dieci anni, mi fa dire a Lei e a tutti quelliche la pensano in quel modo… no. Io la testa non la abbasso di fronte a nessuno… La mia dignità mi impone di guardare dritto negli occhi chiunque, di chiedere scusa, di ri-mediare e riparare verso chi ho colpito, verso la mia famiglia che paga pure lei per unacolpa che non ha, verso me stesso, ma sempre e comunque a testa alta.Essere persone, riconoscere i propri errori, pagare per questi non deve voler dire subirela “condanna del capo chino”… è la richiesta di una umiliazione perenne e sono sicuro chetutto ciò non appartiene neppure a Silvia. Ripeto: comprendo benissimo il suo sfogo, du-rissimo e spietato, per un immenso, e a volte insopportabile, dolore.Non so se ci sarà mai modo di incontrarci e di parlarne uno di fronte all’altro con sinceralealtà. Mi auguro di poterla incontrare per poterle stringere la mano, se lo vorrà, e per ri-badire quanto comprendo la sofferenza per un padre che le è stato sottratto con tantabrutalità e mai le potrà essere restituito.Un padre, come un figlio, non sono merce riproducibile, sono entità uniche che restanonel cuore sino all’ultimo giorno della nostra vita… proprio per questo reputo lei una per-sona non diversa ma speciale, che spero di poter risentire e rivedere. Lo riterrò un privi-legio e un arricchimento per una persona quale sono io… una persona che comunqueporterà dentro sino alla fine il peso degli errori commessi, ma sempre a testa alta. Questo mi deve essere concesso.

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Oltre alla sofferenza ci hanno trasmesso una enorme quantità di culturaDalle vittime è venuta una cultura di dialogo e apertura, che oggi manca assolutamente nel mio Paese, l’Albania, ma che manca sempre di più anche qui in Italia

di Pierin Kola

Alla giornata di studi che abbiamo organizzato nella palestra del carcere ho partecipatocon molta curiosità. Ero attentissimo perché tutti dicevano che poteva succedere di tutto.Infatti, c’era tensione pensando alla presenza delle vittime, perché non è facile vederti uc-cidere un famigliare e poi entrare in carcere per raccontare la tua esperienza a cento con-dannati. Ma sin da subito mi ha colpito la dignità mostrata dalle persone, vittime di reati,che sono venute a parlarci, e soprattutto la mancanza di animosità nei confronti di tuttinoi, che comunque siamo qui per aver fatto del male a qualcuno. Questo mi ha costrettoa riflettere molto sul fatto che quelle persone avevano uno spessore culturale notevolee credo che la cultura abbia avuto un ruolo importante nel modo con cui si sono poste ri-spetto a noi. Certo che se fossi stato anch’io un giornalista o uno scrittore, forse non avrei fatto glierrori che mi hanno portato in carcere. Non è che adesso cerco di giustificarmi dicendoche era tutta colpa dell’ignoranza, dico solo che ascoltare quelle persone parlare in modocosì aperto e umano, anche se piene di dolore e rabbia per i famigliari uccisi, mi ha fattoriflettere che la cultura c’entra molto.

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Io fino a ieri pensavo che quando qualcuno ti fa del male, l’unico linguaggio da usare è lavendetta e la violenza. Ma il giorno del convegno, mentre ascoltavo Silvia Giralucci, hoprovato a mettermi nei suoi panni e a immaginare per un momento di essere anch’io unoche dice al suo nemico: “Non mi interessa la vendetta, però ti devi vergognare di quelloche hai fatto”. Allora ho pensato che, se anch’io avessi avuto il coraggio di dire questo, oggi non sarei quie non avrei tolto la vita ad un altro. Ma non solo io. Se anche molti miei paesani ragionas-sero così, non ci sarebbero in Albania tutti quegli omicidi per vendetta e tante famiglie di-strutte dal dolore. Invece io e molti miei compagni di scuola pensavamo che studiare eimparare a ragionare fosse solo una perdita di tempo, e che la cosa più importante eranoi pantaloni di marca e le macchine sportive. Così, quando mi sono ritrovato a dover usarela testa, mi sono fatto trasportare dall’istinto invece di ragionare. Allora io penso che questo incontro è stato soprattutto uno scambio culturale, o per me-glio dire che le persone che sono venute a raccontarci le loro sofferenze ci hanno tra-smesso anche una enorme quantità di cultura, quella cultura di dialogo e apertura cheoggi manca assolutamente nel mio Paese, ma che manca sempre di più anche qui in Ita-lia.

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È umano avere paura di quello che non si conosceSinceramente pensavo che qualcuno venisse qui a curare le proprie ferite, temevo di ricevere degli insulti o qualcosa del genere

di Jovica Labus

La giornata di studi “Sto imparando a non odiare”, un incontro tra le vittime e i detenuti,è stata organizzata dalla redazione di Ristretti Orizzonti di cui anch’io faccio parte da pochimesi. Sin dall’inizio, scoprendo che si stava preparando un convegno così diverso, mi sonochiesto tante volte: “Bisogna proprio essere presenti o no?”. Devo ammettere che sonostato un po’ scettico, perché non sapevo esattamente che cosa ci aspettava. Temevo ditrovarmi in una situazione non piacevole. Insomma io sono sempre stato pronto ad ascol-tare però non ad essere insultato, e avevo paura che potesse succedere questo.Sinceramente pensavo che qualcuno venisse qui a curare le proprie ferite, non ero dispo-sto a ricevere gli insulti o qualcosa del genere. Nonostante io personalmente non mi troviqui per un reato di sangue, incontrare le vittime dei reati di altri mi preoccupava ugual-mente, perché non volevo vedere il loro odio. Ho pensato molto prima di decidere se partecipare al convegno e oggi sono sicuro chenon ho sbagliato. Penso che sia stata una esperienza molto interessante che, senza dub-bio, mi ha arricchito, aprendomi dei nuovi orizzonti, inimmaginabili per me fino a pocotempo fa. Rispetto ai miei dubbi e alle mie paure di prima mi sono accorto di non aver te-nuto conto di quanto è stato difficile (per una persona che ha subito le conseguenze di unreato) venire in questo ambiente e parlare davanti a centinaia di persone, tra cui anche100 detenuti. Serviva un colossale coraggio per poter spiegare il tipo di sofferenza, per laperdita violenta di un proprio caro, che si vive ogni giorno. Loro sono diventate vittime

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senza volere, provocare o cercare problemi del genere. Il minimo che abbiamo potutofare noi è ascoltare e rispettare, in silenzio, il loro dolore. Sono stato anche molto sorpreso delle opinioni di alcune persone, tra le vittime, che, no-nostante esista un enorme “muro” tra di noi che ci divide, hanno fatto delle dichiarazionia nostro favore per la questione dei benefici e la loro importanza per la società. Con quelgesto, hanno dimostrato ancora una volta che la loro umanità e grandezza esiste e noidobbiamo apprezzare non solo la loro disponibilità a venire qui e dedicare, a noi, il temponecessario, ma anche la loro volontà di partecipare a una manifestazione che è stata sim-bolo di un reciproco desiderio di abbattere le barriere che esistono tra di noi.Questo evento così a lungo aspettato è servito, credo, a entrambe le parti, perché ab-biamo potuto conoscerci direttamente. Esperienze di questo tipo sono degne di esserecontinuate e sviluppate ancora di più, e non dimenticate o messe da parte, poiché il no-stro è stato un grande passo avanti verso la civiltà, e spero che attività come questa nonsi fermeranno qui. La mediazione penale credo sia qualcosa che serve sempre alla societàper il futuro di una giustizia che concilia invece di punire. Temevo questo incontro, ma ora penso che sia umano avere paura di quello che non siconosce. Spesso i pregiudizi limitano la chiarezza nei giudizi e ci portano a conclusionisbagliate, mentre solo confrontandoci è possibile sconfiggere i nostri timori e vincere lebattaglie con noi stessi. E io credo di averne vinta una.

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Non voglio provocare ferite “aggiuntive” alle persone a cui ho già fatto del maleSe necessario, voglio imparare a camminare a testa bassa, o per lo meno a capire il senso della parola “umiltà”

di Elvin Pupi

Non avevo mai pensato a cosa significa davvero camminare a testa bassa. E inizialmente,quando una persona intervenuta al convegno “Sto imparando a non odiare”, parlandodegli assassini di suo padre, ha detto che questi devono camminare a testa bassa, mi sonoirrigidito. Guardo la televisione e ci sono continuamente scene di morte, di massacri,spesso giustificati dal motivo che il bene deve trionfare sul male, ma non avevo mai sen-tito qualcuno dire apertamente che chi uccide una persona deve vergognarsi per il restodella sua vita. Sembra che sia più facile dire che deve essere ammazzato anche lui a suavolta, che deve marcire in galera, che deve essere torturato, ma nessun giornalista o po-litico secondo me aveva mai avuto il coraggio di dire che non è la tanta galera quello checonta, quanto piuttosto i comportamenti, il modo di affrontare il proprio reato e di accet-tarne le conseguenze.In redazione, quando parliamo di vittime e qualcuno dice che soffriamo anche noi comei famigliari delle vittime, Ornella qualche volta risponde arrabbiata che noi tante voltel’abbiamo provocata, la sofferenza, compiendo il più orribile dei gesti, mentre i famigliaridelle vittime se la sono vista piombare addosso senza avere possibilità di scampo.Allora io ho pensato al mio reato e quello di camminare a testa bassa di fronte ai famigliaridella persona che ho ucciso mi sembra il minimo che posso fare, perché loro sono inno-centi, e per causa mia stanno soffrendo e continueranno a soffrire per il resto della lorovita.

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È evidente che quando si uccide un’altra persona non si può più tornare indietro e non sipuò farlo nemmeno quando avremo finito la pena, quindi non dobbiamo mai dimenticareil male fatto, ma portarlo sempre dentro di noi. Qualcuno dei miei compagni non sarebbed’accordo con me, ma io credo che non si può pretendere di riavere uno vita tranquilla euna coscienza rappacificata dopo aver ucciso un altro essere umano. Così come io so chenon dovrò mai guardare negli occhi la madre della persona che ho ucciso, perché mi ver-gognerei del suo dolore, e nello stesso modo dovrò provare vergogna anche di fronte allepersone perbene che pensano che la vita umana sia la cosa più preziosa al mondo. Non ci avevo mai pensato prima, ma adesso che ho sentito la figlia di una persona uccisasostenere che lei non odia e non vuole vendette, basta che chi ha ucciso suo padre tengala testa bassa per il resto della sua vita, io che ho ucciso da oggi comincerò a imparare acamminare a testa bassa. O per lo meno a essere umile, e a vivere con la consapevolezzache ogni mio comportamento deve avere alla base l’idea di non provocare ferite “aggiun-tive” alle persone a cui ho già fatto del male.

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È possibile arrivare a una riconciliazione?Si può riparare un danno se si riesce ad avere anche l’umiltà e il senso della collettività necessari per ammettere i propri errori

di Prince Obayanbon Maxwho

“Sto imparando a non odiare”: da questo momento in poi questa frase non ha più soloun valore “letterario” per me, ma coinvolge direttamente la mia esistenza, perché vogliodavvero confermare questo cambiamento con le mie azioni e i miei pensieri e soprattuttocon una percezione diversa di tutto ciò che mi circonda. Ma credo che in tanti abbianopercepito che qualcosa stava cambiando, perché nessuno si è azzardato a pensare che unavvenimento così importante, come il confronto tra vittime e autori di reato, potesseavere avuto origine da una ragione di convenienza a senso unico. No, quel convegno èstato importante perché ha parlato di come ritrovare una ragione di vita, di pace esisten-ziale, di responsabilità individuale, in modo disinteressato, senza mai far entrare in giocobenefici particolari, convenienze, calcoli o tornaconti personali.Mi ricordo quando per la prima volta la questione dell’odio è stata discussa in redazioneproprio a partire dalle nostre esperienze più dure. Per me è stato subito un segnale po-sitivo, se si pensa che nella società odierna i messaggi di tutti i giorni sono basati sull’odioverso il diverso, sul potere di apparire, sull’usa e getta dei sentimenti, e soprattutto sul-l’egoismo dei propri bisogni che schiaccia i bisogni e i sentimenti degli altri. Solo se riu-sciamo a cogliere, in questo discorso sulla necessità di spezzare la catena dell’odio, il verosenso del convegno, noi in prima persona, gli autori di reato, e poi le vittime sofferentisenza nessuna colpa, e quelli che si sono sentiti di operare volontariamente nell’ambitodella mediazione, liberi da ogni costrizione, allora capiamo anche che tutti abbiamo daguadagnarci, e possiamo davvero continuare un dialogo, che per ora è solo abbozzato.

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Credo che, per iniziare, sia fondamentale capire che succede a tutti di sbagliare, a voltedi farlo in modo pesante, ma si può riparare se si riesce ad avere anche l’umiltà e il sensodella collettività necessari per ammettere i propri errori, e di conseguenza saper chiederescusa e, soprattutto, capire se ci sono dei gesti possibili da fare per arrivare a una ricon-ciliazione. Io credo allora di poter parlare di successo del convegno per tanti motivi: • perché non era un’iniziativa istituzionale, ma un’occasione per mettere al centro le per-sone, e non i reati e le pene;• perché a rappresentare le vittime, la “parte lesa” erano presenti persone che hannoavuto a che fare con i motivi dell’odio in modo diretto, e si notava però la loro disponibilitàad un dialogo in tutti i loro interventi;• perché l’approccio appassionato e l’impegno umano messi in campo da tutta la reda-zione di Ristretti Orizzonti hanno fatto sì che il convegno avvenisse non come un momentobreve di dibattito, ma come un punto di arrivo con un coinvolgimento di tantissime per-sone in discussioni, confronti serrati, riflessioni indirizzate davvero a favorire la crescitadi una società migliore; • e infine perché si è verificata una piena collaborazione, con un convincimento forte del-l’importanza di quel percorso, da parte di tanti detenuti coinvolti in questa giornata.Mi sono anche reso conto che il convegno poteva rappresentare una speranza futura pertutti senza distinzione, se veniva vissuto come l’inizio di un cammino assai faticoso, madegno di essere percorso, verso il superamento di quell’odio, che ha spinto tanti di noi quidentro. Spero di essere perdonato se sembrano troppo utopici o moralistici i miei ragio-namenti, o se possono dare l’idea di uno che sta cercando di salvarsi dai suoi errori edalla sua tragedia, perché prima di ogni altra cosa ha timore di un giudice al di sopra ditutti e di ogni cosa, a cui non può nascondere nulla! In realtà per me una cosa è certa, edè la presa di coscienza del significato di una vita che deve andare oltre la pena e il carcere,per ragionare in profondità su quello che è il concetto di responsabilità.Riguardo agli interventi al convegno non mi reputo in grado di fare delle osservazioni cri-tiche sulle cose dette dai partecipanti, perché ero lì soprattutto per ascoltare e per impa-rare, e per capire in che direzione c’è da procedere per tentare una mediazione concretatra gli uomini. Forse con il tempo potrò dare un contribuito mio, quando le condizioni melo permetteranno, ma in questo momento mi ritengo già privilegiato per aver partecipatoa questo convegno, che mi fa sperare davvero in un domani migliore!

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Non ho percepito l’odio o la voglia di vendetta Io sono bosniaco e ho visto come l’odioe la vendetta hanno sprofondato il mio paese nel sangue, facendolo ritornare ad una situazione medioevale

di Milan Grgic

Sono già tre volte che partecipo ai convegni della redazione, ma è la prima volta che as-sisto ad un confronto su un tema così complicato come un incontro tra vittime di reato edetenuti, e per questa ragione reputo questo incontro di una importanza unica, soprat-tutto per i detenuti che hanno partecipato. Noi che facciamo parte della redazione abbiamo discusso a lungo su come organizzare almeglio questo incontro. Ci preoccupava capire quale effetto avrebbe potuto produrresulle persone presenti una iniziativa così complessa, come avrebbero potuto reagire le vit-time vedendo così tanti colpevoli di reati anche gravi come l’omicidio. E poi, come avreb-bero reagito i detenuti alle parole dure che avrebbero potuto essere pronunciate dallevittime. Ma come spesso succede nella vita il coraggio alla fine viene premiato. Ero seduto in prima fila sulla gradinata destinata ai detenuti, emozionato, e con un po’ divergogna aspettavo l’inizio dei discorsi che sarebbero stati fatti dalle vittime. Credo chesia stata importante la decisione di dare a loro e solo a loro la parola, mentre noi siamostati per tutto il tempo in silenzio ad ascoltarle. Così, quando hanno iniziato a raccontarcile loro storie, sembrava che per la prima volta tutto il carcere si fosse fermato in un reve-rente silenzio, come se fosse sceso di nuovo Gesù ammonendoci a riconoscere i nostripeccati. Ho ascoltato con attenzione e sono stato rapito dal dolore che esprimevano quelle per-sone, ognuna con la propria storia di sofferenza per la perdita di una persona cara. Mentrenon ho percepito l’odio o la voglia di vendetta, e questo mi ha sorpreso molto. Qualcunoha manifestato un senso forte di abbandono e di indifferenza da parte delle istituzioni.Altri si domandavano come mai gli assassini dei loro cari oggi occupano anche qualcheruolo importante nell’apparato statale. C’era chi non sapeva ancora addirittura chi fosserogli autori dell’uccisione del proprio famigliare, e quindi si augurava solo di sapere ungiorno la verità. Ma nessuno ha parlato di vendetta personale. Mi aspettavo persone ar-rabbiate o accecate dall’odio, ero preparato a vederle scagliarsi contro di noi, aggreden-doci verbalmente e persino insultandoci. Invece ci hanno sorpresi dandoci un grandeesempio di civiltà. Io sono bosniaco e ho visto come l’odio e la vendetta hanno sprofondato il mio Paese nelsangue, facendolo ritornare ad una situazione medioevale dalla quale sta cercando ancoradi uscire con molte difficoltà. La mia cultura balcanica è impregnata di sentimenti arcaiciche non hanno mai portato nulla di buono, se non guerre e distruzione. Ma vedo cheanche qui in Italia sempre più persone manifestano nostalgia verso quei periodi orrendidella intolleranza verso chi aveva la colpa di essere diverso. Allora penso che quelle per-sone che sono venute in carcere, e che più di molti altri avevano ragioni per odiarci, invecehanno dimostrato che è più utile se ci parliamo e se cerchiamo di conoscerci meglio. Io credo che questo convegno sia stato anche una rivoluzione di quel pensiero di odio eintolleranza sempre più diffuso nella società, perché ha rovesciato quel desiderio di ven-

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detta che sempre più persone vogliono provocare. Sono sicuro che non rimarrà un fattoisolato, perché le persone intervenute hanno molto da insegnare non solo a noi detenuti,ma anche alle persone libere che sempre di più hanno bisogno di qualche lezione di civiltàe legalità.

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La strada che porta al futuroQuesto convegno ha fatto emergere un’altra verità;che ci sono tanti che vogliono costruire ed unire invece che dividere e distruggere

di Marco Libietti

Venerdì 23 maggio 2008. Periodo temporale ore 10,30-16,00… Convegno presso la Casadi reclusione di Padova Due Palazzi… tema “Sto imparando a non odiare”. Ebbene – potràdire qualcuno – cosa ci sarà di così particolare? Certo il tema è profondo, più impegnativodi tanti altri, ma un convegno è un evento in sé, e quindi?E quindi il collo di un imbuto non lo si può catalogare come un semplice evento perché èproprio questo ciò che ha rappresentato… un collo d’imbuto, una naturale “strozzatura”di percorsi convulsi, contrastanti e contrastati, di forze di diversa entità e correnti più omeno forti e, a volte, opposte e divergenti. Questo collo, questa strozzatura ha due solesoluzioni: una è l’afflusso, la convergenza di una quantità di detriti tale che si crea un“tappo” e tutto ciò che è arrivato sin lì refluisce sino a ristagnare formando un bacinochiuso, fine a se stesso, inutile… l’altra è che il flusso si incanali con moderazione e pa-zienza provocando un duplice effetto, la depurazione, il filtraggio di ciò che dovrà conti-nuare il percorso tramite un ordine ed una visione sempre crescente e,contemporaneamente, l’allargamento del collo d’imbuto, la formazione di un “letto” piùforte, solido e sicuro nel quale possono convivere, confrontarsi, miscelarsi, progredire eproseguire insieme tutte quelle componenti che si erano ammassate senza un piano, unprogetto chiaro e precostituito all’ingresso del collo.Questo ha detto e questo ha in qualche modo sentenziato questa naturale strozzaturapassata sotto la dicitura di convegno. Ogni tanto nella storia della vita delle persone si presentano, quasi emergono (con stu-pore anche di chi ha contribuito a ciò), nei momenti apparentemente più complessi (equesto si può ben dire che lo sia), situazioni e circostanze che “sentenziano” al di sopradi tutto non la necessità di un cambiamento ma un cambiamento… lo si voglia o no questoconvegno è stato una di queste. Dalle 16 di venerdì 23 maggio 2008, comunque vada,tanto, per tanti di noi, non è e non sarà più come era sino alle 10,30 di quella mattina. Eora si dovrà fare i conti con tutto questo, impostare proposte, progetti, indicare possibilisoluzioni per defluire e non refluire.Manlio Milani, Andrea Casalegno, Adolfo Ceretti, Giuseppe Soffiantini, Silvia Giralucci,Olga D’Antona, la redazione di Ristretti Orizzonti, i volontari, i detenuti, la società, tuttiquesti erano e sono intervenuti proprio come forze, correnti, idee, pensieri, convinzioni,considerazioni e stati d’animo eterogenei, a volte in linea, a volte contrapposti (propriocome la confluenza verso il collo, la strozzatura citata all’inizio) ma tutti pronti ad andareoltre, a proseguire.

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Tutti con i loro contributi che arrivano da riflessioni e percorsi personali con una elevatacomponente emotiva come nel caso della Giralucci e di Casalegno, seppur con modalitàdi esternazione diverse, o con maggior razionalità come nel caso di Soffiantini e Ceretti,sino agli interventi di Milani e della D’Antona che hanno incorporato nelle loro riflessioniemotività e razionalità ma, pure in questo caso, sempre e comunque con una propria uni-cità, fuori da categorie come quella delle “vittime”. E sono state queste unicità la forza as-soluta, ma in questo caso in termini positivi, propositivi, che ha fatto sì che, per la primavolta, tante voci, tanti pensieri ed idee isolati, seppur forti ed autorevoli, si siano potutiriunire, esprimere e confrontare con tutte le parti in causa.Di queste parti in causa una va citata per la sua grande, dirompente e fragorosa silenzio-sità… i detenuti, questa componente che, per le prima volta, ha accettato e deciso di met-tersi in gioco, di fare una scommessa su se stessa… in molti casi per la prima vera voltanella propria vita, davanti alla società vittima e giudice…

C’è una parte di società che preferisce creare barriere sempre più alte e fossati sempre più profondiLa sfida lanciata è molto forte, anche perché non è solo verso un proprio mondo esternoma, innanzi tutto, verso l’interno, l’interiorità di ogni singola componente di queste parti,che hanno lanciato un messaggio: “Impariamo a non odiare e proviamo a metter fuori latesta, insieme possiamo farcela”… ci sarà da lottare con se stessi e con quella parte di so-cietà che rema contro, che preferisce, con freddo calcolo, usando anche l’emotività e ilsenso di paura della gente, creare barriere sempre più alte e fossati sempre più ampi eprofondi, ma questo convegno ha detto con forza un’altra cosa, ha fatto emergere un’altraverità… ci sono tanti che ci vogliono o vorrebbero provare, che sono disponibili a costruireed unire invece che a distruggere e dividere.È proprio da qui che si deve riprendere, raccogliere le forze per defluire con calma e pa-zienza, per allargare un po’ alla volta questo collo d’imbuto naturale per costruire un lettosul quale poter scorrere tutti concentrando sforzi, collaborazione e risorse… sarebbe belloche fosse giunta l’ora di proporre, impostare piani programmatici che tengano conto dellavoglia di confrontarsi di Milani, del dolore struggente della Giralucci, dello spirito impren-ditoriale di Soffiantini sul recupero-inserimento come costo-beneficio per la società, dellaferma volontà della D’Antona di non essere sempre e solo considerata come quella a cuiquel giorno hanno ucciso il marito, della volontà e dello spirito di sacrificio del volonta-riato, della mediazione penale, dei mass-media che diano voce e visibilità a tutto questo.E di uno spirito “francescano” da parte dei rei, dei detenuti che siano disponibili verso levittime, la società, le loro famiglie e se stessi ad affrontare un percorso che sicuramenteinizialmente di agevole avrà ben poco, ma che li potrà portare a rialzare quella testa epoter riutilizzare, non solo formalmente, quei diritti che ora, come ha detto concludendoil suo intervento la Giralucci, non possono richiedere con pari forza e dignità rispetto a chista dall’altra parte.Da ora, da parte di tutti è giunto il momento di mettere un po’ da parte le parole e lebuone intenzioni, le riflessioni filosofiche, le invettive e le rivendicazioni e passare a fatticoncreti, a progetti precisi, impostati e mirati… che il convegno del prossimo anno possasancire tutto questo è l’unico augurio e pensiero che si deve fare e deve animare ognisingola parte intervenuta il 23 maggio, e che non basti più una palestra di un carcerecome letto dopo il collo d’imbuto.

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Spesso penso di vivere oggi una vita che non merito di vivereNon posso immaginare un assassino che rimane indifferente nel sentir pronunciare il nome della propria vittima, perché io non ci sono mai riuscito

di Andrea Andriotto

Arrivo a convegno già iniziato. Dal corridoio sento solo una voce di donna. Giunto allaporta mi accorgo che la sala è piena. Questa volta c’è molta più gente di tutti gli altri anni,mi guardo attorno cercando di capire cosa mi sono perso e cosa mi aspetterà da questagiornata. La sala è percorsa da un silenzio quasi irreale, ci saranno più di cinquecento per-sone e tutte zitte e attente. Allungo lo sguardo verso il tavolo dei relatori e vengo catturato prima dalla voce e poidalle parole di quella ragazza che più o meno avrà la mia età: “… quando uscivamo dal-l’aula bunker vedevo quelle persone e mi colpiva veramente vedere come avesserol’aspetto di persone normali, che avevano una vita normale, quando la mia, di vita, nor-male non lo era stata proprio per niente…”.So di sbagliarmi, ma ho come la sensazione che potrei anche essere io una di quelle per-sone dall’apparente vita normale. Entro nella grande sala sentendomi piccolino e con lasensazione di avere il dito di quella donna puntato contro, incredibilmente mi sento ad-dosso anche gli occhi di tutti. Se riuscissi a far prevalere la razionalità mi renderei contoche in realtà non sono stato notato da nessuno, tranne dall’agente che piantona l’entrata,e invece mi avvio verso le gradinate affrontando quei cinque gradini che mi separano dalposto a sedere come se avessi sulle spalle cento chili di cemento e mi trovassi ai piedidell’infinita scalinata di Trinità dei Monti. Mi sento pesante, quelle parole mi entrano den-tro con una prepotenza tale che iniziano a far eco e a rimbombare nella mia testa: “Quelloche mi aspetto io da un assassino è che tutte le mattine alzandosi si chieda ‘ma che cosaho fatto?’… e che consideri ogni giorno della sua vita come ‘regalato’ rispetto a quel cheha tolto e che si comporti di conseguenza…”.Avvistato un posto mi vado a sedere vicino ad un conoscente, mi sembra di essere un po’più impacciato del mio solito. Cerco di capire chi sia quella ragazza e mi viene detto chesi tratta di Silvia Giralucci. Ascolto con attenzione e fino all’ultima parola il suo interventoe nel momento in cui finisce di parlare e passa il microfono alla moderatrice, e mentretutta la sala dimostra partecipazione e applaude le sue parole, mi prende un morso allostomaco.Penso che se solo potessi vorrei dire a quella donna che mi dispiace per quanto le è ac-caduto e che non ho la più pallida idea di come si possa sentire una persona che uccideun potenziale o fantomatico nemico in nome degli ideali, ma so di certo come ci si sentedopo aver ammazzato in nome della “disperazione” una persona che non aveva nessunacolpa. Una persona che con la mia disperazione non c’entrava assolutamente niente. Io non so come si viva quando ti viene a mancare una persona cara in un modo così in-spiegabile e atroce, non so come si cresce senza il padre morto ammazzato, e non sonemmeno cosa si possa provare nei confronti dei suoi assassini. Io so solo come ci si sente quando ci si trova in un’aula di Tribunale mentre qualcheesperto cerca di ricostruire gli ultimi sanguinosi istanti di una vita che oggi non c’è più acausa mia. So come ci si sente quando gli occhi dei parenti ti fissano mentre ci si trova alla

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sbarra. So come si sta nel chiuso di una cella, in compagnia della sola disperazione pen-sando a quello che si è fatto, e so quanto si vorrebbe poter tornare indietro per ridaretutto ciò che si è tolto in così pochi istanti. Io so come mi sento quando mi succede di guardarmi allo specchio e mi rendo conto chela persona che mi trovo di fronte è un assassino, e quella persona sono proprio io. Io cheuna volta pensavo che per chi uccide non doveva esistere nessuna comprensione o com-passione, perché un atto così estremo, come provocare la morte di un’altra persona, po-teva essere solo una cosa premeditata, voluta, cercata, per cui se si arriva a tanto si deveanche essere consapevoli delle conseguenze, e pagarle in silenzio. Sono passati tredici anni da quel giorno e, anche se faccio in modo di distaccarmi da quelche ho fatto, ancora oggi spesso, spessissimo mi succede di pensare a quella personamorta a causa mia. Per tutto questo tempo ho combattuto in silenzio le afflizioni, le in-quietudini, le pene per quanto commesso. Non so se per i parenti della mia vittima sia ab-bastanza, ma a me succede continuamente di pensare ‘… ma che cosa ho fatto?’, e spessopenso di vivere oggi una vita che non merito di vivere.

Le persone che vogliono bene a me in un certo senso sono mie vittimeIo non so se ci sia una persona che ne ha ucciso un’altra, per sua volontà o meno, che rie-sce a vivere ogni giorno della propria esistenza senza pensare a ciò che ha tolto. Oggi nonriesco nemmeno ad immaginarmela, una persona assassina che riesce a vivere una vitanormale. Non ci riesco, perché per me (e per molte di quelle persone come me che ho co-nosciuto durante tutti questi anni di carcerazione) è sempre difficile non mettere davantia tutto il resto ciò che ho fatto quel pomeriggio di tredici anni fa. Non posso immaginareun assassino che rimane indifferente nel sentir pronunciare il nome della propria vittima,perché io non ci sono mai riuscito, a rimanere indifferente nel sentir pronunciare un nomeuguale a quello che portava la mia vittima, non sono mai riuscito a far finta di nientequando sento una voce simile alla sua, oppure quando ho vicino persone che in un modoo nell’altro mi ricordano qualcosa di quella persona…Non so se per me sarà così per sempre, tuttavia mi rendo conto che per sopravviveredevo riuscire a distaccarmi, devo riuscire a vivere una vita normale, se non solo per me,devo farlo anche per le persone che nonostante tutto hanno continuato a volermi benee a starmi vicino in tutto e per tutto. Perché se da una parte devo fare i conti tutti i giornicon la mia vittima e con le persone che le volevano bene, dall’altra devo anche pensarealle persone che vogliono bene a me. E anche loro in un certo senso sono mie vittime. Sì,mie vittime perché la mia era una famiglia normale, che conduceva una vita normale,che viveva in un paese normale. Una famiglia che si è svegliata una mattina per andare alavorare e invece gli è arrivata una mazzata tremenda quando un carabiniere ha dettoloro che il loro figlio, fratello, cugino, zio, era stato arrestato per omicidio. La loro vita daquel momento si è stravolta, le loro certezze, i loro gesti, le loro abitudini, le loro frequen-tazioni e le amicizie… da un momento all’altro tutto è stato sconvolto, e solamente a causamia. I miei per un bel po’ di tempo si sono rifiutati addirittura di uscire di casa e poi, purdi non incontrare persone o sguardi indiscreti e pronti a giudicare, andavano a messa e afar la spesa a più di dieci chilometri da casa. C’è voluto un po’ di tempo, ma alla fine anchein loro è prevalso l’amore, e dopo essersi ripresi da quel terribile trauma hanno iniziatoa riaccettarmi e a pensare principalmente al mio bene, a pensare che scontata la pena in

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carcere potrò tornare a vivere una vita quanto più normale possibile. Purtroppo però, io,che ho ucciso, vivo e vivrò una vita che solo ad un occhio poco attento potrà sembrarenormale. Una vita in cui dovrò sempre fare i conti con i sensi di colpa verso tutte quellepersone alle quali ho cambiato l’esistenza.

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Noi raccontiamo il carcere, loro ci insegnano come stare al mondoGli studenti, gli insegnanti e i volontari hanno l’esperienza, l’intelligenza, l’umanità e la sensibilità per farci pensare a cosa significa vedere la vita con gli occhi addolorati e spaventati delle vittime

di Elton Kalica

Sicuramente sono stati tanti gli studenti che ho visto e conosciuto ai tempi della mia vitascolastica, però gli studenti che ho incontrato durante questi quattro anni di progetto diconoscenza tra scuole e carcere non solo superano di gran lunga il numero di quelli cheho visto in dodici anni di scuola, ma hanno anche una qualità della comunicazione diversa:i miei compagni di scuola volevano parlare sempre del più e del meno e non avevano maitempo e pazienza per ascoltare, invece questi studenti ascoltano sempre con curiosità eattenzione. Di solito vediamo arrivare gruppi di trenta o quaranta studenti. Loro prendono subitoposto tra le sedie messe in fila per l’occasione e si guardano un po’ intorno come se, primadelle nostre facce, volessero raccogliere nella memoria l’arredo della nostra aula. Mal’aula della nostra redazione ha poco di galera – otto computer, due stampanti, due scan-ner e tanti tavoli – e presto i ragazzi finiscono per concentrarsi su di noi. Ci scrutano concuriosità. Forse qualcuno è anche un po’ deluso dalla nostra “normalità” fisica e d’abbi-gliamento. Ma da questi incontri ho imparato che il primo luogo comune a crollare, anchese in parte, è l’immaginario del carcerato brutto, sporco, cattivo e con la palla al piede.Dico in parte, perché il fatto di non essere brutti e sporchi, oppure di non avere la pallaal piede, non ci libera anche dall’essere cattivi. La cattiveria credo sia distribuita in tuttigli esseri viventi, però qui dentro il livello di cattiveria è di una concentrazione maggiore,ma quando abbiamo di fronte i ragazzi ci scrolliamo tutti di dosso la pelliccia del lupo, lamettiamo sul tavolo e diciamo che quella pelliccia si chiama “illegalità” e indossarla nonè uno scherzo, perché poi si finisce in galera e si rovina la vita a qualcuno, e anche a sestessi.

Ma c’è un nesso tra le nostre “ragazzate” di una volta e il carcere?Con il tempo ci siamo accorti che il modo migliore per ragionare è il confronto continuo.Negli incontri con gli studenti ci si confronta tanto e ciò che noi diciamo spesso è fruttodi lunghe discussioni. Ma questo non basta. Allora, ci riuniamo in redazione con i volontariesterni che ne fanno parte e ne discutiamo anche dopo aver finito gli incontri con gli stu-denti: devo dire che con loro il confronto è ancora più duro. Ricordo che una volta c’erano

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tra noi anche degli insegnanti, oltre i soliti volontari, e abbiamo cominciato a discutere sualcuni comportamenti che qualche studente ha a scuola e che spesso sfiorano l’illegalità.Si parlava di un ragazzo che si è messo a fare della “pazzie” per una compagna di scuolae per esprimere il suo sentimento imbrattava i muri della scuola scrivendo delle frasid’amore. In realtà, l’argomento non era facile da trattare, perché in un ambiente maschilecome il carcere si è portati a fare il tifo per il ragazzo, e qualcuno casca anche nel solitodiscorso da bar: “Ma cosa vuoi che sia, queste cose le abbiamo fatte tutti… in fondo, nonc’è nulla di male!”. Per fortuna che le insegnanti e le volontarie hanno una visione piùreale dei limiti attraverso cui si può esprimere un sentimento e ci hanno fatto osservareche forse non è un caso che il ragazzo in questione abbia dei grossi problemi nello studioe nel comportamento, così come non è una caso che il suo idolo sia quel fotografo famosofinito in carcere per estorsione. Qualcuno continuava ad essere dell’idea che è normale avere come idolo a quell’età Fa-brizio Corona, e che questo non significa essere un delinquente, ma le osservazioni delleinsegnanti sono state intelligenti perché hanno stimolato la riflessione. La maggior partedi noi ha fatto simili bravate, andava male a scuola, aveva come idolo qualche delin-quente, e quindi quel ragazzo assomigliava molto a come eravamo noi. A quel punto nonpotevamo più dimenticarci di essere in carcere, anche per reati gravissimi, e come permagia è nato in noi il dubbio che forse poteva esserci un nesso tra quelle “ragazzate” diuna volta e il carcere. Dunque è stato inevitabile anche per me pensare alle mie, di bravate, e a quella voglia ditrasgredire alle regole per essere notato da qualche ragazza, per distinguermi dagli altrie non passare inosservato (il mio forse è un caso particolare, perché ricordo che sia i pro-fessori che i miei genitori si stupivano del mio comportamento, visto che andavo brillan-temente negli studi), ma inevitabilmente ho visto chiaramente il legame diretto che c’ètra quella testa di c. che ero e l’entrata in carcere, perché anche se ho trovato in questoPaese troppo spesso avvocati ladri, procuratori spietati e giudici cinici, sono stato io conla mia condotta a diventare l’oggetto delle loro azioni penali, e a volte anche delle loro per-secuzioni, sono stato io che mi sono comportato da delinquente, e tutto per dimostraredi essere uno di quelli che scavalca i cancelli, che imbratta i muri e che non ha paura dinulla.

I ragazzi ci raccontano a volte come ci si sente ad essere vittime di reatiDurante l’ultimo incontro abbiamo discusso su quale sarebbe la giusta pena per uno cheguidando ubriaco investe delle persone. Quasi sempre gli studenti che incontriamo nellescuole manifestano un grande disappunto sulle pene che vengono date in simili casi, so-stenendo che ci debba essere tanta più galera per i responsabili. Allora il discorso si è su-bito fermato su quel caso del ragazzo rom che ha investito quattro giovanissimiuccidendoli sul colpo, e che è stato poi condannato a sei anni di carcere. Quanto è statagiusta la pena inflittagli?, ci si domandava. Anche in questa discussione non è mancato un iniziale smarrimento da parte di alcuni de-tenuti che vedevano nella condanna del rom la volontà da parte del giudice di dare unapena esemplare, perché di regola un omicidio colposo rimane pur sempre un fatto rara-mente condannabile con il carcere, e c’entra poco il bere. In realtà qui dentro siamo tuttiabituati a calcolare il male in anni di galera, e a guardarci intorno per vedere quanti anni

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ha preso uno e quanti anni ha preso l’altro e per valutare chi è stato più fortunato e chipiù sfortunato. Ecco perché di fronte ad una tragedia così grande, anche i detenuti più abi-tuati al confronto, come chi frequenta una redazione di giornale come la nostra, finisconoper valutare una ubriacatura in anni di galera invece che in vite umane perse. Ma poi Ornella, la responsabile del nostro giornale, ci ha fatto notare che le vite dei ra-gazzini rimasti vittime di questo incidente non sono l’unica cosa da considerare nella va-lutazione di una condanna così singolare. Lei giustamente ha ricordato che il guidatore delmezzo era al volante ubriaco e in più, invece di prestare soccorso ai ragazzi, è letteral-mente scappato. Non solo. Dopo essere stato scoperto e messo agli arresti domiciliari, haavuto un atteggiamento del tutto incosciente rispetto alla gravità del fatto, perché si è ad-dirittura prestato a fare la pubblicità di occhiali e merci varie, sfruttando la sua fama da“ragazzo cattivo”. Ascoltando Ornella, la mia iniziale esitazione è raddoppiata: se all’inizio mi rifiutavo difare una valutazione su questo fatto perché trovavo difficile mettermi sia nei panni di unadelle vittime sia nei panni del guidatore criminale, dopo quel ragionamento mi sono ac-corto che c’era qualcosa di sbagliato nelle teste di molte persone. Un episodio di questotipo dovrebbe lasciare inorriditi, dovrebbe provocare soltanto sentimenti di condannanei confronti del guidatore ubriaco che uccide quattro ragazzi, insomma il ripudio do-vrebbe essere istintivo e non si dovrebbero cercare “attenuanti” partendo dall’idea cheanche a noi piace bere, e che “può succedere” di guidare con un bicchiere di troppo incorpo. Invece se non ci fosse stata una volontaria a prenderci verbalmente a schiaffi, nes-suno sarebbe stato capace di pensare semplicemente a quanto orribile è svegliarsi e ren-dersi conto di aver ucciso quattro ragazzi. Solo dopo questa discussione, qualcuno hacominciato a riflettere e forse ha capito che questa libertà di fare tutto ciò che si vuole nonse la può permettere nessuno, anzi l’autore di un fatto del genere deve per lo meno avereil buon senso di comportarsi in modo attento e schivo e di chiudere la porta in faccia aqualsiasi commerciante ruffiano e senza scrupoli.Nella nostra redazione discutiamo sempre, prima e dopo gli incontri con gli studenti, per-ché i ragazzi non solo vengono qui per conoscere il carcere ed evitarlo nella vita, ma ci rac-contano anche come ci si sente ad essere vittime di reati, o comunque ci insegnano aprovare a mettersi nei panni delle vittime e pensare quanto si soffre a vedere i ladri in casao a essere sequestrati durante una rapina. È un punto di vista a cui difficilmente pensiamo,perché siamo in carcere, o forse perché siamo sotto punizione e passiamo il tempo con-centrati su noi stessi e sulle nostre sofferenze. Loro sì che lo fanno. Gli studenti, gli insegnanti e i volontari hanno l’esperienza, l’intelli-genza, l’umanità e la sensibilità per pensare cosa significa vedere la vita con gli occhi ad-dolorati e spaventati delle vittime, e se vogliamo vivere una vita diversa dalla galera, sevogliamo essere delle persone meno cattive e più umane, dobbiamo imparare prima ditutto ad ascoltarli.

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La mediazione penale: fare incontrare non due ruoli, il reo e la vittima, ma due persone

“La mediazione non vuole sanare il conflitto… vuole "prendersi cura" degli effettidistruttivi del conflitto”. É importante, questa definizione, perché sgombra ilcampo da una idea, che tante vittime spesso detestano, che la mediazione signi-fichi vedersi quasi sottrarre il diritto alla rabbia, all'odio, alla volontà ferrea di re-stare “in guerra” con chi è stato causa del loro dolore. E nello stesso tempo apreprospettive nuove anche per gli autori di reati.La mediazione è uno strumento della giustizia riparativa, per la quale il reato,prima di essere la violazione di una norma, rappresenta un fatto che “rompe unarelazione”. “Rompere una relazione”, “prendersi cura degli effetti di un conflitto”sono concetti spesso del tutto estranei a chi sta in carcere, e lo sono a tal punto,che nel vocabolario delle persone detenute è molto più facile trovare piuttostoespressioni come “ho pagato il mio debito”, e la convinzione che la pena sia ap-punto un debito con la società da ripagare con la galera, e da ritenere estinto allafine della carcerazione.Questo capitolo quindi parla di giustizia riparativa e di mediazione penale, ma lofa in un modo un po' diverso da un testo “tecnico” su questi temi: infatti alcuni frai massimi esperti di giustizia riparativa del nostro Paese “conducono per mano”persone detenute, in questo caso la redazione di Ristretti Orizzonti, in un percorsodi riflessione sulla mediazione penale, che è anche un percorso di consapevolezzae forse di maggior sofferenza, ma almeno di una sofferenza che ha un senso, eche è quella che si prova quando ci si accorge davvero che dietro il reato ci sonorelazioni spezzate di cui bisogna prendersi cura, e i cui effetti vanno ben oltre lafine della pena intesa come l'uscita dal carcere.

Capitolo V

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La scommessa: fare incontrare non due ruoli, il reo e la vittima, ma due personeLa mediazione penale raccontata da Federica Brunelli, mediatrice dell’Ufficio per la Mediazione di Milano

A cura della redazione di Ristretti Orizzonti

Federica Brunelli è avvocato, collaboratrice di Adolfo Ceretti, uno dei massimi esperti dimediazione penale, e lavora da oltre dieci anni nell’Ufficio per la Mediazione di Milano.L’abbiamo incontrata in carcere a Padova, nella redazione di Ristretti Orizzonti. E ci siamobuttati a capofitto in una discussione animata su questo straordinario modo di metterein contatto vittime e autori di reato.

Federica Brunelli: La mediazione è un tema che ha radici antiche. Forme di mediazionesi trovano in diverse culture: per esempio nelle culture delle cosiddette società tradizionalidell’Africa, dell’Asia troviamo la figura del saggio, della persona riconosciuta da tutti, chesvolge un ruolo di facilitazione quando sorgono delle difficoltà, dei conflitti. Questo perdire che, quando parliamo di mediazione, non stiamo scoprendo qualcosa di nuovo e disconosciuto. Ma qual è il compito della mediazione? Mediazione e giustizia riparativanon sono sinonimi, la mediazione è uno strumento della giustizia riparativa (la giustiziariparativa ha molti altri strumenti che non sono soltanto la mediazione), uno strumentoparticolare perché è l’unico che presuppone l’incontro, il faccia a faccia tra chi ha com-messo un reato e la persona che lo ha subito (se ragioniamo in termini di diritto penale)o più semplicemente l’incontro tra due persone che hanno un conflitto (se ragioniamo intermini più generali). La giustizia riparativa è una modalità per “rispondere alle domande di giustizia”, differenteda quelle che incontriamo abitualmente, perché – ed è questo il nucleo fondamentale –si configura come un modello di giustizia “relazionale”: quando viene commesso un reato,quando si tiene un comportamento che fa del male a qualcun altro, che umilia, che de-grada, la giustizia riparativa propone di guardare ciò che è accaduto da un punto di vistadifferente da quello che abitualmente prendiamo in considerazione. Proviamo a esempli-ficare: se io faccio una rapina, questo fatto immediatamente che cos’è? È la violazione diuna legge dello Stato, una violazione dell’articolo 628 del Codice penale. La giustizia ripa-rativa considera che questo fatto, prima di essere la violazione di una norma, rappresentaun fatto che “rompe una relazione”. Si prova a guardare il reato da un punto di vista di-verso, come se mettessimo degli occhiali un po’ diversi da quelli che portiamo abitual-mente, e guardassimo la realtà da una angolatura differente. Allora, per la giustizia riparativa, quando viene commesso un reato per prima cosa vienerotta una relazione. Proviamo a pensare a due persone che si conoscono: è possibile chenella mia relazione di amore, di amicizia, con un collega di lavoro, un vicino di casa iopossa avere, a un certo punto, delle difficoltà, può accadere anche un reato; ebbene è ab-bastanza evidente che in questo caso il reato rompa una relazione. Però proviamo a pen-sare a due persone che non si conoscono: io che arrivo a Padova a incontrarvi e uno instazione mi ruba la borsa. È una persona che non conosco, non l’ho mai vista prima, pro-babilmente non la vedrò più, una persona che con me non condivide proprio niente: fra

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me e questa persona che relazione c’è? Il prof. Ceretti propone di chiamare questa rela-zione “patto di cittadinanza”. Cosa vuol dire? Vuol dire che noi tutti siamo legati da unaserie di norme implicite, di attese di rispetto e di onore, di aspettative che abbiamo gli uninei confronti degli altri, l’aspettativa per me che vengo a Padova è il fatto che posso scen-dere dal treno, arrivare fin qui tranquilla, senza che mi succeda niente di male. Ebbene,se arriva una persona che mi ruba la borsa, questa aspettativa di fiducia e di rispetto sirompe. In questo senso, anche fra due persone che non si conoscono si rompe qualcosadi molto importante, non una relazione di amicizia o di conoscenza, ma questo patto, ilpatto per cui io mi aspetto di essere onorato dagli altri, di essere rispettato, di potere an-dare a Padova senza che mi succeda niente di male. La giustizia riparativa lavora su questa rottura, sulle conseguenze negative che si produ-cono, cercando di capire se esiste un modo per riparare la relazione che si è spezzata.Quindi non c’è l’idea che è stata violata una norma e io applico una punizione, non mimetto in un’ottica in cui c’è una persona che ha commesso un reato e quindi deve subireuna punizione, ma mi metto in un’ottica diversa, considero che si è rotta una relazione eprovo a chiedere alle due persone di quella relazione di tentare di costruire insieme qual-cosa per il futuro, provare a vedere se questo strappo in qualche modo può essere ripa-rato. La mediazione fa proprio questo, è uno strumento di giustizia riparativa perché sioccupa di vedere se è possibile una riparazione attraverso l’incontro delle due parti, equindi è una giustizia diversa perché nella giustizia tradizionale, che si fonda spesso su una“non attività”, la persona che ha rubato la borsa, una volta che viene arrestata, non è chepossa fare molto, così come quando viene processata. Può subire la sua condanna, atten-dere la pena.Nella giustizia riparativa l’idea è che dal “subire” si può incominciare invece a “fare” qual-cosa, quindi io non aspetto semplicemente la condanna, ma posso darmi da fare e possodarmi da fare insieme all’altro. Cosa si propone alle persone? Di incontrarsi in una stanza, un luogo protetto, dove i me-diatori hanno il compito di facilitare questo incontro, restituendo per prima cosa la parolaai protagonisti di quella vicenda. Il mediatore parla poco, parlano molto le parti, hannoloro delle cose da dirsi. Che cosa succede in un incontro di mediazione? Si restituisce laparola, questa cosa è molto importante per chi è stato vittima così come è importante perchi ha commesso il fatto. Spesso l’esperienza processuale delle vittime è un’esperienzamolto insoddisfacente, non si riesce a prendere la parola se non per testimoniare e direcome sono andati i fatti, le vittime di solito vengono ascoltate solo sui fatti oggettivi, nonsu tutto quello che è davvero loro successo.

