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Roberto SavianoBacio feroce

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Copyright © 2017, Roberto SavianoAll rights reserved

© Giangiacomo Feltrinelli Editore MilanoPrima edizione digitale 2017

da prima edizione ne “I Narratori” ottobre 2017

Ebook ISBN: 9788858829974

In copertina: © Luke Sayer Tattoo.

I protagonisti di questo libro sono immaginari tanto quanto le loro vicendepersonali;

pertanto ogni riferimento a persone, a società o a esercizi pubblici realmenteesistenti

o esistiti che potesse essere tratto dalla lettura del libro è da considerarsipuramente casuale.

I fatti storici e di cronaca citati, nonché i soprannomi che fanno riferimento apersone, marchi o aziende,

hanno il solo scopo di conferire veridicità alla narrazione, senza alcun intentodenigratorio

o, comunque, pregiudizievole per il loro titolare.

Per il mio romanzo vale ciò che è scritto all’inizio del film Le mani sulla città:personaggi e fatti qui narrati sono immaginari,

è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce.

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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Bacio feroce

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A G., innocente ucciso a 17 anni.A N., colpevole che ha ucciso a 15 anni.Alla mia terra di assassini e assassinati.

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La paranza dei Bambini

MARAJA Nicolas FiorilloBRIATO’ Fabio CapassoTUCANO Massimo Rea

DENTINO Giuseppe IzzoDRAGO’ Luigi Striano

LOLLIPOP Vincenzo EspositoPESCE MOSCIO Ciro Somma

STAVODICENDO Vincenzo EspositoDRONE Antonio Starita

BISCOTTINO Eduardo Cirillo

SUSAMIELLO Emanuele RussoRISVOLTINO Gennaro Scognamiglio

PACHI Diego D’Angelo

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Non ti voltare, scappa Bambini con gli AK gridano “pappa!”.NTO’, Il ballo dei macellai

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Parte prima BACI

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Ce li mandiamo in un generico plurale, i baci. Tanti baci. Ogni bacioperò è a sé, come i cristalli di neve. Non è solo questione di comeviene dato, ma come sorge: l’intenzione che lo nutre, la tensione chelo accompagna. E poi come viene ricevuto o respinto, con qualevibrazione – d’allegria, di eccitazione, di imbarazzo – si accoglie. Unbacio che scocca nel silenzio o distratto dal rumore, bagnato dilacrime o compagno di risate, pizzicato dal sole o nell’invisibile delbuio.

I baci hanno una tassonomia precisa. Quelli dati come un timbro,uno stampo di labbra sulle labbra. Bacio passionale, bacio ancoraacerbo. Gioco immaturo. Dono timido. I suoi antagonisti: baci chiamati“alla francese”. Le labbra si incontrano solo per dischiudersi: unoscambio di papille e nodi, di umori e carezze con la polpa della lingua,nel perimetro della bocca presidiata dall’avorio dei denti. I suoi oppostisono i baci materni. Labbra che s’imprimono sulle guance. Bacid’annuncio di quanto seguirà subito dopo: l’abbraccio stretto, lacarezza, la mano in fronte per misurare la febbre. I baci paternisfiorano gli zigomi, sono baci di barba, pungenti, segno fugaced’avvicinamento. Poi ci sono i baci di saluto che sfiorano la pelle, e ibaci rattusi impressi di soppiatto, piccoli agguati bavosi che godono diun’intimità furtiva.

I baci feroci non sono classificabili. Possono sigillare silenzio,proclamare promesse, impartire condanne o dichiarare assoluzioni. Cisono i baci feroci che sfiorano appena le gengive, altri che si spingonoquasi in gola. Eppure i baci feroci occupano sempre tutto lo spaziopossibile, usano la bocca come accesso. La bocca è solo la pozza incui immergersi, per scovare se c’è anima, se c’è davvero altro arivestire il corpo oppure no – il bacio feroce è lì a scandagliarequell’abisso insondabile o a incontrare un vuoto. Il vuoto sordo, buio,che nasconde.

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C’è una vecchia storia raccontata tra i neofiti della barbarie, se lapassano gli allevatori clandestini di cani da combattimento: creaturedisperate, loro malgrado devote a una causa di muscoli e di morte.Narra, quella leggenda priva di riscontri scientifici, che i cani dacombattimento vengano selezionati alla nascita. Gli addestratoristudiano la cucciolata con gelida insofferenza. Non si tratta discegliere chi sembra possente, ignorare chi appare troppo magro,prediligere chi scaccia la sorella dalla tetta o individuare chi punisce ilfratello ingordo. La prova è un’altra: l’allevatore strappa il cucciolo dalcapezzolo prendendolo per la collottola e agita il musetto vicino allasua guancia. La maggior parte dei cuccioli gliela lecca. Ma uno – quasicieco, ancora sdentato, le gengive abituate solo al morbido dellamadre – tenta di mordere. Vuole conoscere il mondo, vuole averlosotto i denti. Quello è il bacio feroce. Quel cane, maschio o femminache sia, sarà allevato da combattente.