Le vittime hanno spesso un grande desiderio di vendettaSubire la rottura di una relazione può lasciare delle conseguenze molto importanti nellepersone perché cambia proprio la vita, la vita non è più quella di prima. Ci sono fatti piùgravi e fatti meno gravi: nell’Ufficio per la Mediazione c’è capitato di avere una signora an-ziana che era stata scippata della sua borsa, magari lei che usciva tutti i giorni di casa, daallora non è più uscita, non è andata più a fare la spesa in quel posto lì. Ecco, queste pos-sono sembrare delle cose di poco conto ma in realtà sono veramente delle piccole “mortiinteriori”. Nella mediazione una vittima può dire quello che le è successo, può dire anchetutta la sua rabbia, la paura, l’angoscia e il desiderio di vendetta. Le vittime hanno un

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grande desiderio di vendetta, non un piccolo desiderio di vendetta, un grandissimo desi-derio di vendetta, che viene poi gestito dallo Stato attraverso il sistema di giustizia (dalprocesso all’applicazione di una pena). In mediazione questo desiderio di vendetta puòessere detto, e il fatto di poterlo dire è gia un passo molto importante, perché permettedi riconoscerlo e magari di provare a trasformarlo in un’altra cosa: passare da un desideriodi vendetta a un desiderio di riparazione, è un percorso che, se la vittima riesce a com-pierlo può risultare davvero molto importante, può aiutare molto. Prendere la parola, in-terrogare l’altro, esprimere fino in fondo i propri vissuti, in questo senso essere attive:per le vittime è faticoso, ma può essere importante. Noi abbiamo fatto una ricerca sull’attività dell’Ufficio per la Mediazione, dove lavoriamocon autori di reato minorenni, e la ricerca ci ha detto che, tra le vittime che vengono chia-mate da noi con la proposta di mediazione, soltanto il sessanta per cento accetta di farela mediazione. Il quaranta per cento dice di no, non ne vuol sapere, non la vuole fare, enon è una piccola percentuale. Poi su questo sessanta per cento che accetta di fare lamediazione il novantanove virgola otto circa è contento di averla fatta. Quindi se una vit-tima accetta di fare la mediazione è poi quasi sempre soddisfatta dell’esperienza, ne senteil beneficio. Parlare all’autore di reato può essere importante per una vittima, perché lamediazione lavora sul “riconoscimento”, e spesso il riconoscimento più significativo puòessere restituito soltanto dalla persona che l’ha tolto, non c’è niente, non c’è neancheuna parola del giudice che possa davvero restituire un riconoscimento pieno così comechi quel rispetto me l’ha tolto, ed è per questo che molte vittime vengono. Magari perchédicono: io vengo, gli dico tutto il male che penso di lui e poi vado a casa. Benissimo, èuna buona ragione perché incomincino a venire in mediazione, dopo di che bisogna ov-viamente lavorare su questa situazione.In mediazione anche chi ha commesso il fatto può essere attivo perché anche lui prendela parola in prima persona. È uno spazio di libertà in cui le cose importanti che ciascunosente possono essere espresse e riconosciute, diventano tema di lavoro comune, anchela rabbia, perché no? La rabbia c’è nell’uno e c’è molto spesso anche nell’altro. L’autore di reato, chi ha commesso l’ingiustizia è attivo in mediazione soprattutto perchépuò fare un gesto positivo, e questa è l’idea di fondo: io ho fatto una cosa negativa eposso farne una positiva, posso provare a riparare, e capite bene che la riparazione èqualcosa molto spesso di simbolico che non ha niente a che vedere con il denaro, è magarisolo una parola, una richiesta di scuse sincere non strumentali; questi gesti possono averegrandissimo valore e spostare la prospettiva, perché finalmente se ho commesso un reatonon aspetto di subire una punizione, ma posso essere attivo e fare qualcosa attraversol’incontro con l’altro, fare qualcosa che vada bene per me e vada bene per te, che riparime e che ripari te.

Piero Paviola (Ristretti Orizzonti): Quando trovate le persone che fanno parte del qua-ranta per cento che rifiuta la mediazione, cercate in qualche modo di convincerle, magariinformandole che le persone che accettano di partecipare alla mediazione sono contentedi aver aderito a questa iniziativa? Federica Brunelli: È importante questa domanda, perché permette di sottolineare che lamediazione è sempre volontaria, non può mai essere imposta; quest’argomentazione noila usiamo, diciamo: guarda, la nostra esperienza ci dice che chi la fa è contento. Però civuole anche molto rispetto nel non pensare che la mediazione possa essere la cosa giusta

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per tutti, perché magari davvero, per certe vittime, non c’è bisogno di mediazione, magariio posso avere veramente solo bisogno della parola del giudice e basta. Quindi ecco, moltorispetto anche nei confronti di questi no; ovviamente noi ci lavoriamo su un no, magaridiciamo: venga a fare un colloquio da sola. E dopo il colloquio, se la persona ancora dicedi no, va bene, si rispetta, però un po’ ci si lavora, sul consenso. Di regola, per invitare le persone in mediazione, prima scriviamo una lettera e poi telefo-niamo; la prima telefonata è complicatissima, spesso si fa alla sera perché le persone disolito la sera sono a casa e tu entri nella famiglia di una persona, spesso è ora di cena, ar-rivi e dici: buonasera, sono un mediatore e le propongo di fare questa cosa qui. Mi è ca-pitato tante volte che mi gridassero sulla testa, davvero, c’è chi mi dice: ma lei è impazzita,ma lei non sa che cosa sta dicendo. Però magari poi ci sono delle telefonate dove questepersone non riattaccano, stanno li e ti dicono: “Lei non si rende conto di cosa mi è suc-cesso”, e allora lì si può iniziare a lavorare, si può incominciare a dire: c’è uno spazio ancheper le vittime, in cui si può essere accolti e avere un ascolto tutto per sè. Ci si può lavorare,su questa cosa, però non è semplice.

Sandro Calderoni (Ristretti Orizzonti): Come scegliete le persone da avviare alla media-zione? Federica Brunelli: A livello di forma è sempre l’autorità giudiziaria che ci deve incaricare,quindi il giudice che guarda quel caso e dice, per esempio: queste due persone ritorne-ranno a vivere una accanto all’altra, quindi, indipendentemente dal fatto che venga scon-tata una pena, poi si ritrovano ad essere sempre vicini di casa, allora il giudice decide chelì ha senso lavorare sul conflitto perché loro poi ritorneranno a vedersi e quindi hanno bi-sogno anche di definire che cosa dovrà succedere fra loro da quel giorno in poi; può essereil giudice che lo ritiene utile oppure una richiesta dell’interessato, formalmente è tuttaviasempre il magistrato che ci incarica. Quando invece lavoriamo sul territorio, perché cisono anche dei centri che non sono di mediazione penale ma di mediazione sociale, uncittadino che ha un conflitto, non di rilevanza penale, può rivolgersi ai mediatori chie-dendo di fare una mediazione. In quel caso, per esempio, sono i diretti interessati chepossono venire portando il loro conflitto, quindi anche la richiesta del singolo interessatopuò essere il motore di inizio.

Gianfranco Gimona (Ristretti Orizzonti): Leggo che il mediatore non fa progetti, non dàconsigli, non propone soluzioni, non interpreta, non spiega perché si produce una certasituazione, una certa reazione, perché si produce quella particolare emotività… Mi chiedoallora: se tutto questo non è, qual è il suo ruolo?Federica Brunelli: È vero, il mediatore non giudica, non ha il compito di dire chi ha tortoe chi ha ragione. In un conflitto penale dove c’è il borseggiatore che ha derubato la po-veretta che è arrivata in stazione, chi ha torto o ha ragione in qualche modo viene già de-finito per legge, le persone arrivano e hanno due nomi: autore di reato e vittima. Lascommessa in mediazione è provare a fare incontrare non due ruoli ma due persone, chesono molto di più del loro ruolo. Non c’è giudizio perché il mediatore non deve lavoraresul torto o sulla ragione, su quello lavora il giudice, ciò che può provare a fare il mediatoreè usare un linguaggio, una parola che riconosce, la parola “riconoscimento” è la parolaimportante in mediazione. La parola che riconosce che cosa? Riconosce le conseguenzedi quel fatto per l’uno e per l’altro, quindi la mediazione lavora molto su come ciascuno

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ha vissuto quel fatto e non sul fatto in termini materiali e oggettivi. Un mediatore non fadelle indagini, non va a chiedere: ma lei quando ha preso la borsa dove si era nascosto?Queste sono domande che la vittima può fare perché può essere interessata a sapere al-cuni aspetti di quanto le è accaduto (per esempio se è una vittima casuale o se invece èstata scelta, questa è una domanda importante per le vittime, e la risposta ce l’ha soltantol’altro, e la vittima può misurare la verità di quella risposta solo incontrando l’altro), maal mediatore non interessa investigare i fatti, quanto far emergere i vissuti legati a queifatti. La mediazione non lavora sulla materialità ma sul vissuto, su ciò che quel fatto poi ha pro-dotto, tutta la paura che la vittima ha avuto, come si è sentito l’altro nel rubare la borsa,cioè il poter lavorare su un piano esistenziale dei conflitti, non fattuale. Quindi si usa unaparola che riconosce, innanzi tutto, per esempio, le emozioni legate a quel fatto, c’è ungrande lavoro che viene fatto sul riconoscimento dei vissuti che riguardano le emozionie c’è un grande lavoro che riguarda anche il riconoscere i temi fondamentali che quelconflitto ha violato. Un tema tra vittima e reo potrebbe essere la questione del rispetto e della fiducia, questisono dei temi su cui si può lavorare in mediazione e si può incominciare a prendere la pa-rola su questi temi che attengono non al ruolo ma alle persone, perché sono convintache sia la vittima che l’autore del reato possano dire qualcosa sul rispetto, ed è a questolivello di temi del conflitto che forse ci possiamo incontrare in un modo diverso. Il mediatore poi non è uno psicologo perché non prende in carico le persone e non pre-tende di spiegargli la causa di un certo meccanismo, non è questo, ci sono dei superpro-fessionisti che lo fanno. Il mediatore non ha neanche le capacità per farlo, il mediatorelavora molto sulla relazione, quindi non fa un lavoro o sull’uno o sull’altro, ma fa un lavorosulla relazione, sempre diretto a facilitare l’individuazione di possibili gesti per riparare;egli ha perciò sempre due persone e lavora sull’aspetto relazionale che si è rotto. Si puòparagonare ad un costruttore di ponti, c’è un bellissimo racconto di uno scrittore che sichiama Claudio Magris, lui ha scritto questo racconto sul ponte quando c’è stato il bom-bardamento del ponte di Mostar, che è un fatto che l’aveva molto colpito, il ponte eraproprio un simbolo e lui scrive tutto questo racconto sulla costruzione del ponte. Secondome assomiglia molto a quello del mediatore, questo lavoro, per cui quando poi sei sulponte non sai più da che parte stai, se sei salito di là o se sei salito di qua. Questo ponteha una potenza perché è fatto di un lavoro collettivo di mani.

L’esperienza della commissione per la verità e la riconciliazione in SudafricaC’è un’esperienza che secondo me vale la pena di citare, è quella della commissione su-dafricana per la verità e la riconciliazione, che ha riguardato il Sudafrica nel ‘94. Voi sapeteche il Sudafrica ha vissuto un lungo periodo di apartheid e che nel ‘94, con la salita al po-tere di Nelson Mandela, questo regime è finito, e il problema più importante è diventatofar convivere bianchi e neri, perché poteva scoppiare la guerra civile all’inverso, cioè po-teva esserci una vendetta dei neri contro i bianchi, e quindi ci si sarebbe ritrovati al puntodi partenza. Cosa hanno fatto? Hanno provato ad usare la giustizia riparativa. Hannodetto: la verità in cambio dell’amnistia, di una rinuncia a punire. Hanno fatto una cosamolto coraggiosa e l’hanno fatta rispetto a degli eventi che non sono stati forse classificaticome genocidio, però sono eventi che si possono definire estremi, irreparabili, sono state

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uccise migliaia di persone. Hanno sostanzialmente istituito delle commissioni che anda-vano di villaggio in villaggio e ascoltavano le vittime che desideravano raccontare la pro-pria storia di vittima, o i parenti delle vittime; alle vittime veniva data la possibilità diincontrare i responsabili di quei fatti, di confrontarsi con gli autori dei crimini. Gli autoriavevano la possibilità di dire la verità, dire effettivamente quello che avevano fatto e que-sta loro ammissione di verità gli dava diritto ad un’amnistia, sostanzialmente il fatto chenon c’era punizione se veniva restituita al Paese la verità a partire da questo confronto conle vittime. Le commissioni hanno permesso di ricostruire una verità storica di quello cheera accaduto (tra l’altro tutte le sedute della commissione venivano trasmesse alla radio,per cui non c’era il filtro dei mass media, era proprio ascoltare direttamente la voce deiprotagonisti). Questo lavoro ha permesso anche di ricostruire una memoria personale, in-dividuale e collettiva, e ha avuto in molti casi un effetto liberatorio per le vittime; moltihanno potuto sapere dov’era sepolto il corpo del loro caro. Restano comunque dei fattiirreparabili, però questa commissione ha permesso, a mio modo di vedere, di accederead un’idea di riconciliazione, alla possibilità di dire che noi possiamo riprendere a viveregli uni accanto agli altri senza la vendetta.

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Dalle nostre discussioni sono emersi fondamen-talmente due punti di vista opposti, c’è chi alla mediazione crede poco e chi crede molto,questo soprattutto per due motivi: chi ci crede poco è chi ad esempio ha commesso reaticontro il patrimonio, prendiamo la rapina in banca, perché poi il discorso che emerge èquesto: “Mi sono fatto vent’anni per delle rapine in banca, non ho fatto materialmentedel male a nessuno”, oppure “Perché ho spacciato 20 grammi di droga mi sono fatto unnumero sproporzionato di anni di carcere, devo anche andare a chiedere scusa a qual-cuno?”. Mentre invece per chi ha fatto reati contro la persona il discorso già cambia, forsec’è una consapevolezza diversa, avendo fatto del male a qualcuno magari questa esigenzasi sente perché si sente il bisogno di riparare qualcosa, ecco credo che questo abbia giàun senso e credo che abbia anche un senso per chi è stato offeso sentirsi dire qualcosa.La questione è semplice: se qualcuno ti fa un torto preferisci che ti ignori e che si giri dal-l’altra parte se ti incontra, oppure che almeno ti chieda scusa?Graziano Scialpi (Ristretti Orizzonti): A volte la situazione è un po’ più complessa, c’èanche un timore vero: ho gia fatto un danno, non è che vado a rigirare il coltello nellapiaga, questa persona magari sta cercando di dimenticare, mi ripresento nella sua vita ariattizzare braci che forse era meglio lasciare perdere. Questo soprattutto per i reati gravi,per i reati minori questo problema si pone molto meno e il tempo che è passato magariha alleviato le ferite. Federica Brunelli: Ho fatto tante mediazioni, alcune volte anche su casi cosiddetti irrepa-rabili e i dubbi che avete voi continuo ad averli anch’io, e secondo me chiunque si apprestaa proporre l’attività di mediazione deve averli. Che cosa faccio quando sono passati diecianni dal fatto, chiamo la vittima, magari è una persona che si è già sistemata le sue cose,che non ha più voglia? Io credo che la regola sia di non fare mai passi avventati e pensaresempre molto bene prima di muoversi. È anche vero che ci sono delle situazioni di vittimeche, anche dopo tanti anni, hanno il desiderio di fare questa cosa, per cui non credo cipossa essere una regola, ma ci sia proprio il valutare caso per caso, cioè in un caso puòessere molto importante, in un altro magari apparentemente simile può avere moltomeno senso. Spesso mi chiedono: ma per quali reati si può fare, per quali no? Io rispondo

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che non c’è una classificazione, può esserci un furto per cui la mediazione ha un gransenso, e un furto in cui non ce l’ha per niente. Una volta eravamo in Tribunale e abbiamofatto una lezione ai Giudici di pace, i quali sapete possono usare la mediazione, abbiamoproposto di fare una simulata, chiedendo: c’è qualcuno che vuole provare a raccontare unfatto che gli è capitato? E c’è stato un signore, un giudice, che ha alzato la mano da lon-tano, per dire: “Io, io, ce l’ho il conflitto, io, io”. È venuto lì, e ha raccontato un furto incasa, che gli era successo venticinque anni prima, e che lui aveva ancora in mente, perchéoltre al fatto che gli avevano portato via il braccialetto o la catenina, vi era tutta la que-stione della violazione della sua vita privata che non aveva dimenticato, era stato un reatoche lo aveva toccato molto, nell’intimità. Per lui questo fatto della sua casa, che era luogodi amore, di sicurezza, violata, invasa da una persona estranea, è una cosa che gli è rimastadentro. La mediazione però è volontaria, deve essere volontaria per l’uno e per l’altro. È vero chespesso viene usata questa parola “riparazione”, anche per quanto riguarda l’ambito del-l’esecuzione penale, nell’affidamento è prevista una forma di riparazione, e spesso nasceuna gran confusione. Allora: la riparazione è tale se nasce volontariamente dalle persone,se è frutto il più possibile di un lavoro condiviso, la riparazione non è una pena, il fatto cheun condannato “debba” versare del denaro tutti i mesi a titolo di riparazione non ha nes-sun senso, se è qualcosa che nasce dall’imposizione e non dal consenso, perché diventauna pena vestita da riparazione. È molto pericoloso l’uso che se ne fa perché l’intento èbuono, cioè il prendersi cura anche degli aspetti di legame sociale, di ricostruzione dellerelazioni, poi però se viene usato per applicare una pena in più non stiamo facendo ripa-razione. Per cui il lavoro che cerchiamo di fare è innanzitutto di capire come anche nel-l’ambito dell’esecuzione penale si possa realizzare attività riparativa in un modo corretto,che discenda da un desiderio effettivo delle persone e che non sia confusa con il risarci-mento del danno. Tutto questo non è facile, ci si sta davvero lavorando molto sopra maci si sta anche molto pensando, perché se delle sperimentazioni devono essere fatte, ven-gano fatte per bene. Dopo di che, a mio parere se la costruiamo nel modo giusto a me nonspaventa il fatto che ci possa essere anche una strumentalità, io la vedo sempre, peresempio, nei minori che vengono a fare le mediazioni. Nel procedimento minorile il fattoche ci sia una mediazione ben riuscita può dare dei benefici e gli autori di reato, i ragazzinispesso accettano di venire non perché hanno la sacra ispirazione che devono incontrarela loro vittima, vengono perché l’avvocato li manda a calci nel sedere, è il giudice che lochiede per cui capiscono che gli conviene, che qualcosa di buono comunque ne verràfuori. Ma va bene anche così, nel senso che la strumentalità è un dato che c’è, con cui sideve fare i conti, ed è una strumentalità, però, che davvero si perde tantissimo durantel’incontro di mediazione, e la cosa qualificante che la fa venir meno non è tanto la bravuradel mediatore, che ovviamente su questa strumentalità ci deve saper lavorare, ma è lapresenza della vittima, perché cambia, perché quando tu sei seduto lì, con l’altro vicinoa te che ti chiede conto di quello che hai fatto, le cose cambiano. La maggior parte delle mediazioni, per quanto riguarda i minori, viene fatta durante la fasepreliminare, ci è capitato di fare qualche mediazione anche per qualche minore che sitrovava in carcere, ma di solito è proprio il giudice che decide chi inviare alla mediazione.Molto spesso si tratta di condanne a piede libero, quindi magari delle messe alla prova odei giovani che si trovano in comunità, le mediazioni fatte con giovani che si trovano giàin carcere sono molto poche, di solito si cerca di farla subito, cioè il magistrato la propone

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nelle indagini preliminari, perché se la mediazione va bene potrebbe contribuire a una ra-pida fuoriuscita del minore dal circuito penale, attraverso una delle misure già previste nelprocesso minorile, oppure alla concessione di una messa alla prova.Per quanto riguarda gli adulti, adesso abbiamo le prime sperimentazioni. Con gli adulti perora stiamo lavorando molto con i giudici di pace e quella è una normativa tutta partico-lare, tra l’altro, secondo me, è una normativa rivoluzionaria anche se un po’ bistrattata,perché per la prima volta, per tutta una serie di reati, non è prevista la pena detentiva. Enon si tratta di reati piccoli, sono reati importanti, perché sono tutti quei reati che di solitoriguardano proprio la convivenza, la vicinanza fra le persone, per esempio: le minacce, leingiurie, le lesioni lievi, alcuni furti, sono tutti di competenza del giudice di pace, e il giu-dice di pace per questo genere di reati non può usare una pena detentiva, ma deve pro-muovere delle forme di giustizia riparativa e può anche farsi aiutare dai mediatori, quindilì lavoriamo molto con persone adulte. Se penso alle mediazioni che ho fatto trovo che sono molto più semplici paradossalmentele mediazioni su casi gravissimi, che le mediazioni su casi che sono poco gravi ma dove isentimenti delle persone sono incancreniti. Per esempio, fare la mediazione tra due vicinidi casa è spesso veramente difficilissimo, molto più difficile che lavorare invece su unfatto di rapina grave, oggettivamente grave, dove le emozioni sono forse più esplicite, piùchiare.Questa è una giustizia attenta a ricucire i legami, per cui tutte queste persone o i membridella comunità, sono importanti per la giustizia riparativa, perché se il compito è di ricucirequalcosa che si è rotto, è vero che qualcosa si rompe fra vittima e autore di reato, ma èvero anche che si rompe con il condominio, i nostri vicini di casa, il piccolo paese, il quar-tiere, dove tutti sanno, tutti parlano. Allora, sono delle dimensioni sulle quali si può lavo-rare, sempre però partendo dalle persone interessate, per cui può essere per esempio chela riparazione che decidiamo di costruire possa riguardare anche la collettività. Vi faccioun esempio sempre dal minorile: ho fatto una mediazione tra due gruppi di giovani, c’erail gruppo delle vittime e il gruppo degli autori di reato, quelle che sui giornali maldestra-mente vengono chiamate le “Baby Gang” e lì il fatto era successo in un piccolo centro esi era prodotta questa situazione, per cui il gruppo delle vittime non poteva più attraver-sare la piazza del paese perché c’erano gli altri che la occupavano e ogni volta che loro pas-savano di lì succedeva qualcosa di spiacevole, una volta li avevano anche menati, per cuiquesto gruppetto delle vittime doveva fare tutto il giro per arrivare dall’altra parte dellapiazza. Abbiamo fatto la mediazione, è andata molto bene e però poi alla fine mi ricordoche uno di loro ha detto: “Sì, noi qui ci siamo chiariti, abbiamo capito un sacco di cose chenon avevamo capito prima, ma a quelli lì che stanno fuori chi glielo spiega che noi ci siamochiariti?”. E allora loro avevano costruito la riparazione in quest’ottica e avevano peresempio deciso che poteva essere significativo se i due leader dei rispettivi gruppi fosseroandati a bere una birra insieme nella piazza del paese, come gesto dimostrativo nei con-fronti di tutti gli altri. Questo è un esempio molto semplice, che però ci fa capire come, avolte, la riparazione decisa dagli interessati può tener conto anche di questi contesti piùampi. Bisogna anche aggiungere che vittime, per la giustizia riparativa, non sono soltanto coloroche hanno subito, ma vittime sono molte più persone, sono sicuramente i parenti di chiha subito, a volte loro stessi subiscono i riflessi di quello che è accaduto, ma sono anchei parenti di chi ha commesso il fatto, e questa è una prospettiva che la giustizia riparativa

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prende in considerazione rispetto agli altri modelli, che invece non lo fanno, perché nes-suno si occupa di queste vittime che la sociologia chiama “vittime secondarie”. Però sedobbiamo ricucire delle relazioni, tutte queste persone sono importanti, poi bisogna ve-dere come farle entrare in questo lavoro, magari non faranno loro la mediazione, però si-curamente sono delle persone di cui la giustizia riparativa si prende cura perché sonoimportanti.

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): E quando parliamo di reati gravi e ci sono queste si-tuazioni in cui le vittime in qualche modo si organizzano, si mettono insieme in un comi-tato, come vi ponete? A me sinceramente fanno un po’ paura perché mi sembra che sianodei gruppi, delle associazioni in cui è difficile rielaborare quello che hanno subito standotra di loro, ho l’impressione che si moltiplichi invece il desiderio di vendetta. Mi piace-rebbe capire se avete avuto rapporti con queste associazioni e cosa ne pensate. Federica Brunelli: Il discorso è complesso ma il fenomeno dell’associazionismo delle vit-time, se da un lato ha dato dei risultati importanti e ha rappresentato un punto di riferi-mento vitale per chi ne fa parte, dall’altro lato può essere strumentalizzato. Prima, quandodicevamo che la mediazione può essere utilizzata in modo sbagliato per dei fini che inrealtà non sono riparativi ma retributivi, pensavo al fatto che a volte, anche a livello po-litico, si parla di vittime non perché c’è un interesse alle vittime, ma perché il prendersicura delle vittime nasconde politiche di tolleranza zero, di durezza, non per fare un lavorodi ricucitura, ma per inasprire la situazione. Da un altro punto di vista è vero che un’associazione tutela, protegge, rappresenta unavittima, la rafforza, ma è anche vero che è importante poter pensare di fare un passoavanti, di non rimanere inchiodati al ruolo di vittima per sempre. È un passaggio difficile. Io conosco Paolo Bolognesi, il presidente dell’Associazione delle vittime della strage diBologna, lo incontrai a Modena e nacque, fra lui e il nostro gruppo di mediatori, un dialogocomplesso e un confronto importante. Abbiamo ragionato molto insieme sulla specificitàdegli accadimenti di cui egli è vittima e abbiamo riflettuto insieme sul tema del “bisognodi verità” come base necessaria a qualsiasi apertura verso forme di giustizia riparativa, edi come senza verità per una vittima sia impossibile fare dei passi avanti. C’è un’immagineche Bolognesi ha usato in un’intervista che abbiamo realizzato per la rivista Dignitas, e chemi ha colpito molto, quella della medaglia. L’autore del reato e la vittima sono come lefacce di una medaglia, sono unite in modo indissolubile, per sempre, sono appiccicate;però se guardi una faccia non vedi l’altra e viceversa, non riescono mai a staccarsi, nonhanno mai modo di prendere un po’ di distanza per guardarsi. Ecco, per Paolo la media-zione è un’opportunità per prendere questa distanza e per accedere a uno sguardo reci-proco, indipendentemente dalla gravità di un reato.

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Quella sottile linea rossa che uniscetutte le esperienze delle vittimeÈ la “perdita del prima”, è una perdita ontologica di un senso di fiducia nei confronti del mondo, che non ci sarà mai più, e su questo mai più, noi che ci occupiamo di giustizia riparativa cerchiamo invece di fare delle scommesse e di immaginare dei futuri credibili

di Adolfo CerettiProfessore ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca e

Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano

Per chi si occupa di mediazione reo-vittima – e io lo faccio da 14 anni, è un motivo digrande orgoglio sapere che questi temi iniziano ad avere delle ricadute importanti.Con Federica Brunelli, con la quale sono stato in Sud Africa nel 2006, invitato da alcunicomponenti della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in occasione della cele-brazione dei 10 anni della sua istituzione, stavamo commentando che noi oggi siamo se-duti in una sala che ricorda tantissimo gli incontri della Commissione. Sono presentivittime di reati di terrorismo, ci sono autori di reato e c’è un pubblico. Tutti insieme cer-chiamo di capire, tutti insieme stiamo cercando di costruire un linguaggio capace di esseresignificante rispetto alle esperienze di vittimizzazione.Vorrei partire da alcuni temi che chi mi conosce avrà ascoltato altre volte. C’è una sottilelinea rossa che unisce tutte le esperienze delle vittime, e che riguarda sia chi subisce unfurto di un portafogli sia chi è sopravvissuto ad Auschwitz, e questa sottile linea rossaconsiste, a mio avviso, in ciò che ho definito “la perdita del prima”. Manlio Milani e AndreaCasalegno hanno parlato di questa “perdita del prima”, che consiste in una perdita onto-logica della fiducia nei confronti di quel “mondo” che è capace di donare anche “sicu-rezza” e che loro hanno detto che non tornerà “mai più”. Su questo “mai più”, chi sioccupa di “giustizia riparativa” cerca invece di investire, per creare le condizioni in cui reie vittime possano iniziare a scommettere su dei futuri credibili – rispettando naturalmentele sensibilità di ogni persona coinvolta. Per accedere ai programmi di giustizia riparativanessuno deve sentirsi forzato a fare nulla di quello che non si sente di fare. E allora si puòcominciare a lavorare anche sul “senso di colpa”. Ne ha parlato Manlio Milani, per direquello che ha provato e prova per essere sopravvissuto alla strage di Piazza della Loggia.Il ricordo va qui a Yolande Mukagasana, una signora ruandese che ho incontrato in occa-sione di un Convegno che ho organizzato nel 2004 per ricordare i 10 anni del genocidioruandese. Yolande è sopravvissuta, mentre suo marito e i suoi tre figli sono morti sotto icolpi di macete. Yolande ha provato a nominare, nel corso della sua Conferenza, e lo hafatto con emozione, il dolore indicibile per la perdita delle persone a lei più care. Ha par-lato della ferita ancora aperta e del senso di colpa che prova per essere sopravvissuta. Unaspetto che mi lascia stupefatto, ascoltando l’intervento di Manlio Milani – e non è laprima volta –, è che non riesco a cogliere neanche un atomo di rancore nelle sue parole,anche se il rancore è normale che accompagni la quotidianità delle vittime di reati cosìgravi.Vorrei ora condividere con voi proprio una definizione del rancore, una definizione stra-ordinaria, che ha fornito un ascoltatore radiofonico della BBC nel corso di una telefonatavolta a testimoniare la sua esperienza di vittima. L’ascoltatore ha parlato di un sapore

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acre e disgustoso che diceva di portarsi dentro, di una rancidità, di un disgusto che con-tinuava a tornare identico a se stesso, e al quale non riusciva a dare un nome. Invitato dalconduttore della trasmissione (questa citazione la trovate in un bel libro di Renato Rizzi,“Itinerari del rancore” pubblicato da Bollati Boringhieri) a spiegarsi, questo ascoltatore haesclamato (cito a memoria): “Provare rancore è bere un veleno e aspettare che gli altri –i perpetratori – muoiano”. Provate a riflettere, a fare una conversazione interiore a partireda questa frase: io bevo un veleno e quindi ne subisco tutti gli effetti negativi, ma desideroche gli altri – i miei perpetratori – muoiano.La giustizia riparativa ha quale obiettivo – tra gli altri – quello di aiutare le vittime a riela-borare questo ri-sentimento. Ma come? Seguendo i percorsi che individualmente e/o col-lettivamente vittime e rei possono rinvenire insieme ai mediatori.Veniamo dunque a riflettere sull’odio. Sono stato molto toccato dalle parole di Casalegno,perché rivelano consapevolezza ma difficoltà ad avviarsi a compiere quei passi che forsein un contesto come questo possiamo iniziare a proporre. Ciò non tocca – meglio: nonsfiora – i contenuti del suo discorso, nel senso che non intervengo per contraddirlo o,peggio ancora, per correggerlo. L’ultima cosa al mondo che compete a un mediatore èquella di sovrapporsi alle parole di altri. Vorrei invece, insieme a lui e a voi tutti, cercaredi capire che cosa accade quando si odia. Casalegno ha affermato che si può uccideresenza odiare, ed è proprio da qui che vorrei ripartire. Attualmente sto scrivendo con unmio giovane collega, che si chiama Lorenzo Natali, un libro che si intitolerà “Cosmologieviolente”. Questo libro, in uno dei suoi capitoli, ricostruisce i “soliloqui” di alcuni autori direati violenti, sondando quello che si dicono le persone violente quando commettono unreato violento, come si parlano, che cosa si raccontano, come autoriflettono rispetto aquello che stanno per fare, come si autogiustificano – perché è raro che questi delitti av-vengano in una dimensione di non-pensiero.E allora, che cosa è l’odio? Proveremo a rispondere insieme a Roberta De Monticelli, unafilosofa molto attenta ai temi delle emozioni e dei sentimenti sociali, che l’odio è una di-sposizione che mira al cuore dell’odiato. Già, colpire al cuore… uno slogan tristementenoto. L’odiante sente l’altro come essenzialmente malevolo, l’odio identifica l’“altro” conquesta volontà di male e punta al cuore, cioè al sentire che fonderebbe questo volere.L’odio – si sa – presuppone l’odio. Questo è un punto importante. Non c’è vero odio checome reazione all’odio. È molto curioso: non si odia mai per primi. Provate a riflettere…Se noi odiamo è perché qualcuno ci ha fatto del male. Ma allora dove inizia questa catena,perché qualcuno inizia a odiare, che cosa sta e che cosa avviene alla base di questo pro-cesso? Qui si fanno spazio discorsi del tipo: io lo odio perché lui è diabolico, perché lui èil diavolo. Come si può non odiare un Kapò nazista, come si può non odiare qualcuno checommette una strage? Ma letto a questo livello il problema diventa un gatto che si mordela coda, perché non riusciamo a rispondere alle domande che ci stiamo ponendo.

Per avere giustizia noi dobbiamo essere “contati per uno”Per tentare di uscire da questo empasse dobbiamo chiederci come possiamo reagire aqualcuno che ci ha fatto del male. Possiamo reagire in tanti modi. Innanzitutto in modorancoroso, smarrendoci e cominciando a chiederci: perché, perché io, perché è accadutoa me? Un’altra possibilità è quella di iniziare a negare, e dirsi che l’orrore che è accadutoè accaduto, ma non a me né ai miei cari. Si cerca, insomma, di prendere le distanze ne-gando o diniegando. Ma la questione dell’altro inteso come diabolico torna e si riversa

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nuovamente su di noi. E allora dobbiamo prendere consapevolezza che dirsi che questacosa non proviene da me, non proviene da noi e che lui è il diavolo e io sono chi ha subìtoesige una risposta che non va individuata in categorie psichiatriche, psicoanalitiche, nellapatologia, perché i reati violenti – noi criminologi lo sappiamo – non sono commessi inmodo rilevante dalle persone che sono portatrici di disturbi psichici (questo è uno deigrandi miti che la criminologia degli ultimi quarant’anni ha contribuito a ridimensionare).Per rispondere, dunque, torno alle parole di Casalegno: che cosa precede l’odio di chiodia per primo? Questo è il punto. E la risposta appunto è che lo “sguardo di chi odia” nonvede mai il volto di un “altro”. Detto altrimenti, come si può uccidere qualcuno che ionon conosco? “Semplicemente” perché individuo nella mia vittima il fantasma di un uni-versale. La vittima diviene un “universale personificato”. Per spiegare questo pensiero difficile vi leggo una frase di Maurizio Puddu, che è stato Pre-sidente dell’Associazione italiana Vittime del terrorismo, e che è riportata nel bellissimolibro/interviste di Giovanni Fasanella “I silenzi degli innocenti”: “Noi per loro eravamopolitici, consiglieri, dirigenti senza volto, senza una identità specifica, ci odiavano soltantoperché democristiani, eravamo dei numeri per alzare la graduatoria dell’orrore. Quandole persone non sono contate per una, non c’è giustizia”. Ecco ben spiegato il concetto chevi stavo porgendo. L’odio ideologico si dà perché il nemico appartiene a un altro gruppo.E vi appartiene prima ancora che noi possiamo (ri)conoscerlo. Ciò contraddice un principioaltamente connaturato alla “questione giustizia”, e cioè che per avere giustizia noi dob-biamo essere “contati per uno”. Sia rei che vittime. Se non siamo “contati per uno”, equindi non abbiamo diritto di essere “riconosciuti” nel nostro ruolo di vittime (ma anchedi rei) e come persone, non ci saranno mai verità e giustizia.Il problema è che nel momento in cui si attivano certi meccanismi, le persone smettonodi “contare per uno” gli altri, e iniziano a identificarli con coloro che chiamiamo “universalipersonificati”. Che cosa significa? Significa che iniziano a odiare una persona non neces-sariamente perché è “lei”, ma semplicemente perché appartiene a un gruppo diverso dalsuo, altro dal suo. In un certo senso qualcosa di simile sta accadendo in Italia in questigiorni con i Rom… È qualcosa sulla quale occorre riflettere in profondità.Di più. L’odio tende alla ripetizione, l’odio non ha oggetto perché nel suo darsi chi lo vei-cola sembra del tutto indifferente all’individualità: è come lo sguardo di Medusa, che pa-ralizza. Questo sguardo precede il gesto di chi uccide. Ripensiamo alle parole di Casalegnoe comprenderemo che l’incapacità di “sentire l’altro” quale “altro possibile di un dialogo”,l’impossibilità di “contarlo per uno” e di identificarlo, invece, quale soggetto autonomoche vive di vita propria pur appartenendo a un “universale”, fa sì che chi odia rivolga que-sto sentimento nei confronti delle categorie assiologiche del nemico.Anni fa ho fatto una mediazione insieme ad alcuni collaboratori che sono in questa sala,Francesco Di Ciò per esempio. In mediazione sono venuti due skinhead e un ragazzo di unCentro sociale. I due skinhead avevano ferito con un coltello e preso a bastonate il ragazzodel Centro sociale: quando avvengono questi fatti sono sempre preceduti da forme di au-toidentificazione globali di ciascuno con la propria comunità di appartenenza, che aiutaa giustificare ogni sorta di male – fino allo sterminio fisico – nei confronti dell’avversario– colui che si oppone al mio gruppo e, di conseguenza, alla mia identità comunitaria. Ecco,tale genere di “cancellazione” è quello su cui devono lavorare i mediatori. Se, da unaparte, desideriamo lavorare sulla sofferenza delle vittime, per renderla meno intollerabile,per quanto riguarda gli autori di reati violenti è sull’“effetto di cancellazione” dell’“altro”,

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sulla cecità che precede il gesto deviante – la mancanza di una struttura che permette diaccogliere l’“altro” quale “altro possibile” di una relazione – che occorre intervenire.Chiudo ricordando ancora con De Monticelli che non solo chi odia per primo è sempre un“altro”, ma anche che chi odia per primo in realtà non odia, perché qualcosa di terribileè già avvenuto al suo sentire: il suo ritrarsi dal livello propriamente personale di aperturaalla realtà, il suo chiudersi alla percezione dell’“altro” come tale.La mediazione reo-vittima è uno spazio in cui incontrare gli altri, in cui gli altri possonodiventare altri possibili di una relazione. La mediazione non è connotata da nessun buo-nismo perché nessuno pretende che tra i confliggenti debba scoppiare la pace… L’impor-tante è che nei suoi spazi e tra i suoi attori si dia la possibilità di un “mutuoriconoscimento”.

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La comunità può essere un facilitatore del contatto, del confronto e del dialogoIl volontariato può occuparsi anche di chi, toccato duramente dal reato, si è sentito solo, si è sentito non sufficientemente compreso, a volte neppure ascoltato

di Carlo Alberto Romano docente di Criminologia all’Università di Brescia, presidente

dell’associazione di volontariato “Carcere e territorio” di Brescia

Come docente universitario, con un compito come responsabile di una associazione delprivato sociale, fortemente radicata sul territorio e quindi fortemente in grado di proporrequalcosa al territorio, mi interrogo su quale può essere il ruolo della comunità e del vo-lontariato, e vedo che noi stiamo in mezzo, tra detenuti e vittime di reati, in mezzo conle nostre resistenze, le nostre capacità, i nostri vissuti, il nostro inserimento sul territorio.Ebbene, la comunità può essere un cuscinetto fra questi due elementi della diade au-tore/vittima, un cuscinetto che attutisce le parole, che possono rimbalzare, possono tro-vare interlocuzione, o possono limitarsi ad una semplice superficialità, oppure la comunitàpuò essere un volano, può essere un propulsore, può essere un acceleratore, può essereun facilitatore del contatto, del confronto e del dialogo. Il volontariato, a mio parere, deve giocare un ruolo di tramite in queste iniziative, e lopuò fare occupandosi sia degli autori di reato, soprattutto con riferimento a quelle sfac-cettature di sofferenza della loro esecuzione penale che non sono previste dalla Costitu-zione e dalla nostra legge, ma così tenacemente diffuse nel nostro sistema penitenziario,e sulle quali dobbiamo agire per fare in modo che tali sofferenze non si riverberino ulte-riormente nei confronti di quei totalmente innocenti che sono i loro famigliari. Ciò è per-seguibile mediante la tutela dell’affettività e della genitorialità, l’implemento dellaformazione, e dell’inserimento lavorativo, tutti problemi la cui soluzione da sempre ab-biamo delegato all’Amministrazione penitenziaria, quando sapevamo benissimo che l’am-ministrazione penitenziaria da sola non poteva essere esaustiva da questo punto di vista.Inoltre il volontariato può occuparsi anche di chi, toccato duramente dal reato, si è sentitosolo, si è sentito non sufficientemente compreso, a volte neppure ascoltato.

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Ho sentito Olga D’Antona dire: un ponte, cerco un ponte… chi può fare il ponte? La comu-nità deve fare il ponte, e deve farlo sapendo coinvolgere tutti gli attori sociali, compreseistituzioni, cooperazione, associazionismo, scuola e università. Ma cosa fanno le Universitàda questo punto di vista, al di là degli interessi personali di qualcuno di noi, quanti sonoi filoni di ricerca che troviamo su questo punto? Che capacità abbiamo di attrarre inte-resse, sviluppare ricerche, esportare conoscenza sul rapporto autore/vittima e sulle mo-dalità di gestirlo in ambito comunitario? Anche le istituzioni il più delle volte fanno interventi limitati, pochi euro per le vittimedei reati patrimoniali, certamente un aiuto ma non è di questo che dobbiamo acconten-tarci. Dobbiamo chiedere di sederci ad uno stesso tavolo e individuare percorsi di reciproca co-noscenza, che non necessariamente portino ad una soluzione definitiva, ma che non la-scino neppure restare tutti nell’indifferenza reciproca, nascondendoci dietro alle diversitàdi ruoli, obiettivi e modelli. Il problema esiste ed è sempre stato sottaciuto; ora che in qualche modo è riuscito ademergere, credo che il nostro compito sia quello di sviluppare iniziative progettuali a fa-vore di autori e vittime di reato, nascenti a seguito di un attento studio delle caratteristi-che del nostro territorio relativamente alle vicende di criminalità che si susseguonoquotidianamente. Vi è ad esempio una diffusa percezione di insicurezza sociale che, purapparendo talvolta sovradimensionata rispetto alla realtà oggettiva considerata, necessitacomunque di una risposta.È inoltre evidente che la vittima da sempre vive una condizione di minor attenzione da unpunto di vista normativo, sociale e valoriale rispetto agli altri protagonisti dello scenariodelittuoso. Ciò ha ingenerato nelle vittime stesse e nelle loro reti di relazione un crescentesentimento di sfiducia nelle istituzioni e nelle capacità di intervento delle stesse.Appare quindi opportuno pensare di avviare ipotesi progettuali che tentino di presentaresul territorio azioni di intervento concreto a favore delle persone che hanno subito unasofferenza conseguente ad un reato, i cui tratti salienti potrebbero essere:

� apertura di sportelli o centri di supporto/ascolto anche non permanenti gestiti da personale volontario adeguatamente formato;

� costruzione di una rete di connessioni con tutte le realtà istituzionali e del privato sociale che possano fornire un’apprezzabile contributo alla gestione delle problematiche conseguenti ad un processo di vittimizzazione;

� collaborazione con le Università per la supervisione dei percorsi di assistenzae di mediazione sociale;

� gestione sinergica con i servizi sociali degli enti istituzionali locali dei casi maggiormente rappresentativi del disagio conseguente alla sofferenza espressa dal reato. In particolare appare imprescindibile la collaborazione con Provincia, Comune, ASL, uffici giudiziari, forze dell’ordine e servizi del Ministero della Giutizia minorili e per adulti, istituti scolastici e altre realtà che tutelano le vittime di reato a diverso titolo;

� promozione e sensibilizzazione della comunità sulle tematiche inerenti alle vittime di reato e ai processi di vittimizzazione.

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Questo compito propulsivo riguarderebbe aspetti che il volontariato è in grado di affron-tare in autonomia, soprattutto avendo come obiettivo principale quello di coinvolgere leparti sociali che tendono a disinteressarsi del problema o a pensare che sia sempre com-pito di qualcun altro affrontarlo. Sapessimo fare questo credo che per il volontariato sa-prebbe già fare molto.

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Le vittime devono trovare risposte fuori dal meccanismo processo/sanzioneL’ascolto di chi ha sofferto e soffre èfondamentale per noi volontari e per i detenuti, vale più di qualsiasi galera ai fini della rieducazione

di Rosanna Tosiprofessore ordinario di Diritto Costituzionale, volontaria

al Polo Universitario della Casa di reclusione di Padova

L’ascolto delle vittime (nella gran parte dei casi dei parenti delle vittime) nel Convegno“Sto imparando a non odiare” è stata un’esperienza di crescita umana davvero rara, unacosa che mi ha colpito a fondo, che non ho ancora del tutto elaborato e chissà se riusciròmai a farlo completamente. Il dolore che c’è “fuori” è entrato “dentro”, chi ha provocatoquel dolore o altro simile lo ha visto e sentito nelle parole, negli sguardi, nella rabbia, neirimpianti, nelle difficoltà di chi quel dolore ha patito. Sono convinta che l’ascolto di chi hasofferto e soffre sia fondamentale per noi volontari e per i detenuti, che valga più di qual-siasi galera ai fini della rieducazione. Se considero questa una certezza, il convegno me neha lasciato poche altre, mentre è lungo l’elenco dei punti sui quali mi interrogo.Il convegno non ha cambiato la mia opinione sulla posizione delle vittime rispetto al pro-cesso: continuo, cioè, a pensare che non sia in tale sede che ad esse debba essere rico-nosciuto uno spazio maggiore rispetto a quello che oggi si vedono assegnato. Il processopenale deve mantenere intatta la sua valenza pubblicistica, poiché il bene che proteggeè un bene dell’intera società. Né – credo – il punto di vista delle vittime può assumere ri-lievo nell’esecuzione della pena, nella valutazione dell’accesso ai benefici da parte delcondannato; pensare diversamente equivarrebbe a lasciare che la sanzione penale sia in-fluenzata dai sentimenti delle vittime, con conseguenze tutte negative, anche sul pianodell’eguaglianza: c’è chi perdona, chi odia, chi è indifferente al numero degli anni di galerascontati dal reo, sentimenti diversi e tutti comprensibili finché non conducono a disparitàdi trattamento tra condannati. È fuori dal meccanismo processo\sanzione che le vittime devono trovare risposte più ade-guate, in un maggiore sostegno da parte dello Stato e dentro la società, giustificato dalfatto che accanto alla responsabilità individuale (quella di chi ha commesso il reato) esisteuna responsabilità collettiva. Il sostegno si deve esprimere su piani diversi: sostegno eco-nomico, quando il risarcimento si riveli insufficiente, sostegno psicologico, per la ricostru-zione di un percorso di vita dopo il dramma; oltre agli interventi che dovrebbero essereerogati dall’apparato pubblico, penso anche ad un sostegno diffuso negli incontri quoti-diani, nella rete di relazioni di cui la vita di ciascuno è intessuta, ma anche su questo ver-sante le cose non vanno bene. Olga D’Antona ce lo ha comunicato molto efficacemente:

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siamo impoveriti, non sappiamo entrare in relazione con il dolore, la sofferenza altrui cispaventa e allora preferiamo ignorarla o banalizzarla.La questione da cui muovono gli interrogativi per i quali mi pare sia ancora necessariauna riflessione è quella degli strumenti capaci di dare spazio all’ascolto delle vittime. Èchiaro che si pensa subito alla mediazione penale e, infatti, se ne è parlato nel corso dellostesso convegno. Rimango, tuttavia, con molti dubbi.

Può funzionare la mediazione penale per i casi di reati gravissimi?Può funzionare la mediazione penale per i casi di reati gravissimi? Solo per evidenziareuna delle difficoltà che vedo, ricordo che la maggior parte degli omicidi si compie tra lemura domestiche: qui allora i parenti della vittima sono i parenti del reo, magari i figli. Èil caso di parlare di mediazione penale o non siamo piuttosto in un’area dove occorre unausilio psicologico per valutare l’opportunità di riprendere e coltivare relazioni parentali?Mi risulta difficile immaginare che le due cose possano sovrapporsi. E ancora: sempre nelcaso di reati gravi (la morte di una persona cara, il danno prodotto da lesioni gravissime),l’elaborazione della vicenda da parte della vittima può richiedere un distanziamento cheverrebbe interrotto dall’incontro con il reo; si dirà che la mediazione penale è semprevolontaria, ma il carico di una risposta negativa starà sulle spalle della vittima aggiungen-dosi come ulteriore sofferenza. E il detenuto sarebbe davvero libero di rifiutare la mediazione penale, quando poi da quelrifiuto potrebbero essere tratte valutazioni circa il grado del suo ravvedimento? Accadeche l’omicidio – penso ancora a quello all’interno delle famiglie – sia l’approdo aberrantedi vite tormentate, e sarebbe ben comprensibile allora che il condannato rifiuti l’incontrocon chi – a torto o a ragione – ritiene abbia concorso a creare quei tormenti.Spostando l’attenzione su altro versante, mi pare che la mediazione penale non potrebberealizzarsi, almeno non nei modi consueti, nei casi di reati a vittima indeterminata, qualeil traffico di droga, ma, oltre a questo, moltissimi altri, i reati contro l’ambiente, le frodialimentari, i reati finanziari, il che rischierebbe di oscurare – più di quanto già sia – ildanno sociale che quei reati producono.Non ho né la competenza né l’immaginazione per abbozzare una risposta agli interrogativie ai dubbi che il tema del convegno ha sollevato. Ma qualche indicazione di percorso percontinuare la ricerca forse si può intravedere. In primo luogo credo che gli strumenti perdare ascolto al dolore delle vittime richiedano di essere differenziati in relazione al tipodi reato: non si può immaginare che possa essere utilizzato lo stesso strumento per i casidi stupro e quelli di bancarotta fraudolenta. Se questo è vero, si può pensare che in talunecircostanze sia necessario distanziare, in altre avvicinare. Intendo dire che, quando ildanno subito dalla vittima è altissimo ed immediatamente correlato all’autore del reato(come – per fare un unico esempio – nel caso di stupro), probabilmente è preferibile evi-tare il contatto diretto tra autore e vittima di quello specifico reato, e cercare canali di co-municazione della sofferenza prodotta tramite la conoscenza di vicende analoghe. Neicasi invece di reati a vittima indeterminata occorre avvicinare l’autore del reato alle con-seguenze concrete dei suoi comportamenti, che gli sia rappresentato in modo tangibileil danno conseguente alla violazione della norma penale.

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Come sanare le fratture prodotte dai reatiLa pena va gestita tenendo in considerazione la naturale aspirazione del condannato a ricostruirsi un futuro,ma anche la posizione delle vittime

di Giovanni Maria Pavarin Magistrato di Sorveglianza di Padova

Un tema di grande importanza su cui dovremmo soffermarci tutti quanti, è quello cheandrebbe sotto il titolo di “giustizia riparativa”. È opportuno sottolineare, anzitutto, cheil termine “riparativa” è un aggettivo che deriva dal verbo riparare, il cui significato èporre rimedio, ed è del tutto evidente che si può porre rimedio soltanto a qualcosa chesi è rotto. Se nulla si fosse rotto, infatti, non ci sarebbe alcunché da riparare, mentre ilreato produce a tutti gli effetti una frattura. Anzi, una serie di fratture. La prima dellequali avviene nella persona stessa che l’ha compiuto, rompendo la sua armonia personalee il suo rapporto con la comunità di cui fa parte. E ciò è tanto più vero quanto più il reatoè grave, per le ricadute pesantissime (altre fratture, quindi) che esso ha a livello di rapportifamiliari. C’è poi fatalmente la rottura con la vittima, perché tutti i reati hanno una vittima. E non mi riferisco soltanto alla persona fisica che il reato ha direttamente colpito, perchévittima necessaria e costante di ogni reato è anche lo Stato. Sì, lo Stato. Certo, il rapportoche si ha con lui – e la rottura che per via del reato ne consegue – è diverso, perché loStato non lo si incontra per strada, non gli si stringe la mano, non lo si vede neppure… LoStato è un’idea astratta, che rappresenta però l’insieme di tutti noi: quando infrangiamouna sua legge – per quanto ci possa sembrare sbagliata, o discutibile – rompiamo perciòil rapporto che ci lega a quell’insieme, e quindi rompiamo con lo Stato, facendone una no-stra vittima. Se io dovessi rompere la testa a qualcuno, insomma, la mia vittima non sa-rebbe solo la singola persona che ho colpito, ma anche lo Stato, che ha interesse a che nonsi rompano le teste degli altri. Con la definizione “giustizia riparativa”, dunque, si indica l’insieme di tutti i concetti, leidee, le pulsioni e quant’altro serva a far sì che la giustizia, quando si afferma, tenga in con-siderazione anche le necessità di riparare queste fratture che riguardano, ripeto, l’autorestesso del reato, i suoi familiari, le singole vittime e lo Stato. È un tema non nuovo, ma sucui si pone l’accento con particolare intensità da qualche anno; da quando, cioè, tutte leamministrazioni europee hanno cominciato a sottolineare con maggior forza la necessitàche venga data al condannato una possibilità di rivincita, di riscatto; che possa esseremesso nella condizione di capire che ha sbagliato e di organizzarsi per non sbagliare più.In definitiva, di essere considerato una persona diversa da quella che è stata in passato. Questa impostazione non è però ben vista da tutti, e ad essa si oppongono soprattuttole vittime di reato. Non sono disposte ad accettare, in particolare, che chi un giorno le haoffese possa uscire dal presidio del carcere senza che loro siano state neppure avvisate,contattate, interpellate. Anzi, senza che siano state neppure “considerate”. E proprio percontrapporsi a questa tendenza hanno dato vita a un’Associazione europea delle vittimele cui pressioni hanno indotto l’Unione Europea a emettere una direttiva, destinata a tuttigli stati membri, in cui, tra l’altro, li si invita a disporre per legge che non vengano concesseai detenuti misure alternative senza avere prima preso in considerazione le ragioni dellevittime. Dico questo per farvi capire quanto potente sia diventato il movimento posto in

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essere in questi anni dalle vittime, ma anche perché voi vi rendiate conto che reazionidel genere sono del tutto naturali, logiche. Provate a fare uno sforzo di fantasia e a im-maginare di essere stati voi stessi, o le persone a voi più care, vittime di reati, e vedreteche avreste anche voi questo moto istintivo: “Ma come, quello lì ha violentato mia mogliee dopo dieci anni già me lo trovo per strada?”. La pena, insomma, è una cosa che va gestita tenendo sì in conto la naturale aspirazionedel condannato a ricostruirsi un futuro, ma anche la posizione delle vittime, che hannodiritto a pretendere di essere prese in considerazione. Seguendo quest’impostazioneanche da noi, in Italia, è stata restituita tutta la sua importanza a una norma che in passatoera stata un po’ trascurata. Mi riferisco all’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario, incui sta scritto che quando il Tribunale di Sorveglianza concede la misura dell’affidamento,per esempio, deve - e non “può” - imporre al condannato di riparare il danno. Nell’af-frontare questo argomento dobbiamo tener conto, però, delle reali condizioni economi-che dei detenuti che attualmente affollano le carceri italiane. Ce ne sarà senz’altroqualcuno che ha i miliardi nascosti, ma la mia sensazione è che per la maggior parte hannoperso quello che avevano guadagnato, ammesso che avessero davvero guadagnato qual-cosa, perché c’è anche gente che va in carcere per reati che non hanno implicato guada-gni. Il significato dell’obbligo di risarcire il danno supera quindi l’aspetto puramenteeconomico, specialmente nei casi in cui un risarcimento di questo tipo effettivamentenon ci può essere, e acquista il valore di riparazione morale, inducendo il detenuto a eser-citare il diritto-dovere di riscattarsi, di riabilitarsi, di migliorarsi, di pentirsi, di cambiare,di riorganizzarsi.

Bisogna riannodare un filo, che riavvicini le persone offese e quelle che hanno offesoParlando di giustizia riparativa in questi termini, ci avviciniamo necessariamente anche alconcetto di mediazione penale, in quanto mediazione significa mettere insieme, tentaredi avvicinare i due estremi di una situazione di grave contrasto, i poli opposti di uno statodi tensione, di contrarietà. E voi dovete capire che se cominciamo a pensare anche allevittime, avviando un discorso che in qualche modo lega, che riannoda un filo, che riavvi-cina e instaura un rapporto tra le persone che sono state offese e quelle che hanno offeso,inneschiamo un processo importante e virtuoso.Certo esistono casi in cui una simile opera di mediazione non è possibile, perché la per-sona che ha subito il danno non ha alcuna intenzione di entrare in contatto con chi l’hadanneggiata, e non si può evidentemente andare contro la sua volontà. Ma il fatto di nonpoter esercitare l’obbligo risarcitorio a favore della persona offesa non lo annulla: in que-ste situazioni, esso deve essere riversato a favore della collettività (facendo gratis qualcosaa favore di persone bisognose, oppure di Enti che si occupano di attività socialmente utili),in base al principio prima accennato dello Stato vittima necessaria e costante di ognireato. La regola, comunque, è che chi ha tolto debba restituire – e con gli interessi, come pre-scrive la legge – quello che ha tolto. Anche se in proposito va detto che gli strumenti a di-sposizione dello Stato non sono poi molti, nel senso che se un tizio ha rubato dieci miliardie dice di averli spesi però tutti in donne e droga, non è facile dimostrare il contrario efargli risarcire materialmente il danno, se quei soldi non si trovano o sono finiti in fumoper davvero. Per quel che riguarda la mia esperienza, sono convinto che la cosa migliore

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sia comunque aprire un confronto franco, con il detenuto, e credergli quando buon sensoe ragione suggeriscono di credergli. Se uno si conquista un minimo di credibilità, dimo-strandosi sincero, deve essere creduto. Anche perché quando entrano in carcere le per-sone in genere sono abbastanza “nude”, perlopiù abbandonate dai loro stessi familiari edall’avvocato, che dopo la sentenza si è limitato a chiedergli il pagamento della parcellaper poi sparire. Certo a renderle “nude” contribuisce anche il traumatico effetto provo-cato dall’ingresso in questo casermone strapieno di gente, e l’angoscia di sentirsi la vitaspezzata, ma io ho la convinzione che i detenuti che parlano con me – non sempre già alprimo colloquio, ma al secondo o al terzo sì – siano sinceri. Sia quando – ed è la maggio-ranza dei casi – dicono di non avere più soldi, sia quando invece ammettono, e succede,di avere del denaro da parte. In tema di funzione rieducativa della pena, vi do una notizia che certo non vi farà piacere.Il 22 giugno 2006 la Corte costituzionale ha bocciato l’indultino, dicendo in sostanza –senza che ripeta le venti pagine della sentenza – che il magistrato lo può concedere solonei casi in cui sussistano effettive condizioni di rieducazione. Quindi il magistrato deveattenersi ai parametri dell’articolo 27, concedendo l’indultino se uno dimostra di essererieducato e negandolo, invece, se non ci sono chiari segnali in tal senso. E fra i parametriche il magistrato deve tenere in considerazione, nel formulare la sua valutazione, c’è ap-punto il tipo di sensibilità che il detenuto ha maturato nei confronti della persona offesae la sua disponibilità a mettersi in contatto con essa per chiedere scusa.Non deve stupire, del resto, che con l’andare del tempo si accentui sempre più la tendenzaa concedere i benefici solo nei casi in cui risultino effettivamente guadagnati, con il com-portamento ma più ancora con una sincera revisione critica del proprio passato. Fuori,nella società, spira infatti un’aria tutt’altro che favorevole nei confronti delle persone de-tenute, e più aumenta il numero dei detenuti ammessi ai benefici penitenziari che rien-trano in galera per aver commesso gravi infrazioni, se non addirittura nuovi reati, più lasocietà si ritrae, più le vittime si ribellano e si coalizzano nella richiesta che non venganoconcesse ulteriori chance a chi ha sbagliato.È in questo clima che è nata la legge ex-Cirielli, che come sapete impone un deciso stopa chi ha già sbagliato tre volte nel proprio passato; uno stop praticamente automatico, incaso di commissione di un nuovo reato, anche se va detto che la Corte costituzionale neha smussato un po’ i rigori, riportando a metà (anziché ai due terzi, come fissato dalla ex-Cirielli) il periodo di pena scontata necessario per accedere alla semilibertà per chi era neitermini entro il dicembre 2005. Si tratta di un piccolo ritocco, in positivo per i detenuti re-cidivi, che sostanzialmente non intacca però lo spirito di una legge che risponde, ina-sprendo le pene e rendendo meno accessibili i benefici, a un indubbio clima di tensionee di allarme sociale.

Quella dei parenti è una categoria di cui nessuno parla mai, eppure sono anch’essi vittimeChe si punti a sottolineare sempre di più l’aspetto rieducativo della pena, per me è peròun fatto positivo, importante. Perché se uno si fa una carcerazione fatta bene è difficileche torni in carcere una volta che ne esce, tant’è che le carceri sono sempre più piene digente che non c’è mai stata, prima, o di gente che c’è stata ma che dalla carcerazione nonha saputo ricavare alcun frutto. Se uno fa una carcerazione fatta bene, e – ripeto – fatta

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bene significa sanare tutte le fratture che abbiamo prodotto con il nostro reato, è difficileche non trovi in sé le risorse e le energie per costruirsi una vita nuova, che lo tenga al ri-paro da nuove tentazioni delittuose. Vorrei però tornare – a proposito di fratture da sanare – a quelle che riguardano i parenti,perché quella dei parenti è una categoria di cui nessuno parla mai, eppure sono anch’essivittime, almeno nei casi – e sono certamente la maggioranza – in cui non sono essi stessicomplici, né assistono in maniera passiva alla commissione di reati. Perlopiù non sannoquello che combinano il marito, la moglie, il figlio, il papà; lo vengono a sapere dopo, enessuno pensa alle loro lacrime, nessuno pensa che hanno anche loro bisogno di tutela. Provate a pensare in che situazione viene a trovarsi un figlio che si trova da un giorno al-l’altro il padre in carcere, con l’accusa di avere commesso una sfilza di reati. Senza averenessuna colpa, e anzi proprio nel momento in cui avrebbe più bisogno di solidarietà, vieneemarginato dagli amici, dai compagni di scuola, tutto per lui diventa più difficile, piùamaro. A quel figlio non si può non pensare, nella logica di una giustizia che sia davveroriparativa. A partire anche dal momento cruciale in cui si decide se dirgli la verità o blan-dirlo con una rassicurante bugia. Mi rendo conto perfettamente di quanto sia difficile direa un bambino “tuo padre è in carcere”, per cui non posso che provare comprensione perchi si ostina a tirare avanti nel tempo con patetici sotterfugi, tipo “papà è via per lavoro,è all’estero e fra un po’ torna…”. So però che, prima o poi, la verità vera viene fatalmente a galla, col rischio che il bambinovenga a conoscerla dalle persone meno indicate e nelle situazioni più sbagliate. Meglioallora – così almeno consiglio io, quando mi viene chiesto il mio parere – puntare allamassima confidenza, almeno nei casi in cui il bambino ha l’età per poter capire. Perquanto possa essere traumatica, la verità apre tuttavia un processo di riflessione, di ma-turazione, e alla lunga si rivela sempre meno dannosa della bugia sistematica. Non puoidire per cinque anni di fila “papà è all’estero”… E chi ti crede più? Ma non solo con i figli, con tutti i parenti bisogna dire la verità. Anzi, nei confronti dei pa-renti adulti è un vero e proprio imbroglio ostinarsi a mentire proclamando la propria ine-sistente innocenza. Mi è capitato di sentirmi dire da qualche detenuto “Dottore, la prego,non dica a mia moglie…”, e poi di essere visitato una volta al mese nel mio ufficio da quellamoglie, che continuava a protestare l’innocenza del marito nonostante io avessi sul miotavolo, a sua insaputa, la sentenza in cui lui rendeva piena confessione. Ma che senso ha?Perché continuare a imbrogliare, a imbastire discorsi che non stanno in piedi? Così si im-broglia la vita. Tanto vale dire le cose come stanno, e da lì ricominciare. La verità, con sestessi e con gli altri, è la prima pietra del cammino verso una vita diversa.

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La vittima può ritrovare il proprio equilibrio indipendentemente da una dimensione vendicativaDefinizione del concetto di giustizia riparativa e considerazioni sull’attuale interpretazione da parte della magistratura italiana

di Giuseppe MosconiDocente di Sociologia del Diritto

dell’Università di Padova

Il posto che occupa la giustizia riparativa nel nostro sistema penaleLe leggi, che si riferiscono alla giustizia riparativa nel nostro sistema giudiziario, configu-rano complessivamente una misura che si radica nella fase esecutiva della pena. Se leesaminiamo nel dettaglio notiamo innanzitutto l’articolo 47 dell’Ordinamento penitenzia-rio, che, con riferimento all’affidamento in prova al servizio sociale, al comma 7 dice chenel verbale deve anche stabilirsi “che l’affidato si adoperi, in quanto possibile, in favoredella vittima del suo reato”. E qui notiamo già un contrasto tra il fatto che questa dispo-sizione “deve” essere contenuta nella sentenza che delibera sull’affidamento, mentre sulpiano applicativo l’obbligo formale di adoperarsi in favore della vittima è però sottopostoalla condizione della sua effettiva possibilità. Il che limita il carattere coattivo della dispo-sizione stessa. Rispetto a questo principio, che comunque già definisce l’attivarsi a favoredella vittima come un aspetto particolare e secondario rispetto all’applicazione di un be-neficio, la successiva norma del nuovo Ordinamento penitenziario del giugno 2000 ag-giunge, all’articolo 27, un criterio anche più specifico, e cioè quello per cui si ritienenecessario, da parte del condannato che chiede un beneficio, “che si sviluppi una rifles-sione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenzenegative delle stesse per l’interessato e sulle possibili azioni di riparazione delle conse-guenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa”. All’articolo 118 della stessa legge, questa idea della riflessione critica sul proprio com-portamento, viene ripresa come compito dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe,ex Servizio sociale adulti), il quale “deve adoperarsi per una sollecitazione ed una valuta-zione critica adeguata da parte della persona, degli atteggiamenti che sono stati alla basedella condotta penalmente sanzionata, nella prospettiva di un reinserimento sociale com-piuto e duraturo”. Considerando complessivamente queste disposizioni, si notano essenzialmente tre ca-ratteristiche che vanno a definire il modo in cui la giustizia riparativa è concepita ed è in-serita nell’ordinamento italiano. Prima di tutto essa risulta come un aspetto marginale,quasi ritualistico, rispetto ad una sanzione penale che viene irrogata. In secondo luogo,come un modo per dare più “concretezza” alla soddisfazione della vittima, nel senso di ri-sarcirla rispetto al reato subito, e infine, come una forma di reinserimento, di rieduca-zione, una forma di riabilitazione della persona. Ora tutte e tre queste caratteristiche danno al momento riparativo – e all’onere per ilcondannato di riparare gli effetti del reato – un valore essenzialmente subordinato ri-spetto all’applicazione di una sanzione penale. La giustizia riparativa si configura quindi,sostanzialmente, come una modalità di esecuzione della pena.

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A livello internazionale la giustizia riparativa viene intesa come alternativa al carcereQueste forme di risarcimento sicuramente si discostano dal modo in cui questo tipo di mi-sure viene incentivato a livello internazionale, tanto dal Consiglio d’Europa, quanto dalleNazioni Unite. Per esempio, nella raccomandazione del 1985 del Consiglio d’Europa sullaposizione delle vittime nell’ambito del diritto penale, si dice di “prendere atto dei vantaggiche possono presentare i sistemi di mediazione e di conciliazione, e di promuovere e diincoraggiare le ricerche sull’efficacia delle disposizioni concernenti le vittime”. In un altro testo, una raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europadel 1987, si raccomanda appunto di “sviluppare adeguate politiche in favore delle vittimeper incoraggiare altresì le esperienze di mediazione tra il delinquente e la vittima, valu-tandone i risultati con particolare attenzione a quelle misure in cui gli interessi delle vit-time sono salvaguardati”. E, ancora, in una risoluzione del 1997 della Commissione delConsiglio delle Nazioni Unite, si dice che “prendendo atto del sovraffollamento delle car-ceri e del critico stato del sistema di giustizia penale, si afferma l’importanza di una pre-venzione non repressiva del crimine, e si rilancia la necessità di un’attenzione alla vittima,che non va colpevolizzata ma assistita e protetta, e di una contestuale dovuta considera-zione ai diritti del reo”. Ancora, si fa riferimento al sovraffollamento delle carceri in una risoluzione sulla coope-razione internazionale tesa alla riduzione dello stesso, sempre da parte di una Commis-sione delle Nazioni Unite: “Prendendo atto del sovraffollamento delle carceri (e quindidelle difficoltà del lavoro degli operatori) si raccomanda agli Stati membri di ricorrere allosviluppo di forme di pena non custodiali, se possibile a soluzioni amichevoli dei conflittidi minore gravità, attraverso l’uso della mediazione e dell’accettazione di forme di ripa-razione, o accordi di reintegrazione economica in favore delle vittime con parte del redditodel reo, quindi compensazione con lavoro espletato dal reo in favore della vittima stessa”.Da questi testi si evince con chiarezza un orientamento volto a prevenire l’applicazionedella pena della reclusione, a sviluppare forme alternative di intervento che siano incen-trate sulla misura, sull’esperienza della mediazione penale, e siano orientate quindi a ri-definire i rapporti tra autore e vittima di reato senza che questo passi per il momentorepressivo. Un approccio tipico della mediazione, che cerca di ridefinire un rapporto equi-librato e reintegrato tra entrambi gli attori, eventualmente anche attraverso l’assunzioneda parte del responsabile di reato di compiti riparativi specifici a vantaggio della vittima. Siamo ben lontani quindi da una modalità accessoria, un surplus della sanzione penale,che è quella sostanzialmente prevista dalla legislazione italiana. Basti considerare il fattoche, nel caso della legislazione italiana, è già intervenuta una condanna con una sanzionedetentiva, e siamo in una situazione in cui la detenzione viene eventualmente sostituitadall’affidamento in prova al servizio sociale. Rispetto a questo, l’attività riparativa è un’at-tività che si “aggiunge”, ed infatti viene prevista con una modalità subordinata alla san-zione penale.

La mediazione penale ha poco a che fare con quanto previsto dal nostro Ordinamento penitenziarioIl beneficio dell’affidamento in prova ha tutt’altra logica, rispetto a quella che sarebbe la

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mediazione penale applicata in sede processuale. Si tratta infatti di una modalità diversadi espiazione della pena, in qualche modo di una sospensione della pena detentiva in at-tesa che la persona dia prova di capacità di reinserimento, ma in quest’ambito, in questoprocedimento, si è già maturata la condanna penale. Ben diversa è invece l’idea di unprovvedimento di mediazione che avvicini l’autore alla vittima prima che si giunga allacondanna, e che orienti l’autore ad un’attività riparatoria, appunto tipica di una giustiziariparativa, in sostituzione all’applicazione di una condanna penale. Nel momento in cui questo orientamento, questo atteggiamento riparativo, viene su-bordinato ad una già avvenuta applicazione di una sanzione penale, esso inevitabilmenteassume un carattere doppiamente punitivo e sostanzialmente strumentale. Sia perchéserve ad ottenere il beneficio – e quindi evitare la detenzione – sia perché viene incen-tivato anche nel quadro dell’esecuzione penale esterna, e quindi assume il valore di unamodalità da perseguirsi per ottenere quel supporto materiale, quell’aiuto al reinseri-mento che costituisce uno dei compiti dell’UEPE. Essa si configura così come quell’idea-lizzata capacità di cambiare l’atteggiamento della persona, di favorirne una riflessionesostanziale che ne migliori l’atteggiamento. Rischia quindi di essere una rappresenta-zione puramente simbolica, astratta, un’idealizzazione inutile di un qualcosa che ha unasostanza ben diversa, e cioè che si riferisce a un atteggiamento puramente opportuni-stico e indirizzato, diciamo così, a conseguire i vantaggi che a quella misura si associano. Il fatto è che, una volta che questa idea di giustizia riparativa si dispiega nel quadro di unasanzione penale, assistiamo inevitabilmente ad una duplice deformazione rispetto allasua originaria ispirazione, come alternativa sostanziale alla legge penale. In primo luogoil fatto che si crei una specie di forzata coesistenza tra la riparazione dovuta verso loStato, attraverso la sanzione afflittiva, e la riparazione dovuta verso la vittima, verso il sin-golo soggetto che ha subito le conseguenze del reato, come una modalità aggiuntivadella sanzione. In realtà le due motivazioni – cioè quella orientata ad affermare i superiori interessi delloStato, e quella orientata invece ad affermare gli interessi della vittima – non debbono es-sere viste come coesistenti e compatibili, ma proprio come riferimenti alternativi di dueconcezioni contrapposte della sanzione dell’illecito. Nel primo caso si afferma un valoregenerale, superiore, che si riflette poi in una sofferenza applicata al singolo. Nel secondocaso, invece, si pensa a un riequilibrio, a una forma di riconciliazione, di riorganizzazionedelle relazioni che si dispiega nel rapporto tra gli individui. Una ricostruzione del legamesociale viene pensata come più efficace, più sostanziosa, più fondata rispetto a un prov-vedimento di carattere puramente simbolico e sostanzialmente distruttivo della identitàsociale del soggetto. Proprio una riorganizzazione del legame sociale tra i soggetti in quanto tali, nella misurain cui è sostanziale e riequilibra gli atteggiamenti reciproci e ricrea fiducia può confluire,diciamo così, in una dimensione più ampia, più generale, che riafferma l’interesse pub-blico inteso come la somma dei singoli interessi individuali soddisfatti in modo più con-creto, più profondo, attraverso le forme di riparazione. Si tratta quindi di abbandonarel’idea di un interesse pubblico che è tutelabile solo sotto il profilo simbolico, con effettiafflittivi, per immaginare invece un nuovo modo di definire l’interesse pubblico comeriaffermazione dei diritti, o riparazione dei danni subiti dalla vittima, e quindi come com-ponente di un complessivo interesse pubblico che risulta tutelato dall’insieme degli attiriparatori.

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Il secondo tipo di deformazione è che, quando siamo in questa cornice penalistica, sel’atto riparativo tende ad essere visto come ricomposizione di una frattura dentro sestessi, di una frattura che ha intaccato l’identità sociale del soggetto, in realtà l’atto ri-parativo si pone in una situazione di frattura che si è già prodotta, non tanto a causadell’illecito, quanto a causa della condanna e dell’applicazione della sanzione. Nella mi-sura in cui infatti la sanzione penale rappresenta un’esperienza che deforma la realtà divita del reo, che ne altera il sistema di relazioni sociali, ben poco può riparare il risarci-mento della vittima considerando il tipo di frattura sociale, che è venuta a determinarsi. Il rischio è che questo tipo di riparazione della vittima si proponga, o meglio si impongacome ulteriore sanzione, come ulteriore restrizione rispetto alla restrizione già subita,e possa paradossalmente assumere il valore di un’ulteriore e più profonda, più sottile epiù subdola, frattura dell’individuo verso se stesso, dell’individuo verso la società.

La riparazione, com’è concepita nel nostro sistema, non può funzionare“La ricostruzione della relazione” tra autore e vittima può avvenire sostanzialmenteproprio se l’autore non è sottoposto a una afflizione penale, ma viene riconosciuto in-vece nella sua sostanziale soggettività, nella sua esperienza umana, considerata nellasua più profonda e reale autenticità, e questo vale ovviamente per entrambi i soggetti. Anche nel caso della ricostruzione del legame sociale, cioè in termini più ampi del rap-porto del soggetto con la società, il suo senso di appartenenza sarà tanto più efficace-mente ridefinito se il soggetto viene appunto riconosciuto nelle sue prerogative, nellasua autenticità, nella natura più reale della propria esperienza, aspetti che non sonoinvece riconoscibili nel quadro di una sanzione punitiva e di una condanna predefinitasecondo certi elementi che la legge penale preordina. Resta la “composizione del conflitto” quindi. Ma il conflitto prevede una situazione diparità tra i soggetti, prevede una situazione di difficoltà relazionale tra gli stessi, tuttaincentrata sulla problematicità del comportamento e sui danni che lo stesso ha deter-minato. Il conflitto quindi configura, in termini intersoggettivistici, per non dire quasiprivatistici, il rapporto tra autore e vittima del reato, rapporto che è venuto a deter-minarsi tra i due soggetti e viene definito e deve essere risolto in quanto tale, cioècome composizione di quel conflitto, senza invece deformare e debordare la natura diquesta ostilità in una dimensione pubblica e generale che travalica i rapporti tra lepersone, qual è quella effettuata dall’intervento penale. Poi c’è “la riassunzione di responsabilità”: anche questo aspetto viene idealizzato comeparte di questa concezione di giustizia riparativa. Ma l’assunzione, o riassunzione di re-sponsabilità, dovrebbe essere tanto più sostanzialmente tale quanto più si allontani daquei rischi di strumentalità che strutturalmente sono presenti in questa idea della giu-stizia riparativa. E quindi il discorso dell’assunzione di responsabilità ha senso quandoviene riconosciuta piena dignità al soggetto che ha violato la legge, quando lo si con-sidera con pienezza come persona, e non come una persona dequalificata che ha de-meritato e che deve “lavarsi”, diciamo così, di una macchia dalla quale è difficilerisollevarsi socialmente, rispetto alla situazione oggettivamente determinata da unacondanna penale.

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Come si colloca in questo quadro la funzione di prevenzioneSe di prevenzione – così come la stessa legislazione europea auspica – deve trattarsi,

questa prevenzione deve avvenire prima che maturino gli elementi che portano una san-zione penale. L’idea di giustizia riparativa si pone, originariamente, in contrapposizione e in alternativaall’idea di giustizia retributiva. La retribuzione evidentemente è l’applicazione di una san-zione di intensità uguale e di valore contrario rispetto al bene violato, mentre la ripara-zione è una soddisfazione dell’interesse concretamente leso, attraverso l’attivarsipersonale, concretamente produttivo, dell’autore di reato.Se noi pretendiamo di inserire l’idea di riparazione in una cornice già definita sostanzial-mente dalla retribuzione, la riparazione non può essenzialmente esserci. Il punto è chemediazione si può avere solo lì dove lo Stato rinunci a punire; cioè, quale mediazione cipuò essere rispetto al fatto che si prospetta la possibilità, per l’autore di reato, di riparareil danno, quando l’autore del reato ha già subito la potestà impositiva e sanzionatoriadello Stato attraverso la sanzione penale? A questo punto non gli si può chiedere qualcosache comporti una limitazione di tipo diverso, quando ha già subito la limitazione massima,e quindi margini di mediazione in questo senso non sono più concedibili. In secondo luogo, il senso della giustizia riparativa si dispiega solo se la concepiamo comeinterazione dinamica progressiva, foriera di positive evoluzioni nel rapporto tra autore evittima, e non si colloca invece in qualcosa che è già stato predefinito essenzialmentedalla condanna penale e dall’applicazione soprattutto della sanzione. Il fatto è che la me-diazione penale è qualcosa di sostanzialmente diverso rispetto all’applicazione di unasanzione con aggiunta di un onere riparatorio. Soprattutto perché è diversa la definizione,l’immagine, la concezione dei soggetti coinvolti nel processo mediatorio. Diversa è la po-sizione dell’autore, il quale da un lato si trova nelle condizioni di poter esporre il suo puntodi vista, la sua esperienza, la sua umanità, la sfera più effettiva, più sostanziale delle suemotivazioni, e in virtù di questo riconoscimento si può trovare così disposto ad attivarsiper riorganizzare la sua appartenenza sociale. Diversa è la posizione della vittima, che è,a sua volta, un attore riconosciuto nella pienezza della sua dignità e della sua apparte-nenza sociale, con piena possibilità di essere ascoltato, di essere riconosciuto nella sostan-zialità dei suoi interessi, e di essere orientato a una soddisfazione effettiva, nonpuramente marginale e gregaria rispetto alla pronuncia della responsabilità penale. Ma è diversa anche la posizione della collettività, per certi aspetti definibile o riferibile alloStato, in quanto è una collettività che non raccoglie una riparazione di tipo puramentesimbolico, quale è quella della condanna penale, ma che si vede invece valorizzata dallaeffettiva ricostruzione del rapporto con chi se ne era allontanato, dalla effettiva riacqui-sizione del patrimonio rappresentato dalla presenza di un individuo che cambia atteggia-mento, che viene sollecitato, o che comunque viene posto nelle condizioni di riparareallo squilibrio che l’illecito ha determinato. Che mediazione potrebbe mai esserci se asua volta il soggetto, il reo, non venisse riconosciuto come soggetto, se non si rinunciassealla punizione nei suoi confronti come contropartita del fatto che gli viene offerta unaproposta diversa, che gli viene data una possibilità diversa? L’evidente differenza tra questidue approcci emerge già anche nella nostra legislazione, dove è di tutta chiarezza la di-versità di approccio tra la giustizia minorile e la giustizia per adulti. Nella giustizia minorile la mediazione – e quindi anche l’esperienza riparativa – avviene

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prima che si giunga alla condanna, come forma di sospensione della vicenda processuale,e quindi addirittura in alternativa allo svilupparsi del processo penale.

Riconoscere il ruolo della vittima non può prescindere da un diverso riconoscimento dell’autore del reatoSe si mantiene una dimensione alternativa tra la riparazione e la retribuzione – e la retri-buzione resta come sanzione subordinata al fallimento della riparazione – è difficile uscirestrutturalmente da questo carattere ricattatorio della minaccia penale. Ma la cosa è tantopiù sostanzialmente attuabile quanto più si dà preventivamente spazio a una dimensionelibera di incontro, di dialogo, di contrattazione, che sia sottratta al condizionamento dellacornice penale e che quindi sottragga la misura mediatoria dallo snaturamento di unasua subordinazione funzionale all’esercizio dell’azione e della sanzione penale. L’esperienza riparativa non può dunque consistere nell’assunzione di un surplus di re-sponsabilità che passa attraverso l’ammissione forzata della propria colpevolezza, am-missione che del resto mai potrebbe essere spontanea in un contesto di questo genere;deve essere invece intesa come pieno riconoscimento di soggettività, di dignità, di pos-sibile pienezza di appartenenza sociale, dove si tratta di uscire dalle categorie della colpa,dell’espiazione, del perdono, della conversione, della riabilitazione, della scusa. Solouscendo dalla definizione precostituita di colpa, di castigo, di minaccia, di pena, di espia-zione, di scusa strumentalmente predefinita, è possibile fare emergere la ricchezza sog-gettiva di chi ha violato la norma per ricostituirlo e restituirlo meglio alla sua dignitàsociale, in cui un pieno riconoscimento di diritti può definitivamente allontanare la per-sona dalla china che porta a indurla ad assumere comportamenti lesivi e socialmentedannosi. Questo approccio definisce un estendersi della dimensione di tutela su un duplice ver-sante normalmente estraneo alla condanna penale: da un lato la vittima, immaginata eridefinita come un soggetto sociale che può ritrovare il proprio equilibrio, la propria sod-disfazione indipendentemente da una dimensione vendicativa. Dall’altra i parenti del reo– cosa che non si considera mai abbastanza – che subiscono pesantemente per anni espesso in modo lacerante e irreversibile, gli effetti indotti della carcerazione, della san-zione penale, in quanto sottratti dalla sfera di relazionalità e di affettività che la presenzadel soggetto condannato, nell’ambito della loro esistenza, nel loro contesto di vita, natu-ralmente offre come risorsa umana. In definitiva quindi, dobbiamo guardare con diffidenza e con preoccupazione a questatendenza che intende attribuire una funzione riparativa a sanzioni suppletive ulteriori ri-spetto a quelle già penalmente irrogate. Non tanto perché in un quadro sanzionatorioclassico, di ordine retributivo, non si possano inserire elementi di umanizzazione, di riso-cializzazione o di maturazione personale che, associati anche a un’attenuazione della af-flizione penale, diano alla stessa una dimensione per certi aspetti più umana, più sensatae più accettabile dal punto di vista della riconciliazione della società con chi ha violato lalegge. Ma soprattutto perché sviluppare in questa direzione l’idea della riparatività, l’ideadi un segno diverso della giustizia rispetto alla punizione, toglie spazio e deforma con-cettualmente la prospettiva di un’alternatività al penale che può proprio svilupparsi nelladimensione della riparazione attraverso un’estensione delle esperienze di mediazione,non come articolazione subordinata della logica del diritto penale, ma invece come di-

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mensione e spazio sostanzialmente e profondamente alternativo. Il fatto dunque di accettare che l’idea di riparazione si sviluppi soprattutto nel campo ese-cutivo della pena comporta il pericolo che possa configurarsi come una deformazioneculturale, come una pregiudiziale sostanziale, che toglie spazio alla possibilità di intro-durre e perseguire una prospettiva del tutto diversa. Una dimensione che preventiva-mente, così come vuole la legislazione europea, declini l’intervento istituzionale su unterreno e in uno spazio che prevengano la soluzione sanzionatoria ed afflittiva del pro-blema che si determina tra autore e vittima di reato.

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La mediazione penale nell’ambito della giustizia minorileÈ importantissimo per l’autore di un reato sapere che il proprio gesto in qualche modo è riparabile

Intervista a Claudia Mazzucato a cura di:Marino Occhipinti,

redattore di Ristretti Orizzontie Carla Chiappini,

coordinatrice del giornale del carcere di Piacenza

Di mediazione penale nell’ambito della giustizia minorile abbiamo parlato con ClaudiaMazzucato, docente di Diritto Penale all’Università del Sacro Cuore di Milano e Media-tore penale dell’Ufficio per la Mediazione di Milano.

Come comincia la sua esperienza nel campo della mediazione penale?Vorrei subito fare una premessa e una richiesta: vorrei poter dialogare con voi propriosulla mia esperienza. Il tema della mediazione e della giustizia riparativa è complesso, edè difficile poterne parlare in modo rigoroso in poco tempo. Preferirei allora attenermipiuttosto a una narrazione in prima persona: mi piacerebbe raccontare la mia storia conla mediazione, seguire il filo dei miei pensieri personali e dei miei ricordi. Per gli aspettiteorici, scientifici e culturali, invece, si deve studiare tanto e calarsi nella realtà. Pocheparole all’interno di un piacevole dialogo non sono sufficienti a contenere la complessitàaffascinante e problematica di questo tema.

La mia storia, alloraCome le migliori storie, anche questa comincia su un’isola, quella di Gorgona, dove sonostata nel 1991 per un progetto della cattedra di filosofia del diritto della mia Università incollaborazione con l’allora direzione del carcere di Gorgona. Con il professor LombardiVallari (ordinario di filosofia del Diritto nell’Università di Firenze e all’epoca docente anchenell’Università Cattolica) e altri studenti e giovani laureati siamo stati ospiti una settimanadella Casa di reclusione. L’incontro con i detenuti mi aveva molto colpito, perché avevoincontrato delle persone il cui tempo, per tanti motivi, si era fermato. Un tempo fermoanche perché inchiodato sul reato, ed ho pensato che anche il tempo delle vittime, o deiloro familiari, è fermo. Due vicende di sofferenza, separate e unite al contempo; mi do-

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mandavo come mai rimanessero così infecondamente separate; ho chiesto, quindi, alprofessor Lombardi Vallari di poter svolgere la mia tesi di laurea su questa separazione.Il titolo della tesi è poi diventato “Le alternative al processo penale: gli spazi della pacifi-cazione”. Allora non sapevo assolutamente che cosa fosse la mediazione: durante la ri-cerca ho pero “scoperto”, tra alcune esperienze giuridicamente non attuabili, l’esperienzadella mediazione reo/vittima che aveva preso avvio negli Stati Uniti e in Canada dagli anni70.Poi ho incontrato il professor Ceretti, che all’epoca stava studiando la mediazione penale.Diciamo che dal ‘93 - ‘94 abbiamo cercato di concretizzare questo progetto. Lui aveva inmente, insieme ad altre persone appassionate, di proporre l’apertura di un ufficio di me-diazione. Ne è nato un progetto che abbiamo sottoposto alla dottoressa Livia Pomodoro,presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano, che ci ha sostenuti ed aiutati insiemea tante istituzioni e persone significative. Si è costituito un gruppo, è stato sottoscritto unprotocollo d’intesa inter-istituzionale (tra Comune di Milano, Ministero della Giustizia-Centro per la Giustizia minorile, Regione Lombardia, alcuni Comuni dell’hinterland mila-nese e oggi anche la Provincia di Milano), è nato l’Ufficio di Mediazione. Il gruppo deimediatori è stato formato da Jacqueline Morineau: un percorso formativo umanamentee culturalmente straordinario, coinvolgente e appassionante.

Materialmente quando è stato aperto l’ufficio? E si può dire che all’inizio è nato nontanto come percorso giuridico, ma quasi nell’ambito della sede trattamentale?L’ufficio è stato aperto nel maggio del 1998. Non penso però che la mediazione vada vistain una logica di trattamento, se con trattamento si intende ciò che una persona reclusadeve fare per non delinquere più, ma è qualcosa di molto più ampio e universale.Sono personalmente convinta che la mediazione sia un modo democratico di risponderea una domanda di giustizia ovunque nasca, quindi non soltanto in ambito penale. L’ideaè quella che attraverso la parola, che è una prerogativa dell’essere umano, ci si possa ri-conoscere e accordare nel senso più nobile del termine, non semplicemente negoziare suqualche cosa ma cercare di trovare la concordia.

E questo accade nelle vostre mediazioni minorili?Può accadere in misura diversa, con gradi diversi. Ci sono conflitti più “in prosa” e conflittipiù “in poesia”, però io devo dire che in ogni mediazione, anche quelle che non riescono,si assiste a questa sorta di passaggio: dai fatti che separano, dividono, allontanano, ai vis-suti che questi fatti hanno generato e, da lì, a valori che sono, per lo più, universali, anchese declinati in modo individuale, e quindi differenziato.Sono i valori primordiali che costituiscono il logos dell’esperienza umana: il bisogno di ri-spetto, l’importanza dell’amore, dell’amicizia, dell’essere voluti, desiderati, capiti, il biso-gno dello spazio, della non invasione di questo spazio, per citarne solo alcuni a titolo diesempio. Questi bisogni sono, dunque, contenitori di valori forti, rispetto ai quali ci si puòriconoscere anche partendo da una incommensurabile diversità come quella che obbiet-tivamente distingue un reo e una vittima.Nel corso di una mediazione ci si può persino accorgere che i ruoli di reo e di vittima sono,a certe condizioni - in certi casi -, quasi intercambiabili: questo accade, per esempio,quando il reato è frutto di una vicenda di soprusi, di una negazione di questi valori versol’autore del reato stesso.

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Nel passaggio dai fatti che dividono alle emozioni e ai vissuti che a questi stessi fatti sonostrettamente legati, si riesce ad aprire la corazza dei sentimenti e all’interno si ritrovanoancora i valori.La cosa più interessante e più bella è che sono gli stessi valori che la norma voleva pro-teggere.Ed è appassionante aprire la corazza della norma e svelarla, scoprire che quello che c’èdentro è qualcosa che mi riguarda, riguarda l’altro, riguarda tutti; è una forte comunanza.Si palesa la comunanza laddove si penserebbe esserci spazio solo per le differenze radi-cali.Questo non vuol dire che si media l’innocenza o la colpevolezza, tanto meno che la me-diazione è una giustizia retributiva che ripaga con la stessa moneta: la mediazione è unagiustizia che potremmo definire “creativa”, legata al riconoscimento dell’Altro. La media-zione consiste nell’offrire spazio a tutto ciò che conta davvero perché venga interamentericonosciuto e accolto.

Da quanti anni sta facendo mediazione e con che frequenza questo strumento è utiliz-zato nell’ambito della giustizia minorile?Sul piano degli studi teorici, sono ormai dieci anni che me ne occupo; faccio mediazionein ambito minorile, invece, dal 1998. L’ambito penale minorile è stato pionieristico; oggila mediazione pare aver assunto un peso crescente ma non dominante. Gli Uffici di me-diazione sono ancora molto pochi e i casi che vengono trattati da questi uffici sono esiguirispetto alla mole e al carico che hanno i tribunali, però l’attenzione aumenta. Fra l’altroritengo che sia meglio non cominciare con delle cose macroscopiche che tradirebberosoltanto lo spirito, meglio avanzare a piccoli passi.Io sono molto preoccupata per eventuali esperienze improvvisate che farebbero soltantomale alla giustizia riparativa e alla mediazione; temo le derive verso una scarsa serietà eun debole fondamento scientifico che potrebbero indurre qualcuno a dire che la giustiziariparativa non è utile, non fornisce adeguate garanzie, è pericolosa, è emotiva. Ciò con-durrebbe a “chiudere tutto” e ridare spazio solo al vecchio diritto penale fondato sulla re-pressione. Serve, quindi, tanta cautela e preparazione.

Come e dove ci si prepara a diventare mediatori e con che formazione?È un tema molto delicato: c’è una raccomandazione del Consiglio d’Europa sulla media-zione penale (Racc. 19/1999) che richiede che i mediatori si preparino con serietà sia al-l’opera di mediazione sia a conoscere il contesto in cui la mediazione si colloca. Lamediazione penale dialoga con l’amministrazione della giustizia tradizionale, giuridica, equesto dialogo è fondamentale: guai se non ci fosse!È una preparazione anche alla conoscenza dei destinatari del servizio della mediazione,quindi i mediatori devono conoscere molto bene la realtà in cui operano, devono addi-rittura, secondo questa raccomandazione, essere espressione della collettività. Che cosavuol dire? Che il mediatore può essere chiunque si prepari e si formi appositamente; nonci sono delle professionalità più adatte, anzi chi proviene da professionalità giuridiche,psicologiche, pedagogiche e d’intervento sociale deve “spogliarsi” di queste sue compe-tenze. Ma chi si accinge a diventare mediatore deve comunque prepararsi: non si puòimprovvisare.Il tema della preparazione, ripeto, è molto delicato. Vi è fra l’altro l’insidia di trasformare

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uno strumento così delicato in un “business”: cresce l’interesse per la mediazione, cre-scono magari anche mire non proprio trasparenti. Ci sono molte “scuole” di formazioneserie, ovviamente la tradizione che c’è all’estero è di più lunga durata. I modelli di riferi-mento sono sostanzialmente due: uno più negoziale e uno che viene definito più umani-stico; a mio parere il modello che funziona di più in ambito penale è quello umanistico.

Il professor Ceretti ci tiene molto a spiegare che l’incontro di mediazione non ha nullaa che vedere con l’incontro terapeutico e neanche di supporto psicologico: parlandocon i detenuti in carcere questo è un concetto che non è facile da chiarire, vuole provarea farlo?Non è terapeutico perché, come dice appunto Ceretti, la mediazione non vuole sanare ilconflitto, non vuole curarlo, vuole – più modestamente – “prendersi cura” degli effettidistruttivi del conflitto. La mediazione è un intervento molto puntuale, circoscritto. Tra l’al-tro non tutto è mediabile, esistono anche situazioni non mediabili. Ci sono persone chehanno altre esigenze, appunto più terapeutiche; la mediazione è una cosa più umile,meno ambiziosa e con obiettivi limitati.Il mediatore non ha potere, non fa progetti, non dà consigli, non propone soluzioni, nonpuò diagnosticare, non interpreta, non spiega, non ha un ruolo esplicativo del perché siproduce una certa situazione, una certa reazione, del perché si produce quella particolareemotività.Quindi il mediatore non solo non è un terapeuta, non fa lo psicologo, non fa l’educatore,nemmeno il criminologo. Il mediatore è proprio al servizio “di”, non è mai protagonista.La mediazione può essere paragonata a un palcoscenico, a uno scenario, una cassa di ri-sonanza; è qualche cosa che accoglie restituendo. I protagonisti della mediazione sono ve-ramente le parti e infatti, per tornare alla formazione, la formazione alla mediazione è uncammino di spoliazione. Lo dicevo poco tempo fa ad un gruppo di futuri mediatori penalinell’ambito di un progetto pubblico: non dovete pensare di incamerare ma di abbando-nare, quindi di fare emergere quello che c’è già, non di aggiungere. Il percorso di forma-zione alla mediazione non aggiunge ma porta ad una essenzialità costruttiva.

Cosa la affascina in tutto questo?Mi affascina l’essere umano. Mi affascina vedere che cosa siamo capaci di fare come esseriumani: la nostra capacità di fare del male e di fare del bene; mi affascina assistere allamessa in campo di risorse inimmaginabili e positive; molte delle persone che ho incon-trato in mediazione sono state per me esemplari ed educative. Persone esemplari per laforza dei messaggi che portano, dei significati che trasmettono, dei valori che riconoscono.La mediazione non ha retorica, non c’è spazio per la retorica perché le persone che inter-vengono, che sono protagoniste hanno dentro cose reali.

Lei sostiene che l’assenza di retorica è molto fascinosa.Sì, perché c’è gente che sulla sua pelle ha un detector antiretorica perfettamente funzio-nante. Per questo si va sempre davanti al “dunque”, a volte le parti mettono un po’ di“fronzoli” alle loro storie per renderle più presentabili, ma una volta entrati nel dialogodella mediazione tutti i fronzoli scompaiono e resta l’essenziale. Non c’è più retorica enon c’è menzogna.Il processo può essere un luogo in cui la verità ha difficoltà a farsi strada, perché spesso

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è costruito in modo tale che la verità non renda liberi e perché l’emergere della veritàproduce la sanzione che è sofferenza, quindi la verità non fa male in se stessa ma apre aqualcosa che fa del male, all’inevitabile sofferenza legata alla pena.Nella mediazione, invece, è diverso: il mediatore non ha poteri, non ha autorità di giudizio,la verità non conduce a qualcosa che fa del male e allora quasi sempre la verità vienefuori.

Esiste una verità nei fatti, o vale il luogo comune per cui la verità non esiste, esistonopiuttosto infinite verità?C’è sicuramente una ricostruzione storica dei fatti e quasi sempre in mediazione si giungead una ricostruzione univoca dei fatti; in mediazione sono presenti gli unici soggetti chesanno cosa è realmente successo. La verità fattuale è però sempre con la “v” minuscola.Questa ricostruzione univoca dei fatti, che è una presenza molto frequente nella media-zione, dipende proprio dalla possibilità di confrontarsi in modo libero ed è una ricostru-zione che nasce grazie alla possibilità che ognuno dica la propria verità. Nella mediazione,però, non ci si limita alla ricostruzione storica dei fatti; ci si può confrontare anche sui vis-suti generati da quei fatti.Ad esempio un aggredito può spaventarsi in modo più forte di quanto non potesse pre-vedere il suo aggressore: è molto importante sentirselo dire. Se tu me lo dici, io capiscoche il mio atto può produrre anche questo, quindi aggiungo un pezzo di verità alla mia ve-rità soggettiva. Chi ruba un portafoglio nel quale c’è la fotografia di qualcuno caro chemagari non c’è più, considera di norma soltanto l’aspetto economico del danno: vi è peròun’altra dimensione profonda conoscibile solo incontrando l’altro. La vittima ha bisognodi “non essere solo un portafoglio”! Passo passo si compone quel “puzzle” che noi pos-siamo chiamare “verità” che finalmente mostra la figura nella sua completezza.Questo, naturalmente, vale anche all’inverso, perché per l’aggredito può essere impor-tante sentire che l’aggressore non voleva produrre quello spavento, che non immagi-nava…

Cos’altro c’è di importante, secondo lei, nella mediazione penale?È importantissimo per l’autore di un reato sapere che il proprio gesto, se non storicamente(perché non si può tirare indietro l’orologio) in qualche modo è riparabile, altrimenti lapena diventa veramente solo un infliggere una sofferenza senza orizzonti. Sapere che ioposso riparare è fondamentale; ed è fondamentale per il reo così come è fondamentaleper la vittima.

Lei trova che le persone escano dalla mediazione comunque alleggerite di qualcosa?L’altro giorno una persona, nell’ambito di un percorso di mediazione, ha detto: “Non escosenza la sofferenza, ma è bene che questa sofferenza rimanga un po’ con me”. In media-zione, lo ripeto, non c’è spazio per la retorica: le cose possono apparire nella loro dimen-sione tragica; non vengono edulcorate. L’augurio, confermato anche dall’esperienza, èperò che le persone escano più libere, con l’impressione che un giusto spazio e una giustaaccoglienza sono state concesse a ciò che conta davvero per loro.

C’è anche un momento di maggior serenità?Sì, in certe persone è proprio evidente, c’è una sorta di trasfigurazione dei volti. Le me-

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diazioni che riescono particolarmente bene si leggono nei volti, si vedono nelle personeche sorridono insieme, che tornano a parlarsi, che dialogano rispettandosi. Non è semprecosì, certo, ma spesso il cambiamento è tangibile.

Che prospettive ci sono, perché questo strumento diventi strumento anche all’internodel processo per gli adulti?C’è molto fermento; le prospettive sono tante; l’importante è non utilizzare questi stru-menti nuovi con la mentalità antica, perché se noi abbiamo sempre in mente di rispon-dere al reato con la pena, “al male con il male”, vi è il pericolo di usare la mediazione e lariparazione come delle pene, tradendone la natura di una giustizia che - come afferma ilConsiglio d’Europa - aspira a diventare “più costruttiva e meno afflittiva”.È importante che si resti saldi e fedeli all’idea che la mediazione e la riparazione delleconseguenze del reato sono un momento dialogico consensuale: qui c’è la forza di questistrumenti. Se mediazione e riparazione diventano delle prescrizioni, dei compiti imposti,una afflizione, si inaridiscono completamente. Quindi credo che lo sforzo più importantesia quello proprio di cambiare la prospettiva per cui, quando viene commesso un reato,non c’è un subire passivamente e in modo sterile una sofferenza, ma ci si deve dare da farein modo fecondo, propositivo, operoso: si deve, cioè, “intraprendere”.É una responsabilità molto seria, faticosa, impegnativa; non è edulcorare la responsabilità,sminuire la gravità e dannosità del fatto criminoso; è piuttosto il commiato definitivo dauna logica della sterilità per sposare una logica feconda, appunto, di impegno costruttivo,coinvolgente e motivante.

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Chi ha scontato una pena per reati di sangue ha diritto ad avere un ruolo pubblico?