Esistono i baci e poi i baci feroci. I primi si fermano entro il confinedella carne; i secondi non conoscono limiti. Vogliono essere ciò chebaciano.

I baci feroci non vengono dal bene né dal male. Esistono, come lealleanze. E lasciano sempre un sapore di sangue.

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È nato

– È nato!– Come, è nato?!– Sì, è nato.Dall’altra parte silenzio, solo il respiro gracchiava sul microfono. Poi:

– Ma sei sicuro?Da settimane aspettava questa telefonata, ma ora che Tucano glielo

diceva, Nicolas sentì il bisogno di farselo ripetere, per convincersi chefinalmente era arrivato il giorno, per assaporarselo bene in testa. Eper farsi trovare pronto.

– E no, mo’ pazzeo! Te lo sto dicendo. È nato mo’ mo’, adda murìmammà, ’a Koala praticamente sta ancora in sala parto… Dentino nonsi è visto, sono venuto subito sotto l’ospedale.

– Sì, figurati, quello non tiene le palle per farsi vedere. Ma a te chite l’ha detto che è nato?

– Un infermiere.– E chi cazz’è chisto mo’? Aró è uscito st’infermiere? –, Nicolas non

si accontentava di informazioni generiche, stavolta voleva i particolari.Non poteva concedersi nessuna improvvisazione, niente dovevaandare storto.

– Uno che faticava col padre di Biscottino, Enzuccio Niespolo. Gli hodetto che ’a Koala è amica nostra e volevamo saperlo prima di tutti,quando nasceva ’a criatura.

– E quanto gli hai promesso? Nun è che dice strunzate pecché nunc’hé passat’ancora nisciuna cient’euro?

– No no, gli ho promesso che gli davo l’iPhone. Quello non vedeval’ora che sta criatura uscisse p’avé ’o telefono nuovo. Steva azzeccatoc’’a ’recchia ’ncopp’’a pancia r’’a Koala.

– Amm’a fà a volo allora. Domani, appena viene il sole.L’alba lo trovò vestito, pronto all’azione. Il letto su cui stava seduto

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appena sgualcito, non aveva dormito neppure un minuto. Chiuse gliocchi e inspirò profondamente, poi buttò fuori l’aria, un suono secco.Era il giorno. Doveva mantenersi lucido, non farsi risucchiare dairicordi. Aveva la sua missione da compiere, dopo ci sarebbe statotutto il tempo per il resto.

La voce di Tucano agì come l’interruttore che avvia la corrente. Sificcò la Desert Eagle nei jeans e fu subito in strada.

Tucano si era già infilato il casco integrale.– Ce l’hai il telefono? – gli chiese Nicolas infilandosi il suo. – È

ancora nella confezione, ’overo?– Maraja, è tutto a posto.– Allora andiamo a accattarci i fiori. – Nicolas si mise alla guida e

partì a velocità ridotta. Provava una calma che gli riscaldava tutto ilcorpo. Di lì a un’ora si sarebbe sistemato tutto. Capitolo chiuso.

– Ma che spacimma… – disse Tucano, – dicono che nonguadagnano e poi dormono sempre.

Le saracinesche del fiorista erano abbassate, altri chioschi nonsapevano dove trovarne e comunque bisognava fare in fretta, pensòNicolas. Poi inchiodò e il casco di Tucano cozzò contro il suo.

– Maraja, maronna…– La Maronna, appunto, – disse Nicolas e, spingendosi indietro con i

piedi, fece arretrare il motorino fino all’imbocco del vicolo. Protetta dauna gabbia in ferro che in quella fatiscenza brillava come oro,un’edicola votiva era illuminata da un faretto. Le foto di ex voto eimmaginette di Padre Pio quasi la coprivano, la Madonna, ma leisorrideva rassicurante, e Nicolas ricambiò il sorriso. Scese dal T-Max,le mandò un bacio, come gli faceva fare sua nonna da bambino, ealzandosi sulle punte sfilò da un vaso un mazzo di calle bianche.

– Ma la Madonna non si incazza? – chiese Tucano.– ’A Maronna non si incazza mai. Perciò è ’a Maronna, – disse

Nicolas, tirando giù la zip della felpa per accomodare le calle.Ripartirono sgasando. A quell’ora Pesce Moscio, come deciso, stavaper entrare in azione.

Appena dietro ai cancelli li aspettava l’infermiere; batteva i piedisull’asfalto avvolto in un piumino. Tucano lo salutò alzando una mano,

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e lui continuò a saltellare sul posto, anche se adesso a muoverlo nonera più il tentativo di scacciare il freddo, quanto la sottile paura chequei due in motorino con i caschi integrali non fossero lì perringraziarlo del favore.

– Allora purtateme a fà ’a sorpresa a’’a criatura, – esordì Nicolas.L’infermiere cercò di temporeggiare per capire che aria tirasse.