È solo ascoltando le vittime che si comincia a rimettere in discussione la formula(perché un po' anche di una formula si tratta) “ho sbagliato e ho pagato”, chetroppo spesso trascura il fatto che qualcun altro continua a pagare prezzi altissimiper il reato subito, e non c’è fine pena che sani una situazione come quella, peresempio, di una moglie che ha perso il compagno, come è successo a Olga D’An-tona. O di una figlia, come Silvia Giralucci, che ha perso il padre, ucciso dai terro-risti, e ci scrive che “non si diventa un ex assassino. Semplicemente perché io nondivento un’ex-orfana, perché il mio papà non torna. Piacerebbe anche a me chequesta realtà fosse reversibile, ma non lo è. E anche chi ha saldato il proprio debitocon la giustizia, dovrebbe tener conto che rimane comunque per sempre una re-sponsabilità verso le vittime”. Sembrano così semplici, a scriverle, e invece forsetutti abbiamo paura di queste parole, che ci inchiodano a una attenzione alle vit-time diversa, che non sia solo rituale.É importante invece imparare a conciliare il rispetto dei diritti di chi è stato privatodella libertà con il desiderio delle vittime di vedere riconosciuto il proprio dirittoa non essere offese di nuovo dalla disattenzione, dalla superficialità, dal silenziodistratto della società. E la disattenzione può essere anche non capire che a voltechi ha commesso reati di sangue e ha scontato la sua pena deve saper rinunciarea qualsiasi protagonismo e muoversi un po’ “in punta di piedi”, per non rinnovareil dolore di chi quel reato l’ha subito.

Capitolo VI

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Il dolore delle vittime si rinnova quando prendono la parola i “colpevoli”?Ci sono modi diversi di dare voce a chi è stato o è in carcere, quello che conta comunque è saper ascoltare, rispettare, capire le esigenze di chi ha subito reati

di Stefano Bentivogli

Per chi ha commesso reati imparare a misurarsi con le vittime è il problema più dolorosoe angosciante. Olga D’Antona, moglie del giurista ucciso dalle Brigate Rosse, è una vittimache ha il coraggio di cercare di dare razionalità e misura al suo dolore. Suo è un interventopuntuale riguardo alle modalità con cui si esprimono e si espongono, proprio attraversoi media, le persone che ai gruppi rivoluzionari dello scorso trentennio hanno aderito eper questo hanno scontato una pena di anni di reclusione.La posizione di Olga D’Antona non è sicuramente il solito sfogo (sempre legittimo) del pa-rente della vittima che sente dare, a chi le ha tolto una persona cara, spazi e opportunitàche rinnovano ogni volta il dolore per la perdita subita. Credo quindi che quelli che comenoi si danno da fare, per dare voce a chi è stato o è in carcere, debbano vivere quasi comeun senso di dovere quello di ascoltare, riflettere ed avere comunque un grande rispettoper persone come lei. Non c’è difatti un tono vendicativo nelle parole di questa donna, manon c’è neanche l’esternazione di un perdono o di sentimenti simili che possono ancherimanere fuori dalla discussione. La sua richiesta, ma i toni sono quelli di una protestavera e propria, è di non far salire in cattedra queste persone sulle quali il giudizio, sia delTribunale che storico, è stato pesantemente negativo. A me piacerebbe trovare qualcunodelle persone a cui Olga D’Antona si riferisce che prendesse il coraggio di risponderle e de-cidesse di aprire un confronto civile, che rappresenta l’unica strada per dare soluzionead un periodo storico ormai passato, ma che ha rappresentato un conflitto sociale non an-cora affrontato fino in fondo nel nostro Paese.In questo stesso periodo, si è svolta nella Casa di reclusione di Padova una giornata distudi il cui titolo era “Dalle notizie da bar alle notizie da galera”, organizzata dalla Fede-razione dell’Informazione dal carcere e sul carcere con lo scopo di produrre degli stimoli,stavolta diretti al mondo dell’informazione tradizionale, affinché la privacy delle personedetenute (o comunque sottoposte a procedimento giudiziario o indagate) e dei loro pa-renti venga in qualche modo meglio tutelata. Ma più in generale abbiamo voluto porreall’attenzione dell’informazione la necessità di un atteggiamento diverso da quello ormairicorrente, dalla carta stampata al video, sui temi della giustizia e della pena, un’attenzionetesa a portare nel mestiere dell’informazione un po’ più di obiettività e realtà, cercandodi evitare luoghi comuni, stereotipi, addirittura informazioni false perché date senza labenché minima conoscenza delle nostre leggi.A questo punto potrebbe sembrare che l’appello di Olga D’Antona, a non accettare che gliassassini salgano in cattedra, vada in direzione opposta alla richiesta che invece noi, de-tenuti ed ex detenuti, continuiamo a fare, che è quella di poter parlare, di poter raccon-tare come stanno le cose secondo la nostra ottica, di mostrare veramente cosa è il carcereoggi, qual è il divario tra il carcere immaginato, quello previsto per legge e quello reale.E poi le nostre storie provano a spiegare i torti e le ragioni dei colpevoli, perché se non siha il coraggio di considerare, a prescindere dalla condanna, anche le ragioni dei colpevoli

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ci accontenteremo sempre di una realtà parziale. Chiaramente non si tratta di ridiscuterele responsabilità di crimini, in genere (proprio quasi tutte) accertate, si tratta di andare unpo’ più in profondità, e magari non farlo fare agli ormai numerosi conduttori di programmisu crimini e criminali che spesso prendono il vizio di spettacolarizzare fatti e storie chegran spettacolo non sono proprio.Vorremmo, e credo di poter parlare anche per tutti gli altri come me che, a partire daun’esperienza di carcere, scrivono, partecipano a dibattiti, si informano, provare ad esserenoi a raccontare, rivisitare la nostra storia, che è la nostra vita, le nostre illusioni, i nostrifallimenti, i nostri sentimenti.

Ci sono esperienze dove il dare la parola a detenuti ed ex non assomiglia affatto a passerelleCredo che a questo punto però, posizioni come quella di Olga D’Antona vadano discussea fondo, perché quelli che hanno avuto una storia di illegalità, pur di gravità diversa, nonpossono non considerare legittima la protesta di chi, ancora ferito, non percepisce l’in-tento vero del nostro lavoro. Spesso però ho l’impressione che vi sia anche un difetto dicomunicazione, ossia che noi che pretendiamo (e secondo me giustamente) il diritto allaparola, scivoliamo in una specie di retorica del povero carnefice che sa tanto di allegge-rimento delle responsabilità personali.Questo io lo considero grave: quando alcuni di noi finiscono a pontificare, a pretenderedi dar lezioni, sia ben chiaro a torto o a ragione, perché a volte le ragioni ci sono, le coseche possono essere dette sono importanti, perdiamo tutti una grande opportunità di ge-stione dei conflitti che restano aperti alla fine in modo irrecuperabile. Mi rendo contoperò che, a prescindere dai reati commessi, ci sono alcuni compagni che non apprezzanol’invito a mettere in atto quello che ognuno di noi dovrebbe avere, che si chiama un mec-canismo di autocensura, o meglio il mantenimento di un profilo non dico basso, ma quan-tomeno non presuntuoso ed arrogante.Però non si può con questo generalizzare: la questione è davvero complessa, e credo siautile aprire una seria riflessione sulle dichiarazioni di Olga D’Antona. Lo scrivo perché in-vece ci sono esperienze, quella che conosco meglio è il progetto “Il carcere entra a scuola”realizzato a Padova dall’associazione Granello di Senape, dove il dare la parola a detenutied ex, metterli a confronto con gli studenti anche su questioni delicate come i casi di omi-cidio non assomiglia affatto a passerelle ove esporre il lato eroico del negativo che c’è inognuno di noi. Si è trattato invece, e spesso si è rivelata un’operazione molto difficile pernoi che rappresentavamo il crimine, di avvicinare questi ragazzi alle storie di persone nontroppo diverse da loro, persone che però si trovavano a raccontare e rileggere la propriastoria, senza farne un romanzo, né un piagnisteo, ma facendone piuttosto un momentodi comunicazione tra pezzi di società, che altrimenti rischiano di non parlarsi mai, di nonconoscersi, di giudicarsi reciprocamente e basta.Io personalmente credo che sia molto importante il modo con cui teniamo aperta la co-municazione, ed è proprio sulle critiche di Olga D’Antona che possiamo aprire un nuovocapitolo sul rapporto tra cittadini e legalità, perché questa non continui a restare unaquestione che divide, che esaspera i conflitti, lasciando aperte ferite da una parte e se-gregando per sempre dall’altra.

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Una persona che ha ucciso non può permettersi di perdere il senso della propria “diversità”

di Marino Occhipinti

La nomina a segretario di Presidenza della Camera del deputato radicale Sergio D’Elia, excomponente del gruppo terroristico Prima Linea che ha scontato in passato molti anni diprigione per reati connessi a gravi fatti di sangue, anche se non da lui direttamente com-messi, ha riacceso qualche anno fa una polemica che, regolarmente, si ripropone ogniqualvolta una persona che ha violato il quinto comandamento – non uccidere – espiatala propria pena si riaffaccia in società in una dimensione pubblica. La sostanza del dibat-tere si riassume essenzialmente nel seguente quesito: un omicida torna a essere una per-sona in tutto e per tutto uguale alle altre, una volta che abbia saldato il suo debito con lagiustizia, o continua a gravare – su di lui e prima ancora in lui – il peso di una diversità ir-rimediabile?Io non me la sento di dare fiato alle coscienze altrui, ma alla mia sì. E a questo quesito –che mille volte mi sono posto non in linea di principio ma come parte direttamente incausa, essendo io stesso un omicida – rispondo senza il minimo dubbio che chi uccide iconti non può mai saldarli fino in fondo. Sia perché il male che ha commesso ha la pre-rogativa dell’irrimediabilità (l’espiazione della condanna anche più pesante non restituiscela vita a chi per mano sua l’ha persa), sia perché uccidendo ha infranto quello che pertutti, in ogni angolo del mondo su cui batta il sole della ragione e della pietà umana, è ilvalore più alto: il primato assoluto della vita. Per questo credo che la condanna scontatae il pentimento più sincero possono e anzi debbono restituire alla società degli “ex” ladri,degli “ex” rapinatori, degli “ex” truffatori, cioè persone affrancate dalla colpa per il fattostesso d’averla espiata, ma non degli “ex” assassini. Chi ha ucciso ha comunque e persempre ucciso, e dell’ombra della propria colpa non potrà mai liberarsi del tutto, né agliocchi del mondo né – e tanto meno – agli occhi di se stesso.Con questo non voglio dire che una volta tornato libero dopo lunghi anni di galera unomicida debba ridursi a vita da catecumeno, camminando rasente i muri e abbassandogli occhi ogni volta che incrocia qualcuno. Voglio dire soltanto che non può permettersidi perdere il senso della propria “diversità” e che, quantomeno, deve imparare a metterela sordina alle proprie esuberanze, rendendosi conto che le sue parole e i suoi compor-tamenti se leggeri rischiano di suonare vanesi, se biliosi allarmanti, se azzardati irrespon-sabili, se moralmente discutibili, provocatori e inquietanti. Non è una questione diauto-censura ma di misura e, semmai, di auto-educazione, perché tornare a vivere fra glialtri dopo essersi macchiati di un delitto così grave è un po’ come rinascere dal propriostesso massacro, e occorre “rieducarsi” molto di più di quanto facciano, o aiutino a fare,la galera e la sua discutibile più ancora che carente pedagogia.Per quel che mi riguarda, in tutti questi anni di carcere ho quasi sempre mantenuto latendenza a scegliere le ultime file della platea piuttosto che le prime, ma non me la sentodi dire che questa sia una ricetta valida per tutti, perché in fin dei conti anche il mio è co-munque stato un percorso non lineare. Infatti, per lunghi anni, mi sono attentamente na-scosto: se nella redazione di Ristretti Orizzonti, nella quale svolgo la mia attività diredattore-detenuto, entrava un giornalista, o una tv, mi rendevo “invisibile”, soprattuttoe proprio per il timore della strumentalizzazione.

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Adesso però ho maturato la convinzione, ed anche in questo sono stato aiutato, che siaforse più dignitoso “mostrarsi” – pur con tutte le debolezze ed i disagi del caso – e fare iconti con la realtà piuttosto che continuare a tenere la testa infilata sotto la sabbia, opeggio ancora nel pantano. Però, per arrivare a tale comportamento, ho dovuto prima im-parare ad accettarmi, ed anche questo è un cammino a volte lungo e doloroso. Così, purcontinuando a rifiutare categoricamente qualsiasi proposta di intervista che abbia comeoggetto la mia vicenda giudiziaria, ho pian piano iniziato a scrivere e firmare articoli conun “taglio” comunque generale, legati alla detenzione, ai reati ed a chi li ha commessi. Tornando al discorso di base, non bisogna comunque dimenticare che ci sono persone chehanno ucciso, e magari ucciso in giovane età, e che dopo avere espiato una lunga con-danna tornano in società con una consistente aspettativa di vita e con l’idea di avere an-cora cose importanti e degne da dire e da fare. In questi casi capisco che sia molto piùdifficile, scegliere l’ombra; e che in fondo non sia neppure giusto sceglierla in via pregiu-diziale, perché esistono persone che hanno davvero saputo distillare dal male che hannofatto (e almeno giudizialmente pagato) risorse di sensibilità, di maturità, di passioneumana e civile che possono tornare utili anche agli altri. Ciò non di meno anche su questepersone continua a gravare il peso di una colpa che non si estingue, ed è giusto pertantoche al coraggio di esporsi uniscano la prudenza e il buon gusto di non sovraesporsi, ri-schiando così di trasformare la visibilità nella sua narcisistica degenerazione: il protago-nismo, che nel loro caso sarebbe imperdonabile.

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Uno scambio di riflessioni tra Ornella Favero e Sergio Segio“Ho pagato il mio debito”Ma davvero il mondo si divide fra quelli che vogliono cacciare, escludere, condannare a una pena perpetua Caino, e quelli che invece pensano che Caino, quando si è fatto la galera, hachiuso i conti e nessuno può pretendere da lui più nulla?

Leggere il libro di Giovanni Fasanella, “I silenzi degli innocenti”, è stata quasi una sceltaobbligata, quando noi di Ristretti Orizzonti abbiamo deciso di affrontare in modo non oc-casionale, ma con forza e chiarezza, il tema del rapporto tra autori e vittime di reati. Le testimonianze delle vittime del terrorismo, che Fasanella è riuscito a raccogliere, sonopiene più di angoscia e di rabbia, che di odio. In tutte, poi, c’è un dolore particolare: quellodi aver visto le proprie storie raccontate soprattutto dai terroristi, che lo sapevano fare,e non avere né la forza né la capacità di prendere in mano la penna e provare a raccon-tarsi. Il libro di Fasanella è arrivato con una felice intuizione a chiudere questo buco nero,e a dare davvero la possibilità a queste persone di riprendere in mano le fila della propriavita, e della vita dei loro cari, per non perdere la memoria.Quando Giovanni Fasanella ci ha invitati a intervenire sul suo blog, “La Storia Nascosta”,abbiamo accettato volentieri, con l’idea di partecipare a una riflessione collettiva sui temi,che più ci stanno a cuore in questo momento: la responsabilità, il rapporto con le vittime,la riconciliazione, la mediazione tra vittime e autori di reato. Ne è nata una discussioneserrata, in particolare con Sergio Segio, che qui riportiamo.

Rientrare nella società in punta di piedi

di Ornella Favero, direttore di Ristretti Orizzonti

Noi, che ci occupiamo di un giornale dal carcere, non c’entriamo molto con il dibattito sulterrorismo, ma possiamo portare un’esperienza particolare: per noi intendo io, Ornella Fa-vero, che faccio volontariato in carcere e i detenuti che con me discutono ogni giorno. Ildesiderio di entrare in questa discussione sul terrorismo ci è venuto quando in carcere ab-biamo ospitato Olga D’Antona: forse per la prima volta detenuti, colpevoli di reati di san-gue, si sono misurati così da vicino con il dolore, e non con l’odio delle vittime. Duranteil processo credo sia impossibile qualsiasi confronto, e dopo c’è il carcere, e le vittimespariscono, anzi c’è di peggio, a volte il carcere trasforma i detenuti in vittime, per quellaperversione del sistema per cui, invece di avere tempi e spazi per riflettere sul loro reato,le persone vengono rinchiuse e abbandonate a se stesse senza confronto con il mondoesterno. Mi ha colpito, nelle nostre quotidiane discussioni, un detenuto albanese, colpe-vole di un duplice omicidio per vendetta, quando ha detto che la più grande sofferenzaper lui non è stata la galera, ma il perdono del padre di una delle vittime. Perché la suaragione di vita era sempre stata l’odio, e così si è sentito perso. Questo ci ha fatto riflettereanche su un’altra questione, che è il linguaggio, “le parole per dirlo”.Incontrando in carcere gli studenti (abbiamo un progetto che porta in carcere, a confron-tarsi con i detenuti, centinaia di ragazzi), abbiamo notato quanto importanti siano le pa-

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role: la frase, per esempio, “Ho pagato il mio debito con la Giustizia” ha qualcosa di orri-bile, perché è un modo per monetizzare il reato e far dimenticare alle persone di avereuna responsabilità nei confronti di altre persone, e non di una entità astratta come loStato. Ecco, quando si dice di un terrorista “ha pagato il suo debito”, le vittime spariscono.Il libro di Giovanni Fasanella, “I silenzi degli innocenti”, lo abbiamo letto in molti, nel miogruppo: sono testimonianze che ti prendono allo stomaco e non ti lasciano respirare, ehanno finalmente fatto capire a tante persone, in particolare responsabili di reati di san-gue, che non ci sono debiti che si saldano con anni di carcere, gli anni di carcere magaripossono essere anche troppi a volte, ma il debito vero resta, resta con le vittime e non siestingue. Avere la consapevolezza di questo significa che forse oggi tante vittime nonchiedono a chi ha ucciso di non rientrare mai più nella società, forse chiedono loro solodi rientrarci in punta di piedi, guardandosi intorno nel loro cammino e accettando di es-sere qualche volta meno protagonisti.

Condannati ad una pena eterna

di Sergio Segio

La voglia di escludere per sempre gli ex detenuti dal consorzio civile, dalle prerogativeche rendono cittadini e titolari di diritti si è ormai fatta, passo dopo passo, senso comune.Senza grosse resistenze. Non sono più considerate sufficienti le pene detentive, le misuredi sicurezza e quelle accessorie e interdittive previste dal Codice: introdotte dal giuristaRocco durante il fascismo, in questo clima paiono persino garantiste. Le pene accessorie(interdizione legale, interdizione dai pubblici uffici, dall’elettorato attivo e passivo, da unaprofessione o un’arte, impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione, eser-cizio della potestà genitoriale, etc.), ai sensi di legge, possono sempre venire meno, o perla decorrenza del tempo previsto o, in caso di interdizione perpetua, attraverso l’istitutodella riabilitazione. La cui concessione, tradizionalmente, si verifica con il contagocce,specie nel caso dei reati connessi alla lotta armata, ma quel che conta è che, almeno, siaprevista. Il salto all’indietro − verso il Medioevo e la gogna, cioè lo stigma che renda sempre rico-noscibile il reo e la sua colpa − si è reso vieppiù manifesto con la vicenda che ha riguardatoSergio D’Elia, di cui è stata contestata l’elezione a deputato. Riabilitato ai sensi di legge,ma non nel senso divenuto comune. Quello che dice che “si può essere ex detenuti, mamai ex assassini”: è il leit motiv proposto quasi ogni giorno da giornali e programmi tele-visivi, oltre che, comprensibilmente, da famigliari di vittime. In genere ci si riferisce agliex terroristi, ma questa posizione prevedibilmente è ora tracimata, arrivando a compren-dere qualsiasi autore di gravi reati. Chiudendo così il cerchio, dato che gli autori di piccolireati, tradizionalmente tossicodipendenti e immigrati, sono, per così dire, costitutiva-mente privati di diritti e di considerazione sociale. Negli Stati Uniti si sono inventati la regola del “tre colpi e sei fuori”, nel senso che sei den-tro a vita. Qui, invece, sei dentro anche quando sei fuori: l’ex detenuto diventa un grupposociale stigmatizzato a priori e per sempre, una tipologia umana di indesiderabile. Anchetecnicamente, pre-giudicato. Giudicato una volta per tutte.

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Eppure, il ritorno alle regole e alle forme della democrazia, all’impianto di diritti e doveri,dovrebbe essere considerato il costituzionale, positivo coronamento della finalità princi-pale della pena. Invece, dopo la lunga campagna contro D’Elia (ma anche contro chiunque degli ex dete-nuti ed ex terroristi non si sia reso silente e invisibile), da ultimo, assistiamo al rancore tra-sversale: polemiche sono state alimentate anche contro la candidatura della suacompagna, incensurata dirigente del Partito radicale e promotrice dell’associazione uma-nitaria Nessuno Tocchi Caino. Ma, a dispetto delle Sacre scritture, per linciare Caino ora c’è la ressa.Ormai è diventato un coro, assordante, pervasivo. Talvolta sguaiato, talaltra genuina-mente riflessivo. Traversa destra, centro e anche sinistra. L’assunto di fondo è che, difronte a gravi reati e in particolare all’omicidio, la pena non può mai avere termine. Ancheall’interno del volontariato che opera nelle carceri pare essersi fatta strada tale conside-razione. Ha scritto infatti Ornella Favero, responsabile di Ristretti Orizzonti: “Quando sidice di un terrorista ‘ha pagato il suo debito’, le vittime spariscono. […] Non ci sono debitiche si saldano con anni di carcere, gli anni di carcere magari possono essere anche troppia volte, ma il debito vero resta, resta con le vittime e non si estingue. Avere la consape-volezza di questo significa che forse oggi tante vittime non chiedono a chi ha ucciso di nonrientrare mai più nella società, forse chiedono loro solo di rientrarci in punta di piedi,guardandosi intorno nel loro cammino e accettando di essere qualche volta meno prota-gonisti”. All’irrimediabilità di una vita interrotta deve dunque corrispondere una pena ininterrotta,che travalichi le stesse condanne e accompagni per sempre il reo, quale che sia il suo at-teggiamento e la sua riflessione. Un fine pena mai, concettualmente analogo all’ergastoloe alla stessa pena capitale. Del resto, l’invito insistente al silenzio è l’altra faccia, la formagarbata della richiesta di morte civile, di pena perenne. La quale, a sua volta, è allusionesimbolica e concreta alla pena di morte. Quando si sostiene che ogni qual volta si citi un ex terrorista, anche non in ragione del suopassato ma pure del suo presente, occorra ricordare i reati da lui compiuti, non si fa altroche teorizzare la pena della gogna. Così si nega che quella persona abbia possibilità di unpresente, si afferma che la tal persona, che pure è stata condannata ed ha scontato lasua pena, non può avere veste pubblica se non a partire dal suo etichettamento in quanto“terrorista” o “assassino”. Come nella colonia penale di Kafka, si vuole apposto un marchioindelebile sulla sua fronte.E davvero non si capisce perché l’attenzione alle vittime dei reati debba automaticamentecomportare l’imposizione del silenzio e di un surplus di pena e di esclusione sociale pergli autori dei reati, se non in una logica squisitamente autoritaria, da Stato etico. Atten-zione alle vittime che è certo doverosa, nella misura in cui però si fonda su di un ricono-scimento di pari dignità per tutte le vittime, di destra o di sinistra che siano gli autori oquale che sia la condizione di rilevanza sociale delle vittime.Così, in tutta evidenza non è, come bene ha commentato la madre di una delle vittimedella repressione poliziesca, di fronte al fatto che l’attuale Parlamento ha deciso comedata in memoria delle vittime del terrorismo il 9 maggio, anniversario dell’uccisione diAldo Moro, anziché come da alcuni proposto il 12 dicembre, giorno della “madre di tuttele stragi”, quella di piazza Fontana. Il che equivale a leggere un libro partendo dalla finee stracciando tutti i primi capitoli. Ha scritto Lidia Franceschi: “Mi sono chiesta e mi

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chiedo, soprattutto oggi dopo il 9 maggio, ma il dolore appartiene solo a certe categoriedi parenti? Nell’Etica di questo Stato di Diritto noi parenti delle vittime delle forze dell’or-dine abbiamo il diritto al riconoscimento del nostro dolore oppure siamo i reietti di questoPaese? [...] Mai ho sentito ricordare, da coloro che coprono alte cariche istituzionali, imorti di Mussumeli, di Reggio Emilia, delle Fonderie Riunite di Modena, di Avola, di Bat-tipaglia, di Genova o il nome di Ardizzone, Pinelli, Saltarelli, Serantini, Franceschi, Giu-seppe Tavecchio, Giannino Zibecchi, Giorgiana Masi, Piero Bruno, Walter Rossi,Pierfrancesco Lorusso... Carlo Giuliani e tantissimi altri giovani che hanno pagato con lavita l’ostinata caparbietà di non volere una democrazia solamente formale [...]. Questisono i cittadini italiani di cui non si parla mai o se ne parla per criminalizzarli, facendo diogni erba un fascio per bollarli e liquidarli come pericolosi sovversivi. Essi rappresentanola non-memoria di questa nazione”. Egualmente importanti le considerazioni di altri, che pure hanno avuto famigliari uccisi,ad esempio Nando Della Chiesa: “Per arrivare a una pacificazione dovremo essere capacidi mettere queste due vittime [Calabresi e Pinelli] sullo stesso piano. Calabresi è stata laprima vittima di un omicidio politico legato alla teoria della lotta armata. E Pinelli una vit-tima innocente della repressione”. O le parole di Adriano Sofri: “Franco Serantini, senza famiglia, orfano da orfanotrofio. Fumassacrato da poliziotti in strada e in questura, abbandonato a crepare in una cella diisolamento. In che giorno della memoria toccherà a lui?”. Naturalmente, non si tratta di mettere in “competizione” le vittime, di “pesarle” con sog-gettivi e indecenti bilancini, a seconda della maggiore o minore distanza da sé, né di ne-gare le responsabilità, collettive e individuali, scaricandole su altri o su dinamicheoggettive. Si tratta di essere intellettualmente onesti e culturalmente laici nel ricostruirela storia, laddove il dolore e le sofferenze di chi è stato personalmente colpito o coinvoltonon esauriscono il discorso. Evitando che la storia stessa venga fatta diventare un blob in-forme e incomprensibile. Come succede quando, come lo scorso 21 marzo a Milano, sisceglie di commemorare le vittime della mafia sotto la lapide che ricorda due magistratiuccisi da Prima Linea. Sfugge il nesso, mentre è forte e oggettivo il rischio di creare categorie antistoriche, eanche di strumentalmente confondere storie e identità degli autori dei reati, ma in qual-che modo anche delle vittime. È per questo processo di confusione e di revisione storicase, come ha detto Manlio Milani, famigliare di una delle vittime della strage di piazzadella Loggia a Brescia, “quando si parla di ‘anni di piombo’ ci si riferisce solo al terrorismodi sinistra”. Si è così progressivamente costruito un inossidabile senso comune, un incattivito senti-mento pubblico, secondo cui tutte le tragedie − e le nefandezze − di questo Paese sonoda attribuirsi alla lotta armata di sinistra. Ed è così, come comprovano varie ricerche, chei più giovani − ma non solo loro − sono convinti che le stragi di Piazza Fontana, quella diPiazza della Loggia, quella della stazione di Bologna siano state opera delle BR.Ma ciò non pare preoccupare né scandalizzare nessuno. Eppure è il segno della grandesconfitta della verità, di una imponente falsificazione, non innocente e non casuale. Tesaa preservare impunità e carriere, catene di omertà e complicità, autoassoluzioni e Ragionidi Stato, che continuano a tenere ermeticamente chiusi molti “Armadi della vergogna”.Portare la responsabilità di gravi reati, e tanto più di aver tolto la vita ad altri, è certo undato intramontabile e irrimediabile. Ma tale è nella coscienza delle persone coinvolte e

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nella memoria di quelle colpite. Non può divenire prescrizione e pena aggiuntiva extralegem. A meno di accettare di mettere tra parentesi il diritto e i suoi confini, per accederea forme private di giustizia. Sarebbe un modo di dare assurdamente e postumamente ra-gione a chi, negli anni Settanta, sosteneva le ragioni della rivolta armata, a fronte di unademocrazia svuotata e corrotta, di una giustizia inadempiente alla quale si proponeva disupplire con una giustizia alternativa.

Linciare Caino?No, noi parliamo solo di responsabilità e di una cosa un po’ fuori moda, la “delicatezza”

di Ornella Favero

Caro Sergio, vorrei cominciare queste mie riflessioni mettendo in chiaro una cosa: io nonsono in alcun modo rappresentativa del volontariato, sono una persona che ha fatto delleriflessioni insieme a un gruppo di detenuti che discute accanitamente su questi temi. Esono anche una che gli anni del terrorismo li ha vissuti stando dentro Lotta Continua,dunque qualche mia idea penso di essermela costruita, allora come ora non stando allafinestra.A me sembra che quello che tu scrivi appiattisca la realtà in una maniera che mi ricordaun po’ il nostro passato, quando eravamo amanti delle distinzioni nette tra il bene e ilmale, e ci sentivamo spesso “titolari” del bene. Prima di tutto, io non faccio parte di nes-sun coro, né sguaiato, né genuinamente riflessivo (immagino che sia questa la definizioneche mi dedichi, giusto?). Che cosa vuol dire il coro, poi? Posizioni così differenti, comequella di chi dà la caccia a Susanna Ronconi e le impedisce di lavorare ovunque vada, e lamia, che esprime un dubbio, sul fatto che forse, per chi ha commesso reati di sangue (nonsolo gli ex terroristi), sarebbe meglio avere un po’ di discrezione e un po’ meno protago-nismo, credo che non abbiano nulla in comune, e parlare di “coro” svilisce questo dibattitocon una specie di ricatto intellettuale, per cui se sei aperto, democratico e fai volontariatoin carcere non dovresti muovere nessuna critica del genere, altrimenti ti accodi a quelliche vogliono la morte civile di detenuti ed ex detenuti.Tu scrivi che “davvero non si capisce perché l’attenzione alle vittime dei reati debba au-tomaticamente comportare l’imposizione del silenzio e di un surplus di pena e di esclu-sione sociale per gli autori dei reati, se non in una logica squisitamente autoritaria, daStato etico”.Magari provo a spiegarmi meglio, magari non sono stata abbastanza chiara, ma prima tipongo una domanda: tu pensi che persone, impegnate in ambito sociale, che fanno vo-lontariato, che si battono per i diritti dei più deboli siano persone disinserite, escluse,prive di un ruolo sociale? Perché io di questo sto parlando, sto parlando del fatto che mipiacerebbe che chi ha commesso reati di sangue si esponesse meno e facesse, se gli è pos-sibile, come migliaia di persone in questo Paese, un lavoro sociale importante, ma lontanodai riflettori. Io in questo non vedo proprio un surplus di pena, altrimenti tanti di noi chenon usufruiscono di quella cosa orrenda che si chiama “visibilità”, ma danno un apportodi enorme valore alla società, dovrebbero sentirsi dei condannati a scontare una penaeterna. Io poi ho trovato molto significativa la lettera di Manlio Milani, presidente dell’Associa-

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zione “Famigliari vittime di Piazza della Loggia”, che diceva a Sergio D’Elia “Ho sempre ri-tenuto però che se Lei – dopo essere stato riconosciuto come cittadino con pieni diritti –si fosse immediatamente dimesso dalla commissione per un rispetto verso i colpiti dal ter-rorismo, avrebbe fatto un gesto profondamente significativo sia sul piano politico che sulpiano umano”. Condivido questa posizione, e penso di poterlo fare anche se non sono unavittima (mi dà abbastanza fastidio, tra l’altro, quando si afferma che le vittime possonodire qualsiasi cosa, gli altri no, sennò fanno parte del coro di quelli che linciano Caino). Noncredo assolutamente che lo Stato debba proibire di candidarsi o di avere un ruolo nelleistituzioni a chi ha commesso reati di sangue, penso però che chi ha compiuto un atto, chesecondo me in un certo senso è di protagonismo estremo, come quello di decidere dellavita e della morte di altri uomini, dovrebbe “darsi come pena” quella di rinunciare a unpo’, dico solo a un po’, di protagonismo. Punto e basta.Ricordo sempre, in una discussione con le donne in carcere alla Giudecca, quando le madridetenute parlavano del ritorno in famiglia, che deve essere fatto in punta di piedi, altri-menti nessun figlio ti riaccoglierà così, tranquillamente. Ecco, io ho voluto usare questaimmagine, di rientrare nella società “in punta di piedi” e starci con discrezione. Siccomenon sono una ipocrita, ti faccio anche un piccolo esempio che ti riguarda, e spero che tucapisca questa minuscola critica, fatta da una che per altro apprezza molte delle posizioniche hai sostenuto e il contributo che hai dato a una maggiore comprensione degli anni delterrorismo: il titolo del tuo libro, “Una vita in Prima Linea” mi sembra che abbia qualcosadi eroico che a me, ma forse sono io una rompiscatole, pare poco rispettoso delle personeche, per quel tuo stare in prima linea, hanno perso un loro caro. Se in Internet inseriscil’espressione “essere in prima linea” escono fuori medici, magistrati, preti che si battono“in prima linea”, quindi credo di conoscere abbastanza bene l’italiano per pensare che“stare in prima linea” dia l’idea di persone che non hanno paura a esporsi con coraggioanche su fronti difficili. Certo, c’è l’idea della guerra, ma anche e soprattutto del battersida protagonisti. Che poi è la stessa sensazione che mi ha dato l’altro tuo libro, “Micciacorta”: quello di una missione un po’ da eroi per liberare le terroriste prigioniere.Sono dentro al coro che vuole ammazzare Caino, per queste annotazioni linguistiche?Può darsi, io so però che le parole sono importanti, ed è per questo che trovo sgradevoleanche quando una persona responsabile di un reato di sangue dice “Ho pagato il mio de-bito”. Io credo che sia retorico dire che questo significa condannare queste persone a unapena eterna, ma sono anche convinta che se queste stesse persone smettessero di dire“ho pagato il mio debito” farebbero un piccolissimo atto di umiltà, di cui qualche volta ma-gari le vittime, ma anche tanti onesti cittadini un po’ meno sensibili dei volontari in car-cere, sentono il bisogno. Ho parlato recentemente, per preparare il nostro convegno nelcarcere di Padova, che si intitola “Sto imparando a non odiare”, con Benedetta Tobagi eAntonia Custra, e forse per la prima volta ho capito cosa vuol dire che la pena non ti ab-bandona mai: allora cosa c’è di scandaloso nel pensare che chi ha ucciso dovrebbe magarifare meno carcere, ma avere più “delicatezza”, più consapevolezza di doversi muovere inpunta di piedi e di avere un debito che non può essere pagato?

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Il sapore amaro della vendetta

Il richiamo a “farsi giustizia da sé” torna a farsi sentire ogni volta che la Giustiziasembra non rispondere più ai bisogni dei cittadini. Oggi poi si aggiunge a questasfiducia diffusa, dettata dalla lentezza dei processi, dal numero crescente delleprescrizioni, dalla sensazione di scarsa efficacia del sistema, anche una percezionegenerale di insicurezza e di paura, che spinge le persone ad “arrangiarsi”, cioè apensare sempre più spesso all’idea di girare con un’arma, di attrezzarsi per difen-dersi da sole, e magari di spingersi anche fino a usare la vendetta per “pareggiarei conti” con chi ha fatto loro del male.In carcere però di persone che hanno ucciso per vendetta ce ne sono tante, e leloro storie devono servire proprio ad attirare l’attenzione sulla follia delle faideche incrementano ancora di più l’odio e ad invitare a smetterla con certa infor-mazione che rischia di diventare una “istigazione a delinquere”, quando versa ben-zina sul fuoco della paura e dell’insicurezza proprio “usando” il dolore, la rabbia,il legittimo odio di chi ha subito reati gravi.

Capitolo VII

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Nell’Albania delle interminabili faide e vendette trasversaliCome fermare le guerre spietate che si espandevano tra i membri di sempre più famiglie? La mediazione rispondeva a una necessità di disciplinare la convivenza, senza richiedere l’aiuto delle autorità

di Elton Kalica

La mediazione penale in un certo senso mi incuriosisce. Naturalmente apprezzo la mol-teplicità di valori che la mediazione trasmette, perché da un lato sembra essere un istitutoche tenta di migliorare il livello della vita della vittime del reato, e dall’altro canto è ancheuna forma utile di intervento dello Stato che dice ai cittadini di non essere soltanto quelloche punisce i colpevoli in nome del popolo, ma di essere anche quello che pensa a con-ciliare reo e vittima perché in fondo, una volta eseguita la punizione, non bisogna dimen-ticarsi che tutti tornano ad essere liberi, eguali e fratelli. Tuttavia ciò che in realtà miincuriosisce è il fatto che mentre in Italia lo Stato sta cercando di utilizzare la mediazioneper riempire quella frattura che viene creata dalla commissione del reato prima e dallapunizione del reo poi, in Albania lo Stato ha sempre cercato di sostituirsi alla mediazionecon la propria giustizia, in quanto la mediazione era una forma di antagonismo alle isti-tuzioni. Ma per spiegare meglio questo divertente contrasto devo partire da lontano. Purtroppo,l’Albania ha sempre avuto tutte le caratteristiche per soffrire: ha un piccolo territorio conun numero modesto di abitanti, e per questo è sempre stata un boccone desiderato, espesso azzannato dai nostri ingordi vicini di casa. Bisogna ritornare agli Illiri per trovareuna forma di governo autoctona, perché poi a dettare legge in quel pezzo di terra dei Bal-cani saranno i romani, i veneziani, i greci, i turchi, i serbi, gli austriaci, gli italiani, i tedeschi,ma non gli albanesi, fino alla Repubblica Popolare del Lavoro che si istaurò con la conclu-sione della Seconda Guerra mondiale. Accanto alle disgrazie l’Albania ha sempre avuto però anche una grande fortuna, quelladi avere un territorio composto per due terzi da alte montagne. Sono state quelle mon-tagne il riparo e la salvezza degli albanesi quando dovevano sfuggire alle invasioni otto-mane, alle rappresaglie serbe o al genocidio greco. Chi non voleva sottomettersi aglistranieri scappava verso l’alto seguendo le aquile tra i percorsi calcati dagli stambecchi,mentre chi sceglieva di rimanere nelle città, vicino al mare, si adattava all’occupante diturno, che imponeva la sua religione, insegnava la sua lingua e faceva rispettare le sueleggi. Per questa ragione, l’occupante poteva governare nelle città dove aveva il totale controllodegli abitanti, mentre gli era impossibile cercare di amministrare la giustizia sulle monta-gne, dove era difficilissimo addirittura riuscire a costruire un posto di polizia, immaginarsiun tribunale. Non è un caso che quasi tutte le insurrezioni o le battaglie hanno avuto perprotagonisti gli autori di spedizioni punitive che si avventuravano tra i monti per fare ri-conoscere l’autorità a quelli che vivevano per conto loro e che erano automaticamenteconsiderati banditi. Ma in realtà questi scontri erano molto rari. Le spedizioni militari erano costose e i tributiche queste popolazioni avrebbero portato alle casse di Istambul, di Atene e di Roma erano

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così scarsi che il gioco non valeva la candela. Quindi le popolazioni “ribelli” rimanevanoper lungo tempo libere dai doveri e dai diritti che l’autorità sanciva con le sue leggi. La vitasociale che conduceva la popolazione delle montagne portava però anche conflitti tra gliindividui, e questi contrasti dovevano in qualche modo essere risolti per non dare inizioalla sopraffazione e a una autogiustizia sproporzionata e interminabile. Quindi questagente si era accorta da subito che vi era una necessità di disciplinare la convivenza, senzarichiedere l’aiuto delle autorità.Così nacque il Kanun, il codice non scritto, che Kadare chiama lo ius albanicae. L’osserva-zione dei suoi precetti era affidata, oltre alla coscienza degli individui, ai consigli degli an-ziani, ritenuti i più saggi, che si costituirono in ogni villaggio. Queste persone dovevanoattivarsi ogni volta che nasceva un conflitto e cercare di risolverlo, ma vi era un problemamolto grande. Essi non avevano la possibilità di infliggere punizioni per il semplice motivoche non avevano a disposizione l’utilizzo della forza, quindi la maggior parte del loro ope-rato si concentrava soltanto sulla mediazione. Si cercava quindi di conciliare le parti pro-ponendo loro un rimedio equo e soddisfacente, avvalendosi della loro influenza personalee applicando i precetti del Kanun che veniva trasmesso tra le generazioni. Nella vita non si finisce mai di subire e di causare torti, piccoli e grandi, rimediabili e non.È facile imporre a qualcuno di restituire la gallina appena rubata la notte prima o pagareun dazio per l’onore leso, mentre esistono offese che sono fuochi difficili da spegnere. Adesempio l’omicidio era un reato che il Kanun aveva sì cercato di disciplinare, ma lasciandopur sempre la punizione del reo nelle mani della famiglia della vittima. Sostanzialmenteogni villaggio doveva costruire un rifugio di pietra senza finestre dove chi commettevaun omicidio poteva trovare riparo fino a quaranta giorni dopo il fatto, il tempo necessarioche doveva bastare al consiglio degli anziani per mediare e far conciliare le famiglie. Nelfrattempo nessuna vendetta poteva essere compiuta nei confronti del reo, a condizioneche non uscisse dal rifugio, e i suoi famigliari potevano portargli da mangiare e da cam-biarsi ogni giorno. Così come ogni giorno gli anziani mediatori potevano recarsi a casadella vittima, analizzare l’accaduto, capire i motivi e concordare insieme il peso della pu-nizione. Se in quei quaranta giorni non si riusciva a calmare il desiderio di vendetta, allorai mediatori stabilivano le persone che potevano essere colpite dalla rappresaglia. Il reo ab-bandonava il rifugio e sceglieva se tornare a casa e attendere il suo fato, oppure scappare.Se non altro, il lavoro della mediazione evitava che si attuasse una vendetta sproporzio-nata subito dopo il reato, e si adoperava a fare luce sui motivi del conflitto e sulle personecoinvolte.Per quella parte della popolazione albanese che viveva tra le montagne questo sistemaera non soltanto una necessità, ma anche una forma di ribellione verso un’autorità stra-niera che pretendeva di amministrare la giustizia. Questa è venuta a cadere quando, dopola seconda guerra mondiale, si costruì in Albania la prima repubblica con istituzioni inte-ramente indipendenti da forze straniere. Ovviamente il nuovo governo popolare edificòin breve tempo strade e centri urbani con i rispettivi posti di polizia e Tribunali anche trale montagne, sostituendo così l’antico Kanun con il codice civile e il codice penale e sta-bilendo le relative procedure. Nel giro di un decennio la mediazione che veniva svolta dalconsiglio degli anziani sparì, in quanto lo Stato dimostrò grande efficienza almeno inquello che riguardava la punizione dei colpevoli di reati. Non c’è più stata mediazione pe-nale fino al giorno d’oggi, fino al nuovo millennio.Nessuno avrebbe mai pensato che, a distanza di cinquant’anni, la rivoluzione socialista

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avrebbe fallito i suoi obiettivi e il regime proletario sarebbe sprofondato insieme al suoapparato statale. Immediatamente nel nord dell’Albania, dove un apparato statale sfa-sciato difficilmente può garantire giustizia e protezione, la gente ha iniziato a risolvere lecontroversie con la violenza, portando a interminabili faide e a vendette trasversali. Questa situazione ha fatto rinascere i consigli degli anziani, che si sono attivati per cercare,attraverso la mediazione, di fermare le guerre spietate che si espandevano tra i membridi sempre più famiglie. Il nuovo governo, riconoscendo la propria impotenza, ha subitoriconosciuto anche l’utilità di questa struttura, creata dalla società civile per riempire ilvuoto lasciato dallo Stato.

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Il perdono è stato come respirare un’aria che non mi spettavaSe il padre della persona che hai ucciso dice che non ti odia più, ti senti come perduto,ti manca la terra sotto i piedi, ti assale una sofferenza che prima nemmeno immaginavi

di Dritan Iberisha

Sono in carcere per duplice omicidio. Voglio raccontare cosa è stato per me odiare ed es-sere odiato, e anche cosa succede quando uno che ti odia per il male che gli hai fatto, poiti perdona. Nella mia vita ho fatto del male a diverse persone. A volte ero spinto dall’odioche avevo verso di loro perché mi avevano fatto del male, altre volte invece soltanto permotivi futili. Però quella volta che ho ucciso è stato per una vendetta. Sia prima di entrarein carcere, sia nei primi anni di carcerazione non ho mai pensato se le cose che facevoerano giuste oppure no. Sapevo che dovevo farle e basta. Odiavo quelli che avevano uc-ciso una persona a me cara e il dovergli dare la caccia l’avevo preso come una ragione divita. Non pensavo alle conseguenze per le loro famiglie e per la mia, e poiché l’odio eraassolutamente più forte della paura per il carcere, non temevo nemmeno di andare in ga-lera. Non mi interessava di vivere o di morire. Nel mio Paese, dopo la caduta del regime comunista, non c’era più ordine pubblico e i Tri-bunali non funzionavano più. Quando qualcuno commetteva un crimine, se non venivapreso in flagranza di reato difficilmente veniva punito, perché molti poliziotti erano statilicenziati in quanto comunisti e allora non c’era più nessuno che faceva indagini. Vederequalcuno che ha ucciso girare per la città tranquillamente il giorno dopo non è facile peri famigliari o gli amici della vittima. Quindi molte persone hanno cominciato a ritornarea quell’insieme di norme tramandate che è il Kanun e a farsi giustizia da soli. Sembrastrano, ma si pensava che la fine del regime avrebbe rapidamente prodotto un maggiorbenessere in Albania, invece ha sfasciato tutte le istituzioni e ha fatto ritornare in vitauna specie di legge che ha regolato la vita del mio popolo nei tempi antichi, quando in Al-bania le persone non avevano uno Stato.In questo clima anch’io ero convinto che dovevo essere più duro e più cattivo degli altriper sopravvivere. Anzi pensavo che quella era l’unica cosa da fare e che non c’erano al-ternative. Dovevo seguire alla lettera la regola dell’occhio per occhio, dente per dente. Passati appena quattro anni di carcerazione i miei famigliari mi hanno mandato la notizia

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che il padre di una delle vittime aveva deciso di perdonarmi di avergli ucciso il figlio e chela faida con lui era da ritenersi chiusa. Questa notizia per me è stata buona, e nello stessotempo in qualche modo “umiliante”. Mi sono sentito troppo male. Mi sentivo un essereumano che respirava un’aria che non gli spettava. Mi chiedevo giorno e notte come mailui aveva trovato la forza per perdonarmi, mentre io non avevo mai pensato di perdonaresuo figlio e chiudere per primo con quella tragedia. In quella occasione sono arrivato allaconclusione che odiare non solo non porta da nessuna parte, ma ti fa unicamente staremale, e ti costringe a cercare ossessivamente di fare del male a qualcun altro. E il para-dosso è che quando hai trovato il tuo nemico e lo hai ucciso, non ti liberi dal malessere,ma continui a sprofondare ancora di più nella bestialità della violenza e non riesci più adistinguere il buono dal cattivo, ma perdi ogni rispetto per l’essere umano. Secondo me odiare è facile, invece smettere di odiare è difficilissimo, ma quando questoavviene, succedono delle reazioni imprevedibili, come nel mio caso, in cui l’umanità diquel padre mi costringe a convivere con un rimorso in più. Anche se sto scontando la mia pena, per me non vuol dire che ho pagato il male che hocausato ad altri, perché so benissimo che nessuno potrà mai restituire ai familiari dellevittime i loro cari. Ecco perché dico che un conto è quello che si paga con la giustizia, ecioè il carcere, un altro conto è quello che devo alla mia coscienza e ai famigliari della vit-tima del mio reato, perché io immagino che per loro il dolore rimarrà per sempre e dicerto non si cancellerà quando arriverà il mio fine pena.

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Droga, coltelli e desiderio di vendetta ti trascinano a fare una brutta fineHo deciso di raccontare la mia storia ai ragazzi, perché vorrei che capissero quanto è pericoloso cercare di farsi giustizia da sé

di Kamel Said

All’età di quattordici anni ho lasciato la scuola per andare a lavorare come tipografo in unacasa editrice, perché a casa mia lavorava solo mio padre e la nostra situazione economicanon era delle migliori. Per due anni ho fatto l’apprendista e poi per sette anni ho lavoratocome operaio, però la mia paga non mi permetteva di costruirmi un futuro, e perciò hodeciso di emigrare. L’Italia era il Paese che più mi era rimasto ficcato in mente, perché spesso facevamo com-menti sugli amici che vivevano in Italia, tanti di loro avevano apparentemente miglioratole loro vite e quella delle loro famiglie, e questo per noi, rimasti in Tunisia, era motivo diinvidia. Ho cercato in tutti i modi di ottenere un visto di lavoro per arrivare in Italia in regola, peròin quegli anni era un’impresa impossibile, soprattutto per i giovani. Mi era rimasta sol-tanto la strada che segue una gran parte degli immigrati, entrare clandestinamente. Ab-biamo quindi attraversato il mare su un barcone con destinazione Lampedusa: un viaggiopericoloso, ma fortunato, visto che siamo arrivati vivi.Dopo due giorni di attese tra la questura, per l’identificazione, e l’ospedale, per farmi cu-rare le escoriazioni e le ferite ai piedi, mi diedero un foglio con l’ordine di lasciare il paese.

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Io invece sono andato a Palermo in cerca di lavoro, ma era difficile perché non parlavo enon capivo una parola di italiano, e soprattutto non avevo nessun documento. Ho decisoallora di cercar lavoro al nord, girare per l’Italia mi ha fatto conoscere dei compaesaniche facevano una vita onesta, ma non potevano aiutarmi a trovare lavoro, e però ho co-nosciuto anche delle compagnie sbagliate. Loro si occupavano di notte di spacciare drogain un parco e mi hanno proposto di entrare in quel commercio. Cosa che, molto alla leg-gera, ho accettato di fare, senza pensare tanto alle conseguenze. Loro avevano una casa,tanti soldi, vestivano sempre bene, mentre io non avevo proprio nulla. Eravamo tutti giovani, dell’età di 23, 25 anni, e anch’io, oltre a preparare le dosi e ven-derle, ho imparato come loro a portare con me sempre un coltello, come usano oggi queiragazzi che fanno i disastri a scuola e che vediamo alla televisione.

Il disastro della faidaA quel punto è iniziato il disastro della faida. Una banda rivale ha teso un agguato al mioamico, e un’altra volta è arrivata con l’intenzione di attaccarci, solo che in quel momentoè passata un’auto della polizia e si sono allontanati. Sembrava una cosa da ragazzi, comele guerre che si fanno a scuola tra i gruppetti di studenti, solo che noi avevamo qualcheanno in più, e non ci rendevamo conto che la cosa stava degenerando. Finché un giornosiamo arrivati ad usare i coltelli e loro hanno tagliato la faccia al mio amico, sfigurandoloper sempre. Allora, il desiderio di vendicarci di quella violenza ci ha fatto perdere la testae, accecati dalla rabbia, abbiamo accoltellato uno della bada rivale. Volevamo solo resti-tuirgli il male fatto, volevamo tagliargli la faccia, ma abbiamo perso il controllo e qualcunoha colpito un punto vitale, causando la sua morte.Dopo qualche mese ci hanno arrestato e portato in carcere. Il giorno del processo sonoandato in tribunale, dove ho trovato i miei coimputati e un interprete di nazionalità ma-rocchina che facevo fatica a capire, così come anche lui non capiva bene me. Il processodurò tre giorni di dibattimento tra avvocati e Pubblico Ministero ed io mi sentivo comeun pacco appoggiato in un angolo mentre altri litigavano sul mio destino. L’interprete cer-cava di spiegarmi, ma io capivo meno della metà delle cose che diceva. Al terzo giorno ilgiudice mi chiese di parlare, ma l’interprete non capiva bene il mio dialetto tunisino tantoche traduceva solo le parole che capiva e ignorava il resto. Alla fine del processo il tradut-tore mi disse che ero stato condannato a ventun’anni di reclusione. Non avevamo capitoniente di quello che era stato detto e l’avvocato non aveva fatto nulla per separare le no-stre responsabilità. Ci sembrava tutta una truffa perché ci avevano condannato tutti e treper omicidio, mentre noi sapevamo che non volevamo uccidere, e che solo uno di noiaveva perso la testa. Adesso penso che, se avessi conosciuto meglio la lingua e le leggi dello Stato italiano,forse avrei capito cosa è stato detto durante il processo, forse avrei potuto raccontare lamia storia come sto facendo adesso, e forse la Corte si sarebbe mostrata più clemente connoi. Ora sono 12 anni che sono in carcere. In tutto questo tempo ho riflettuto tantissimo, hocapito il dolore della famiglia della vittima, e anche quello della mia famiglia, e mi sentomale solo a pensare a quanto eravamo stupidi a fare le cose che facevamo. Ecco perchého deciso di raccontare questa storia ai ragazzi, perché vorrei che capissero che se si entrain certi ambienti legati alla droga poi si finisce facilmente a portare un coltello in tasca, etutto questo ti trascina in situazioni che all’inizio forse possono essere viste come circo-

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stanze in cui mostrare coraggio, ma che in realtà nella maggior parte dei casi finisconomale e fanno fare una brutta fine a tutti: la morte o la galera. Di solito quando facciamo gli incontri con le classi di studenti, mi sento in difficoltà a rac-contare la mia storia, però mi faccio coraggio e vado avanti. Non è una cosa facile riuscirea partire con il racconto, perché ho sempre il timore di dire qualcosa di sbagliato, ma poiripenso a quanto questo potrebbe essere importante per gli altri e trovo le parole giuste.Adesso spero solo che questa storia torni utile a qualche ragazzo e lo faccia riflettere.

Io ho applicato la “giustizia fai da te”, ma ho solo aggiunto dolore al doloreFare del male per il semplice fatto di averlo ricevuto non solo non ha giustificazioni, ma non gratifica neppure, non fa star bene nessuno

di Pierin Kola

Sono un cittadino albanese, purtroppo mi trovo in carcere per un reato grave, che hocommesso convinto che dovevo riparare ad un’ingiustizia ricevuta. Certo ero giovane, si-curamente ingenuo, ma ancor di più c’era in me una mentalità, legata a pregiudizi e tra-dizioni, per cui ritenevo giusta la vendetta. In questi giorni, in seguito al caso di quel ragazzo accusato di stupro a cui sono stati con-cessi gli arresti domiciliari, c’è stata una gran campagna mediatica che, gridando allo scan-dalo, ha di fatto incitato alla violenza, e alla giustizia fai da te. Capisco il dramma dellaragazza violentata, la sua rabbia, e le sue affermazioni di volersi vendicare per il male su-bito, e posso anche immaginare che lei non avrà più una vita normale, e non può certopensare in modo “normale”. Il non fidarsi della giustizia può essere un sentimento com-prensibile da parte sua e dei suoi cari, ma l’odio e il desiderio di restituire il male ricevutonon lascia spazio a nulla, se non al rancore e alla vendetta. Un altro episodio che ha decisamente esasperato l’opinione pubblica in questi giorni èstato l’arresto di sei rumeni accusati di violenza sessuale. Una cosa gravissima, ma la cacciaal rom che ne è seguita credo che non fosse degna di un Paese civile come l’Italia. Io ho usato la “giustizia fai da te”, credendo di “risolvere” i miei problemi, ma non ho fattoaltro che aggiungere dolore e sofferenza a una vita già difficile, e oggi, dopo averla primasubita e poi fatta, la vendetta, ritengo che non ci sia niente di onorevole in questo tipo di“giustizia”, che immancabilmente scatena una concatenazione di fatti tragici che non hafine, se non ci si ferma a ragionare e non si capisce che viviamo in una civiltà con delle re-gole, e chi le trasgredisce è sottoposto al giudizio della Giustizia, che dovrebbe avere unconsenso comune dell’intera società. Ecco perché mi rattrista sentire come la pensanooggi tanti cittadini italiani. Non ho nulla da insegnare a nessuno, ma ora so che per la mia vendetta non ho nientedi cui andare orgoglioso, e allora spero che chi oggi si sente indignato, ci pensi bene primadi intraprendere una strada che non risolve i problemi, non ti fa sentire meglio. Fare del male per il semplice fatto di averlo ricevuto non solo non ha giustificazioni, manon gratifica neppure, non fa star bene nessuno.

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Con il coltello in tasca ho ucciso un altro ragazzoNon avrei mai pensato di arrivare ad uccidere qualcuno, ma quando si punta un’arma contro un’altra persona non si può illudersi che non succederà niente di irreparabile

di Rachid Salem

Sono un ragazzo tunisino e, all’età di 17 anni, quando frequentavo la scuola al mio Paese,ho cominciato per la prima volta a portarmi un coltello in tasca. Non saprei spiegare ilperché, forse per dimostrare di essere importante e per farmi rispettare.Un giorno mi è capitato di litigare con alcune persone davanti alla scuola e ho avuto pauradi essere picchiato di fronte ai miei compagni, così ho tirato fuori il coltello per difendermi,e questi ragazzi, quando lo hanno visto, sono scappati via. Quel giorno mi sono sentitoforte e coraggioso, pur non avendolo usato, e credevo di aver avuto successo davanti aimiei amici, ma non pensavo ancora alle conseguenze che sarebbero derivate da quelgesto, e dal fatto che da quel momento ho preso l’abitudine di portarmi sempre un col-tello in tasca.Anche quando sono arrivato in Italia, mi è rimasta questa pessima abitudine, e quandomi capitava di litigare anche per motivi banali, subito lo tiravo fuori, e cominciavo adusarlo contro altri ragazzi. Non sono mai stato arrestato, né denunciato, solo perché sonostato fortunato! Ma fino a quando la mia cattiveria avrebbe fatto così paura da evitarmiuna denuncia? Fino a quando le cose sarebbero potute andar sempre bene, sempre“lisce”?Un giorno è successo che mi sono scontrato con un ragazzo tunisino come me, che avevala mia stessa abitudine: entrambi non sapevamo risolvere i problemi in modo ragionevole,ma solo in maniera aggressiva con l’utilizzo del coltello, non curandoci delle possibili con-seguenze. Questa volta sapevo benissimo che se gli facevo del male o era lui a farmene,la faida non sarebbe più finita. Per questo, dopo quella lite, ho pensato di usare un coltellopiù grande, portandolo con me tutti i giorni, nel timore di incontrare questa persona e nonpotermi difendere. E purtroppo è capitato che ci siamo di nuovo scontrati e nella collut-tazione l’ho ferito in modo grave. Dopo tre giorni sono venuto a sapere che questo ragazzoera morto.Non avrei mai pensato di arrivare ad uccidere qualcuno, ma quando si punta un’armacontro un’altra persona non si può illudersi che non succederà niente di irreparabile. Certola mia intenzione non era quella di uccidere, io volevo solo dare una punizione, questo eraquello che pensavo: ma il mio era un modo sbagliato di ragionare, perché ho tolto la vitaa un’altra persona, rovinando due famiglie, quella della vittima e la mia, e ora mi trovo ascontare una pena di sedici anni di reclusione.

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La fatica, la passione, la sofferenza di un percorso di mediazione collettiva tra carcere e “mondo libero”

Ci sono vittime di reato che hanno la forza di mettere “a disposizione” di tutti lapropria sofferenza e nel fare questo hanno aperto la strada a un confronto fra chiha subito un reato e chi lo ha commesso, che speriamo possa essere sempre piùampio e coinvolgente, perché un confronto così “taglia le gambe” all’odio, e toglieanche alla società, oggi così incattivita e ossessionata dalla sicurezza, l’alibi percontinuare a rifugiarsi dietro formule tipo “metteteli dentro e buttate la chiave”. No, buttare la chiave non serve a nulla, non crea sicurezza e noi pensiamo chenon soddisfi neppure il desiderio di giustizia delle vittime: bisogna invece ricomin-ciare a ragionare sul senso che deve avere la pena, e allora ci si allarga il cuore aleggere che persone, che hanno subito reati gravissimi e potrebbero farsi scudo delloro dolore per chiedere solo durezza e afflizione per chi sta in carcere, hanno in-vece la voglia di approfondire con noi la riflessione sulle pene, e di farsi carico,proprio loro, di ricucire lo strappo tra la società e chi, commettendo reati, ne èstato escluso.Ed è soprattutto il contatto con la sofferenza delle vittime che dà alle persone de-tenute la possibilità di fare una profonda riflessione sui temi della responsabilitàper ciò che hanno fatto, ma soprattutto della responsabilità verso qualcuno. Sitratta di straordinarie pratiche di giustizia riparativa, secondo le quali le vittime in-contrano detenuti che hanno commesso lo stesso reato che loro hanno subito,ma non sono gli autori diretti di quel reato.

Capitolo VIII

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Che senso ha la mediazione per le persone già condannate?Vittime che si sentono dimenticate, persone detenute che ritengono di essere forse punite ben oltre le loro responsabilità: la Giustizia oggi non soddisfa nessuno. E se si provasse a dare più spazio alla mediazione e a mettere più spesso in contatto le due parti in gioco?

Discussione nella Redazione di Ristretti Orizzonti

L’incontro in redazione con Federica Brunelli, mediatrice dell’Ufficio per la mediazione pe-nale di Milano, e poi la voglia di saperne di più sui percorsi di Mediazione e di capire se equanto la mediazione possa avere un senso anche per le persone detenute, ci hanno spintoa discutere ancora di questa questione cercando di far venire fuori tutti i dubbi, le curiosità,le paure che questo possibile confronto con le vittime suscita.

Paolo Moresco: Io trovo che ci sia una differenza nettissima tra la mediazione che sarebbepiù appropriato definire “sociale”, rispetto a quella più propriamente “penale”. Nell’am-bito della mediazione penale poi è importante chiarire che c’è una altrettanto netta dif-ferenza tra la mediazione per i minori e quella del Giudice di pace, da una parte, edall’altra i casi invece che sono più enigmatici, anche se secondo me più interessanti, cheriguardano chi ha già una condanna esecutiva. Su questa questione sarebbe estrema-mente importante il contributo di qualcuno direttamente coinvolto, che potrebbe essereper esempio anche quel padre di un detenuto che ha raccontato la sua esperienza su Ri-stretti, visto il raccordo che c’è tra la persona esclusa dalla società perché punita, la societàstessa, e chi è escluso indirettamente, quindi i famigliari e i parenti di chi ha commessoun reato. Questo è fondamentale, perché a volte c’è molta più vicinanza di quanto si im-magini tra il padre dell’assassino e il padre della vittima. Un altro aspetto che mi pareva interessante è che questa mediazione penale, per esserepiù efficace, dovrebbe avere un punto di partenza già in fase processuale o subito dopo.Io quando pensavo a quello che ha detto Federica Brunelli, cioè che per avviare una me-diazione prima mandano una lettera alle vittime e poi telefonano, anche dopo molti anni,mi rendevo conto che un approccio del genere deve essere traumatico per queste per-sone, anche se viene fatto con tutta la gentilezza possibile. Oggi la giustizia dice: Bene! Hodato trent’anni di pena a quella persona lì che ha ammazzato tuo figlio, per cui sei risar-cito, vattene a casa. In pratica credo che il rapporto finisca lì, se ci fosse invece un minimodi continuità, nel senso che lo Stato non desse a queste persone l’impressione di essereabbandonate e si facesse vivo ogni tanto, sarebbe molto più facile, ad un certo punto, in-nestare poi questo discorso della mediazione.

Elton Kalica: Io mi sono fatto un’idea su quello che è la mediazione penale: ci sono i casiin cui la mediazione penale è necessaria, quando il giudice per esempio sa che c’è un con-flitto tra le due parti, che può sfociare in gesti inconsulti con un epilogo tragico, e quindidice al mediatore: guarda che ci sono i due vicini di casa che si scannano ogni giorno,cerca di porre pace. Oppure c’è uno che potrebbe uscire dal carcere in misura alternativae ricorre alla mediazione per avere quella pace o quel perdono che gli permetta di rien-

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trare più serenamente nella società. Una delle categorie per le quali la mediazione penale avrebbe un senso ritengo sianoquei casi di omicidio, dove le vittime si associano e sembra vogliano dire: no, finché noisiamo vivi il colpevole non esce in permesso o in semilibertà. Ecco, questi sono dei casidove la mediazione forse trova la sua maggiore e impegnativa opera. Poi ci sono altri casicome il furto, dove la mediazione penale può fare poco: io ho letto gli esempi che facevaproprio Federica Brunelli in un’intervista precedente, in cui diceva che anche la foto cheuno ha nel portafoglio ha un valore affettivo, e se uno gli ruba il portafoglio lui si arrabbia,non tanto per i soldi che ci sono dentro ma perché gli è stata toccata una cosa anche piùimportante. Sono d’accordo che ognuno ha i suoi affetti personali, ha un suo ambiente in-timo in cui non vuole che altri si intromettano, e si sente giustamente violato se succede.Però una volta che questa violazione è avvenuta, una volta che il colpevole è in carcereche sta scontando la pena, la mediazione avrebbe lo scopo di far incontrare la vittimacon l’autore del reato, e quindi spiegargli che con quel gesto non solo gli ha rubato i soldima gli ha toccato gli affetti. Io però in questi casi non vedo tutta questa necessità di unamediazione penale.Voglio fare due esempi a riguardo, ne faccio uno su di me un po’ particolare, perché le vit-time in questo caso sono prima di tutto i miei genitori, e uno in astratto. Quando io hofatto qui in Italia un reato, quale ha poca importanza, i miei genitori non mi hanno più ri-volto la parola per un anno, e dicevano giustamente: ci hai buttato addosso la vergogna.Essendo due persone che hanno una condotta di vita regolare, non avevano mai avutoproblemi con la giustizia e avere un figlio in carcere per loro era tragico e traumatico.Ogni volta che mia madre mi rinfacciava che mi aveva dato tutto e che io l’avevo ricam-biata in questo modo, non so neanche come spiegarlo, ma mi infliggeva un dolore ulte-riore rispetto a quello che già provavo per conto mio. A me non importava niente di essere in galera, non mi faceva tanto male il fatto di esserein carcere, ma mi facevano più male le parole dei miei. La prima volta che sono venuti acolloquio, dopo un anno, li ho sentiti pieni di rancore, e dopo cinque minuti mi sono alzatoperché volevo interrompere il colloquio, gli ho detto che se erano venuti qui dall’Albaniaper ricordarmi queste cose, che già tormentano la mia mente, e dirmi che io non sonostato riconoscente nei loro confronti per tutto il bene che mi hanno fatto, a questo puntoera meglio che tornassero a casa e non venissero più a trovarmi, perché se ogni volta chevenivano mi rinfacciavano la mie colpe, mi facevano soffrire la galera in modo più ango-sciante. Questo mi fa pensare che anche la mediazione penale con le vittime dei reati siaun po’ così, un percorso che può finire per rendere ancora più pesante la condizione dichi sta in carcere.Poi voglio fare un esempio in astratto. Mettiamo che sono straniero e mi trovo a cammi-nare per le vie di Milano, mi manca tutto, vedo una finestra aperta ed entro dentro ru-bando i gioielli, vado a venderli, tra gli ori c’è un anello che per la persona derubata avevaun grande valore affettivo, per me invece ha solo un valore commerciale. Il ricettatoremi dà i soldi ed io con quelli riesco a sopravvivere. Il giorno dopo mi arrestano, e mi vienedetto del male che ho fatto, perché quell’anello per il proprietario aveva un valore affet-tivo molto importante, essendo un oggetto che nella famiglia si tramandavano da gene-razioni. Cosa posso dire, certo mi dispiace, ma se mi ritrovo un’altra volta per strada edho bisogno di lavarmi e mangiare, rubo ancora gli ori, perché con questi ho la certezza chemangerò, di certo non penserò se l’anello o il bracciale hanno un valore affettivo, come

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si dice, lo stomaco è in diretto contatto con la testa. Se poi fossi un tossicodipendente, quei soldi mi farebbero acquistare la droga che miserve, dell’anello proprio non me ne frega niente, o meglio nemmeno mi sfiora che cosapossa rappresentare per il proprietario, di certo sono soldi che mi servono per la mia so-pravvivenza. La mediazione per me in questo caso non ha nessun effetto liberatorio oeducativo, alla vittima può far bene perché si sfoga, ma il detenuto che utile dovrebbetrarre, se non passare delle ore peggiori di quelle che passa in cella, e che spesso sono giàin condizioni disumane, in luoghi sovraffollati, con pene altissime? È questo che non riescoa capire, forse c’è qualche passaggio che mi sfugge.

Paolo Moresco: Io credo che invece in quei casi sia utile. Prendi uno che ha fatto una ra-pina o uno scippo, penso che l’effetto della mediazione sia più che altro di tipo preventivo,cioè tu hai fatto una cosa pensando di creare un danno che vale trenta, io ti faccio vedereattraverso quella persona che ha subito che il danno in realtà è stato sessanta-settanta,pensaci un pochino quando torni fuori prima di farlo un’altra volta. Il peso specifico di unfatto è diverso per chi lo fa e per chi lo subisce, e questo mettere a confronto le due coseti aiuta un po’ a capire che fai più male di quanto pensassi.

Ornella Favero: In fondo il ladro, il rapinatore ha sempre l’idea di fare un reato contro ilpatrimonio, cioè non considera quasi mai la violazione, il danno psicologico rispetto allavittima. Ho sentito, per esempio, detenuti raccontare che quando andavano a rubare nonè che avevano questa grande percezione del violare l’intimità di una persona entrandonella sua casa, mettendo le mani su oggetti con cui ha un legame affettivo, penetrandoa forza nella sua vita. Confrontandosi con uno che ha subito un furto questa cosa diventamolto più chiara.

Marino Occhipinti: Io credo semplicemente che la mediazione non sia rieducativa comela ritiene Paolo, con questa idea che: tu pensi di aver fatto male trenta, io ti faccio vedereche hai fatto male sessanta, allora non lo fai più. A questo io non credo per niente. Iopenso che se arrivi a fare la mediazione questa cosa qui dovresti averla già percepita, nonè che vai a fare la mediazione per imparare a vedere il male che hai fatto, se tu non l’haiancora capito non fai neanche la mediazione.

Elisa Nicoletti (volontaria): Mi pare di capire che la mediazione dovrebbe avere la fun-zione di permettere ad entrambe le parti di spiegarsi: non solo a chi ha subito il danno didirti: “Tu mi hai fatto del male, non sai quanto mi sia pesato”, ma anche il colpevole deveaver la possibilità di spiegare le motivazioni che ci sono dietro il perché ha fatto quel cheha fatto. Io penso che se succedesse a me, mi potrei arrabbiare molto se qualcuno inva-desse la mia sfera privata, però mi servirebbe che mi desse delle motivazioni, io sono uncerto tipo di persona che ascolta, invece ce ne sono tante altre che hanno solo voglia disfogare la rabbia, però un confronto con alcuni può portare a qualcosa di buono.

Ibrahim Hegab: Scusa, ma la persona derubata secondo me pensa semplicemente: perchédevo pagare io i casini della tua vita, i tuoi problemi perché li devo pagare io?Ornella Favero: È ovvio che fare la mediazione non significa creare un idillio, con la per-sona derubata che “visse felice e contenta” perché ha capito le motivazioni del ladro. Mi

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ricordo proprio l’atteggiamento di Alberto Verra, di quel signore “pluriderubato” che havoluto confrontarsi con noi scrivendoci una lettera che iniziava con “Egregio signor ladro”,e anche lui, in fondo, si è messo in una logica di mediazione, perché non è che giustificava,ma tentava di capire l’altro che aveva davanti e cosa l’aveva portato a fare quel tipo discelta. Dopo di che, ripeto, non è che stiamo dando un quadretto dove si risolve tuttocon la mediazione, però è un terreno interessante.

Sandro Calderoni: La mediazione penale che viene messa in atto appena è stato com-messo il reato o a breve distanza per me ha un senso. Ma a distanza di anni che senso ha?Questo non riesco a capire, è per questo che dico che non ci trovo un fine, a prescinderedal fatto che possa o no essere strumentale ad ottenere dei benefici da parte dell’autoredel reato. Una persona che ha subito un reato grave che sollievo può trarne quando si ègià fatta una ragione di quello che è successo?

Marino Occhipinti: È un po’ quello che diceva Paolo. Nel mio caso la prima cosa che leggiquando l’associazione delle vittime interviene da qualche parte è “non hanno mai chiestoperdono”, magari poi se lo fai ti mangiano la faccia, però la prima cosa che dicono è sem-pre questa qui. Allora ci sarà un significato. Il tema è difficile, una delle domande che miero segnato di fare a Federica Brunelli era proprio quella lì: come arrivare dopo quindici-venti anni a chi ha avuto ucciso un famigliare e non rischiare di riaprire certe ferite. Matu pensi che dopo un anno sarebbe stato più semplice?

Paolo Moresco: È diverso il discorso che facevo io, non dico che il rapporto tra la vittimae quello che ha commesso il reato si debba cercare di ripristinarlo subito, per carità! Dicoche il rapporto tra chi media, che in questo caso è la giustizia o un operatore di giustizia,deve esserci sempre, non può arrivare ad un tratto. Lo Stato, chiamiamolo così, dovrebbeogni tanto chiedergli come sta, interessarsi della sua situazione. Se gli viene a dire dopodieci anni: “Ha voglia che facciamo questo discorso?”, e per dieci anni però gli ha chiestocome sta e se ha bisogno di qualcosa, forse è più credibile. Questo è il senso che dico io.

Sandro Calderoni: Io sono convinto invece che se una persona vittima di un reato vienecontattata a distanza di un anno o anche prima, magari ti insulta o ti tirerà dietro tuttoquello che vuoi, però comunque ha una soddisfazione, un riconoscimento importante.

Marino Occhipinti: La mediazione deve essere una cosa volontaria e non imposta da qual-cuno, uno può avere un percorso di un anno, un altro di dieci anni, un altro di vent’anni;cioè non è che si può codificare e dire che per gli omicidi si deve provare la mediazionedopo tre anni, per il furto dopo sei mesi, per la rapina dopo un anno e mezzo. C’è un per-corso, la mediazione è una cosa volontaria, chi se la sente di farla magari ci prova, chinon se la sente non ci prova, e lo stesso vale per le vittime.

Ornella Favero: In realtà, un lutto non si chiude mai, soprattutto un lutto di questo tipo.Perché se è una morte naturale lo affronti, te ne fai una ragione, invece un lutto per unomicidio è una ferita che comunque non si rimargina. Ma qui parliamo di mediazioneperché è un percorso faticosissimo, perché è difficile stabilire dei tempi in cui questa cosaha un senso e quando invece non lo ha più, e anche perché ognuno di noi reagisce in

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modo diverso, quindi può darsi che una persona che ha subito un danno forte abbia pro-prio bisogno dopo anni di “riconciliarsi” con questo evento della sua vita, e a volte magariil farsi vivo della persona che ha commesso il reato può essere traumatizzante, ma puòessere anche importante e liberatorio.

Paolo Moresco: Sono convinto anch’io che una ferita di quel genere lì non si chiude mai,però l’odio è un elemento di stabilizzazione. Tu hai un rancore invincibile nei confrontidegli autori di questo gesto, è una certezza quel rancore, tutto ad un tratto mi togli questacertezza e mi presenti questa persona che è l’origine del mio male, a quel punto mi saltatutto. Ha perfettamente ragione Marino, a livello di reati di quel tipo la mediazione è unacosa che va gestita con tempi che sono diversi per ogni storia, al massimo puoi prepararlafacendo in modo che al processo segua un’attenzione, da parte della giustizia, nei con-fronti dei parenti delle vittime.

Elton Kalica: Io vedo la mediazione come un servizio, chiamiamolo così, che lo Stato fa allavittima, lo Stato dice alla vittima: “So che stai male, so che la pena che abbiamo dato achi ti ha fatto del male non ti soddisfa perché dentro di te continui a soffrire, io mi offrodi metterti in contatto con quello che ha commesso il reato, così gli puoi dire quello chepensi, perché so che dopo avere fatto questo forse ti sentirai meglio”. Mi pare che questosia il principio. Ci sono dei casi in cui la mediazione è necessaria e altri in cui se nasce vabene, altrimenti va bene lo stesso.

Paolo Moresco: Una cosa interessante mi sembra la mediazione sul territorio: per chi haun grosso reato e magari dopo una condanna di molti anni torna a casa, lì mi sembra fon-damentale la mediazione, e faccio un esempio che conosco, quello di un gioielliere chefu ammazzato durante una rapina, anni fa, in una zona abbastanza centrale di Milano.Due o tre anni dopo uno della banda fu liberato, perché era in fase terminale di Aids,però la vedova non lo sapeva e se l’è visto fuori. Gli avevano dato la sospensione pena per-ché ormai gli restava molto poco da vivere, ed è successo che è passato vicino al negozioper recarsi dalla sorella. Ma, dico io, vorrai preparare questa povera donna a questa cosa?Lei è anche una donna intelligente e quando ha saputo com’era la vicenda si è messa ilcuore in pace, ma il primo effetto è stato traumatizzante.

Ornella Favero: Questo mette in luce che la mediazione penale prevede una diversa at-tenzione per le vittime. Nel difficile rapporto tra vittima e chi ha commesso il reato c’èanche questo problema: che a volte la persona che ti ha fatto del male può uscire dal car-cere e tu che hai subito la violenza te la puoi ritrovare di fronte senza nessun tipo di pre-avviso. Lì il concetto di mediazione comunque dà alla vittima un ruolo e un’attenzionediversa.

Graziano Scialpi: È impensabile però che si avvisi la vittima di reati del genere che l’altrosta uscendo dal carcere, perché se dopo una di queste vittime o un parente l’aspetta fuoricon la pistola, come ti giustifichi? Altin Demiri: Quando ero ancora piccolo, mi ricordo che nel mio paese è uscito dal carcereuno che era stato dentro per omicidio, all’epoca aveva ammazzato un vicino. Dopo tantianni di carcere, prima di farlo uscire, hanno chiamato i famigliari della vittima nella sede

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del Comune per avvisarli che questa persona stava per uscire, anche per evitare bruttereazioni e per fargli capire che questa persona ormai aveva pagato e dovevano lasciarlastare.

Elton Kalica: In Albania c’è sempre stato questo problema, se uno prendeva una coltellataaspettava che il colpevole uscisse dal carcere anche dopo anni e gli restituiva la coltellata.Allora c’erano i poliziotti del quartiere che ti convocavano in questura e ti dicevano:“Guarda che questo domani esce, non fare niente perché ti teniamo sotto controllo e sefai qualcosa ti mandiamo subito in galera”. Io credo che la mediazione penale può essereforse facilitata nei casi più pesanti di omicidio, dove all’inizio c’è stata una confessionedel reato commesso, se uno ammette le proprie colpe subito. Se se ne parla dopo anni,c’è il rischio che si pensi che il detenuto vuole i benefici, e quindi accetta o cerca la me-diazione in modo strumentale.

Marino Occhipinti: Secondo me quando si tratta di essere già in esecuzione pena c’è sem-pre l’ombra della strumentalizzazione: tu scendi alle attività perché vuoi i benefici, fai ilbravo per ottenere i benefici, lavori per lo stesso motivo, ogni passo che facciamo quipuò essere considerato strumentale. Allora io penso che se una persona vuol fare unacosa la fa, e poi gli altri che pensino pure quello che vogliono, bisogna anche imparare,non dico a fregarsene perché è impossibile, però a correre dei rischi.

Ornella Favero: Però in tutte queste considerazioni che mi sembrano interessanti, se-condo me poi è importante anche tenere conto di una cosa, che con qualsiasi motivazioneuno arrivi alla mediazione, anche con qualsiasi interesse, perché siccome siamo personeè inutile che facciamo finta di non essere mossi anche da un qualche interesse, io credoche sia meglio dirlo. Dopo di che penso che però il percorso di mediazione rimette ingioco tutto. Se anche tu parti con l’intenzione di fare questa cosa per trarne dei benefici,poi la devi fare, devi trovarti davanti alla vittima, quindi secondo me la mediazione è unpo’ anche questo: bisogna avere fiducia nel fatto che ti rimette in gioco comunque, anchese tu ci arrivi con motivazioni, diciamo, basse e utilitaristiche, però il percorso credo cheti possa lo stesso rovesciare come un calzino.

Arqile Lalaj: Io vorrei fare una domanda: per quanto riguarda reati come il mio, il trafficodi droga, dove non c’è una vittima ben definita, come si configura, in che modo si può fareuna mediazione?

Ornella Favero: Federica Brunelli parlava del fatto che comunque, nel commettere unreato, c’è stata la violazione di un patto di cittadinanza. Arqile dice: io spacciavo o facevotraffici di droga, quindi non c’è una vittima chiara, precisa. È vero, però secondo me c’èun problema sociale, comunque c’è una scelta etica da rimettere in discussione, un cini-smo rispetto al patto sociale che va considerato.

Marino Occhipinti: Secondo me la mediazione deve avvenire fra soggetti, se lì mancauno dei soggetti cosa medi? È vero che tu hai infranto un patto sociale, non è che non haifatto niente di grave, hai fatto un reato, però manca un soggetto della mediazione ed i sog-getti devono essere almeno due.

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Ornella Favero: Sono d’accordo, ma sono convinta che c’è un momento in cui comunquela mediazione penale e la mediazione sociale sono contigue, perché qui non è esatta-mente solo mediazione sociale. Secondo me le due cose si incrociano, io non farei una di-visione netta, perché sarebbe come dire: allora lui no perché non si individuanochiaramente le vittime, lui invece sì perché ha una vittima precisa.

Marino Occhipinti: Magari può avere pure più importanza la mediazione sociale, perchéquella individuale ricuce uno strappo solo, quella sociale diciamo che ricuce una serie distrappi.

Paolo Moresco: Secondo me si riesce forse a capire il discorso della mediazione in gene-rale, se si parte da questo presupposto: che il soggetto che attiva un percorso del generenon è né la vittima né chi ha commesso il reato, è una cosa che si chiama società e ad uncerto punto dice: vorrei che certi momenti di pressione e di incomprensione si scioglies-sero, per cui è nel mio interesse, come società, mettere in discussione queste situazionidi contrasto per appianarle.

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Bisogna avere la capacità di ascoltare con l’anima le ragioni dell’altroOlga D’Antona ha incontrato, nel carcere di Padova, la redazione di Ristretti Orizzonti

a cura della Redazione

Il 20 maggio 1999 un commando delle nuove Brigate Rosse uccideva il professor MassimoD’Antona, esperto di diritto del lavoro. È cominciato proprio rievocando questa storia cosìdrammatica un incontro emozionante, che si è svolto nel carcere di Padova fra la mogliedi Massimo D’Antona, Olga, oggi parlamentare, e i detenuti della redazione di RistrettiOrizzonti. Emozionante perché ha toccato temi forti, come il dolore e la frustrazione dellevittime, il loro bisogno di una attenzione vera da parte della collettività.

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Innanzitutto grazie per essere qui. Immaginiamoche per lei non debba sicuramente essere semplice, ma anche per noi non è affatto facile.Prendo spunto dal libro Così raro, così perduto, che lei ha scritto nel 2003 con Sergio Za-voli, nel punto in cui si lamenta di una informazione a volte poco rispettosa, che tende alsensazionalismo, e del fatto che da alcuni giornalisti si è dovuta difendere, per chiederlecosa ne pensa dell’informazione che viene fatta in Italia, soprattutto sulle questioni cheriguardano la cronaca nera e la giustizia. Penso al recente fatto di Erba, e cioè all’imme-diata e sbrigativa “condanna” del tunisino da parte degli organi di stampa, ma volevoanche sapere qualcosa in più sulla sua esperienza personale. Olga D’Antona: Spesso i giornalisti, non tutti per la verità, nel tempo si impara a distin-guere, privilegiano un tipo di giornalismo che asseconda quella che è la morbosità dellagente, il sensazionalismo appunto, o asseconda certe paure che le persone hanno. Queste

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battaglie per difendersi da un certo tipo di informazione sono spesso un peso in più perchi subisce un reato grave, un dramma come quello che è toccato a me. Questo accani-mento, questo voler attribuire per forza alla vittima un atteggiamento vendicativo anchese non le appartiene, tutto ciò è un di più, ma devo dire che ho trovato anche personemolto sensibili, che dovevano fare il loro mestiere ma che lo hanno fatto con il tatto e conla misura che si addiceva a questo tipo di circostanze.

Marino Occhipinti: A me sono rimaste impresse altre cose, del suo libro, che sono poiquelle che ci appassionano e che ci interessano di più. In un punto dice: “Ricordo che, neiprimi mesi, dopo la morte di Massimo, sentivo in me il desiderio di capire. Se ne avessiavuto la forza, sarei andata nelle carceri per conoscere i brigatisti reclusi, parlare con loronell’illusione di un possibile dialogo, di un possibile ravvedimento da parte loro. Neltempo, conoscendo un po’ meglio questo mondo, ho perso interesse, ho avuto paura ditrovarmi di fronte alla banalità, di fronte a persone non all’altezza della tragedia che ave-vano compiuto”. Dalle sue parole si percepisce forse un desiderio di riconciliazione. Mi viene da pensareche lei non si accontenti delle condanne delle persone che hanno ucciso suo marito, mache sia tanta la voglia di capire, forse addirittura di incontrarle. Come si pone di fronte allamediazione penale, alla giustizia riparativa, temi certamente difficili da affrontare mamolto importanti?Olga D’Antona: In effetti è un argomento molto complicato. Tenete conto che la mia erauna famiglia come tante altre, mio marito quella mattina prende il caffè, mi saluta sullaporta, scende per andare a lavorare e incontra due persone che gli sparano sei colpi di pi-stola nel cuore. Io non capivo cosa mi stava succedendo, perché, di cosa si trattasse, dache parte fosse venuta questa aggressione. Una famiglia come la nostra, noi ritenevamodi non avere nemici, e quindi la mia prima esigenza era quella di capire cosa mi stava suc-cedendo e perché, e l’altra cosa che immediatamente dentro di me ho sentito è stata:“Ma le persone che hanno commesso questo delitto, anche se dovessero pentirsi vera-mente, comunque non potrebbero mai sanare ciò che è accaduto”. La cosa che mi colpivaera l’irreversibilità di quell’atto: anche se queste persone dovessero ravvedersi, non po-trebbero fare niente per sanare questo dramma. E nello stesso tempo c’era appunto il bisogno di vedere in faccia queste persone, di avereun dialogo, di raccontare chi ero io, chi era mio marito, di capire io e far capire a loro, in-somma, perché ogni atto deve avere una ragione, una finalità, e questa era la mia esigenzaprimaria. All’epoca avevo dei fantasmi, non sapevo da che parte girarmi: erano le BrigateRosse, erano altro, che ne potevo sapere? Le cose si sono svelate via via, negli anni, eman mano che la verità si svelava e venivo a contatto con questo mondo, rimanevo sem-pre più esterrefatta da questi movimenti. Mi viene in mente che una volta, incontrandoCarol Beebe Tarantelli* – che aveva oramai avuto occasione di conoscere la verità, la suastoria, era venuta a contatto con queste persone – le chiesi: “Ma che impressione hai ri-cevuto quando hai incontrato queste persone?”. Mi colpì quello che per me, in quel mo-mento, fu un gesto incomprensibile. Lei alzò le spalle e non disse nulla, come a dire“Niente, non ho emozioni da raccontare, non ho niente da dire”. Ho capito questa suareazione nel tempo, quando è toccato a me vedere in faccia queste persone, cogliere leloro reazioni. Ero lì, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, durante il processo, e una cosa che notai

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fu la diversità. Ad esempio c’era una ragazza giovane, una bella ragazza, e pensai al perchéuna ragazza avesse distrutto la sua vita, a cosa gliene era venuto di buono. Poteva trovarsiil suo lavoro, costruirsi la sua famiglia, e adesso invece era chiusa lì, insomma mi sembravaveramente una vita sprecata; poi nell’altra gabbia vedevo invece questi che ridacchiavano,che non si rendevano neanche conto di quello che stava avvenendo lì dentro, che ero iopresente, che la mia vita era stata devastata dal loro gesto. Poi, via via che leggevo i loro documenti, mi chiedevo che senso ha oggi tutto ciò, in que-sto contesto storico, perché voglio dire, noi lo sappiamo che il terrorismo negli anni Set-tanta e Ottanta è stato ben altra cosa, nel nostro Paese; ha avuto aree di consenso, sevogliamo c’era una comprensibile esaltazione collettiva di questi ragazzi, che erano poiprevalentemente molto giovani, e anche solo lo stare insieme, il frequentare certe per-sone, un certo clima, un certo ambiente, se volete anche in un momento sociale partico-lare, con le lotte operaie di quegli anni, in qualche modo rendono non giustificabile macomprensibile la follia di quel momento. Ma oggi veramente mi sembravano delle per-sone devastate da un’ossessione, senza contatto con la realtà sociale, politica, storica diquesto Paese, e quindi ho pensato che forse non valeva la pena di confrontarmi con loro.Invece ho incontrato altre persone che avevano vissuto gli anni del terrorismo in epochepassate, e che hanno anche scontato le loro pene, che hanno fatto un percorso di rein-serimento nella società, che oggi svolgono attività nel volontariato, e credo che incontrarsicon queste persone sia stato importante per me e per loro.

Marino Occhipinti: Quindi lei desidererebbe un gesto da parte delle persone che hannoucciso suo marito, quantomeno una richiesta di scuse?Olga D’Antona: Certo che sì, e qui ho qualcosa da raccontare che per me è stato molto do-loroso. Innanzitutto io parlo per me, non vorrei che si pensasse che le mie parole rappre-sentino tutti quelli che hanno subito violenze di questo genere, infatti io raccontoun’esperienza che è molto personale e molto particolare, perché credo che ognuno vivail dolore a suo modo, ognuno ha poi un suo percorso pregresso, una sua formazione cul-turale, un suo vissuto che lo porta a vivere le situazioni in un modo piuttosto che in unaltro, e ci tengo a chiarirlo che la mia è una testimonianza personale. Certo che è la cosa che ho sempre sperato, un ravvedimento di queste persone, vero,reale, concreto, ma per il momento non sembra praticabile, questo terreno, perché invecesembrano persone fortemente ossessionate, soprattutto la Lioce, da questa idea di lottaarmata, per raggiungere non si sa bene cosa, quali obiettivi, in questo contesto. Diversoè stato, ve lo dico con grande sincerità, con l’unica collaboratrice di giustizia, che è stataCinzia Banelli. Il suo comportamento mi ha veramente ferito, perché questa è una personache ad un certo punto, non so se si è resa conto di aver sbagliato oppure no, ma si è fattai suoi conti e ha deciso che non voleva vivere il resto della sua vita in prigione, che volevaavere un figlio, che voleva rientrare nella normalità: questo è auspicabile, ma non tutti imezzi sono giustificati per un certo fine. Io ho trovato veramente spregiudicato il suomodo di comportarsi, quello di utilizzare qualsiasi strumento pur di uscirne fuori, da que-sta storia, nel migliore dei modi per se stessa. Ciò che mi ha veramente ferita è stata lalettera che lei scrisse a me e alla signora Biagi.Vi devo dire che avrei tanto voluto crederci, e questa forse è la cosa che oggi mi feriscedi più, perché quando ho visto questa lettera sono rimasta fortemente turbata, la miareazione è stata quella di fare un gesto di generosità e di renderla pubblica, questa lettera

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– eravamo a pochi giorni dal processo –, poi qualcuno mi ha fatto riflettere e quindi hodeciso di tenere la lettera nel cassetto, col proposito di rileggerla dopo il processo, per ve-dere se è possibile un dialogo con questa persona oppure no, però non volevo influenzarein alcun modo il corso del processo. Volevo che la giustizia facesse la sua parte, perchénoi vittime veniamo totalmente espropriate dalla giustizia, anzi ho percepito che la vittimanel processo è un ospite indesiderato, quasi di disturbo; addirittura quando si decide colrito abbreviato, anche nei casi di terrorismo come in tutti gli altri casi gravi, lo si fa senzanessun coinvolgimento della parte lesa, e se volete questo dovrebbe farci riflettere.Due giorni prima del processo però questa lettera fu data in pasto a tutti i principali organidi informazione: La Repubblica, Il Corriere della Sera, La Stampa, e allora ditemi voi, chipuò averla divulgata? Il suo avvocato, i suoi parenti? E quale finalità secondo voi può averavuto la lettera, stampata sui giornali due giorni prima del processo, quando io, in tutti imodi, avevo pregato di lasciarla nel privato, che ne avremmo riparlato dopo il processo? Cinzia Banelli ne è uscita con 12 anni ai domiciliari, mentre io passo il Natale sola in casa,e vi lascio immaginare cosa può essere per me il Natale, e sono sette anni e mezzo chemio marito è morto, mentre appunto Cinzia Banelli è a casa con i suoi genitori, con il suobambino, con suo marito, con i suoi affetti.

Marino Occhipinti: Però, comunque, dividerei il discorso del pentimento per convenienzada quello che può invece essere un ravvedimento profondo, una questione di coscienza,perché sono due cose completamente diverse. Lei è stata ferita da una lettera a due giornidal processo, che aveva probabilmente il chiaro intento di arrivare a uno sconto di pena,alle attenuanti, alla collaborazione. È ovvio che lei ne rimane ferita, ma se invece una let-tera fosse stata scritta in un altro momento, è chiaro che forse a lei avrebbe fatto piacere. A volte il timore nostro è anche questo, e ne parlavamo recentemente a proposito dellamediazione penale: se e come rientrare nella vita delle persone alle quali abbiamo deva-stato l’esistenza, alle quali abbiamo tolto qualcuno. È meglio che si presenti un mediatorepenale, cioè una persona preparata, attenta, che non faccia altri danni, che non ti arrivacome invece può arrivarti una lettera in casa, all’improvviso? Anche noi siamo perplessidi fronte alle varie modalità di mediazione che si potrebbero adottare, e sono molto crudoma vorrei chiederle cosa preferirebbe lei, come vittima.Olga D’Antona: Non è facile rispondere, perché non tutti reagiscono allo stesso modo eil dolore, le ferite, sono sempre aperte. Per quel che mi riguarda, non ve ne so spiegarenemmeno la ragione, ma per mia fortuna, e dico per mia fortuna, non ho mai sentito inme sentimenti di vendetta, non sono stata vittima dell’odio, che credo sia la cosa più de-vastante, un veleno, un qualcosa che ti fa stare ancora più male. Forse perché il mio do-lore, il senso di perdita era talmente grande che non c’era più spazio per altro tipo disentimenti. Io non ho una famiglia, e neppure mio marito aveva una famiglia: eravamo due personesole che si erano incontrate e che rappresentavamo tutto per noi, la mia famiglia era tuttalì, quindi quando mi è stato tolto questo, sono stata lasciata nel deserto affettivo, perciòero così presa da questo senso di privazione da non lasciare spazio ad altro. O forse all’ini-zio non sapevo nemmeno nei confronti di chi provare questa ostilità, perché c’erano deifantasmi, non c’erano delle persone in carne ed ossa, sono passati parecchi anni prima chesi vedessero delle figure. Una cosa, però, vi posso dire, che per me è stata importantenel processo, e che in un certo senso un po’ mi ha placato, è proprio non avere più dei fan-

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tasmi davanti ma delle persone in carne ed ossa. Guardate, la verità è fondamentale: una volta sentii la testimonianza di Giovanni Moro,il figlio di Aldo Moro, che disse: “Ma noi non chiediamo più neanche giustizia, vogliamoalmeno verità”, e mi sono resa conto che la verità è l’unica cosa che aiuta; potersene fareuna ragione, sapere da che parte ti è venuta quell’aggressione, sapere con cosa hai avutoa che fare, capirne le ragioni, perché altrimenti veramente non c’è pace, e questo sensodi maggiore tranquillità si ottiene quando si riesce ad avere un po’ di verità. Ecco perchéin Parlamento stiamo cercando di far procedere la proposta di legge per limitare il segretodi Stato, perché questo è l’unico Paese dove il segreto di Stato è eterno, per capire tuttele stragi – di piazza Fontana, di piazza della Loggia, del treno Italicus – dove non si riescead avere un briciolo di verità. La verità è più importante della giustizia! A me non interessase gli assassini di mio marito sono in prigione o sono fuori, non è la loro punizione che al-levia la mia sofferenza, non cambia niente nella mia vita. Quello che invece mi ha un po’aiutato è quel briciolo di verità che è venuta fuori.

Elton Kalica (Ristretti Orizzonti): Per prima cosa grazie perché raccontandoci la sua espe-rienza ci ha fatto capire meglio quella che è la condizione di chi subisce sulla propria pelleil reato. Quello che invece le volevo chiedere è un consiglio: noi siamo tutti condannati,e con l’attività della redazione ci siamo posti lo scopo di fare dell’informazione versol’esterno per sensibilizzare un po’ l’opinione pubblica, e anche i politici, sulle condizionidelle carceri e quindi della nostra vita. Facendo questo tipo di lavoro, ci troviamo spessoa confrontarci con istanze diametralmente opposte, nel senso che mentre noi cerchiamodi migliorare la nostra condizione, i magistrati, gli educatori ci ricordano sempre che nondobbiamo parlare soltanto di noi, ma anche del male che abbiamo fatto e quindi delle vit-time. Proprio perché è un tema difficile, a maggior ragione per noi che siamo stati partedirettamente in causa, volevo chiederle qual è, secondo lei, il modo migliore per affron-tare questa questione, perché non vengano davvero dimenticate le vittime.Olga D’Antona: Essendo il mio nome conosciuto, e svolgendo attività politica, sono statauna persona che ha avuto voce, ma il dramma di molti – parlo delle vittime del terrorismoperché quelle conosco in modo particolare – è stato l’essere ignorati, e guardate beneche anche se sono state fatte delle leggi con delle forme di tutela nei confronti delle vit-time, in realtà poi queste persone si scontrano con una burocrazia ostile, che ha a volteun atteggiamento di fastidio nei confronti delle vittime, che vengono spesso consideratelamentose, rivendicative. È capitato a quella persona lì, che era su quel treno, in quella stazione, in quella banca,in quella piazza, poteva capitare a chiunque altro di noi, e quindi mi piace pensare che c’èuna collettività, rappresentata dallo Stato, che si fa carico di un gesto di solidarietà nei con-fronti della persona colpita. Purtroppo molto spesso queste persone non hanno sentito questa vicinanza, e quindi piùforte diventa l’ostilità quando vedono magari gli autori del reato che salgono alla ribalta,che rilasciano interviste televisive, che fanno conferenze, che scrivono libri, che ricopronocariche istituzionali. Mi sembra di percepire che in questi ultimi tempi si comincia a capirequesto dramma, e vi consiglio di leggere il libro che ha scritto un giornalista, Giovanni Fa-sanella, che è I silenzi degli innocenti, dove c’è una raccolta di queste voci. L’opinione pub-blica è sempre più attratta dalla figura del brigatista, che apparentemente è una figuraeroica, l’aggressore è sempre più interessante della vittima, e questo fa sì che poi la vit-

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tima, nella sua frustrazione, non riesce a perdonare, non riesce ad accettare quello cheinvece, secondo me, dovrebbe essere via via accettato, che cioè quando una persona hascontato i suoi anni di carcere, quando ha dato dimostrazione di essere utile alla societàattraverso associazioni di volontariato, attraverso un’attività positiva, dovrebbe essereriaccolta. Perché mi preme, questo? Perché quando mi è capitata la tragedia, immediatamente hopercepito il senso di responsabilità, che non era un dramma soltanto mio, personale edindividuale, ma era un dramma sociale, collettivo, da condividere con gli altri. E quindi l’at-tenzione della stampa faceva sì che io mi sentissi ancora più responsabile, dovevo stareattenta ai miei comportamenti, alle parole che dicevo – si dice che le parole diventano pie-tre, no? – e bene o male le mie parole avevano un peso superiore proprio per quello chesimbolicamente io rappresentavo, al di là della mia persona. Quindi il mio primo intentoera di dare un contributo perché il terrorismo non diventi di nuovo quella piaga socialeche ha devastato un’intera generazione o quasi, sia da parte delle vittime che dei terro-risti, perché anche quelli che hanno compiuto questi atti hanno devastato le proprie vite. Certo è che comunque dobbiamo auspicare il reinserimento nella società di persone chehanno sbagliato e che si sono rese conto di aver sbagliato; soprattutto in determinati casici troviamo davanti a ragazzi che all’epoca avevano venti anni, e che magari venti o trentaanni dopo ancora si trovano questo marchio addosso. Io mi sono ritrovata a difendereSergio D’Elia, che ora è un mio collega parlamentare, perché vedendomelo davanti mirendo conto che è una persona che ha scontato la pena, che ha fatto il suo percorso, chelavora da anni per i diritti civili e contro la pena di morte, insomma questi esempi do-vrebbero in qualche modo servirci per dire, soprattutto ai giovanissimi che già si trovanoad avere problemi con la Giustizia: “Guardate che c’è una via d’uscita, la società vi sa riac-cogliere…”, ma certo che quel parente di vittima che non ha avuto giustizia ha difficoltàad accettare tutto questo, e allora vanno capiti entrambi. Io dico anche che non può essere la società a sbarrare le strade a queste persone, a but-targli il marchio dell’infamia per sempre, però nello stesso tempo serve un po’ di ragio-nevolezza, capire, da parte di queste persone, quanto dolore c’è. Bisogna andare in puntadi piedi, serve un po’ di senso di opportunità da parte loro, serve dire “questa è una so-cietà che mi ha saputo riaccogliere, ma io mi devo muovere in modo tale da non ferirecerte sensibilità che sono state così fortemente colpite”.

Alì Abidi (Ristretti Orizzonti): Quella di prendere le parti di D’Elia è stata una scelta suapersonale o una scelta dettata da motivi politici?Olga D’Antona: La ragione è molto più complessa, e molto più generale, nel senso che,al di là della mia appartenenza politica, la mia preoccupazione era un’altra. Perché oggisono qui? Perché a tutti, anche a voi che siete in carcere, certo, noi dobbiamo dare unasperanza. Nessuno può vivere senza una speranza! Io contrasto quelli che tendono – perstrumentalizzazioni politiche – ad assecondare un sentimento vendicativo di tante per-sone che nasce dalla paura: la paura dell’immigrato, la paura della violenza, la gente chesi sente minacciate le proprie sicurezze.Certo sarebbe auspicabile da parte di queste persone, che hanno avuto un ruolo da pro-tagonisti nel terrorismo, una autoregolamentazione, una sensibilità, il buon senso, tenereconto del dolore che c’è, di cui invece non sempre tengono conto. Evidentemente c’è unportato di personalità che li ha resi protagonisti allora in senso sbagliato e li rende prota-

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gonisti oggi. È molto spiacevole, è molto doloroso, ma penso che non debba essere loStato a regolamentare per legge questa questione, che dovrebbe esserci un senso di buongusto, di rispetto, insomma di riflettere sul fatto che comunque ci sono delle cose chesono irreversibili, che non potranno mai essere sanate.Io però partecipo poco agli scontri tra fazioni politiche. Io ho un’altra missione, che èquella che mi porta ad essere qui con voi oggi, che è quella di impedire che la violenzaprenda il sopravvento in questo Paese, perché la violenza è l’annientamento delle intel-ligenze e delle coscienze, perché quando si fa ricorso alla violenza vuol dire che si è rinun-ciato a far lavorare la propria intelligenza, la propria capacità di comprensione, e quindiin qualche modo ci si disumanizza. Nel dolore che mi è toccato di vivere, questa missione,questo impegno, mi danno una ragione di vita e di speranza.

Franco Garaffoni (Ristretti Orizzonti): Da parte di molti terroristi c’è una forte presenzasui media con interviste, trasmissioni tv, libri, ed emerge a volte una immagine di personeche accettano di essere state sconfitte, ma non di avere sbagliato, e forse la mancanza ar-riva proprio dallo Stato: in Sudafrica, certo in una situazione molto diversa, ma c’è statoquesto scambio verità-perdono, e anche in Italia si sarebbe dovuta chiudere questa que-stione, ed invece mi sembra che da parte dello Stato ci sia stata una incapacità di chiuderequesto periodo storico. Olga D’Antona: Questo è un discorso aperto, molto dibattuto. In realtà non si è ancoraavuto il coraggio, in questo Paese, di affrontare il tema del terrorismo, ed io invece pensoche sia tempo, motivo per il quale diciamo “adesso basta con questo segreto di Stato”,perché non si è mai fatta verità. Io ho una personale opinione, che poi non è soltantomia, che in realtà nella stagione del terrorismo le aree di contiguità fossero molto vaste,anche in ambienti borghesi, colti, e molti di quelli che si sono “salvati”, oggi occupanoposti importanti, sono classe dirigente di questo Paese. Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo, ma dobbiamo affrontare questa questioneaprendo un dibattito che coinvolga tutti, mentre la vicenda del Sudafrica ha uno scenariounico, perché quelle persone dovevano continuare a vivere nel loro Paese, e quindi senon si voleva arrivare ad un bagno di sangue è stata trovata una strada di saggezza, cheè questo discorso sulla verità, ma è stato fatto nei villaggi, casa per casa, penetrando pro-prio nelle viscere e nel dolore della gente. È stato un lavoro straordinario, ma mi torna in mente la frase: “Dimmi la verità. Perchéio ti possa perdonare devo sapere che cosa ti perdono”. Guardate, neanche questo è fa-cile. Io non sono cattolica, non sono portata a rivolgermi ad un essere superiore nei mo-menti di difficoltà – cerco di far leva sulle mie energie, sul mio senso di giustizia, sul miomodo di relazionarmi con gli altri – ma allo stesso tempo non dico che non sono credenteperché invece lo sono fortemente, nel senso per esempio che credo nel dialogo, che lepersone possano guardarsi negli occhi e cercare insieme una ragione comune, cercare dicapirsi, e quindi il concetto di perdono, e se volete anche il concetto di odio, mi apparten-gono poco. Certo è faticoso, è doloroso e bisogna anche affrontare il confronto con unagrande umiltà, spogliandosi di tutte le proprie tradizioni, dei propri radicamenti, se vo-gliamo, di pensiero, avendo la capacità di ascoltare con l’anima le ragioni dell’altro.

Elton Kalica: Lei prima diceva che le vittime si sentono ignorate dallo Stato, e da quel checonosco io la legge credo che per certi versi sia vero, perché la Giustizia si occupa di con-

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dannare gli autori del reato e basta, mentre ci sono altri aspetti della vita delle vittime neicui confronti lo Stato è spesso inadempiente. D’altro canto ci sono gli autori dei reati, aiquali viene spesso ripetuto di pensare alle vittime, sia in fase processuale sia in fase diespiazione della pena.Nel mio paese, l’Albania, nel regime prima del 1991, alle famiglie delle vittime delle forzedell’ordine o agli operai morti per incidenti di lavoro, lo Stato concedeva delle agevola-zioni, le teneva altamente in considerazione: avevano una pensione in più rispetto aglialtri, avevano il posto a teatro prenotato, avevano le ferie a spese dello Stato, insommac’era una normativa che teneva conto delle vittime e che cercava in tutti i modi di far sen-tire lo Stato vicino a loro. Ora è comprensibile che un detenuto, che è già in galera, è lontano dalla famiglia, non hauna lira, ha una famiglia rovinata anche lui, alle vittime può e deve pensarci in coscienza,ma materialmente è difficile che possa occuparsene. Non sarebbe importante allora unasolidarietà di questa organizzazione collettiva che è lo Stato?Olga D’Antona: Ci sono delle norme, dei provvedimenti a favore delle vittime, delle leggiin questo senso, in particolare la 206 che è stata rivista, ma quello che noi rileviamo – adesempio quando ci sono persone invalide in famiglia, che mettono in crisi tutto il nucleonel suo complesso – è che queste leggi sono strappate sempre con grande fatica nono-stante le associazioni si battano molto, e spesso la stampa mostra veramente scarso in-teresse. I familiari delle vittime sono voci che disturbano, che sono noiose, che la gentenon legge volentieri, perché producono sensi di colpa di cui la collettività non vuole sa-pere.Quello che tu dici quindi è giusto, però c’è una scarsa sensibilità proprio da parte degli or-gani dello Stato, perché dal punto legislativo il Parlamento fa le leggi, ma spesso questeleggi o non vengono applicate o sono applicate con grandi ritardi o con grandi resistenze.Bene o male sono fondi che devono essere tirati fuori dalle casse dello Stato, e che si pre-ferirebbe utilizzare in modo diverso, questa purtroppo è la verità.

Marino Occhipinti: Lo Stato può intervenire per quanto riguarda la solidarietà, i risarci-menti, ma non può che essere l’autore del reato a chiedere scusa o perdono, e qui vorreifare una differenza. Lei ha citato più volte il perdono, ma noi quando affrontiamo il temadella mediazione non parliamo quasi mai di perdono; io sono condannato per omicidio,e nonostante il desiderio di incontrare le persone che per causa mia hanno perso qual-cuno, credo che non riuscirei mai a chiedere loro perdono. Non riuscirei a chiedere per-dono perché è una cosa grande, una richiesta che presuppone una risposta, mentre dellescuse non comportano nulla in cambio. Olga D’Antona: Certo. Io la mediazione la vedo più come un incontro tra due o più per-sone che cercano delle ragioni da condividere, e allora non sarebbe sufficiente dire: “Ioho riflettuto su quello che è accaduto, e mi rendo conto che è stato un errore, e oggicome oggi, dato il percorso e le riflessioni che ho fatto, non ripeterei la stessa azione”?Non sarebbe meglio dire questo? Allo stesso tempo, è rispettosa da parte tua la consa-pevolezza ed il riconoscimento che, per chi deve perdonare, è una richiesta forte, e perciòcapisco perfettamente quello che tu mi vuoi dire, anche perché ho conosciuto personealle quali costerebbe molto perdonare, che proprio non ce la fanno.

Ornella Favero: C’è poi questo nodo sul quale non c’è grande chiarezza, che è appunto la

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cosiddetta “revisione critica”, il chiedere ad una persona detenuta di dare prova di avererivisto il proprio passato. Ad esempio nei confronti della brigatista Barbara Balzerani, laProcura generale, nel fare ricorso contro la recente concessione della liberazione condi-zionale, ha motivato che “non ci sono segni tangibili di ravvedimento”. Ma quali sono isegni tangibili? Io ad esempio diffiderei molto di uno che mi venisse ad ostentare il suoravvedimento.Olga D’Antona: Infatti anch’io ho dovuto non solo diffidare, ma proprio rendermi contoche Cinzia Banelli non era in buona fede con la sua lettera. Però a volte ho anche pensatoche se a chi deve scontare la sua pena si chiedesse di scrivere ogni giorno una lettera allapersona che ha “ferito”, come un diario, senza pretendere che la persona ferita debbapoi leggere quelle lettere, no?, ecco, io credo che anche se inizialmente le cose scrittenon fossero tutte vere, comunque alla lunga questo percorso diventerebbe una rifles-sione.Non sto dicendo questa cosa come una proposta, ma ve la riporto come una mia farne-ticazione notturna di una persona che ha vissuto ciò che ho vissuto io. Non lo dico con l’in-tento della riconciliazione, perché non si può neanche imporre alla persona che ha subitodi accettare questo tipo di dialogo, che invece deve essere spontaneo e deve far bene atutti. Insomma i casi sono molto individuali e molto personali, però io credo che un per-corso di riflessione sia comunque importante, altrimenti che senso ha chiudere una per-sona in una gabbia, a chi giova? A volte me lo chiedo: ma io mi sento meglio, se NadiaLioce soffre o sta bene? Non mi dà sollievo pensare che quella persona subisce delle sof-ferenze, perché la mia condizione, purtroppo, resta quella che è.

Marino Occhipinti: Lei affronterebbe un percorso di mediazione penale, incontrerebbechi ha ucciso suo marito?Olga D’Antona: Per il senso sociale che ho, anche se mi costerebbe molta fatica, non credoche mi tirerei indietro, mentre altre persone rifiutano totalmente perché prese dal risen-timento, dall’odio, ognuno vive il dolore in modo diverso.

Adnene El Barrak (TG2 Palazzi): Io vengo dalla Tunisia, e 12 anni fa ho partecipato ad unarissa dove è morto un ragazzo. Io non ho mai avuto contatti con la famiglia della vittima,ma la sua presenza oggi mi ha molto emozionato, mi ha fatto riflettere, non ho mai avutouno stato d’animo così, perché lei mi ha fatto pensare alla madre o alla sorella del ragazzoche morì in quella rissa, e nonostante tutto lei ci ha detto che la società ci deve riacco-gliere…Alì Abidi: Ma quali sono le vere ragioni che possono portare una persona a dare il suo per-dono a chi gli ha fatto del male? Cosa rimane dentro, dopo un incontro del genere? Olga D’Antona: Per me, ripeto, non c’entra il concetto di perdono, non mi appartiene,non l’ho vissuta così. Nel momento in cui mi sono trovata ad incontrare persone che inanni precedenti avevano compiuto questi atti, e che appunto avevano fatto il loro per-corso di ravvedimento, è stato importante anche per me, ho avuto modo di capire meglio.La cosa che fa più male sono i fantasmi, immaginare quello che non è, perché la propriafantasia può produrre mostri quando poi, in realtà, ci si trova di fronte a persone in carneed ossa e con la loro umanità. Ogni volta vedo davanti a me una persona con una storia, con un modo di sentire, con unacultura ed un’educazione che è tutta sua, con le sue sofferenze, gli errori pagati, e quindi

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cerco di capire chi mi trovo di fronte, e non mi riesce di immaginare i terroristi o gli as-sassini o i delinquenti come categoria univoca. E anche nel caso di persone che ho incon-trato, che appunto avevano compiuto atti di terrorismo, mi sono trovata davanti personemolto diverse l’una dall’altra. Di qualcuno ho apprezzato il percorso ed il modo di avvici-narsi alla mia persona, e di altri meno, e mi sono resa conto che per alcuni di loro era im-portante avvicinarmi perché in me identificavano non la mia persona per quello che sono,ma una persona colpita da un atto che era molto simile a quello che loro avevano com-piuto. Proiettavano sulla mia persona le loro vittime, che non avevano potuto incontrare,e quindi raccontare a me le loro storie in qualche modo li aiutava a farsi capire, a capirese stessi, a farsi una ragione. In qualcuna di queste persone vedevo invece la protervia diquelli che hanno sbagliato perché hanno perso, perché se avessero vinto sarebbero statinel giusto, e quindi una non consapevolezza. Come ho detto prima, c’era un’esaltazione collettiva, e a vent’anni si segue il gruppo, ilbranco, e se c’è quell’ideologia, a vent’anni se volete c’è una generosità nello spenderese stessi e la propria vita per una causa che si ritiene in quel momento giusta. Poi ci sirende conto di aver sbagliato, poi ci si rende conto dell’insensatezza e dell’irreparabilitàdi certi gesti, del dolore che si è creato e che è irreversibile, per cui quando c’è il ravvedi-mento perché non incontrarsi, perché non farsene una ragione? Affrontiamola la storia,questo pezzo di storia così oscuro per questo Paese, togliamo i veli, parliamone insieme,usciamo da questo tunnel di odio. È questo quello che io nel mio piccolo cerco di fare.

Ornella Favero: A me sembra importante anche una mediazione, che ad esempio avvengaad anni di distanza, che non abbia niente a che fare con il processo. E penso che anchese uno lo fa strumentalmente o per un beneficio, e può essere, l’incontro comunque col-pisca le persone ed aiuti. Anche per la vittima, dare un volto all’autore del reato e rico-noscerlo come persona forse può farla stare meglio.Olga D’Antona: Sì, l’importante è fare tutto con le giuste cautele, camminando in puntadi piedi per non rischiare di aggiungere dolore al dolore.

Marino Occhipinti: Ho notato che – oltre al bisogno di verità di cui abbiamo già parlato– è ricorrente il timore delle vittime che ciò che è accaduto, che il loro dolore, possaessere dimenticato…Olga D’Antona: Questo è un Paese che tende alla rimozione, consumiamo tutto in fretta,consumiamo notizie, consumiamo eventi, e invece bisogna anche fermarsi a riflettere,perché se non sappiamo da dove veniamo, e purtroppo questa è una società che rischiamolto di dimenticare da dove viene, facciamo poi fatica ad andare avanti. Non è soltantola memoria del proprio dolore individuale, è una memoria collettiva che deve essere con-divisa, invece ognuno vede certi accadimenti da un punto di vista diverso, e molto spessodeterminati fatti vengono strumentalizzati anche dalle diverse fazioni politiche, e questonoi non lo possiamo accettare. Dobbiamo cercare di trovare unità almeno contro la vio-lenza, di dare una lettura unitaria di quello che è accaduto in questo Paese. Credo cheaprire un dibattito su questi temi, e fare verità, serva anche a questo, a trovare finalmenteuna condivisione dei fatti accaduti, a leggerli tutti nello stesso modo. Ci riusciremo mai?

Ornella Favero: Ci piacerebbe, per finire, una sua riflessione sul senso della penaOlga D’Antona: È una domanda alla quale è molto complicato rispondere, perché forse

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È importante che chi ha fatto del male possa vedere il dolore che ha causato Alcune riflessioni in redazione con Silvia Giralucci e Benedetta Tobagi su come “rompere la catena del male” anche attraverso l’incontro tra vittime e autori di reato

a cura della Redazione

Benedetta Tobagi e Silvia Giralucci erano bambine quando le Brigate Rosse uccisero loroil padre, ora sono persone adulte, e quel dolore resta lì, come un macigno. Eppure, la vo-glia di confrontarsi, di parlare, di far capire che una sofferenza così neppure dopo tren-t’anni trova tregua le ha portate in carcere, a incontrare la redazione di Ristretti Orizzonti.Non abbiamo registrato l’incontro, perché abbiamo deciso insieme che il dialogo dovevaessere libero e senza condizionamenti, ma poi in redazione di quell’incontro abbiamo vo-luto discutere, per fissare alcuni momenti e alcune riflessioni, che proponiamo ai nostri let-tori.

Maurizio Bertani: Mi ha colpito nell’intervento di Silvia Giralucci il fatto che lei affermi dinon volere avere nessun tipo di rapporto con gli autori dell’omicidio del padre, che è unaposizione comunque comprensibile e accettabile. Ricordo anche che Silvia ha espresso unpunto di vista critico verso quella parte di società che a suo dire ha avuto più a cuore gliinteressi degli autori di reato che delle vittime. È una critica da parte di una vittima giu-stificabile, ma entrare in una stanza come questa, dove vi sono anche sei o sette personecondannate per reati di sangue, e dialogare e confrontarsi con queste persone, significain qualche modo accettare che queste persone hanno avuto delle vittime come lei, chepotrebbero esprimere la stessa opinione che lei ha espresso, cioè rifiutarsi di parlare coni diretti autori del reato che hanno subito. In ogni caso, il passo che vedo anch’io più fattibile, se i reati sono pesanti, è un incontrotra vittime e autori di reati simili a quelli che hanno subito, ma non i “loro” autori di reato,le persone che hanno fatto del male proprio a loro. Poi capisco benissimo che il tema è

io mi distinguo anche da altri modi di sentire, ma a me non dà sollievo pensare che unapersona viene chiusa in una gabbia. Vorrei che esistessero forme di rieducazione e di ria-bilitazione che non so neanche immaginare, però di tipo diverso. Purtroppo la società inqualche modo si deve difendere da persone che possono rappresentare un pericolo, macerto non mi piace l’accanimento: laddove le persone mostrano di non rappresentare piùun pericolo sociale, io non sono di quelli che si accaniscono. Mi piacerebbe molto chequesta società sapesse trovare forme preventive, che si trovasse il modo – e in alcuni casinon dovrebbe essere così complicato – di prevenire certi reati piuttosto che mettere incampo soltanto attività di tipo repressivo, che forse alla fine sono le più facili quando ildelitto è già avvenuto.

* Moglie di Ezio Tarantelli, l’economista ucciso nel 1985 dalle Brigate Rosse

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molto delicato, che forse ci vuole tempo, noi qui non è molto che stiamo cercando di ca-pire e imparare come ci si possa muovere in questo contesto senza ferire e senza offen-dere nessuno, ma credo che per loro, per le vittime, sia tutt’altro che facile affrontare ipropri “mostri”, le proprie angosce, il rancore a volte, l’ansia. Penso comunque che questastrada vada portata avanti, anche se sicuramente ci vorrà del tempo per arrivare ad ac-cettarla completamente come idea di mediazione. Di certo io ho capito soprattutto il fattoche l’incontro, quando e se mai ci potrà essere, tra vittima e autore di reato, non ha nullaa che vedere con il perdono.

Milan Grgic: Io avrei voluto fare una domanda, e invece non ci sono riuscito, avrei volutochiedere che cosa pensano loro dell’omicidio politico, perché un omicidio politico è co-munque una decisione collettiva di un gruppo, e a me sarebbe piaciuto sapere quanta re-sponsabilità loro attribuiscono alla collettività, dal momento che gli esecutori materialimolto spesso non hanno fatto che eseguire un incarico affidatogli dai mandanti, e per-tanto non è giusto ritenere solo loro responsabili, è importante anche individuare altreresponsabilità. Io non sono riuscito a capire che cosa pensassero le nostre due ospiti ri-spetto agli autori materiali dell’omicidio del loro padre, e i possibili responsabili politici.

Sandro Calderoni: Quello che ha colpito me, in riferimento alla mediazione, è proprio ilconcetto che abbiamo affrontato insieme a Benedetta Tobagi e Silvia Giralucci, che in-contri di questo tipo sono forse una specie di mediazione “con terze persone”, come pos-siamo essere noi, che abbiamo commesso reati simili ma non siamo gli autori dei reati cheloro hanno subito. Questo mi ha fatto pensare che fare una mediazione diretta sia unproblema che a volte è impossibile risolvere, forse una mediazione indiretta può esserepiù tollerabile dalle vittime.

Marino Occhipinti: Io ho notato che le persone che hanno subito un reato grave, se siparla in generale sono spesso davvero e sinceramente molto aperte, ma quando si va sulloro personale dolore allora sembrano chiudersi a riccio. Però capisco che, per Silvia eBenedetta, ci sono trent’anni di sofferenza in cui non c’è stata la possibilità di confrontarsi,mentre il confronto avvenuto con noi, secondo me molto schietto, forse è diverso daquello a cui sono sempre state abituate. Sicuramente incontri di questo tipo mettono unpo’ in crisi le certezze da entrambe le parti: finito l’incontro ad esempio, eravamo lì io eSilvia, e lei mi ha motivato il suo rifiuto nei confronti della mediazione diretta spiegandomiche lei si porta dietro il suo cappotto di dolore, e quindi non è giusto che gli assassini disuo padre in un’ora di mediazione si tolgano il cappotto, liberandosi del suo peso. Io le horisposto che forse c’è un errore proprio di fondo, io penso che se chi le ha fatto del male,chi ha ucciso suo padre, parlasse con lei, vedesse il suo dolore, forse il cappotto di dolorenon se lo toglierebbe, ma se ne metterebbe uno più pesante. Per questo credo sia impor-tante che chi ha fatto del male possa vedere il dolore che ha causato. A questo punto leisi è fermata e mi ha detto che ne dobbiamo riparlare. Questo dimostra che persone comelei sono anche disposte a mettersi in discussione. Anzi, lei pensa proprio che sia estrema-mente necessario un momento di confronto, di dialogo, dove ci si parla, perché altrimentiloro arrivano qui e se ne vanno sempre con le stesse idee. Quando io a Benedetta Tobagie Silvia Girlucci ho raccontato della figlia della mia vittima, probabilmente ho voluto anchedire: “Ma guarda che forse chi ha ucciso tuo padre pensa anche a te”. Questa considera-zione poteva diventare antipatica, però è importante provare a esprimere anche il nostro

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punto di vista, in modo che loro si rendano conto che non si può dare per scontato chechi ha ucciso il loro padre viva una vita normale.

Daniele Barosco: Una cosa che ho notato è il fatto che non sopportano, hanno proprio ilfastidio fisico nei confronti delle persone responsabili dell’uccisione del loro padre. Quindinon c’è l’accettazione dell’altro come di una persona che ti ha fatto un danno, un torto ir-reparabile, e che però esiste, c’è la cancellazione dell’altro dalla propria vita.

Elvin Pupi: Io so che volevo parlare con loro, innanzi tutto perché mi dispiace di tuttoquello che gli è successo, e vorrei che si convincessero che noi, nonostante i nostri reati,rimaniamo delle persone. Io sono stato troppo male, anche se loro non sono le mie vit-time dirette, a sentirle raccontare la loro storia; mi faceva venire in mente per esempio ifamiliari della persona che ho ucciso. Quello che voglio dire è che noi soffriamo di piùquando incontriamo loro che quando scontiamo la nostra pena in galera. In due giorni, ilgiorno del convegno e quello dell’incontro con loro, sono stato male più che in quattroanni di galera.

Bruno De Matteis: Secondo me loro vivono il loro dolore in modo particolarmente pe-sante perché si parla molto spesso dei loro genitori, e ogni volta che si dice perché sonostati ammazzati, loro rivivono nuovamente il loro dramma. Quando è successa la tragediaerano piccole e se avessero potuto andare a vivere in un altro paese e non sentir conti-nuamente parlare del loro papà e delle altre vittime del terrorismo, avrebbero affrontatoprobabilmente con più serenità la loro condizione.

Elton Kalica: A me è dispiaciuto molto non poter registrare le riflessioni di Benedetta eSilvia, perché sarebbe venuta fuori una testimonianza utilissima per noi, visto che loro sisono espresse in modo molto aperto e umano sui grandi temi che ci interessano. Bene-detta per esempio ha raccontato l’episodio di quei tre detenuti che ha incontrato a Opera,dove loro lavoravano a fare le scansioni degli atti processuali della strage di Brescia, equindi ha fatto delle considerazioni utili e belle a proposito del lavoro in carcere. Perquanto riguarda la separazione delle due questioni, cioè il rapporto individuale con chi haucciso i loro padri da un lato e il rapporto con il carcere e i detenuti in generale, io la con-sidero importante. Se Benedetta e Silvia sono venute in redazione, hanno detto le coseche hanno detto e hanno una certa visione del carcere, questo è proprio perché il loropunto di partenza è quello di non identificare in noi l’assassino del proprio padre. Perpoter fare un ragionamento di giustizia nei confronti dei detenuti e del carcere in generale,è necessario operare questa divisione, che io considero quindi un fatto positivo.

Prince Obayangbon: Io penso che serve molta cautela, specialmente per intervenire in si-tuazioni così pesanti, io non mi azzarderei mai a dare giudizi su come le vittime reagisconodi fronte alla perdita di un proprio caro. Qualche volta chi non ha conosciuto il propriopadre soffre di più di chi invece ha vissuto con lui prima che morisse. Questo dipende dacome ognuno reagisce nella propria intimità, non è un sentimento che uno dal di fuoripossa giudicare. Io ho visto una sofferenza forte, e mi ritengo incapace di proporre unasoluzione su come si possano affrontare questi argomenti, ma penso sia molto importanteriuscire a trovare il modo perché possa realizzarsi una mediazione. Credo poi che da parte nostra qualche volta ci sia troppo egoismo nel voler essere in qual-

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che modo perdonati, e chi ha causato un danno deve anche trovare una via per compen-sarlo, per ripararlo almeno in parte. Questo è mancato a Benedetta e Silvia, e loro si sonodimostrate arrabbiate, ma non hanno avuto un atteggiamento vendicativo, il punto è chenon c’è niente che ha compensato la loro perdita. Questo forse è il problema.

Adnene El Barrak: Io all’incontro ho visto due persone diverse, l’esperienza che hanno incomune è la perdita del papà, però Benedetta Tobagi aveva tanta voglia di parlare, di co-municare, Silvia invece aveva la curiosità di capire. Non volevano sentire la parola “per-dono” però volevano capire il perché di certi comportamenti, altrimenti cosa sarebberovenute a fare qui? E poi se uno le ascoltava attentamente non poteva non dar loro ra-gione, perché i loro padri sono stati uccisi in modo assurdo, non per loro stessi, ma inquanto “simboli”. Non è come noi che abbiamo compiuto un reato “comune”, da quelloche ho capito loro hanno a che fare con gente che ha ucciso il loro padre ma poteva uc-cidere un altro, contava solo che erano, appunto, dei simboli, e questo è ancora più dif-ficile da accettare. Non sono disposte a incontrare gli assassini del loro padre, peròvogliono fare un passo alla volta, nel senso che hanno accettato di incontrare detenuti co-muni, vogliono capire di più.

Milan Grgic: Io mi considero una persona razionale, e faccio una riflessione a voce alta:che cos’è che loro hanno di più, rabbia o dolore dopo tanti anni dalla perdita del padre?Capisco quanta sofferenza provoca la perdita dei genitori, io per esempio negli ultimi anniho perso entrambi i genitori e non ho avuto occasione di mandargli neanche un fiore, madopo trent’anni mi sembra esagerato. Ci sono state le guerre, ci sono stati feriti, ci sonostate molte vittime, ogni perdita di un genitore, di un figlio per una persona è un dolore,e lo è di più ovviamente se la morte non è naturale, ma che si tratti di un omicidio politico,o di un semplice operaio che muore in un incidente, o di una persona che muore di ma-lasanità, non credo si debba dare più importanza ad una vittima che all’altra, il dolore èdolore. Loro non vogliono o non sono in grado di perdonare, però io penso anche chedopo trent’anni noi sappiamo quante vittime ci sono state durante la seconda guerramondiale, eppure Francia e Germania hanno fatto insieme all’Italia la scelta di creare unaEuropa unita anche se hanno combattuto guerre su fronti opposti. Mi sembra un po’ que-sta la scelta appropriata per una vittima, non so cosa ne pensiate voi.

Marino Occhipinti: Io non voglio pensare a paragoni tra un dolore e un altro. Tu Milan haiperso i genitori mentre eri in carcere e io, per carità, non ho nulla da dire, però perdere igenitori alla fine di una vita non è certo come essere cresciuti senza i genitori. Il dolore ègrande, non mi fraintendere, però non possiamo paragonare le due cose e tanto menolo possiamo fare se uno un genitore lo perde perché gli viene ucciso.

Iovica Labus: La mia opinione è che il dolore è inevitabile che duri così a lungo in questionidi questo genere, ma dopo trent’anni l’unico modo è quello di guardare avanti, e nellostesso tempo di cercare di confrontarsi con il passato, e forse anche con gli assassini, conle persone che hanno ucciso il loro padre.

Dritan Iberisha: Io ho la mia esperienza nella vita, mi ricordo che vedevo mia zia piangereogni giorno per anni ed anni per il figlio morto, questo vuol dire che non significa nullaventi, trenta o cinquant’anni, dipende dalla persona, dal suo carattere e dalla sua sensi-

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bilità. Quando dicevano “non li perdoniamo”, io ci credo poco, io credo che loro voglianovedere anche come si comportano quelli che gli hanno ucciso il padre, come si compor-teranno in futuro, cosa faranno di importante. L’idea di perdono in Italia non ha lo stessosignificato che ha nel mio paese, l’Albania. Da noi dire “ti perdoniamo” vuol dire “non tiuccidiamo” e basta, certo non vuol dire che non ti odio più o che puoi ritornare a cammi-nare con la testa alta davanti a casa mia.

Ornella Favero: Bisogna intendersi sul discorso del perdono, io non lo so se perdonerei,perché ci sono dei gesti forse imperdonabili, il che non vuol dire che io non cercherei dicapire, non accetterei che uno si reinserisca. Io non mi fermerei tanto su questo concettodi perdono. Secondo me qualcuno di voi ha semplificato il discorso nel dire, “dopo trent’anni…”, oppure “se uno al posto di essere in Italia fosse stato da un’altra parte…”, ma inrealtà non è che ad una persona questo tipo di omicidio glielo ricorda il mondo esterno,per cui bastava stare in Germania per non accorgersene. Un bambino a cui a tre anni uc-cidono il padre, vive comunque con una madre che ha vissuto sempre accanto a quel-l’uomo: la madre di Silvia, certo con l’idea di farle meno male, le ha nascosto per anni laverità, lei viveva in questo mistero che è anche peggio, e credeva di essere stata abban-donata dal padre; oppure ci sono situazioni come quelle di Benedetta Tobagi, suo padreera un grande giornalista e immagino che perderlo nella vita della madre sia stata unaesperienza terribile. Quindi un bambino, anche se non ha conosciuto direttamente quelpadre o non se lo ricorda, vive immerso nel dolore.

Milan Grgic: Ma bisogna anche vivere nel domani.

Ornella Favero: Sì, bisognerebbe vivere non proiettati tutti verso il passato, ma ci sono deilutti irrisolti che forse non lo permettono. Non si possono, secondo me, fare dei paragonifra un lutto derivante da una malattia, da un incidente, e il lutto derivante dall’uccisionedi una persona, che è certamente molto più difficile da rielaborare. Una cosa interessante che sta emergendo da queste discussioni e dal convegno è la pos-sibilità di intraprendere una mediazione “indiretta”, quando magari una persona non sela sente di affrontare direttamente l’autore del reato che la riguarda. Silvia e Benedettahanno fatto un ragionamento che a me sembra fondamentale per dare un senso a tuttoquesto percorso che stiamo facendo: “Io non voglio parlare di perdono, però mi interessatutto quello che può spezzare la catena del male”, avete presente questa frase di Bene-detta? Loro parlano con voi che non gli avete ucciso il padre, però portando questo lorodolore fanno capire che questi lutti non si rielaborano mai, non si chiudono mai, e costrin-gono tante persone a riflettere in modo diverso sul loro reato. Quando si è rivolta a noi, attraverso il nostro sito, una persona che aveva subito moltifurti, non è che qui c’erano i ladri che gli hanno svaligiato la casa, così come quando ab-biamo incontrato l’insegnante, presa in ostaggio durante una rapina, non è che ha trovatoqui il rapinatore che l’ha presa in ostaggio. E quando è venuta in redazione Olga D’Antona,o le vittime che sono intervenute al convegno, nessuno è venuto qui ad incontrare “il suoautore di reato”, questo è stato un percorso in cui le vittime hanno accettato di metterela loro sofferenza a disposizione di tutti per “spezzare la catena del male”. Io penso chela catena del male si potrà spezzare davvero quando in carcere ci sarà la possibilità dipensare meno alla propria sofferenza, e più a quella dell’altro. Questo percorso mi pareche sia interessante, perché potrebbe aprire nelle carceri una prospettiva di mediazione

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non necessariamente individuale, cioè una forma di mediazione in qualche modo collet-tiva.

Bruno De Matteis: Io volevo comunque solo dire che se non avessero sentito tutti i giornidalle televisioni e dai giornali parlare del loro padre ucciso dalle Brigate Rosse, e soprat-tutto non avessero sentito che il terrorista che lo ha ucciso è uscito e si è rifatto una vita,forse in un contesto diverso sarebbe stato diverso il loro dolore. Inoltre occorre ancheconsiderare che i terroristi nell’uccidere Tobagi hanno voluto colpire quello che lui rappre-sentava, un simbolo di un giornalismo che voleva capire, non l’uomo Tobagi

Elton Kalica: Ma Benedetta Tobagi ha proprio detto che a lei dava più fastidio e più dolorepensare che i brigatisti avessero cancellato il fatto che avevano ucciso un uomo, e invecesi riferissero ad un simbolo, per me allora è il contrario, non è come dici tu che loro do-vrebbero capire che non ce l’avevano con il loro padre, ma ce l’avevano con una idea. Quello che a noi interessa davvero è ascoltare queste persone, comunicare con loro, perconoscere, per capire cosa significa stare dall’altra parte della pistola, visto che noi le pi-stole le abbiamo usate, e nello stesso tempo parlare con loro, per far capire cosa significastare in carcere, cosa significa farsi tutta la galera, cosa significa portarsi dentro il peso delmale fatto, perché a me è sembrato significativo quello che diceva Benedetta “Io fino apoco tempo fa pensavo che nessuno restasse a lungo in carcere, perché chi ha ucciso miopadre poi è uscito quasi subito, e io non sapevo che c’era gente che si faceva venti, tren-t’anni di galera, adesso lo so”.

Alessandro Busi (tirocinante, laureato in Psicologia): Mi ha molto colpito quello che hadetto Benedetta sulla questione del carcere, sulla necessità che la pena possa servire a“dare peso” all’accaduto, spiegando quanta sofferenza abbia provocato in lei il fatto chegli assassini di suo padre praticamente abbiano passato pochissimo tempo in carcere. A me poi interessa la questione della mediazione penale: la mediazione collettiva secondome può essere un’ottima prospettiva sociale, perché veramente ti dà un punto di vistacompletamente diverso da quello del muro contro muro, con il quale siamo abituati a ra-gionare, e può essere magari anche un primo passo. Penso anche che Susanna Ronconi rappresenti per Silvia Giralucci una sorta di fantasmadel male, ovviamente lo è, le ha ucciso il padre, però io credo che per riuscire ad umaniz-zare il male, diciamo così, forse l’unico modo potrebbe essere davvero l’incontro diretto.La mediazione collettiva può essere una crescita incredibile a livello sociale, questo è unprimo passo per le vittime, però per riuscire a risolvere davvero il problema, o meglio perriuscire a riconoscere l’umanità nell’altra persona, credo che solo l’incontro diretto puòessere davvero utile.

Giacomo (studente, sta facendo uno stage presso la redazione): Loro mi sono sembratedue donne molto forti e molto coraggiose, da ammirare assolutamente, anche semplice-mente per aver intrapreso questa esperienza di “mediazione collettiva”, o comunque diincontro e confronto, che è stata fatta qui. Per me però un omicidio delle Brigate Rosse èimpossibile da perdonare, e rispetto a questo una mediazione penale diretta credo chesia improponibile.

Marino Occhipinti: Non sono d’accordo con te quando dici che è impossibile una media-

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zione diretta per i delitti politici o terroristici, perché io invece credo che non sia impos-sibile, e che comunque non si debba mai generalizzare. Così come non si deve generaliz-zare quando si parla del dolore provocato da un lutto: se quando sono andato a farerapine mi avessero ucciso il dolore di mia mamma non sarebbe stato forse diverso daquello della mamma di Walter Tobagi, sempre suo figlio sono, il problema è che forse miamamma se ne sarebbe fatta una ragione, credo che la differenza stia qui, perché avrebbecomunque dovuto dire “È andato a fare rapine, ed è morto”, mentre Tobagi tornava tran-quillamente a casa dal lavoro e l’hanno ammazzato.

Sandro Calderoni: Io però vorrei ribadire il concetto, che mi sembra fondamentale, chela mediazione penale non ha nulla a che fare con il perdono, ma forse potrebbe proprioaiutare a “farsene una ragione”, e quindi io penso che se uno vuole parlare con la vittima,il punto importante è il confronto con lei, e non la necessità o meno di perdonare.

Elton Kalica: Anch’io sono d’accordo con Sandro, io credo che questa parola la dobbiamomettere da parte e ragionare sul resto, se loro vogliono perdonare o non vogliono perdo-nare a noi non deve interessare, anche perché io sono convinto che per loro sia lecitoanche portare un certo rancore. Come diceva Dritan prima, la gente istintivamente è por-tata a vendicarsi, se mi uccidi qualcuno sono portato a vendicarmi e a ucciderti, allora seloro non lo fanno, e non passa proprio nella loro mente di vendicarsi, perché hanno unagrande cultura che non glielo permette, però si devono pur tenere qualcosa, e quello cheloro si possono tenere è il rancore verso queste persone. Il professor Ceretti ci ha dettoperò che l’odio, che il rancore è un veleno che si beve lentamente aspettando che muoial’altro, allora noi faremo di tutto per ragionare sul fatto che l’odio fa male a chi lo prova,non fa invece un gran male a chi è causa di quell’odio.

Maurizio Bertani: A me pare che questa situazione, questo confronto con le vittime, puressendo complicato, sia molto importante anche per quanto riguarda l’assunzione di re-sponsabilità da parte nostra, allora però terrei lontano da questo anche l’aspetto dei be-nefici penitenziari. Su ogni discussione tra vittime e autori di reato proprio questi dueaspetti, perdono e benefici, li bandirei, perché il confronto non deve minimamente essereintaccato dall’eventualità di un interesse personale. Per cui non vedo cosa c’entri inserireun discorso sui benefici, se devo discutere di benefici li discuterò con il giudice di sorve-glianza senza tirare dentro il discorso delle vittime.

Marino Occhipinti: Secondo me, e lo capisco benissimo, della mediazione Silvia e Bene-detta hanno anche un po’ paura, non so neanche io bene il perché, ma credo che sia unargomento che un po’ le spaventa, e forse neanche loro stesse vogliono liberarsi di questarabbia che hanno, forse gli serve anche questa per sopravvivere. Quando Silvia Giralucciha detto “Io non posso perdonare perchè mio padre non avrebbe perdonato”, a quelpunto non ho detto niente, ma avrei voluto dirle “Sei così certa che tuo padre non avrebbevoluto che tu perdonassi?”. Io non so se suo padre avrebbe voluto così o avrebbe volutoche lei fosse capace di perdonare.

Ornella Favero: È comunque difficile, perché loro hanno giustamente detto “Noi siamoinnocenti”. È un po’ quello che hai detto tu, Marino: se mi avessero ucciso durante unarapina certamente il dolore di mia madre non sarebbe paragonabile con il dolore della

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mamma della persona che ho ucciso io, anche se come intensità poteva essere più forteperché magari il mio legame con mia madre era più forte, e invece l’altra madre vedevail figlio una volta al mese. Allora è inutile che facciamo le graduatorie sul dolore mio e il dolore degli altri, ragioniamopiuttosto su un dolore che è quello più duro da accettare, che è quello di una persona in-nocente a cui fanno qualcosa come uccidere un padre, perché lì, rispetto a tutti i doloridel mondo, c’è un colpevole, non c’è la “natura” come per una malattia, e c’è uno statodi innocenza da parte loro, è questo che fa la differenza, è questo che non permette di far-sene una ragione. Certo anche le persone che stanno in carcere soffrono, io non sarei quise non pensassi che la condizione della detenzione è una condizione di sofferenza, a volteanche “non giustificata” nel senso che c’è un di più di sofferenza “inutile”, ma questa sof-ferenza non può certo “compensare” la sofferenza vera che avete provocato. Invece sul fatto che Benedetta e Silvia non vogliano incontrare gli autori dell’uccisione diloro padre, io credo che noi non possiamo dire nulla, punto e basta. Nessuno può imma-ginare come reagirebbe in una situazione simile, quando alcuni ragazzi negli incontri nellescuole in modo provocatorio dicono a me, che sono la volontaria che viene in carcere,“Vorrei vedere se capitasse a te di subire un reato!”, io ho sempre cercato di rispondere“Guardate, io non so se capitasse a me come reagirei, non lo so, so che sto facendo unallenamento per cercare, se mai dovessi essere io a subire un grave reato, di non odiareo odiare meno”. Allora io credo che Benedetta e Silvia abbiano fatto uno straordinariopasso, che è quello, al di là della loro sofferenza, di confrontarsi con delle persone tra cuici sono molte che hanno ucciso, ma questo non c’entra niente con l’incontrare o menol’assassino del loro padre.

Maurizio Bertani: Io ho solo detto che trovo contraddittorio che Silvia Giralucci dica chenon vuole incontrare gli autori del reato che la riguarda, e critichi la società o quella partedella società che tende ad avere più protezione verso chi ha commesso il reato che versochi l’ha subito, e poi però sia disponibile ad incontrare un gruppo di detenuti che a lorovolta hanno fatto delle vittime come lei. Paradossalmente, quello che lei ha detto criti-cando la società che ha più attenzione per gli autori che per le vittime, le può essere inun certo senso contestato da quelle vittime i cui autori di reato lei ha incontrato.

Marino Occhipinti: In realtà Silvia Giralucci lamenta il fatto che qualcuno abbia “cocco-lato” i brigatisti, e soprattutto che le istituzioni abbiano dato più attenzione ai terroristiche alle loro vittime.

Ornella Favero: Ma loro hanno criticato non tanto il reinserimento di queste persone,quanto l’eccessiva visibilità, il protagonismo. Nel nostro Paese poi c’è stato un terrorismoancora più difficile da capire, perché non ha neppure agito come faceva il terrorismorusso che cercava di uccidere lo zar, il simbolo dello sfruttamento dell’uomo sugli altriuomini, della servitù della gleba, qui c’è stato un terrorismo che ha ucciso spesso gli uo-mini più democratici, i più aperti, i più disponibili al dialogo, quindi il dolore è ancora piùinaccettabile per la figlia di un giornalista illuminato come Tobagi. Tornando invece al discorso della mediazione, io sono d’accordo che questo percorso dimediazione comunque non significa semplicemente ascoltare le vittime, perché sonoconvinta che anche loro abbiano bisogno del confronto, non del puro ascolto, mi sembraipocrita qualche volta chi dice che le vittime possono dire qualsiasi cosa, secondo me ci

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deve essere un confronto aperto e senza ipocrisie, che però deve avvenire partendo dailoro bisogni. Mi sembra poi importante il discorso di Benedetta Tobagi sulla necessità di spezzare la ca-tena del male, il fatto che lei voglia parlare, voglia confrontarsi, perché si rende conto chebisogna comunque spezzarla, questa catena. Ed è vero, loro possono dire qualcosa digrande con la loro sofferenza, perché vengono a parlare con voi, forse non hanno la forza,o il desiderio di andare a parlare con chi gli ha ucciso il padre, ma parlano con voi, che ma-gari vedendo la loro sofferenza potete avere una maggior consapevolezza nel ripensareal male che avete fatto. E proprio Benedetta Tobagi ha ribadito il concetto del senso dellaresponsabilità, cioè di guardarsi nello specchio e ragionare sul male fatto.

Marino Occhipinti: Credo comunque che anche loro abbiano bisogno di un confronto,magari per mettere in crisi qualche certezza. Quando per esempio Benedetta Tobagi hadetto “Gli assassini di mio padre fanno una vita normale”, io mi sono sentito di doverglielodire che forse non era proprio così, chi lo dice che fanno una vita normale? E poi io credoche su 1000 terroristi 20 hanno scritto libri, avuto visibilità, mentre magari gli altri 980 sene sono stati nell’ombra e fanno una vita più che normale, magari fanno gli stradini evanno a tagliare l’erba per qualche cooperativa in silenzio senza fiatare, e quando gli vienechiesta qualche intervista dicono no grazie, questo forse bisogna ricordarlo, che ci sonoanche queste persone, perché loro magari vedono quei dieci terroristi che appaiono in te-levisione, e che scrivono libri raccontando la loro verità, mentre tutti gli altri credo sianotutt’altro che “coccolati”.

Ornella Favero: Infatti un discorso di mediazione con autori di reati simili a quelli chehanno subito loro, può avere un senso, perché così semini dei dubbi, ragioni.

Daniele Barosco: Io mi sono chiesto però perché lo Stato non si sia mai posto in questitrent’anni il problema della mediazione e della riconciliazione e abbia sempre invece per-seguito la logica del muro contro muro, che ha favorito la nascita delle associazioni dellevittime. Secondo me in questo c’è stata una posizione alla Ponzio Pilato, un lavarsene lemani da parte delle istituzioni, invece di pensare a un tavolo collettivo, qualcosa di più deitre tavolini qui di Ristretti, ma con lo stesso spirito, un tavolo collettivo dove si cominci aragionare del come prendersi cura delle vittime, e farle parlare di quello che loro vera-mente vogliono, non di quello che vuole il giudice di sorveglianza.

Sandro Calderoni: Io però penso che il rischio sia proprio quello che il rapporto tra autorie vittime di reato venga istituzionalizzato, nel senso che possa diventare quasi un obbligo,perché noi sappiamo che così prevarrebbe quasi sicuramente una questione opportuni-stica, e invece incontrare le vittime deve significare solo la possibilità di una vera presa dicoscienza.

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Se ripenso al rapinatore che mi ha usata come ostaggio per una rapina in bancaQuando chi ha subito un reato e chi lo ha commesso sono di fronte

di Elena Baccarin

È una mattina come le altre, qui a scuola. Solita routine tranne per uno scambio d’orarioper il Progetto “La Scuola entra in Carcere”. Sono in Quinta con i colleghi che si occupanodel progetto. Stiamo aspettando che arrivino i detenuti che ci presenteranno la loro espe-rienza. Gli studenti sono un po’ emozionati, un po’ curiosi e mi chiedono qualche consigliosulle domande che possono fare. Io sono molto tranquilla, non come la prima volta cheho affrontato questo incontro. Mi sento di potere rassicurare i ragazzi con l’esperienza dichi ha già potuto appurare di persona che i detenuti sono persone normali e sapendoche dalla porta della classe non entrerà nessun alieno. E infatti così è: entrano le personeche conosco e mi metto ad ascoltare i loro discorsi. I ragazzi a volte fanno domande a bruciapelo e mi allarmano perché sembrano mancaredi sensibilità, costringendo a rievocare solo per curiosità personale frangenti di vita checredo dolorosi. Mi spaventa il fatto che siano così fermamente convinti che a loro non ac-cadrà mai di commettere un reato. Ma poi riflettendo penso che, forse, alla loro età lapensavo anche io così perché a 18 anni, in genere, non si sono ancora vissute quelle espe-rienze che ci portano al fondo di noi stessi e che, in un attimo, potrebbero farci compierequalcosa di drammatico.Durante il primo racconto a tratti sono un po’ assente, penso alle mille cose da fare. I ra-gazzi cominciano a chiedere sottovoce se conosco il motivo per cui quei signori sono finitiin carcere… ed ecco che uno di loro dice di essere stato un rapinatore. Qualcosa inizia adagitarsi dentro di me, un ricordo non troppo lontano ma che credevo oramai messo daparte. Invece, non è così. Una forte tensione mi assale, mi manca quasi il respiro e vorreiuscire dalla stanza mentre sento il racconto di quello che succedeva durante una rapina“tipo” ad una banca. Non ci vedo quasi, poi, capisco che l’unico modo per riprendermi èproprio approfittare di questa occasione che la vita mi ha posto di fronte in modo cosìinatteso, proprio quando mi sembrava che non ce ne fosse più bisogno.Sono sempre stata convinta che la vita sia una spirale meravigliosa che attraverso i suoiincomprensibili giri ci pone sempre di fronte a quello che non abbiamo superato, a quelloche ci fa paura ma che, con ostinazione, cerchiamo di mettere a lato, rimandando ad unaltro momento. Ecco il momento è arrivato. Chi ha subito un reato e chi lo ha commessosono di fronte, ma più che vittima e colpevole ci sono due persone qualsiasi: io e Nicola.Se ripenso al rapinatore che mi ha usata come ostaggio per una rapina in banca, non rie-sco a ricordare molto di lui, forse solamente gli strattoni che mi ha dato, le sue impreca-zioni urlate al cassiere, il piccolo cerchio gelido della sua pistola puntata sulla mia nuca.Questa, di tutte, è la sensazione di cui ho fatto più fatica a liberarmi. Non mi riesce di ve-dere Nicola sotto quella veste, non riesco a immaginare nella veste del rapinatore l’uomoche appare qui, davanti a me, così mite. È un momento intenso, fatto di rabbia repressae di forte emozione. Posso finalmente chiedere alcune cose, per cercare di capire cosapassa nella testa di chi, in quei momenti, a sangue freddo, afferra la prima persona chegli capita davanti e le punta una pistola addosso. Nella mia testa, in quei momenti si al-

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ternavano due pensieri a ritmo intermittente: “Adesso mi spara se non gli aprono” e “Nonsi sente mai che nelle rapine uccidano gli ostaggi”. Una consolazione, forse anche se inquei momenti non c’è il tempo di riflettere: il tempo si dilata e sembra tutto un sogno esi vorrebbe credere che non sta capitando proprio a noi. Il confronto con Nicola è rincuo-rante, mi conferma la validità della mia seconda supposizione. Forse è stata solo una mia impressione, ma anche Nicola mi sembrava stupito ed emozio-nato da questo scambio inaspettato.

Succede a tutti i detenuti di cambiare la propria vita? Di voler rimediare?E alla fine dell’incontro c’è stato un momento molto emozionante perché nell’abbraccioche Nicola mi ha dato mi sembrava di avvertire il desiderio quasi di scusarsi, lui per qual-cun altro, per quello che mi era successo. È stato l’incontro di due estranei che, senza sa-perlo, avevano in comune qualcosa.Avrei voluto chiedergli molto altro ma non me la sentivo davanti agli studenti e, in seguito,non me la sono sentita di riaprire il discorso. Non mi pareva di avere il diritto di tirarefuori ricordi di un passato che forse bisogna anche lasciare andare prima o poi. E michiedo se sia più utile continuare a parlare di un vissuto sbagliato e lontano o se facciamale riportarlo alla luce spesso. In fondo, non è lui che mi ha fatto del male. Chissà cosane è stato del vero rapinatore che ha preso me: se ci penso non riesco ad immaginare chepossa essere come Nicola mi appare. Continuo a vederlo aggressivo e violento, freddo eimplacabile. Senza cuore. Mi chiedo: forse non sono in grado di perdonare? Di dare unaseconda possibilità a chi ha sbagliato? Non so se potrei fidarmi di lui. Lo sto scoprendo ora,da persona coinvolta. Succede a tutti i detenuti di cambiare la propria vita? Di voler rime-diare?Ho creduto molto nell’importanza di questa esperienza tra il carcere e la scuola per il miodesiderio di conoscere, di sapere quello che c’è oltre al meccanismo della perfetta vitaquotidiana che non trova spazio per reati, vittime e colpevoli. Di solito queste cose ri-guardano sempre qualcun altro e ne sentiamo parlare alla tv e sui giornali.Andare in visita in carcere è un’esperienza forte che molti dovrebbero fare. Il mio ricordoè fissato sul rumore delle porte che si chiudono man mano che si procede all’interno. Èla sensazione più intensa che mi è rimasta. E ora, quando mi capita di passare in auto neipressi del carcere di Padova, mi soffermo sempre a pensare che dentro a quel blocco cisono tante persone che vivono. Anche in altri momenti, mentre sto per uscire o per farealtre cose mi capita di pensare alla routine del carcere. Prima, non l’avrei fatto. E le per-sone che ho incontrato lì dentro sono solo persone come le altre che vedo all’esterno: èmolto facile guardare negli occhi di questi uomini e trovarci l’umanità, la fragilità, la stessapasta di cui siamo fatti tutti. Ma, mi chiedo, riuscirei a trovare queste stesse cose negliocchi di quel rapinatore? In certi occhi c’è anche qualcosa di sfuggente che inquieta.

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Due detenuti e un tentativo di risposta all’insegnante, vittima di una rapina

Per una volta mi sono trovato col pensiero dall’altra parte di un’armaNon vi è ragionamento che possa compensare lo stato di malessere di una vittima, si può solo provare un totale smarrimento di fronte a lei. E non c’è neppure nessuna scusante che giustifichi da parte dell’autore il suo reato

di Sandro Calderoni

Sono un detenuto e svolgo attività di volontariato all’interno di questa redazione da ormaiparecchi anni. E tra le varie cose che di solito si fanno in un ambiente dove si produce esi riceve informazione, visto il contesto particolare in cui ci troviamo, cerchiamo anche difar conoscere come realmente è il carcere e chi ci sta dentro. Quattro anni fa è iniziato ilprogetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”, proprio perché si volevadare ai giovani un’idea del carcere come è visto da chi lo vive da dentro e inoltre forniredelle conoscenze che permettessero loro di valutare e considerare il carcere senza tuttiquei luoghi comuni che media, film e altri tipi di informazione tendono a disegnare. Man mano che il progetto andava avanti, mi rendevo conto che ha mutato molto ancheil mio atteggiamento, perché la curiosità e la voglia di conoscere dei ragazzi è disarmante,al punto da portarmi spesso a confrontarmi con il mio passato. E mi sono accorto cosìche anch’io avevo i miei luoghi comuni, le mie convinzioni e i miei falsi idoli, e, importanteper me, mi sono reso conto che questa esperienza mi sta arricchendo molto, proprio gra-zie al fatto che nel confrontarmi con persone che vengono da fuori, come gli studenti egli insegnanti, scopro dei punti di vista, dei ragionamenti e delle esperienze che mi pon-gono in una prospettiva che, sotto molti aspetti, oltrepassa il senso egoistico e opportu-nistico della propria visione della vita. Questo pensiero si è rafforzato quando ho letto l’articolo di Elena Baccarin, un’insegnanteche ha raccontato la sua esperienza come vittima di una rapina in banca, ha descritto ilsuo stato d’animo quando era in ostaggio del rapinatore, i pensieri che le passavano perla testa e il timore di morire… per una volta mi sono trovato dall’altra parte di un’arma esono stato davvero male. Mi sono reso conto che persone, che conducono la loro vita se-renamente, si vengono a trovare a volte in situazioni totalmente al di fuori dai loro schemi,in balia di un’altra persona, che per raggiungere un suo scopo non esita a rompere l’ar-monia altrui. Non vi è ragionamento che possa compensare lo stato di malessere di unavittima, si può solo provare un totale smarrimento di fronte a lei. E non c’è neppure nes-suna scusante che giustifichi da parte dell’autore il suo reato. Quello che c’è invece quasisempre é solo una leggerezza, un’indifferenza al valore della persona che possono unica-mente mortificare e deludere chi subisce reati. Prima non vedevo questo, ero un rapinatore, in particolare un rapinatore di banche, enonostante la gravità del reato in sé, ero convinto che prelevando denaro, con un’armain mano per spaventare gli altri, in sostanza non recavo un particolare danno psicologicoalle persone che assistevano al fatto, anche perché, con una certa presunzione, ero sicuroche non avrei mai fatto del male se non fossi stato in pericolo io stesso. Ora non sono

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certo di questo, ora capisco che solo per il fatto di avere un’arma in mano vuol dire chemettevo in conto anche di doverla usare.Non so se questa mia consapevolezza, riassunta in queste poche righe, che mi è stata do-nata dal racconto della professoressa, possa ridare un po’ di serenità e tranquillità a lei,credo che non vi sia una ricetta per questo, ma so comunque che grazie a lei forse ho co-minciato a capire come si sente una vittima di un reato.

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Un confronto che a me può fare solo del bene, anche dentro la sofferenzaConosco molto bene la parte del carnefice e,ripercorrendo con la memoria alcuni fatti del mio passato, mi rendo conto di quantomale posso aver procurato

di Maurizio Bertani

Ho avuto modo, frequentando la redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova, diaffrontare anche temi delicati e complessi nel corso delle discussioni. Negli ultimi mesi lanostra attenzione si è rivolta ad esaminare in modo più approfondito la sofferenza pro-vocata, con gesti a volte sottovalutati da chi li compie, alle vittime di ogni tipo di reato. Ho avuto modo inoltre di leggere la lettera di una insegnante di una scuola che partecipaal progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”, che si è trovata nellacondizione di vittima, essendo stata sequestrata durante una rapina in banca con un’armapuntata alla testa e usata dai rapinatori come scudo e deterrente nei confronti degli im-piegati. Ho potuto così capire tutta la sua sofferenza e la paura che ha provato.Devo ammettere che come rapinatore questa storia mi ha molto colpito, personalmentenon ho mai pensato di collocare fra le vittime anche persone che di fatto sono state coin-volte nell’esecuzione di un reato per un caso fortuito, o meglio sfortunato, e invece, sba-gliando, ho sempre considerato come vittime solo tutte quelle collegate a reati di sangue.Questo scritto mi ha costretto a ragionare e a valutare criticamente il mio modo superfi-ciale di pensare, che mi obbligava a cercare giustificazioni che mitigassero le mie respon-sabilità. Ma non ne ho trovate, non si può infatti affermare che esista il caso fortuito,almeno nella situazione descritta dalla professoressa.È logico che la rapina riguarda due attori principali, il rapinatore e la banca, ma di fattodobbiamo riconoscere che esistono molteplici figure che vi prendono parte e sicuramentela loro non è una parte secondaria, pensiamo a tutti gli impiegati, che lavorano all’internodell’istituto bancario, ai clienti, che al momento della rapina si trovano in banca, infine atutti coloro che vengono coinvolti come vittime di reati collaterali, pensiamo a quelle per-sone a cui viene rubata l’auto per commettere la rapina.Insomma, le figure coinvolte sono tante e tutte subiscono violenza fisica o psicologica, evolere sdrammatizzare non solo è stupido, ma diventa offensivo verso quelle vittime chesi sono viste, anche solo per poco tempo, defraudate della propria vita e della propriatranquillità esistenziale.Personalmente non mi sono mai trovato dalla parte della vittima, conosco molto bene laparte del carnefice e ripercorrendo con la memoria alcuni fatti, mi rendo conto di quanto

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male posso avere procurato ad una persona tranquilla che esce al mattino da casa salu-tando magari i suoi cari, e poi verso la fine della mattinata si trova di fronte un individuoarmato, che per quanto autocontrollo possa avere, sicuramente urla, è agitato, puntaun’arma e prende in ostaggio, seppur momentaneamente, tutti i presenti.Ho rivissuto attraverso la lettera di questa insegnante i mille volti e le mille paure che hoincontrato nel corso della mia dissennata vita, e che superficialmente giustificavo a mestesso come paure momentanee e da relegare esclusivamente allo spazio e al tempo delreato, non rendendomi conto dell’impatto psicologico che chi subisce tali violenze si portadentro nel tempo. Una rapina può porre la persona che l’ha subita in uno stato di timoree paura di fronte a qualsiasi situazione, anche la più banale come un eccessivo trambustoo un alzar di voci, insomma credo si finisca per essere estremamente condizionati neirapporti sociali, e provare un’angoscia che diviene allo stesso tempo un mal di vivere, etutto questo per una violenza subita.Allora mi chiedo: valgono oggi le mie scuse a tutte quelle persone che ho trasformato invittime? Sicuramente sì, se non fosse per la paura che vengano travisate come frutto diuna scelta opportunistica, che è poi il senso di malessere che mi impedisce di porle. Si-curamente posso dire che l’imparare a parlare, o meglio a dialogare, anche dentro uncontesto particolare come la redazione di Ristretti, mi ha aiutato a rapportarmi e a con-frontarmi con gli altri, siano essi detenuti, volontari, studenti, o la professoressa, che tra-mite il suo scritto ha dato l’avvio a mille domande e ad altrettante risposte, aprendo conme un dialogo che mi ha portato a ragionare in modo meno leggero e superficiale.Ho imparato che le vittime di qualsiasi reato subiscono violenza, e che la violenza incre-menta nell’animo umano l’odio; che, per un autore di reati, sentire le vittime che parlanodel loro odio per la violenza subita, da una parte non è piacevole, e può essere un sentirepesante. Ma se questo confronto mi consente di conoscere le loro sofferenze, se questomi porta a ragionare, e a fare valutazioni fino ad oggi mai fatte, allora mi convinco semprepiù che questo confronto può fare a me solo del bene, anche dentro la sofferenza.

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Egregio signor ladro...I nostri due mondi non devono essere completamente separati, altrimenti voi rimarrete sempre ladri e noi sempre derubati

Lo “strano” carteggio che pubblichiamo ha due protagonisti: un cittadino onesto, o meglio,come preferisce definirsi lui, un “cittadino incensurato” la cui casa è stata più volte visitatadai ladri, e un detenuto della nostra redazione, che si definisce un “ex ladrone fornito dicoscienza”. È una corrispondenza nata per caso, un giorno che il cittadino incensurato èapprodato nel nostro sito, e gli è venuta la curiosità di scriverci. Pubblichiamo le tappe diquesto scambio, compreso il testo di una intervista del ladro al derubato, e le risposte delderubato stesso, perché ci sembra che se iniziasse un dialogo così franco e aperto tra ilmondo “fuori” e quello “dentro”, tutti ne avrebbero da guadagnare, gli onesti e i ladroni,i cittadini “regolari” e quelli che hanno scelto l’illegalità.

La Redazione

Girovagando sulla rete mi sono imbattuto nel sito “Ristretti”, l’ho visitato in ogni angolo,credo che sia un sito tra i più interessanti del web, complimenti per la professionalità,ma anche grazie. Grazie per avermi aperto gli occhi su una parte della nostra società che non avevo maipreso in considerazione, che esiste e che non può essere lasciata sola a se stessa. La mia casa è stata visitata 4 (quattro) volte dai ladri, non vi nascondo che se ne avessi sor-preso uno avrei reagito in modo molto negativo, ma oggi lo guarderei in modo diverso ecome reazione al furto accenderei il computer e gli farei leggere “lettere dal carcere”,forse non cambierebbe vita ma… Mi abbonerò alla vostra rivista ma mi piacerebbe (se fosse possibile) un rapporto episto-lare con qualche detenuto che lo desiderasse, magari proprio con uno di quelli che hannosvaligiato la mia casa. Potrei così ascoltare le sue esperienze e potrei riferirgli i problemi che affliggono gli “uo-mini liberi” e come li risolvono (quando ci si riesce). Vi auguro serenità

Alberto Verra

Egregio signor ladro, permettimi di darti del tu, anche perché dopo quattro visite che tuhai fatto a casa mia sei quasi uno di famiglia, vorrei proporti alcune riflessioni che ho fattoin merito alla tua attività. Senza dubbio alcune volte ti sarà andata bene, avrai guadagnatoqualche cosa, ma poi lo avrai dilapidato in fretta perché non si dà valore a ciò che non sisuda, forse oggi che ti devi sudare la libertà potrai capire meglio il valore delle cose, sì per-ché senz’altro ti avranno preso, li prendono tutti sai, tutti si credevano e alcuni si credonoancora più furbi, migliori degli altri, più furbi di quelli che si alzano alle 5 del mattino erientrano a casa alle 20 di sera, le galere sono piene di questi furbi. Io sono tra i fessi chealla sera vanno a dormire presto perché sono scoppiati dal lavoro e forse a volte ho pen-sato veramente che voi foste più furbi, ma furbi si nasce, e quindi continuo ad alzarmi pre-sto al mattino e arrivare tardi alla sera, ma perlomeno non devo domandare a nessunose voglio telefonare a mia madre. Certamente ora tu mi dirai che sei stato sfortunato, che la vita ti ha portato su delle strade

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che ti hanno travolto, per carità tutto vero, ma sai le scuse sono come le dita, tutti ne ab-biamo almeno dieci. Tutti ci sentiamo vittime del sistema, se tu potessi parlare in confi-denza con il tuo magistrato di sorveglianza scopriresti forse che anche lui si sente vittima,che dopo anni di sacrifici, studi, concorsi, forse ha dovuto accettare quel ruolo per starevicino a casa mentre i raccomandati magari sono capo della procura. Come vedi ognunodi noi ha le sue buone ragioni per interpretare il ruolo di vittima; la vita è sopratutto sa-crificio, dolore e sconfitte, qualche volta mezze vittorie, cercare scorciatoie non ha senso,ed inoltre se tu potessi vedere gli effetti che queste scorciatoie (e sto parlando di banalifurti in casa) hanno sulle vittime sono sicuro non le prenderesti più. Non scaglierò mai néla prima né l’ultima pietra, poiché non sono senza peccato, e cercherò per quel che possodi reinserirti tra i fessi, ma per favore cerca anche tu di essere un fesso autentico comeme. “Ladri e prostitute vi precederanno nel regno dei cieli” sono parole di chi è più grande dinoi, se tu camminando camminando dovessi risalire la china fino a tal punto ricordati dime, ti aspetto fuori libero di consumarti le ossa a furia di lavorare e fesso da pagare unamontagna di tasse.

Alberto Verra

Carissimo Alberto, certamente l’apprezzamento per il nostro lavoro con il sito www.ri-stretti.it fa sempre piacere, e riceverlo da lei, che in maniera diretta ha subito gli effettidelle scelte sbagliate che portano giornalmente centinaia di persone a commettere reati,ha un valore maggiore. Non sono certo uno dei “visitatori” indesiderati della sua casa,fosse solo per questioni anagrafiche e per il fatto che negli ultimi anni il tempo che ho tra-scorso fuori dal carcere è molto esiguo. In passato ho commesso quel tipo di reato alcunevolte quando ero molto giovane, ma non c’era in noi ragazzi la consapevolezza di comequel nostro intrometterci nella vita privata di una famiglia e trafugare gli oggetti che noiritenevamo più preziosi, volesse dire violare quell’intimità, quella riservatezza che solouna casa può dare, non ci rendevamo certo conto di violare tutto questo, lo ritenevamoun “semplice asporto di oggetti di valore”. So bene che non è così. Mi ha fatto sorridere l’idea di lei che sorprende il ladro in casa e gli mostra il nostro sito.Certamente gli farebbe bene. L’intenzione è bellissima ma non so quanto realizzabile.Quello che è importante è portare nei quartieri la nostra esperienza, nelle scuole, comestiamo già facendo in piccola parte, ciò significherebbe fare prevenzione sociale, signifi-cherebbe mostrare, e lei ha ben intuito l’utilità di una simile iniziativa, gli effetti di sceltesbagliate, mostrare le storie di famiglie disgregate a causa del carcere. Sarebbe moltobello avere anche la testimonianza di una persona che ha subito dei furti, perché pure ifurti provocano danni e traumi di varia natura, spesso sottovalutati. Sarebbe disposto a rilasciarci un’intervista per il nostro sito e per il nostro giornale? Pensopossa risultare molto interessante. Io vorrei in particolare rivolgerle alcune domande:Qual è stata la sua prima reazione alla scoperta del furto in casa? Ci fa una distinzione trai danni materiali ed i danni affettivi? In qualche modo questi furti hanno cambiato o in-fluenzato la sua vita? Cosa l’ha spinta a mettersi in contatto con la nostra redazione?Pensa che le pene alternative alla detenzione siano utili per far recepire a chi ha com-messo un reato il suo errore? Pensa sia utile, necessario o dannoso fare incontrare l’autoredi un reato e chi questo reato lo ha subito? Cosa direbbe ad un ragazzo che sta per fare

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lo sbaglio di credere che rubando risolve i suoi problemi? So che ad alcune domande non sarà forse facile rispondere, ma il fatto che il primo passonei nostri confronti è suo mi fa ben sperare. La saluto con cordialità augurandole di cuoreche non debba più subire furti. La ringrazio per l’incitamento a continuare il nostro la-voro… (di redazione, non di ladri…), con affetto e simpatia.

Nicola Sansonna

Ciao Nicola, accetto volentieri il tuo invito. Sono un uomo di 44 anni con un tenore di vitamedio, lavoriamo sia io che mia moglie. Abito in un paese di una provincia lombarda.Non avendo figli e avendo la casa di proprietà posso dire che non mi manca nulla, anzi hopersino più del necessario. Francamente non avevo mai pensato di essere un potenziale obiettivo di ladri d’apparta-mento, sapevo che queste cose succedevano ma pensavo solo agli altri. Alla scoperta di un furto in casa la prima reazione è stata di stupore, non capivo bene ciòche era successo, i danni materiali sono stati sempre di media entità (occorre fare una di-stinzione anche tra questi ultimi, perché la refurtiva vera e propria si aggira sul 60% deidanni materiali), non cifre particolarmente elevate, si possono avere cifre più elevate conuna rottura dell’autovettura, ma i danni maggiori sono quelli psicologici, quando ti fruganotra le tue cose, ti mettono a soqquadro la casa, danneggiano una parte di te, poi tua mo-glie ha sempre paura di rientrare in casa da sola ed emergono sentimenti patetici di rabbiae vendetta. Certamente ho preso contromisure, ho messo una porta superblindata e hopreso un cane, anche se quest’ultimo è molto corruttibile, basterebbero due bocconi de-liziosi e immediatamente passerebbe dalla parte dei ladri, quindi è un deterrente psico-logico più che altro, ma efficace più della porta blindata. La prassi è questa: si telefona ai carabinieri che vengono a fare un sopralluogo, poi si vain caserma e si stende la denuncia, che è comunque sempre pro forma non essendo as-sicurato, e qui viene il bello. A te sembra caduto il mondo addosso (almeno la prima volta)e ti accorgi in realtà che per l’istituzione è quasi una banalità, ti sfoghi un po’ col poverocarabiniere di turno, una pacca sulle spalle e via. “Appena sappiamo qualcosa le telefo-niamo”, ovviamente nel tempo ti rendi conto che l’Arma non poteva fare di più, ma la de-lusione nell’immediato è notevole. Leggendo i vari articoli sul vostro sito, mi sono reso conto che esiste un mondo comple-tamente a parte del quale tutti hanno una conoscenza limitata, quasi si trattasse di unacosa per extraterrestri di cui si devono occupare soltanto operatori penitenziari e giudici.Le frasi che si sentono tra la gente sono del tipo “Stanno bene, hanno tutto, la televisione,il mangiare, le coperte”, addirittura quando qualcuno è stufo del posto in cui lavora dice“Vado a fare domanda a San Vittore, sto meglio che qua”, e forse qualche volta anch’ioho parlato in questo modo, ma oggi mi rendo conto che le cose non stanno così. Quelloche mi ha spinto a mettermi in contatto con voi è stata la presa di coscienza che questidue mondi non devono essere completamente separati, ma in qualche modo comuni-canti, altrimenti voi rimarrete sempre ladri e noi sempre derubati. Trovo scandaloso aquesto proposito che nel 2004 voi (o almeno alcuni di voi) non possiate avere un telefo-nino (magari con limitazioni sui numeri da chiamare o ricevere) per comunicare con le vo-stre famiglie, col vostro avvocato e per non recidere completamente i legami col mondoesterno.

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Quanto alle misure alternative, penso che debbano essere concesse solo a chi ha capitoil proprio errore, viceversa possono dare l’idea che si può farla franca, preparando lastrada a situazioni ancora più negative. La pena (non la custodia cautelare, che non do-vrebbe essere una pena) la vorrei molto più breve ma molto più dura, e con possibilità dicomunicare di più con l’esterno proprio la durezza stessa della pena. La legge deve asso-migliare a un maglio che entra in contatto per breve tempo con il ferro ma lo piega allasua volontà. Immagina un detenuto che debba scontare per esempio 10 anni, che avesse la possibilitàdi scontarne solo due ma in un carcere dove vige una terribile disciplina cento volte peg-gio di quella militare, e alla sera avesse come conforto 5 minuti con la sua famiglia, fidan-zata o chi vuole lui al telefono. Dopo due anni avremmo una persona attentissima alleregole, sottomessa all’autorità, che ha perso però solo 2 anni della sua vita, sarebbe sper-sonalizzata ma non consumata, negli 8 anni seguenti avrebbe tutto il tempo di ricostruirsiuna sua personalità nella legalità, al termine dei 10 anni il confronto con un detenuto“normale” sarebbe vincente. Fare incontrare la vittima con il reo potrebbe essere dannoso o anche doveroso, dipendedalle persone in causa, dal momento e dal reato. In linea di principio sì, se la vittima lovuole può essere vantaggioso per entrambi. Infine, a una persona che per risolvere i suoi problemi economici volesse rubare, rapinare,spacciare, truffare, gli direi che sta scegliendo il modo più veloce per diventare povero, èun illuso che rimarrà deluso, perché le uniche cose che hanno valore sono quelle che sisudano e più si sudano più hanno valore, poi certamente la vita è sofferenza ma o è cosìo è peggio. Ma più di quello che posso dire io conta quello che puoi dire tu, che per esperienza direttapuoi parlare, per questo è molto importante che tu possa comunicare, speriamo che locapisca anche il Ministero di Giustizia, spaventare è più economico che punire. Dai per favore questo messaggio da parte mia ai detenuti: io non so se le sofferenze chestate passando siano meritate o meno, solo Dio conosce il cuore di un uomo, ma dob-biamo essere noi i più inflessibili giudici di noi stessi, perché arriverà il momento in cui nonsi potrà più bluffare con nessuno. Che la misericordia di Dio ci aiuti tutti. Ciao.

Alberto Verra

Anche Loredana, che ha fatto parte della “categoria” dei ladri, e ora sta scontando unapena nel carcere della Giudecca, ha deciso di rispondere ad Alberto, il “pluriderubato”

I ladri come me sono “ladri di polli”Caro amico Alberto, vorrei rispondere alle tue lettere. Faccio parte della redazione fem-minile di “Ristretti Orizzonti” che si trova alla Giudecca a Venezia. Ti scrivo, perché durante una riunione di redazione abbiamo letto la tua lettera, indirizzataai ladri, categoria di cui ho fatto parte. Prima di tutto, permettimi di darti del tu, quella passata da casa tua potrei essere io,come uno qualsiasi dei miei “colleghi”. Voglio essere onesta con te, tante volte mi è andata bene, ma posso contarle sulle puntedelle mie dieci dita, comunque mediamente una su dieci, ma ne ho pagate nove. I ladri come me sono “ladri di polli”.

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Voglio farti capire, e non è una scusante, che molti non lo fanno solo per il gusto di rubare,no, e nemmeno per lusso. Ma tu hai mai pensato che molti lo fanno solo per il bisogno?Forse per poter sfamare molte bocche, o, per chi è tossicodipendente, per comprarsi lasua “dose”, anche perché il tossico senza la sua dose non è nessuno. Poi ci sono quelli che nella loro vita non hanno mai lavorato, che non sanno cosa sia alzarsial mattino presto, avere una giornata ripetitiva. Forse fare il ladro per loro è più facile! Masolo al momento, non si pensa mai al dopo. Per quel che mi riguarda, il mio unico guada-gno, nel caso di questa mia ultima carcerazione, è di pagare furti non commessi (e moltialtri casi che riguardano i miei colleghi), solo perché ho già un’etichetta. Purtroppo, quando ho deciso di mettermi a posto, erano circa sei anni che non commet-tevo reati, lavoravo tredici ore al giorno, e il risultato del mio lavoro qual è stato? Dovemi ha portato? Ancora in galera. Come già detto, è un’etichetta che ci terremo addossoper sempre. Il fatto di essere ladra in passato era per me motivo d’orgoglio, lavorare quindi è statauna vittoria sul mio orgoglio. A ripensare al momento in cui rubavo ora mi sento la piùgrande sconfitta, altro che orgoglio, ora provo vergogna e basta. Adesso voglio salutarti, dicendoti che quel furto nel tuo appartamento, facciamo fintache lo stia pagando io, al posto di qualche mio ex collega. Se vorrai rispondere sai dove trovarmi.

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LoredanaAbbiamo bisogno di evitare di asserragliarci nel nostro personale fortinoE invece, quando si subisce un furto nella propria abitazione, nel luogo dove più di ogni altro sono custodite speranze, ricordi e miserie, la voglia è quella di chiudersi e lasciarsi dominare dalla paura

di Alberto Verra

Mia mamma anziana ha subito da poco il classico furto in casa con scasso della porta,nulla di paragonabile alle vere vittime che hanno perso un loro caro, però devo dire chela reazione immediata a questo genere di eventi da parte mia è sempre la stessa, ovverovorrei che le forze dell’ordine dessero una punizione spropositata agli autori del reato.Certo a freddo la reazione è diversa, più equilibrata e soprattutto dopo, quando ricordoStefano (NdR: Alberto ha conosciuto Stefano e ha letto i suoi articoli, il racconto dellatossicodipendenza che lo aveva portato a rubare per la droga) e penso che anche lui avràfatto arrabbiare tanta gente, rimango disorientato e mi domando: se avessi sorpreso Ste-fano a rubare in casa di mia madre quale sarebbe stata la mia reazione? Certo mi sareiarrabbiato, ma non avrei voluto una punizione che lo annientasse definitivamente.Dunque la mia relazione con “Ristretti” mi ha reso più equilibrato, almeno a freddo. Forsetutti abbiamo solo bisogno di comunicare di più, abbiamo bisogno di essere meno disso-ciati gli uni dagli altri e di sentirci aperti al mondo, evitando di asserragliarci nel nostro per-sonale fortino. Quando si subisce un furto nella propria abitazione, nel luogo dove più di ogni altro sono

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custodite le proprie speranze, ricordi e miserie, la sensazione è quella di una brucianteferita fisica.Si viene colpiti in quel prolungamento psichico che è parte integrante della persona,questo non viene mai percepito dal ladro, che viceversa spesso considera l’atto poco piùdi uno scherzo da ragazzi, una bravata di cui vantarsi al bar.Il furto in casa non è poi così poca cosa come talvolta si tende a considerarlo, specie secolui che lo subisce è persona anziana o fragile, e ritengo che spesso le pene per questotipo di reato siano lievi, soprattutto quando la condanna “ufficiale” viene “slavata” da unpatteggiamento, vari benefici, quando non completamene annullata dall’indulto.Non dobbiamo però mai perdere di vista i fatti, perché i fatti non si patteggiano, né sipossono far rivivere con riti abbreviati e questo lo dico per sgombrare il campo dapregiudizi rispetto a quel che sto per scrivere.Nel maggio del 2004 entrai per la prima volta all’interno delle mura di un carcere, per as-sistere ad un convegno sulle misure alternative alla detenzione, invitato dalla redazionedi “Ristretti”, qui conobbi detenuti, volontari e altre persone. La cosa che ricordo meglioè stata una piccola frase detta sottovoce da un detenuto e che nel tempo si è trasformatain uno spunto per varie riflessioni. Parlavo con lui quando, ad un certo punto, il mio interlocutore, vedendo passare un altrodetenuto poco distante, dopo averlo salutato con un cenno della mano, mi sussurrò colfare di una vecchia portinaia: “Quello è un delinquente…”.Qui sta il punto.Alle orecchie di un uomo libero e mediamente onesto come ho l’ardire di considerarmi,quella frase risultò comica oltre misura, in quanto, nell’opinione generale di coloro chenon hanno mai avuto a che fare con il carcere (o come dico oggi in tono scherzoso: quelliche stanno fuori perché non li hanno ancora presi), un galeotto vale l’altro, dunque di-venta paradossale, in apparenza, che qualcuno che ha commesso reati rilevanti definisca“delinquente” un individuo che nel sentire comune è classificato come suo “collega”. Conil tempo, ho capito che la frase poteva essere assunta a paradigma per spiegare le reazionidell’uomo, sia quando è vittima, sia quando è aggressore: ognuno di noi pone se stessocome misura rispetto al mondo circostante, questo è il fattore che più d’ogni altro con-diziona il giudizio sugli eventi, mentre la solidarietà scatta solo se c’è l’identificazione.

Vittima e autore di reato: serve la consapevolezza reciproca dell’esistenza dell’altroStretto tra questi due argini rappresentati dal prendere se stessi come misura e l’inca-pacità di identificarsi con l’altro, diventa difficile porre delle basi, affinché vittima e aggres-sore instaurino un dialogo. Come avviare questo rapporto?Una regola sulla misura della punizione da dare la si può ricavare dalla gravità del danno,a cui deve essere proporzionata, ma come possiamo ricavarne un’altra sull’accettazionedel reo da parte della vittima? Come fare per tagliare il filo che lega la vittima al suo ag-gressore in modo definitivo, liberando entrambi? Il tempo può dare una mano, ma in al-cuni casi non basta e in altri quel filo può essere solo assottigliato, ma mai definitivamentereciso, solo la consapevolezza concreta e reciproca dell’esistenza dell’altro, che deve ar-rivare fino alla possibile identificazione, può dare un risultato.Chi è la vittima? Colui che subisce un danno, e questo può andare anche al di là dellalegge.

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Dunque, anche il detenuto è vittima? Certamente, seppur, qualcuno dirà, vittima più chealtro di se stesso. Questo aspetto, questo punto di vista può aiutare i due soggetti adidentificarsi e quindi innescare quel processo che attraverso la solidarietà porta al ri-conoscimento.In fondo secondo me la rieducazione non è altro che la sensibilità verso la condizione al-trui, e qui devo dire che sotto questo aspetto anche parecchi cittadini “onesti” dovrebberoricevere pure loro una qualche forma di rieducazione. Il senso inverso a questa direzione,ovvero l’azione che poggia sugli istinti, sulla convenienza e sulla superficialità, ci met-terebbe su una strada che prima o dopo avrebbe come capolinea il lager e la ripetizionedi orribili esperienze.Mi rendo conto che tutto questo bel discorso poi si scontra con la realtà, con la strut-turazione perversa dell’uomo e quella similare del mondo, ma alternative non ce ne sono,siamo costretti a perseguire la via maestra dello studio per arrivare a una comprensionedell’azione umana, ricercandone l’origine e le radici profonde, questo è il passamano alquale aggrapparci per non farci travolgere dall’istinto. Rimangono le lacrime delle vittimedi oggi e di ieri che non potranno, in certi casi, essere asciugate ma solo rispettate, equesto rispetto lo si esprime soprattutto agendo in modo tale che le lacrime di domanisiano il più possibile limitate.Questo rispetto va giudicato da questo risultato, non da quante persone sono rinchiusein prigione.Io credo però che nessuno può permettersi fughe in avanti, riuscire a consolidare e ot-timizzare leggi come la “Gozzini” è il massimo obiettivo possibile oggi, come domani eforse anche dopodomani, più in là non si può andare, il mondo non è ancora pronto eancor meno pronti sono la maggior parte dei detenuti. Pudore, prudenza e riflessione, ser-vono sia da parte di coloro che invocano un ritorno al passato, sia da parte di chi ancoranon ha capito fino in fondo quello che ha fatto. Allora io penso che un rapporto tra vittimee autori di reato possa essere possibile solo nell’ambito di una capacità di prendere de-cisioni misurate ed equilibrate da tutte le parti.Un’ultima cosa devo dire. La legge “Gozzini” è un grande momento di civiltà, ma solousandola con molto buon senso, rendendosi conto che è un qualcosa di fragile, la si potràconsolidare e rafforzare.

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L’esperienza del progetto “Riparare” in LombardiaUn progetto nato con il compito di stimolare la riflessione sulla giustizia riparativa e, in certa misura, persino di sperimentarla nell’ambiente carcerario

di Francesco Di Ciòdi Dike Cooperativa per la mediazione dei conflitti

e di Claudia Mazzucatodell’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano

Non è semplice offrire una definizione completa e condivisa di riparazione e di giustiziariparativa. La Risoluzione delle Nazioni Unite sui Principi base sull’uso dei programmi digiustizia riparativa (2002) chiama giustizia riparativa quel procedimento in cui “la vittimae il reo e, se appropriato, ogni altro individuo o membro della comunità lesi da un reatopartecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte dall’illecito penale,generalmente con l’aiuto di un facilitatore”. Più interessante ancora, ai fini del Progettoqui presentato, è la definizione di esito riparativo fornita dall’ONU e cioè un “accordo rag-giunto come risultato di un procedimento di giustizia riparativa” che contempla “risposteo programmi quali la riparazione, le restituzioni, il lavoro di utilità sociale, miranti a ri-spondere ai bisogni individuali e collettivi e alle responsabilità delle parti e a realizzare lareintegrazione della vittima e del reo”.Timidamente, ma significativamente, il paradigma della giustizia riparativa sta comin-ciando a trovare spazio anche in Italia – soprattutto in ambito minorile e nel procedimentopenale del Giudice di pace. Tale attenzione, da parte della società e del diritto, è motivatadal riconoscimento che i percorsi di giustizia riparativa “sono profondamente affini ai piùalti ideali di civiltà democratica, perché nonostante il reato, quei percorsi rimangono an-corati al consenso e al dialogo: (…) attraverso il riconoscimento reciproco che innesca in-teressanti dinamiche motivazionali di rispetto spontaneo delle norme e stimola,costruttivamente, a far seguire i torti – compresi quelli di rilevanza penale – da operosiinterventi volti alla riparazione”. Ma lo sviluppo della giustizia riparativa non è affidato solo agli interventi concreti di me-diazione e riparazione consentiti dai nuovi ‘sotto-sistemi penali’ appena citati.Coerentemente con quanto indicato dalle Linee guida in materia di inclusione sociale afavore di persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, emanate di recentedal Ministero della Giustizia, la diffusione della cultura riparativa è veicolata anche, forsesoprattutto, da fondamentali azioni di sensibilizzazione della collettività orientate a svi-luppare una cultura dell’accoglienza, del rispetto, del reinserimento grazie al confrontoaperto su temi quali la legalità, la sicurezza sociale, la mediazione dei conflitti e la ripara-zione. Simili azioni paiono davvero in grado di contrastare la diffusione di un clima dipaura e di discriminazione e di proporre autentici e duraturi cambiamenti nella società ci-vile.All’interno di questo scenario culturale si colloca la proposta del PROGETTO RIPARARE -Percorsi di attività di pubblica utilità svolta da autori di reato, realizzato in alcuni istitutipenitenziari lombardi da Co.lomba (Conferenza lombarda enti di servizio civile), grazie aun finanziamento della Regione Lombardia. Una parte del progetto è stata affidata ad un

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gruppo di esperti di giustizia riparativa con il compito, per l’appunto, di stimolare la rifles-sione su e, in certa misura, persino di sperimentare, la giustizia riparativa nell’ambientecarcerario. Hanno preso avvio, quindi, due attività parallele, una presso la Casa di reclu-sione di Milano-Bollate e una presso la Casa circondariale di Bergamo, identiche per fina-lità, ma molto differenti per modalità di svolgimento.Per quanto riguarda Milano Bollate, il lavoro sulla giustizia riparativa è stato realizzatoproponendo dei ‘laboratori’ di riflessione dedicati ai temi dell’ingiustizia, della pena edella riparazione da svolgersi in differenti contesti: il carcere (che ha visto la partecipa-zione di un gruppo di volontari detenuti) e la scuola (si è trattato nella specie di una scuolasuperiore serale, con studenti-lavoratori eterogenei per età e provenienza professionale).

La “domanda di giustizia” e il “sentimento dell’ingiustizia” che abitano ciascuno di noiIl percorso ha previsto, dapprima, incontri separati con ciascun gruppo (scuola/carcere)durante i quali gli argomenti sono stati affrontati a partire dalle esperienze e dai vissutidei partecipanti, con l’ausilio di alcuni contributi teorici e attraverso varie metodologie at-tive (esercizi, giochi di ruolo, visione di brani di film, uso di immagini).Questi incontri sono serviti a “prepararsi” a due momenti di confronto diretto tra i gruppi,svolti entrambi all’interno dell’Istituto di Bollate. Tali ulteriori occasioni hanno offerto aipartecipanti la possibilità di dialogare, anche animatamente, e scambiarsi i frutti delle ri-flessioni maturate durante il percorso anche grazie ai giochi di ruolo e agli esercizi diascolto. Il che ha consentito davvero di sperimentare in prima persona il significato e lospirito della giustizia riparativa e, dunque, di condividere pensieri, dubbi e scoperte ri-guardo alla ‘domanda di giustizia’ e al ‘sentimento dell’ingiustizia’ che abitano ciascunodi noi. I partecipanti hanno potuto ragionare, attivamente e insieme (per riprendere la de-finizione delle Nazioni Unite poco sopra riportata) sul senso e sul significato della ripara-zione, sulle sue caratteristiche, sugli oggetti della riparazione, sulle condizioni necessarieper riparare, sul perché desideriamo e possiamo ‘riparare’ le ingiustizie.Tenendo conto della particolarità e della delicatezza dei contenuti e dei contesti, sotto ilprofilo metodologico, il progetto ha proposto un percorso di apprendimento mediante lacondivisione e il confronto, con particolare attenzione al coinvolgimento attivo dei par-tecipanti ai quali è stato offerto uno spazio in cui narrare e, per certi versi, rappresentarele proprie esperienze di ingiustizia e i propri ‘cammini di riparazione’. I formatori si sonoproposti come soggetti imparziali, garanti di un setting ‘sicuro e confortevole’ (cfr., dinuovo, Basic Principles), con il compito appassionante di facilitare la comunicazione frale persone, riconoscendo e valorizzando le diversità e la ricchezza di prospettive differenti.L’intero percorso ha rispettato scrupolosamente i principi di volontarietà, confidenzialitàe assenza di giudizio. Ed è proprio per rispettare la ‘confidenza’ pian piano maturata inquello che è diventato ‘un’ gruppo, che non ci sentiamo di entrare nei contenuti specifici,né tanto meno di pubblicare oggi quanto di prezioso è emerso nei laboratori.Nella casa di reclusione di Bergamo, Leonardo Lenzi (Cooperativa Dike, Università Catto-lica) e Sergio Manghi (Università di Parma), insieme a Co.lomba, hanno affrontato la giu-stizia riparativa a partire niente di meno che dalla ‘testata mondiale’ di Zidane: ma diquesto, se vorrete, vi racconteranno i protagonisti in una prossima occasione…

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È vedere la sofferenza provocata che inchioda alle proprie responsabilitàQuando le vittime hanno la forza di entrare in carcere, la pena acquista improvvisamente senso

di Ornella Favero

Voglio parlare del rapporto tra vittime e autori di reato partendo a ritroso, da oggi, daquello che significa, per tutti noi di Ristretti Orizzonti, la presenza in redazione, come vo-lontaria e non più come “ospite”, di Silvia Giralucci. È semplicemente straordinario, stra-ordinariamente difficile ma anche “rivoluzionario” discutere di carcere, pene,reinserimento assieme a una persona che è stata vittima di un reato come l’omicidio, unache, quando aveva tre anni, ha avuto il padre ucciso dalle Brigate Rosse. Per spiegare peròdevo fare un esempio, e poi raccontare anche di una “strana” accusa di buonismo. Par-tiamo dall’esempio: un giorno stavamo discutendo in redazione di un appello da lanciareper denunciare il sovraffollamento delle carceri e chiedere il rispetto dell’articolo 27 dellaCostituzione, noi tutti convinti che servirebbe un altro indulto, e pronti a dimostrare, datialla mano, che la recidiva dell’indulto non è stata affatto altissima come ha fatto crederetanta cattiva informazione, quando lei ci ha di colpo inchiodato alla responsabilità di im-parare a comunicare a partire dai bisogni e dai sentimenti veri delle persone a cui ci ri-volgiamo, che non sono affatto gli addetti ai lavori, ma gli studenti, i loro genitori, icittadini comuni. E ci ha inchiodato con una constatazione, priva però di qualsiasi astio:“Ma una persona che ha subito un reato e vede l’autore punito, magari, con tre anni didetenzione, non può serenamente accettare che quella persona grazie all’indulto nonentri nemmeno in carcere!”. È vero, forse non può, e anche noi, volontari e detenuti, cheil carcere non lo augureremmo a nessuno, dobbiamo fare i conti con un bisogno di giu-stizia che si accompagna al legittimo desiderio di vedere che chi ti ha procurato del male,e non ha fatto i conti con la tua sofferenza, una qualche dose di sofferenza la deve provarecomunque sulla sua pelle. Ma attenzione, io non credo affatto che quello che ha detto Silvia lo accetteremmo dachiunque, perché in realtà tra noi volontari, i detenuti e lei c’è una continua mediazionee un imparare reciproco, che nulla ha a che fare né con l’uso spregiudicato e massicciodelle vittime che fanno televisioni e giornali, né con le semplificazioni “democratiche” dichi fa delle sacrosante battaglie per la tutela dei diritti delle persone detenute, senza perònemmeno ricordarsi che esistono le vittime. No, noi prima di tutto ci ascoltiamo a vicenda,e questo è davvero quasi rivoluzionario, e poi consideriamo le ragioni di tutti, e ci speri-mentiamo continuamente nel cercare soluzioni che siano diverse dalle pene solo punitive,ma anche da quelle così inefficaci, che lasciano l’amaro in bocca a chi ha subito un reato.Silvia ci ha suggerito per esempio che sarebbe meglio poter parlare di “detenzione alter-nativa” e non di misure alternative, per spiegare che chi lavora in semilibertà è tutt’altroche libero, e nello stesso tempo per far accettare che quella misura può davvero renderepiù sicuri tutti, perché abitua gradualmente le persone che hanno commesso reati a ri-spettare le regole, a rispettare gli altri, a conviverci, e nello stesso tempo le controlla conseverità e rigore. E l’accusa di “buonismo”? Detesto questa parola, e non mi piace vivere in una società chepensa che la bontà fa schifo, ma la trovo addirittura ridicola se qualcuno, come è capitato,

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la rivolge a una vittima, accusandola, appunto, di non essere una vittima “autentica”, per-ché la vittima autentica non può mai essere “buona” con i delinquenti. A Silvia comunqueho detto: se qualcuno parla di buonismo per te, dimostra di non aver capito nulla. Perchéin carcere tu sei stata qualche volta cattivissima, capace di far vergognare anche tantepersone detenute, e questo è un passaggio fondamentale per il cambiamento. Mi viene in mente quello che ho sentito dire a uno di loro, Marino Occhipinti: bisogna ar-rivare a provare orrore per il proprio reato. E non è la galera che ha questo effetto, è ve-dere la sofferenza provocata che inchioda alle proprie responsabilità. Penso anche alracconto di Dritan, che ha ucciso per vendetta, ha accettato la galera senza nessun cedi-mento, e poi però gli è successo qualcosa di veramente sconvolgente: “Mi sono sentitodavvero male quando il padre del ragazzo che ho ucciso mi ha fatto sapere di avermi per-donato”. Sono sicura che lo schiaffo morale più grande che uno possa prendere è vedereche l’altro non vuole scendere al suo livello, quindi non vuole il suo male. Sarà buonismo,ma è una bella sfida, a cui Silvia sta dando un apporto fondamentale, con quel giusto im-pasto di “cattiveria”, attenzione, capacità di guardare il mondo “con gli occhi del nemico”che ci costringe a rimetterci continuamente e spietatamente in discussione e a non dareniente per scontato.

La mediazione pone chi ha fatto del male davanti agli esiti delle proprie scelteMa voglio anche rifare il percorso che, a partire dalla giornata di studi del 23 maggio 2008,“Sto imparando a non odiare”, ha portato al nostro incontro con Silvia e a un modo di ri-flettere sui reati “diverso”, diverso per molti detenuti e anche per molti volontari. Tuttoè cominciato con un messaggio che abbiamo ricevuto quando ancora stavamo prepa-rando quella giornata, e avevamo invitato a partecipare tante vittime del terrorismo,come Olga D’Antona, Manlio Milani, Andrea Casalegno, ma non lei, non la persona cheabita a due passi dal carcere di Padova. Segno anche questo che la nostra attenzione, lanostra memoria, la nostra conoscenza delle vittime del terrorismo erano abbastanzascarse. Silvia, a cui proprio a Padova hanno ucciso il padre (ho appena scritto “ha perso il padre”e poi mi sono accorta che le parole spesso sono sbagliate, perché in realtà gliel’hanno uc-ciso, non c’è nessuna perdita, c’è uno strappo, una ferita, una lacerazione IRREPARABILE)allora ci scrisse: “Non si diventa un ex assassino. Semplicemente perché io non diventoun’ex-orfana, perché il mio papà non torna. Piacerebbe anche a me che questa realtàfosse reversibile, ma non lo è. E anche chi ha saldato il proprio debito con la giustizia, do-vrebbe tener conto che rimane comunque per sempre una responsabilità verso le vit-time”. Lei mi hai costretta in questo anno a riflettere molto seriamente, e ad abbandonareogni certezza. Prima pensavo semplicemente che molti ex terroristi come quelli che hannoucciso suo padre, non sono mostri, e non è neppure vero che non si siano pentiti di niente,che vogliano solo esibirsi, sono anzi spesso persone che fanno un duro lavoro in ambitosociale con tossicodipendenti, malati di AIDS, soggetti con problemi psichici. Questo erail mio pensiero prima, e probabilmente non è neppure sbagliato, ma adesso credo di ca-pire qual è spesso il “peccato originale” che una vittima non può perdonare a chi com-mette un omicidio: è il protagonismo la brutta bestia, un protagonismo assoluto enegativo, che ha portato queste persone in passato a credere che le loro idee potesseroessere applicate anche passando sopra la vita degli altri, e oggi che sono impegnate nel-

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l’ambito sociale è un protagonismo forse anche positivo, ma sempre protagonismo, sem-pre desiderio di vedersi riconosciuti i propri meriti attuali con un ruolo di primo piano. Èquesto che è imperdonabile, il non capire che se hai un passato come il loro devi accet-tare di avere un presente oscuro, un presente di secondo o terzo o quarto o decimopiano. Alla giornata di studi “Sto imparando a non odiare”, Silvia ha affermato che chi ha uccisoqualcuno dovrebbe “camminare a testa bassa”, e quella frase è stata secondo me un po’la fotografia della complessità che deve esserci nella mediazione tra vittime e autori direato: lei ci ha infatti costretto a pensare che il reinserimento forse deve passare ancheattraverso parole “fuori moda” come umiltà, l’umiltà di capire che si può rientrare nellasocietà in punta di piedi.Dal 23 maggio 2008 la nostra redazione non è più stata la stessa, ma forse anche per leiqualcosa è cambiato. Penso a quello che ha scritto Marino Occhipinti, e mi pare di vederenelle sue parole tutto il senso di questo difficile “cammino di pace” che può vedere fiancoa fianco vittime e autori di reato: “Quando Silvia ci ha detto che lei ha sempre addossoil suo cappotto di dolore e che quindi un peso simile lo deve portare anche chi ha uccisoil suo papà, le ho risposto che la mediazione, anziché liberare quelle persone del loro far-dello, potrebbe costringerle a indossare un cappotto ancora più pesante, proprio perchéla mediazione non è e non deve essere intesa come un momento in cui fare la pace per“dimenticare” e mettere da parte quel che è accaduto, che forse è ciò che più “spaventa”le vittime, ma anzi ha lo scopo, senza alcun intento vendicativo, di porre chi ha fatto delmale davanti agli esiti delle proprie scelte. E chi, meglio delle vittime, può narrare il dolore e la devastazione che quelle scelte hannolasciato?”.

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Buone letture per “spezzare la catena dell’odio”

Questa non è una bibliografia sulla mediazione penale o sulla giustizia riparativa,sono solo dei suggerimenti di lettura. Sono libri che hanno accompagnato questolungo percorso di avvicinamento tra vittime e autori di reato, cominciato in car-cere, dunque sono libri recensiti da detenuti o raccontati dagli autori stessi ai de-tenuti.

Capitolo IX

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“Spingendo la notte più in là”Quella violenza che genera altra violenza e sempre dolore

Discutere in carcere di un libro come “Spingendo la notte più in là”, di cui è au-tore Mario Calabresi, il cui padre, Commissario della questura di Milano, fu uc-ciso la mattina del 17 Maggio 1972, può avere effetti dirompenti: perchéscardina alcuni luoghi comuni, come quello che all’odio si debba rispondere conl’odio, e perché impone di confrontarsi con un dolore “calmo”, composto, mai ur-lato, che forse fa più male a chi ha commesso reati dell’odio stesso, ma è unmale salutare, che costringe a crescere. E, in fondo, i detenuti, che hanno accet-tato di raccontare i sentimenti, che ha provocato in loro la lettura di questolibro, questa presa di coscienza personale la testimoniano bene.

Imparare a rinunciare all’odio e alla vendetta

di Elton Kalica,redazione di Ristretti Orizzonti

Ieri, nella mia cella surriscaldata dall’estate padovana, ho letto il libro di Mario Calabresiche racconta i momenti di dolore, di rabbia, di disperazione attraverso cui sono passatealcune famiglie che hanno, come denominatore comune, quello di essere vittime del ter-rorismo. Io sono straniero, e ho notato che quando si parla dei cosiddetti terroristi rossi, si fa rife-rimento a una categoria speciale di detenuti, perché loro hanno sempre studiato e scrittomolto, si sono interessati di giornalismo, di cultura, di politica. Personalmente non mipiacciono le categorie, non amo neppure dividere i condannati per categorie di reato, latrovo una separazione ingiusta che fa credere ad alcuni che il loro reato è meglio di quellodegli altri. Ma dopo aver letto questo libro, ho deciso di ammettere per un momento cheesista una divisione per categorie, e ho capito che questa divisione esiste anche tra le vit-time e crea una categoria speciale di vittime, che sono quelle del terrorismo. E alcune diloro però hanno qualcosa in più, che è la rinuncia all’odio e alla vendetta. Durante un incontro organizzato all’interno del carcere di Padova con Olga D’Antona, lavedova del giurista ucciso dalle Brigate rosse, con grande sorpresa ho sentito come lei, trale lacrime, rivolgendosi a noi detenuti, diceva di sentirsi fortunata perché non permettevache al suo dolore fosse unito anche l’odio. E oggi ho scoperto che lei non è sola, ma cheun’altra vittima del terrorismo, Mario Calabresi, ha escluso dalla sua vita l’odio, e ha decisodi vivere con un po’ più serenità nel cuore, senza dimenticare certo, ma sempre con di-gnità e con ragionevolezza.Non tutti i famigliari delle vittime ci riescono, ed è comprensibile: perdere un propriocaro è il dolore più grande che può colpire una persona. Ma io voglio consigliare a tuttidi leggere le testimonianze di Olga D’Antona e di Mario Calabresi, perché considero unagrande fortuna l’esistenza di queste persone straordinarie, soprattutto per chi, come me,si trova in carcere.

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Poter conoscere delle persone così disposte al dialogo ha aperto gli occhi a molti di noi.Chi ha commesso un omicidio si ritrova poi per anni a combattere con l’isolamento, conle difficoltà della vita carceraria, e può succedere che non pensi nel modo giusto al maleche ha fatto. Mentre ascoltare Olga D’Antona che ricorda la sua solitudine, o leggere MarioCalabresi che racconta la sua vita senza un padre, è una importante occasione per fermarsie riflettere. Tanti dei miei compagni detenuti lo hanno fatto, perché hanno visto materia-lizzarsi i famigliari delle proprie vittime, e hanno visto negli occhi il dolore che loro stessihanno causato. Ma io credo che questa riflessione debba essere fatta da tutti i cittadini,perché queste vittime hanno da insegnare cose che non si trovano da nessun’altra parte.Loro infatti non usano le proprie storie per chiedere vendetta, non lanciano allarmi sullasicurezza e non evocano la forca. Invece, con semplicità e intelligenza, raccontano quantodolore e quanta sofferenza c’è dietro ogni reato.

Quello che conta davvero è il ripudio della violenzaIo credo che quello che il libro di Mario Calabresi mi ha fatto percepire in modo chiaro èche la violenza in sé è spietata, e che porta morte, ma anche distruzione, perché distruggecomunque la vita di tutti i famigliari, sia di chi ha ucciso sia di chi è stato vittima. Allora, secondo me, il messaggio che Calabresi lancia non è tanto quello del perdono odella fratellanza, quanto il ripudio della violenza. Io mi guardo intorno, qui in carcere, evedo persone rovinate, cariche di anni di galera; vedo le loro famiglie distrutte che per-corrono centinaia di chilometri per andare a trovare il loro caro da un carcere all’altro, ingiro per l’Italia. E tutto questo perché tanta gente, chi per soldi, chi per un’idea, chi persoddisfare il proprio piacere, ha accettato, per raggiungere il suo scopo, di usare la vio-lenza. Ma vedo che anche chi vive fuori a volte non si rende conto della vera natura dellaviolenza, e non capisce che quando interiorizzi sentimenti violenti come la vendetta o ilfarsi giustizia da sé, alla fine rischi sempre di non riuscire a dominare i tuoi istinti, e ti lasciandare, facendo del male, facendoti del male. Allora si deve leggere questo libro anche per conoscere in ogni più piccolo dettaglio il do-lore delle vittime e per ricordarsi in ogni momento della vita che la violenza è la causa ditutti i mali, perché genera altra violenza e sempre tanto dolore. Mai giustizia. Per noi che la violenza l’abbiamo usata, discutere delle vittime crea un comprensibile di-sagio. É difficile, per esempio, ammettere che ogni tipo di reato porta con sé violenza, nes-suno escluso: lo spacciatore spesso si difende sostenendo che vendere droga non crea unaviolenza, ma la madre del ragazzo che per la prima volta la compra vedrà il rapporto fa-miliare deteriorarsi, e niente sarà più come prima; chi ruba, invece, spesso i reati li “mo-netizza”, li riduce al valore degli oggetti rubati, senza avere la percezione chiara che unapersona che subisce un furto perde soprattutto la sicurezza che provava prima, quandochiudeva la porta di casa e si trovava fra i suoi ricordi, i suoi affetti, con la sensazione diessere in un luogo amico. Fare i conti allora con le storie di vita di chi ha subito una vio-lenza credo significhi per noi capire fino in fondo che ci sono perdite che non si esauri-scono in una vita distrutta, ma i cui effetti continuano all’infinito, e sono fatti anche di tuttii piccoli momenti sereni della quotidianità di una famiglia che i figli del commissario Ca-labresi non avranno mai indietro.

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Un libro che insegna a rispettare le vittime

di Franco Garaffoniredazione di Ristretti Orizzonti

Per un detenuto, qualsiasi reato egli abbia commesso, durante la carcerazione arriva ine-vitabilmente il momento di confrontarsi con se stesso e con le proprie vittime. E quello èil momento più duro. Ritrovarsi a dover accettare le proprie responsabilità comporta un grande lavoro su sestessi e non sempre questo percorso porta ad una completa accettazione del danno ar-recato. La ricerca di una qualsiasi giustificazione, il nascondersi dietro inesistenti alibi ap-pare la scelta più percorribile, ma questo non aiuta la verità, e non fa star meglio.Leggendo il libro di Mario Calabresi, la cosa più straordinaria mi è sembrata il fatto chelui è una vittima che in certi momenti del suo racconto tenta anche di giustificare lo Stato,quello stesso Stato che a distanza di moltissimi anni ancora non è stato capace di appurarela verità su quel periodo terribile che furono i cosiddetti anni di piombo, che non è ancorain grado di svelare i retroscena che costarono la vita a uomini delle istituzioni, a cittadinicomuni, a operai, a sindacalisti, ma anche a giovani che sbagliando buttarono le loro vitein funzione di una idea. Ad esempio, sembra umanamente assurdo che la famiglia Calabresi non sia stata avvisatadella concessone della grazia a uno dei condannati per l’omicidio del loro caro, eppure,nonostante l’indignazione, nel libro troviamo parole come “ci sono cose che devono es-sere fatte nell’interesse generale, che può non coincidere con quello dei familiari delle vit-time, e se lo Stato, la Magistratura, il governo o il presidente della Repubblica pensano cheun atto sia corretto, necessario, motivato, allora non possono certo farsi paralizzare daidolori privati”. Se mai un domani dovessi incontrare Mario Calabresi, mi piacerebbe strin-gergli la mano, e ringraziarlo perché, a tanti colpevoli di reati, come il sottoscritto, il suolibro insegna molto, e spero che ci avvicini a capire e a rispettare le vittime e il loro doloreaiutandoci a non cercare giustificazioni, ma ad affrontare senza ipocrisia le nostre respon-sabilità.

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I silenzi degli innocenti e il chiasso assordante di certi colpevoliTestimonianze di vittime colpite due volte, la prima dal piombo, e la seconda dal silenzio,dalla solitudine, dall’emarginazione

di Giovanni Fasanellagiornalista, autore del libro “I silenzi degli innocenti”

“I silenzi degli innocenti” è un libro nato per contrapporsi al chiasso assordante di certicolpevoli. Io avevo un amico, si chiamava Maurizio Puddu, era, dico era perché è mortodi recente, un dirigente della Democrazia Cristiana a Torino. Io ero un cronista della re-dazione torinese dell’Unità, lui era una delle mie fonti privilegiate, e quindi era nato unrapporto di amicizia e di fiducia tra noi. Un giorno di aprile del 1977, mentre rientrava acasa verso l’ora di pranzo, un commando di brigatisti rossi gli sparò alle gambe, una pal-lottola gli prese l’arteria femorale, ma per fortuna quella pallottola non uscì, rimase lìbloccata, fece da tappo, e quei pochi minuti che la pallottola rimase lì furono provviden-ziali per Puddu, che così non morì di emorragia e dissanguato, perché quando una pallot-tola ti prende l’arteria femorale non ci si salva. Dopo diverso tempo, perché ci eravamo persi di vista, io intanto mi ero trasferito a Roma,tornando a Torino ero andato a trovarlo e gli avevo detto: “Maurizio, raccontami un po’la tua storia dopo l’attentato”. Lui allora ricordo che mi disse: “Ma sai, è strano, perchéquando sei in ospedale vivi quasi una situazione di euforia, sei quasi contento, perchéhai tutti gli occhi del mondo addosso a te, vengono le televisioni, vengono i giornalistivengono le autorità, il prefetto, i partiti, poi improvvisamente non viene più nessuno eresti solo, solo con te stesso, e allora che cosa succede? In quel momento, quando turesti solo con te stesso, succede…”. Aveva quasi pudore a dirlo, non voleva dirlo, mentreio, anche perché lo ritenevo un amico, mi sentivo in qualche modo autorizzato ad incal-zarlo, per capire cosa succede quando si resta soli. “Succede una cosa terribile, succedeche la solitudine ti fa cadere in una depressione profonda, e a volte hai anche voglia difarla finita, perché non si può vivere da soli un dramma di queste proporzioni. Ma io,dopo aver partecipato a tante assemblee contro il terrorismo, a tanti dibattiti pubblici, adun certo punto decisi che per vincere la depressione dovevo iscrivermi all’università elaurearmi in scienze politiche”. “Bene”, ho detto allora io, “e ce l’hai fatta?”, “No, no,adesso ti racconto che cosa è successo. È successo che andai all’università per iscrivermialla sede delle facoltà umanistiche in via Ottavio a Torino, e trovai ad attendermi due alidi giovani, e io con il bastone arrancavo, cercavo di salire quei gradini, e quei giovani dauna parte e dall’altra mi lanciavano monetine, mi lanciavano sputi, mi gridavano fascista,venduto, traditore. Io non ce l’ho fatta ad arrivare fino in fondo, ho ridisceso i gradini cheero riuscito faticosamente a salire e me ne sono tornato a casa, e ho dovuto cambiarecittà, addirittura ho dovuto andare a Trieste, a iscrivermi alla facoltà di Scienze Politichedi Trieste, dove finalmente sono riuscito a prendermi una laurea”.Ma chi erano quei giovani da una parte e dall’altra? Lui cominciò a snocciolarmi un elenco,un elenco impressionante: uno era diventato nel frattempo un regista, un altro era di-ventato uno scrittore famoso, un altro ancora era diventato un dirigente politico, beh ve-dete voi che siete detenuti pagate un prezzo per i vostri errori, e lo fate anche con moltadignità, perché avete il coraggio di organizzare iniziative come queste, ma quei giovani che

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sputarono addosso a un uomo colpito, a un uomo innocente colpito, non avevano pagatonessun prezzo per quello che avevano fatto, per l’appoggio che avevano dato alla lotta ar-mata e ai terroristi, e molti avevano poi fatto carriera.

Un libro che dà la parola alle vittime del terrorismoIo sono felice se uno che ha sbagliato e ha pagato un prezzo, riesce a tornare a una vitanormale, anzi noi dobbiamo fare di tutto per aiutarlo a ricostruirsi una vita normale, manon per chi non ha pagato alcun prezzo, e ha fatto carriera, e ha occupato i posti di poterein modo particolare nel mondo dell’informazione, della cultura e dell’industria editoriale,perché molti di quei giovani erano in posti chiave, avevano occupato gli spazi della me-moria da dove potevano decidere a chi dare diritto di parola e a chi no, mentre MaurizioPuddu era stato costretto a lasciare la sua città, prima colpito dalle pallottole, e poi umi-liato con il lancio delle monetine e degli sputi. Fu quel giorno in cui sentii quel racconto, 12 anni fa, che decisi che si doveva fare un libroper raccontare questa tragedia delle vittime colpite due volte, la prima dal piombo, e laseconda umiliate o colpite dal silenzio, dalla solitudine, dall’emarginazione. Io ho scrittouna decina di libri sulle vicende della violenza politica e sul terrorismo in Italia, belli obrutti non lo so, ma non è la qualità che adesso ci interessa, dieci libri, e questo, “I silenzidegli innocenti”, doveva essere il primo, invece è stato pubblicato per ultimo, perché nonsono riuscito a trovare un editore che pubblicasse un libro in cui, finalmente, si dava la pa-rola alle vittime del terrorismo. E quando, passando in pellegrinaggio da una casa editriceall’altra, il testo veniva dato da leggere per valutarlo, una casa editrice, non voglio fare ilnome naturalmente, perché non ha senso, il problema è puntare il dito contro una men-talità, che ha provocato danni e guasti, spero non irreparabili, dopo aver letto il progettoha detto: “Ma cosa vuoi che gliene importi ormai alla gente di queste cose, queste storiehanno ormai rotto i c.”. Il fatto è che quel progetto fu fatto leggere ad un ex simpatizzantedella lotta armata, e il responsabile di quella casa editrice era un altro che arrivava daquella esperienza, alla fine comunque per fortuna questo libro sono riuscito a portarlo inporto.“I silenzi degli innocenti” dunque, in contrapposizione al chiasso assordante dei colpevoli.Io, lo ripeto, non sono per negare la parola agli ex terroristi, anzi io stesso ho fatto unlibro con un ex terrorista, con il fondatore delle Brigate Rosse, e sono felice di averlo fattoperché da quell’incontro ho capito molte più cose di quanto io abbia capito leggendo igiornali italiani, o guardando la televisione, oppure leggendo i libri di tanti intellettuali. Iosono per dare la parola a chi ha qualcosa da dire, e soprattutto ha voglia di dirla, ma perdecenni, mentre alle vittime veniva negato persino il diritto di iscriversi all’università, ab-biamo visto la storia di quegli anni di piombo raccontata quasi esclusivamente dai prota-gonisti negativi di quella esperienza negativa, con versioni di comodo. Allora abbiamodato voce ai silenzi, i silenzi al plurale, perché ci sono vari modi di rimanere silenziosi, c’èper esempio il silenzio autoimposto, di quel signore che aveva perso una persona caranella strage di Piazza Fontana, che ha dato inizio a tutta questa storia. Quando lo chiamaiper chiedergli se potevo incontrarlo e intervistarlo, due o tre giorni dopo l’ultima sentenzache mandava assolti definitivamente tutti gli imputati, lui mi disse: “Ma che storia vuoleche le racconti?”. “Come che storia voglio lei mi racconti? La storia di un famigliare di unavittima della strage di Piazza Fontana, naturalmente”, gli risposi. E lui: “La strage di Piazza

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Fontana? Ma perché, c’è stata una strage in Piazza Fontana? No non sto scherzando, nonc’è stata nessuna strage, perché lo Stato italiano lo ha stabilito mandando per l’ennesimavolta assolti tanti responsabili di quella vicenda”.Ma ricordo anche il silenzio autoimposto, o in parte imposto, dell’altra vedova di PiazzaFontana. Quel pomeriggio del 19 dicembre, il marito era entrato per risolvere alcune que-stioni d’affari nella banca, ed era stato coinvolto nell’esplosione, aveva subito soltantodelle ferite, all’apparenza non gravi. Dopo un periodo relativamente breve in ospedale, ladonna lo aveva portato a casa, dove è iniziato un calvario durato 12 anni. Quell’uomo erasofferente, aveva dolori continuamente, allora la donna andava a bussare a mille porte,dai medici, dagli ospedali, chiedendo di essere aiutata a capire che problema aveva, an-dava a bussare anche alle porte delle autorità, del sindaco, del prefetto, e immancabil-mente le porte le si chiudevano in faccia, finché il marito, dopo 12 anni di sofferenzeatroci, morì, e quando lo aprirono gli trovarono le schegge a centinaia che aveva in corpotutte calcificate, e lui aveva vissuto per 12 anni con quel problema dentro di sé, e i medicinon erano stati capaci di capirlo. Quella donna, quando il marito morì, disse: “Finalmente,sì finalmente è morto, comunque una battaglia sono riuscita a vincerla, perché sono riu-scita a farlo dichiarare dopo tanti anni diciassettesima vittima della strage di Piazza Fon-tana”. L’intervista che le avevo fatto l’ho poi trasformata in un racconto, e quando lei l’haletto è stata male, ha avuto un attacco cardiaco, perché non aveva mai parlato, non avevamai raccontato a nessuno di questa sua storia terribile, e quando l’aveva vista nero subianco, aveva realizzato che era stata davvero una storia terribile e non aveva retto.

Abbiamo bisogno di parlare, hanno bisogno di parlare soprattutto le vittimeE ancora ricordo il silenzio scelto così, come soluzione estrema, di protesta nei confrontidi uno Stato che non riusciva a fare il proprio dovere, di un genitore di una povera donnadi Bari, che un giorno con l’intera famiglia aveva deciso di andare in vacanza non in mac-china, perché in macchina era pericoloso, ma avevano deciso di andare in treno, stavanoandando a Modena in treno e si sono fermati alla stazione di Bologna, ed erano scesi daltreno proprio nel momento in cui esplodeva la bomba. Alla donna morirono due figlie euna sorella incinta, e qualche tempo dopo il padre si suicidò gettandosi da un balcone, perprotesta verso uno Stato che non riusciva a trovare i responsabili di quella strage, e dopoche li aveva trovati, processati e condannati, oggi noi sappiamo che con ogni probabilitàsono perfino vittime di un errore giudiziario. E infine ricordo il silenzio, imposto da un ambiente ostile, di Adriano Sabbadin. Suo padreLino è il macellaio, ucciso nel suo negozio in provincia di Venezia, a Santa Maria di Sala,proprio sotto gli occhi del figlio che aveva 17 anni. Io andai a trovarlo a casa, e lui non riu-sciva a parlare, non aveva mai incontrato una persona che gli avesse chiesto: “Adriano, mivuoi raccontare che cosa ti è successo e come hai vissuto questa esperienza?”. Non riu-sciva a parlare, balbettava, l’intervista durò una giornata intera, e così, tirandogli fuori leparole a forza, è riuscito a raccontarmi una storia terribile di emarginazione sua e dellasua famiglia da parte di una comunità che li aveva fatti sentire perfino in colpa, perché glidicevano: “Se è morto, se è stato ucciso qualche cosa avrà fatto…”. Lui mi ha parlato dellasua solitudine, della malattia, perché c’è anche una malattia professionale, il cancro chespesso colpisce le vittime e i loro famigliari. Adriano Sabbadin mi disse anche che per 27anni non c’è stato nessuno in questo paese che gli abbia rivolto la parola, mai una volta

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che il 14 febbraio, giorno dell’assassinio del padre, il padre venisse commemorato conun fiore, una parola del sindaco, niente. E allora, qualche mese dopo l’uscita del libro,Adriano mi telefonò e mi invitò al suo paese, perché per la prima volta, il 14 di febbraio,il parroco e il sindaco avevano organizzato una commemorazione di suo padre. E io andaia Santa Maria di Sala, ci fu una commemorazione bellissima, c’era tutto il paese quelgiorno, il parroco, il sindaco, tutti a battersi il pugno sul petto e a cospargersi il capo di ce-nere.Ma l’esperienza che Adriano aveva vissuto, l’incapacità di entrare in rapporto con gli altri,aveva avuto anche un altro prezzo, lui in tutta la sua vita, da quando aveva 17 anni e gliavevano ammazzato il padre, non aveva mai avuto una donna, e aveva ora più di quaran-t’anni, mai avuto un rapporto con una donna, ma quel giorno mi chiamò e mi presentòuna donna con un bambino in braccio, e mi spiegò: “Giovanni, aver fatto questo libro, es-sere riuscito a raccontare questa storia, mi ha permesso di tornare lentamente a una vitanormale, ora mi sono sposato, ho un bambino. Alla fine, guardi, l’assassino di mio padre,Cesare Battisti (quello che poi scappò in Francia e venne coccolato da tutti gli intellettualifrancesi) vuole sapere una cosa? Che Battisti oggi sia in galera o meno non me ne importaniente, mi basta soltanto che, se proprio deve andare in televisione, dica semplicemente:ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia di Adriano Sabbadin. Del resto non mi importanulla, perché io finalmente sto tornando ad una vita normale, ho ritrovato la mia strada,riprendo a vivere dopo tanti anni di morte civile e di isolamento”. Abbiamo bisogno di parlare, hanno bisogno di parlare soprattutto le vittime, hanno biso-gno di parlare anche gli autori di reati, hanno bisogno di parlare anche i famigliari dei de-tenuti, perché c’è un dramma, c’è una tragedia sommersa, nascosta, di cui nessuno parla,che è quella dei tanti famigliari che hanno figli o congiunti in galera, come anche i fami-gliari delle vittime dei terroristi o ex terroristi, c’è un dramma anche in quelle famiglie, vitespezzate, vite bruciate anche in quelle famiglie. C’è bisogno di parlare di tutto questo, dirielaborare questa esperienza, per iniziare un percorso di guarigione.

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Strage continuaL’ignoranza che c’è in Italia sull’argomento delle vittime della strada è inaccettabile, inaccettabile perché noi siamo l’unico Paese in Europa che si nutre del principio di fatalità

di Elena Valdini,giornalista e autrice del libro Strage continua

Chiarelettere, 2008

“Io certifico il reale / Io sto attento alle parole / Non voglio sbagliarmi voglio / Sapere”.Ho scoperto questi versi (tratti da Poesia ininterrotta, di Paul Eluard) leggendo un libromolto importante, La città degli untori di Corrado Stajano.Ho scelto di provare a fare la giornalista non perché ritenessi di avere qualche cosa da dire:io avevo qualche cosa da cercare; volevo la verità. E volevo la verità perché quando ac-cadono eventi tragici sulla strada, ti tormentano i perché; e queste domande, questi per-ché, hanno cominciato a tormentare la quindicenne che ero, quando una notte ho persoi miei amici sulla strada. Ho scelto di fare la giornalista perché la “mia storia” venne scrittamale sul giornale: l’articolo, con la cronaca dello scontro, si chiudeva riportando impre-cisioni (che riguardavano la vittima) che, penso, si sarebbero potute sicuramente evitare. Lo scontro avvenne un sabato notte, seppi la notizia domenica pomeriggio e lessi il gior-nale davanti all’ingresso del liceo il lunedì mattina, e fu come sentire una ferita nellaferita. Avevo quindici anni e, inizialmente, mi sono rifugiata nelle parole: avevo bisognodi precisione; ero talmente stordita che tutto quello che era superficiale e impreciso miinfastidiva. Non ho mai saputo tenere un diario, però, in quei giorni, appuntai due pen-sieri: rifiutavo il principio di casualità (vale a dire che fosse stato un incidente), e poi eroterrorizzata dal fatto che, col tempo, avrei imparato a soffrire sempre di meno. Sapevo che il dolore si sarebbe trasformato, sapevo che avrei dovuto affrontare la suaelaborazione, ma se non potevo recuperare la mia storia, volevo almeno provare a rac-contarne altre di simili con la maggiore attenzione possibile, e così, appena ho potuto, hocominciato a fare questo mestiere. Non avevo qualche cosa da dire nemmeno quando ho cominciato a scrivere “Strage con-tinua”: in questo caso avevo molto da cercare, perché (ancora!) le imprecisioni e le ine-sattezze, meglio, l’ignoranza che c’è in Italia sulle vittime della strada è inaccettabile; èinaccettabile perché noi siamo l’unico Paese in Europa che ancora si nutre del principiodi fatalità.Non chiamiamoli incidenti: “incidente” è una parola che porta in sé una risposta, e infattisi dice: “è stato un incidente”, vale a dire è stato il caso, è stata una fatalità. Non è semprevero, e non lo è per la maggior parte dei casi: non posso considerare un incidente quelloscontro in cui una persona muore perché chi guidava era ubriaco, drogato, o perché cor-reva troppo; o perché non ha rispettato una precedenza, o ha “bruciato” un semaforo. Chiamiamoli scontri. È più corretto parlare di scontri stradali, e ho capito che non erocompletamente pazza (e sola), quando ho letto il programma d’azione europeo per la si-curezza stradale, redatto nel 2001 con l’obiettivo di dimezzare il numero delle vittimedella strada in Europa entro il 2010 – “una responsabilità condivisa”, come è scritto nelsuo titolo. Ora, per me che lavoro con le parole, leggere di “una responsabilità condivisa” mi ha fatto

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sentire in qualche modo a casa e, soprattutto, mi ha offerto un punto di partenza per la-vorare.Non potevo scrivere di una verità assoluta, allora ho cercato di mettere in correlazione ifatti, ho tentato di costruire una “catenina di verità”, chiedendola come Auden chiede“La verità, vi prego, sull’amore”, anch’io ho cominciato a chiedere “la verità, vi prego,sulla strada”; e l’ho chiesta alle persone che ho ritenuto le più preparate, le più intelligenti,le più attente a parlare di sicurezza stradale, le più lontane dalla retorica. In quel programma europeo è scritto che “è ora di smettere di considerare i morti e le fe-rite da traffico come conseguenze inevitabili dell’utilizzo delle strade: tali eventi sono pre-venibili”. Non è un modo per prendere il discorso alla lontana: in realtà siamo noi a essere in ri-tardo, e quindi abbiamo la sensazione che queste siano solo chiacchiere (finendo colpensare che l’unica soluzione sia l’inasprimento delle pene). Che cosa è davvero impor-tante? Il lavoro nelle scuole, parlo soprattutto per chi fa questo tipo di percorso e per i ra-gazzi che vengono coinvolti. La precisazione è fondamentale, e vale anche per i giornalisti. Noi dobbiamo lavorare consobrietà e scientificità, e dobbiamo utilizzare il sentimento, l’emotività, laddove ci per-mette di “accorciare le distanze”; e noi abbiamo notevolmente bisogno di “accorciare ledistanze”. Non pensavo, non credevo, ma ho scoperto che il linguaggio della verità passa attraversola testimonianza, e l’ho scoperto seguendo una delle lezioni in cui Roberto Merli (respon-sabile per la sede di Brescia dell’Associazione italiana familiari vittime della strada) incon-tra gli studenti delle scuole medie e superiori della sua provincia.Ci sono delle parole da difendere, alcune le ho anticipate.Sembrerà forse retorico chiudere così, ma c’è una parola che viene difesa molto poco equesta parola è “speranza”, è il diritto alla speranza: non esiste denuncia se non viene of-ferta composizione, non esiste denuncia se non vengono offerti gli strumenti necessari afar capire che i tempi sono maturi perché qualcosa cambi.Nello specifico, per il tema che mi riguarda, la risposta sta in quella “responsabilità con-divisa” di cui parlavamo prima: è il nostro senso civico, e richiede, in strada, un’autocriticaquotidiana.A chi sente parlare di carnefici e vittime, a chi sente parlare di reati come l’omicidio, questisembrano discorsi distanti, lontani; si pensa capiti sempre agli altri.Provate allora a pensarvi in strada, nella vita di tutti i giorni, e vi renderete conto, visto chetutti usiamo la strada e quasi tutti guidiamo, di quanto il confine tra carnefice e vittimasia labile. E, aggiungo, di quanto sia necessario che anche i mezzi d’informazione ci parlinodi questo. Giornali, telegiornali, radiogiornali ne parlano soprattutto in termini sensazionalistici, la-crimevoli, discontinui, senza magari pensare che la notizia, l’indomani, verrà letta dal fa-miliare della vittima, così come dal familiare di chi ha provocato lo scontro. Ecco perchéprima dicevo che noi abbiamo bisogno di precisione e di sobrietà; precisione e sobrietàcon cui Roberto Merli ogni giorno parla nelle scuole.

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Lotta civile“Ho scelto di far parlare chi non ha mai la parola, e sono i famigliari delle vittime di tutte le mafie, che sono anch’esse stesse vittime”

di Antonella Mascali, giornalista di cronaca giudiziaria di Radio Popolare,

autrice di Lotta civile Chiarelettere, 2009

Pippo Fava, ucciso nell’’84 a Catania, io non l’ho potuto conoscere personalmente perchéero troppo piccola, ma siccome ero già fissata con il giornalismo è stato per me un esem-pio. Pippo Fava diceva: “Io ho un concetto etico del giornalismo, un giornalismo fatto diverità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità”. Questa frase io l’ho scolpita in testa, ogni volta che scrivo qualcosa o qualcosa va in onda,perché lavoro a Radio popolare, dovrebbe essere questo a muovere tutti i giornalisti,perché abbiamo una grossa responsabilità, che è quella di concorrere alla formazionedell’opinione pubblica. Ho scritto il libro ”Lotta civile” e ci tengo a dire che la prefazione è di Luigi Ciotti, presi-dente di Libera, perché volevo far capire che cosa significa vivere in questo Paese, con lapresenza della criminalità organizzata, che si chiami cosa nostra, ndrangheta, criminalitàpugliese, camorra, poco importa. Volevo farlo capire perché fino a quando ci saranno lacriminalità organizzata e il sistema mafioso in questo Paese, noi non saremo un Paesecon una democrazia compiuta.Per cercare di far capire questo a più persone possibile mi sono detta che la cosa migliorefosse ascoltare chi è vittima in prima persona di questa realtà tutta italiana nel mondo oc-cidentale.Quindi ho scelto di far parlare chi non ha mai la parola, e sono i famigliari delle vittime ditutte le mafie, che sono anch’esse stesse vittime, perché hanno le vite distrutte eppurehanno questa forza straordinaria di trasformare il loro lutto, il loro trauma, il loro dolore,in impegno civile. Hanno la mia ammirazione personale e sconfinata, perché io ho toccatocon mano, stando molto con loro, che cosa vuol dire avere un trauma di quel genere.Daniela Marcone, la figlia del direttore dell’ufficio registro, ucciso a Foggia a metà deglianni novanta, mi ha detto: “Mio padre non è morto per un incidente, non è morto per unamalattia, è stato ucciso da un altro essere umano, lui che era un filantropo, e questo nonriesco ad accettarlo.”Molti famigliari di vittime di mafia non hanno avuto neanche giustizia, penso a MauroRostagno, ucciso vicino a Trapani nell’’88, non c’è stato uno straccio di processo neancheper gli esecutori materiali, sua figlia Maddalena Rostagno, che ho intervistato, mi hadetto, “Per me lo Stato è stata la polizia che è andata ad arrestare mia madre con l’accusadi favoreggiamento nell’omicidio di mio padre, oppure la polizia che viene a casa mia perperquisirla”, lei era una ragazzina.Un grande problema anche dei famigliari delle vittime di mafia è la solitudine che hannosubito in tutti questi anni, rispetto alle istituzioni, perché, come mi dicono tanti di loro,dopo i primi due giorni spariscono tutti.Se non ci fosse stato quello che viene definito un sacerdote di frontiera, secondo me sem-plicemente una persona straordinaria come Luigi Ciotti, in questo Paese i famigliari di vit-

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time di mafia non avrebbero avuto neppure un sostegno anche psicologico, che mancadel tutto.Volevo approfittare, nel senso buono del termine, della presenza in questa giornata diBenedetta Tobagi e Silvia Giralucci per parlare di una cosa che sta molto a cuore ai fami-gliari delle vittime della criminalità organizzata, che è il riconoscimento da parte delloStato dell’uguaglianza delle vittime del terrorismo e delle vittime di mafia, così come deifamigliari delle vittime di terrorismo e di mafia, perché non ci debbano mai più essere vit-time di serie A e di serie B. Tutte queste persone sono state uccise perché hanno fatto il loro lavoro e sono state uc-cise anche per ciascuno di noi. Ma vorrei molto che ci fosse, oltre alla giornata per ricordare le vittime del terrorismo,anche la giornata delle vittime di mafia e dei loro famigliari che vogliono un riconosci-mento da parte dello Stato.Questo chiaramente non è sufficiente per combattere la mafia, però penso sia un segnaleimportante. Mi ha detto Stefania Grasso, figlia di Vincenzo Grasso, ucciso a Locri, perchécommerciante che si è rifiutato di pagare il pizzo: “Una delle cose che più ferisce noi fa-migliari delle vittime di mafia è che lo Stato fa differenza tra le sue vittime e la criminalitàorganizzata per le sue vittime non fa differenza, e questo è inconcepibile”.

I famigliari delle vittime della criminalità organizzata credono molto nel recupero dei giovaniPassando ora alle testimonianze dei famigliari delle vittime della criminalità organizzatache vanno in carcere, volevo prima di tutto dire quanto sia difficile per loro, solitamentevanno nelle carceri dove ci sono detenuti minori, perché per loro è più “semplice”, cioècredono molto nel recupero dei giovani, degli adulti meno, però c’è una specificità in que-sto caso, vorrei che la capissero soprattutto gli ospiti detenuti: i detenuti per associazionemafiosa, pensate a Toto Riina, Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano, per citare quellipiù conosciuti, Schiavone detto Sandokan, e sperare in un loro recupero, lo dico qui senzaipocrisia, perché questa è una giornata in cui ci si dice le cose in faccia, è veramente im-possibile, per questo i famigliari che racconto in questo libro credono molto di più nel la-voro con i giovani, per toglierli dalla strada e far sì che non siano la manovalanza dellacriminalità organizzata. E tutto questo lo fanno nonostante la rabbia e il dolore, per esempio Elena Fava, la figliamaggiore di Pippo Fava, mi dice: “Io sono madre e dico che la cosa peggiore che possa ca-pitare ad una persona è subire la perdita di un figlio, se in più il figlio viene ucciso, la suascomparsa ti fa impazzire, se penso al dolore sordo di mia mamma e di mio nonno, se ri-cordo mio nonno piegato in due da un pianto irrefrenabile ai funerali di papà, per un mo-mento penso che vorrei fare del male a Santapaola e a Ercolano, in tutti questi anni holavorato su me stessa per non odiare, ma la rabbia c’è e non la puoi cancellare, la puoi solotrasformare in positivo, in lotta per cambiare la realtà”. E poi Dario Montana, che è il fra-tello del commissario Beppe Montana, capo dalla squadra catturandi di Palermo uccisonel 1985, lo scorso luglio in occasione dell’anniversario dell’uccisione del commissarioMontana, Dario e Gigi Montana sono entrambi fratelli del commissario ucciso, si ritrovanodavanti una delle persone che è stata condannata per favoreggiamento per l’omicidio diBeppe Montana, che vuole parlare con loro, e Dario non gli dà un pugno, non gli sputain un occhio o lo caccia via, lo ascolta, questo mi ha molto colpito.

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E gli ho chiesto allora, non per pruderie, per curiosità morbosa, ma perché volevo capirecom’è che ha avuto la forza di trovarsi di fronte a uno dei carnefici di suo fratello e di ascol-tarlo, mi ha risposto cosi: “So la differenza che c’è tra un Toto Riina e un Antonio Orlando,(che è il signore in questione), le persone spesso non possono scegliere quando vivono go-mito a gomito con la mafia, ciò non toglie che sia stata sacrosanta la condanna per favo-reggiamento, l’averlo ascoltato non ha nulla a che fare con il perdono, io non perdononessuno, ma sono differente da loro. Aver ascoltato Orlando non è stato più doloroso chesentire colleghi di mio fratello, magari diventati questore o prefetto, che mi hanno detto“glielo dicevo a Beppe che doveva stare più calmo” e io penso che gente come loro abbiacontribuito all’uccisione di mio fratello”.Il problema della lotta alla mafia, il fatto che io abbia voluto intitolare questo libro “Lottacivile”, vuol dire che ancora siamo in una fase di lotta, perché se il terrorismo nella sua so-stanza, nella sua quasi totalità, per fortuna è stato sconfitto, questo è avvenuto perché loStato ha voluto sconfiggerlo, perché c’è stata la volontà politica e la consapevolezza e la ma-turità della società civile.Per quanto riguarda la lotta a tutti i tipi di mafia, questa volontà politica e istituzionale c’èa fasi alterne, solo quando c’è un morto ammazzato, “eccellente” all’anno, come dicevapurtroppo Giovanni Falcone, e poi perché ci sono le connivenze di settori della politica, delmondo economico con chi fa parte della criminalità organizzata, e ancora perché c’è unasocietà civile, che solo in una parte ancora minore vuole davvero la sconfitta della crimi-nalità organizzata, quindi la cosa è più complessa in questo senso, ecco il perché delle pa-role di Dario Montana.Tra l’altro Dario Montana è uno dei famigliari di vittime di criminalità organizzata che favolontariato nel Carcere di Catania con i ragazzi e a questo proposito volevo dire che ne hoconosciuto uno a Napoli, alla giornata della memoria e dell’impegno organizzata dall’as-sociazione Libera a Napoli, userò un nome di fantasia, Giovanni. Giovanni, che ha un pas-sato di rapinatore, uno zio all’ergastolo, un altro zio che deve scontare una condanna peromicidio, ha avuto proprio una trasformazione straordinaria, da quando ha partecipatoanche a questa giornata a Napoli, intanto è diventato amico del figlio di una vittima dellacriminalità organizzata e questa la trovo una cosa straordinaria.A un certo punto ha preso il pass di Libera, se lo è messo al collo e ha cominciato a fare vo-lontariato anche lui, voleva partecipare attivamente per organizzare, non so portare lesedie, dove c‘era bisogno, distribuire pasti e cose del genere, poi ha voluto leggere il libroche ho scritto, per capire. In tutto questo non mi ha mai rivolto la parola per giorni interi,mi mandava solo dei messaggi per interposta persona.Ad un certo punto invece me lo sono ritrovato ad una presentazione del libro, si è portatodietro un suo amico, diciamo del suo ambiente di origine, ed è una delle cose che più miha commosso in assoluto.Quando è tornato nella sua città la prima cosa che ha fatto è stata cominciare a cercarsi unlavoro, appena finisce la pena alternativa dovrebbe fare l’elettricista, nel frattempo è se-guito da Dario e dagli altri. Questo lo dico perché è giusto che si dicano anche le cose po-sitive ed è giusto far capire che se ognuno di noi fa, nel proprio piccolo, secondo le propriepossibilità, il proprio ruolo, la propria parte, le cose possono cambiare, anche se ci vuoletanto tempo, però come diceva Giovanni Falcone: bisogna fare le cose perché è giustofarle.Volevo poi leggervi anche una frase di una lettera di Viktor che era detenuto nel carcere di

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Nisida, a Napoli, adesso lavora in una cooperativa del nord, ma prima di trasferirsi havoluto partecipare alla manifestazione nazionale antimafia, ci teneva: “Alla fine della ceri-monia, (si riferisce alla cerimonia in cui ogni anno grazie a Libera viene scandito l’elencodelle vittime di tutte le mafie), è venuto il signor Lorenzo Clemente che mi ha stretto e miha riempito di pugni nello stomaco, all’inizio io non capivo, e pensavo che lui credesse chefossi stato io ad uccidergli la moglie. Quando poi mi ha abbracciato forte con le lacrime agli occhi e mi ha detto che avevo lettoil nome della moglie e che adesso avevo una grossa responsabilità, allora mi sono accortoche avevo sbagliato a capire.Anche il fratello di Roberto Antiochia, il signor Alessandro ci ha detto delle belle parole edè rimasto contento che noi abbiamo adottato suo fratello come vittima della mafia, siamorimasti anche noi contenti quando ci ha detto che anche lui ha adottato noi.Anche le altre persone che erano lì e avevano perso i loro cari, avevano negli occhi tantodolore ed io mi sono sentito tanto vicino a loro”.Uno dei progetti di legalità di Libera è quello di fare adottare una vittima di mafia ai ragaz-zini detenuti, poi alcuni hanno il permesso, in base a quello che dispone il direttore o la di-rettrice dell’istituto penitenziario, di venire a delle manifestazioni. Fra i volontari c’è anche Lorenzo Clemente, il marito di Silvia Ruotolo che è stata uccisanegli anni 90 a Napoli durante una sparatoria tra camorristi, è stata colpita da un proiettile,sotto gli occhi dei suoi figli. Francesco che teneva per mano ed aveva 5 anni, ha dovutofare tanta terapia psicologica fino all’anno scorso, adesso ha smesso, ha 18 anni ed è un ra-gazzone meraviglioso. Alessandra, che aveva 10 anni e ha scritto un tema incredibile pochigiorni dopo l’uccisione di sua madre durante l’esame di quinta elementare, adesso sta stu-diando giurisprudenza, ha 22 anni e vuole diventare magistrato.È anche lei impegnata in prima persona per la legalità, soprattutto con i ragazzi, e ha fattoun discorso in piazza del Plebiscito a Napoli quest’anno il 21 marzo, che è un esempio stra-ordinario di questo percorso duro, faticoso di chi è famigliare di vittima, percorso straordi-nario veramente in grado di segnare e cambiare persone anche con un passato duro, comequello di chi vive qui dentro.Per esempio Alessandro Antiochia, che è fratello di Roberto Antiochia ucciso insieme alcommissario Cassarà a Palermo nell’’85, va pure lui in carcere a fare volontariato e mi dice:“Questi ragazzi si sono resi conto che hanno sbagliato e che il carcere è terribile, adesso stu-diano lavorano all’orto e con la ceramica, imparano un mestiere, vogliono lasciare la droga,la malavita e i soldi sporchi. Non è facile cancellare un passato fatto di rapine, spaccio e per-fino omicidi, perché dopo gli incontri con noi tornano in cella, fianco a fianco con chi è ca-morrista e non ha alcuna intenzione di andare dalla parte giusta; vengono sottoposti ad unlavaggio del cervello, ogni volta noi dobbiamo verificare a che punto è il loro percorso di le-galità, a volte fanno passi indietro, ma recuperano. Per noi, anche se togliamo dalla stradasoltanto uno di loro, è una grande vittoria”.Concludo dicendo che questi famigliari, con cui sono in contatto, fanno tutti i giorni una bat-taglia per la legalità e la giustizia vera in questo Paese, che vuol dire anche giustizia sociale,perché se non c’è la giustizia sociale la mafia non potrà mai essere debellata.Anche se non hanno avuto la giustizia, quella con i processi e le condanne, oppure l’hannoavuta ma solo in parte, perché i mandanti non sono stati scoperti tutti, per loro la cosa piùimportante è che si creino le condizioni in questo Paese perché non accada più a nessunoquello che è accaduto ai loro cari e a loro stessi.

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O sono dei mostri, o sono mattiÈ così che si pensa quando succedono vicende come quella di Pietro Maso o di Erika e Omar, perché i contesti in cui queste storie avvengononon amano interrogarsi, se non dopo che le cose sono successe, su questi tipi di percorsi, e anche quando lo fanno, prediligono la soluzione facile

di Gianfranco Bettin, sociologo e scrittore

Eredi. Da Pietro Maso a Erika e Omar,Feltrinelli, 2007

Gorgo. In fondo alla pauraFeltrinelli, 2009

Parto dai casi analizzati nei due testi di cui sono autore, “Eredi. Da Pietro Maso a Erika eOmar” e “Gorgo. In fondo alla paura”. Nel primo caso, il caso appunto di Pietro Maso maanche quello di Erika e Omar, noi abbiamo a che fare con rei che fino a un minuto primaerano considerate persone normali, perbene, ragazzi a posto, ragazzi da cui non ci si sa-rebbe mai aspettati qualcosa come quello che infine hanno commesso. Nell’ultimo lavorodi cui invece mi sono occupato, appunto il delitto a Gorgo al Monticano, un paese nellaprovincia di Treviso, in cui degli stranieri, alcuni regolari e uno no, hanno orrendamenteucciso due anziani custodi di una villa dopo averli torturati per strappare a loro la possi-bilità di entrare nella villa medesima, abbiamo a che fare invece con persone che sonoconsiderate nel senso comune, in particolare sui media e quindi anche nel discorso pub-blico, pericolose, se non addirittura dei mostri, e che, durante proprio il percorso succes-sivo al delitto, sono state progressivamente riconsiderate come persone. Quindi dapersone a mostri, da mostri a persone, è un viaggio interessante, drammatico, che è ne-cessario fare per capire il quadro in cui siamo e per affrontare il tema della prevenzione,il tema cioè della conoscenza del quadro reale in cui ci troviamo e dentro il quale dob-biamo prevenirela possibilità che si creino nuove vittime e che si creino le condizioni percui qualcuno diventa appunto il mostro, diventa il nemico.Se parliamo anche di istigazione a delinquere, l’istigazione a delinquere che avviene amezzo discorso pubblico per l’appunto, potremmo considerarla in modo più ambiguo, inmodo più sottile all’interno di vicende come quella di Pietro Maso, di Erika e Omar. Vi-cende nelle quali personalità in via di formazione vengono spinte su sentieri che poi pro-ducono in quel caso, quel tipo di esiti efferati, in altri casi meno efferati, ma non perquesto non preoccupanti, per chi li vive e per chi li subisce, attraverso suggestioni, attra-verso l’incoraggiamento ad assumere atteggiamenti, l’acquisizione di valori o la quoti-diana iniezione di questo tipo di messaggio.Una sorta di istigazione a delinquere molto mediata, molto implicita, e che tale si rivelasolo nel momento della conclusione, nessuno per l’appunto avrebbe mai immaginato chenei casi citati, che qui userei solo per esemplificazione, per risparmiarci anche per ragionidi tempo discorsi più lunghi e una casistica più complicata, nei casi per l’appunto di PietroMaso, di Erika e Omar, ma anche altri, siamo di fronte a persone non riconoscibili comepericolose, se non dopo che hanno commesso il fatto, da chi gli stava vicino, e non rico-noscibili nella loro iniezione quotidiana di disvalori e di incoraggiamenti a perseguire un

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certo progetto di distruzione della vita altrui, spesso anche della propria, se non appuntodopo che l’esito si è compiuto.Questo ha a che fare con una idea di prevenzione che non riguarda in senso stretto atteg-giamenti criminali o pericolosi, per capirci anche rispetto ai discorsi sugli omicidi colposiper guida sotto effetto di alcol o sostanze, né Maso, né Erika e Omar alcuni per ragioni dietà, altri per indole, erano persone che amavano correre rischi sulla strada o che avevanocomportamenti devianti o a rischio di quel tipo. Né tantomeno erano persone pericolosein quanto erano abituate a commettere reati socialmente ritenuti pericolosi, anzi eranosocialmente ritenuti dei modelli, e a loro volta avevano dei modelli socialmente ricono-scibili e accettati come positivi nel loro contesto.Al centro di tali modelli vi era comunque l’oltranza nella ricerca del massimo soddisfaci-mento di bisogni, a loro volta impoveriti perché ridotti al possesso del danaro, o alla rea-lizzazione di una vita libera da ogni tipo di limitazione. L’irruzione del denaro comepossibilità, come oggetto del desiderio, anche in età adolescenziale, è una delle chiavi dilettura della vicenda per esempio di Maso, l’irruzione della vita libera da ogni forma dicondizionamento, da ogni forma di regolamentazione, anche all’interno dello stesso nu-cleo famigliare, è ciò che rivela la vicenda di Erika e Omar.Maso uccide per avere, Erika e Omar, soprattutto lei, uccide per voler essere, se volessimoridurre ad una specie di formuletta vicende che sarebbero altrimenti ben più complesse.Il problema in questi casi è di trovare come in senso lato politiche educative, nel sensospecifico la pratica reale educativa, può trasformare persone altrimenti normali, ragazzie ragazze normali, in mostruosi pericoli per sé e per gli altri.Questo è il punto che dentro a queste storie noi potremmo rintracciare, è uno dei compitipiù difficili, perché i contesti in cui queste storie avvengono non amano interrogarsi, senon dopo che le cose sono successe, su questi tipi di percorsi; non amano interrogarsi eanche quando lo fanno, prediligono la soluzione facile, o sono dei mostri, o sono matti,sono casi patologici. A volte naturalmente è anche vero, o c’è anche questo, ma sono pa-tologie che vengono scatenate da un modo normale di essere che in un contesto diffe-rente, più attento, non produrrebbe quel tipo di esiti.Attorno a ciò si stenta a ragionare, la riflessione avviene di solito sotto lo shock del mo-mento, ma appunto in forme che tendono a preservare e a sollevare dalle sue responsa-bilità la comunità e il contesto in cui tutto ciò avviene.

La vendetta non è mai considerabile come strumento di giustiziaViceversa in un caso in cui sia protagonista qualcuno che a priori è identificato come ne-mico, come il mostro, abbiamo esattamente il percorso opposto, la indisponibilità a con-siderare quelle persone “mostrificate” come persone sulle quali lavorare, e tra l’altroquesto impedisce di capire bene le dinamiche criminali e umane che portano a certi esitie a volte persino di risolvere il problema.Uno degli assassini di Gorgo al Monticano, esattamente nella Casa circondariale di Padova,malgrado la tutela, malgrado l’assistenza garantita si è in fine suicidato, in parte travoltodai sensi di colpa e dai rimorsi, in parte dalla paura di avere rivelato il nome di un com-plice, forse del più pericoloso dei membri del gruppo che ha commesso il duplice delitto,che infatti è rimasto impunito, e di averlo rivelato in forme poco significative dal punto divista giudiziario.

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Aver considerato quella persona come una persona, aver imparato ad interrogarlo nonsolo da un punto di vista giudiziario, ma a scavare dentro di lui e fare emergere tutta ladimensione umana, come abbiamo sentito nel caso della straordinaria testimonianza deldetenuto albanese, che ha rivelato la potenza del perdono, superiore ai fini di un cambia-mento rispetto a quella della vendetta, e forse rispetto anche a quello della giustizia stessain senso tecnico, aver assunto un approccio di questo tipo, probabilmente avrebbe aiutatoperfino a risolvere meglio e più compiutamente la vicenda giudiziaria. Certamente entraredi più nelle dinamiche che conducono alcuni su una strada alla fine della quale c’è il car-cere o la morte, o il guasto irreparabile che abbiamo sentito rievocare qui in tante circo-stanze, reintrodurre la dimensione umana e la dimensione sociale di queste questioni, neldiscorso pubblico, nello sguardo pubblico, ai fini della prevenzione certamente, ma ancheai fini di una comprensione più profonda della realtà, che è esattamente quella che aiutadi più, che arma di più a prevenire, è uno degli strumenti più efficaci per raggiungerel’obiettivo della prevenzione, ma naturalmente è anche la cosa più difficile.Prima parlavo dell’istigazione, in un certo modo subliminale, a delinquere che avvienenel caso della deformazione diseducativa, soprattutto nelle storie di giovani o giovanis-simi, come nei casi di Pietro Maso, Erika e Omar, ma l’istigazione a delinquere a volte ènetta, nel caso in cui si abbia a che fare con persone di questo tipo, come per esempiodopo il delitto di Gorgo al Monticano.Prima veniva citato lo stupro della Caffarella, in questo e altri episodi di questo tipo, l’isti-gazione a delinquere, cioè a commettere il linciaggio, a commettere la vendetta, nonviene sempre indotta come per esempio nel caso di Monticano in cui è stato senz’altrocosì, dai discorsi da bar, dal famoso uomo della strada, il che può anche essere in uncerto modo comprensibile. Ma molto spesso il famoso uomo della strada o chi chiacchieraal bar ha di fronte un microfono ed entra nelle nostre case, a quel punto non è più lachiacchiera volatile, che sporca il momento e basta, è qualcosa che resta inciso nell’im-maginario nostro, e diventa in un certo modo istituzionale, perché diventa ripetitiva negliorgani di informazione e spesso nei momenti di massimo e indiscriminato ascolto.Ma non è avvenuto solo questo, è avvenuto che autorità, esponenti delle istituzioni hannoassunto per esempio la pena di morte come proposta, ma soprattutto il linciaggio comeobiettivo e pratica sul campo, e questa reintroduzione di una formula cosi arcaica, cosibrutale nel linguaggio pubblico, poi anche politicamente legittimata, è stata soprattuttolegittimata dall’uso ripetuto che ne hanno fatto i media, che ormai infallibilmente ognivolta che accade un episodio di questo tipo buttano tutto ciò nel campo del discorso pub-blico, e quindi imbarbariscono nuovamente il linguaggio, o meglio, lo fanno regredire aquesta dimensione.Quindi la lotta culturale, che rappresenta oggi anche una forma di battaglia politica altaattorno al tema della persona mai riducibile a mostro, della vendetta mai considerabilecome strumento di giustizia, ha a che fare con condizioni molto peggiori di quelle di qual-che tempo fa e lo studio ravvicinato di casi come questo lo dimostra in una maniera per-fino sconfortante.

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Finito di stampare nel mese di gennaio 2010 presso la Tipografia Copylogos

Via Niccolò Tommaseo, 96B - Padova