Rispose che non erano parenti, non poteva farli entrare.– Ma come, nun simmo parenti, – disse Nicolas, – mica mo’ i parenti

sono solo i cugini. Noi siamo parenti più parenti, perché siamo amici,siamo famiglia vera.

– Ora sta alla nursery. Tra poco lo portano alla madre.– È maschio?– Sì.– Meglio.– Perché? – disse l’infermiere per prendere tempo.– È più facile…– Cosa è più facile? – insisté.Nicolas ignorò la domanda.– Crescere, è cchiù facile se sei maschio o no? – intervenne Tucano.

– O forse è più facile femmina, almeno se sai chiavare arrivi addo vuo’tu?

Nel silenzio di Nicolas l’infermiere si convinse che avrebberoaspettato. Fece per allargare le braccia, come dire che non si potevafare nulla, erano le regole.

– Voglio veré ’o criaturo prima che va tra le zizze della madre. – Lavoce impaziente, carica di collera, lo colpì come una frustata e, primadi poter formulare una risposta, l’infermiere si trovò con la facciaspiaccicata contro la visiera del casco di Nicolas. – T’ho detto che lovoglio vedere, stu criaturo. Ho pure i fiori per la signora. Ora mi dicicome ci arrivo, – e con una spinta gli fece riguadagnare la posizioneeretta.

Le informazioni arrivarono con precisione, il tragitto era semplice.Allora Tucano prese la scatola dell’iPhone e la lanciò in aria, mentrel’infermiere, gli occhi al cielo fissi sulla traiettoria, si sbracciava con ilterrore che il telefono potesse cadere. Era così concentrato sul suo

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gioiello tecnologico che non si accorse del fumo nero e denso chesaliva a pochi metri di distanza, e forse neanche sentì il lezzo acre dicopertoni bruciati. Pesce Moscio era stato puntualissimo. Nicolas glieloaveva chiesto, anzi gliel’aveva ordinato. Voglio tanto fumo. Tutto devioscurare. Gli aveva spiegato che il gabbiotto dove stazionavano leguardie lo voleva vuoto, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era unostuolo di vigilantes all’inseguimento di un motorino. – Il diversivo,Pescemo’, – e Pesce Moscio aveva scelto una toilette del Policlinicovicina al gabbiotto. I copertoni li aveva rubati da un gommista quellastessa mattina e con un po’ di kerosene e un accendino sarebbe statouna grande festa di fumo tossico e puzza, avrebbe convogliato tuttal’attenzione verso quel bagno.

Intanto il T-Max varcava il cancello a passo d’uomo. Fino a quelpunto il piano aveva seguito una sua logica. Nicolas aveva calcolatotempi e possibili intoppi, e anche Tucano, facendo la sua partediligentemente, si era sentito un ingranaggio di questa macchina benoliata. Poi Nicolas aprì il gas e mandò all’aria ogni logica. Il mezzo siimpennò per salire la prima rampa, quasi come un cavallo che saltal’ostacolo, e rimbalzando gradino dopo gradino arrivò in cimaall’ingresso. Le porte automatiche dell’ospedale si aprirono e il T-Maxpiombò nella hall.

Al chiuso il motore sembrava quello di un Boeing. Ancora nonavevano incontrato nessuno, a quell’ora il via vai delle prenotazioni edelle visite non era ancora iniziato, ma la loro irruzione fece accorrereil personale dell’ospedale, che uscì dalle porte degli ambulatoriincredulo. Nicolas non ci badò. Cercava l’ascensore.

Entrarono nel reparto Nascite, accolti dal silenzio. Nessuno neicorridoi, non una voce né un vagito che potesse indicare la direzionedella nursery. Tutto il caos che avevano scatenato di sotto sembravanon aver intaccato la tranquillità del piano.

– Come cazzo si chiama ’o criaturo?– Ci saranno i cognomi, no? – rispose Tucano. Conosceva fin troppo

bene ’o Maraja per arrischiarsi a domandargli come pensava di usciredal budello in cui si erano infilati. Proprio quella era la forza di Nicolas,spingerti al limite senza fartene nemmeno rendere conto.

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Lasciarono il T-Max a ingombrare il corridoio. Lucido e nero, loscooter pareva un enorme scarafaggio fra quelle pareti color verdinotappezzate di poster che decantavano i benefici dell’allattamento alseno. Partirono di corsa lungo il corridoio alla ricerca della nursery.Tucano davanti, il casco ancora ben calato in testa, Nicolas subitodietro. Un’infilata di porte a destra e a sinistra, e il gracchiare delleloro suole sul linoleum.

Spuntarono su un atrio con due scrivanie vuote, oltre le qualisplendeva la vetrata della nursery. Erano tutti lì i bambini freschi divita, allineati, paonazzi dentro le tutine pastello; qualcuno dormiva,qualcun altro muoveva i pugni minuti sopra la testa.

Maraja e Tucano si accostarono, come due parenti curiosi di capirese il bambino assomiglia più alla madre o al padre.

– Antonello Izzo, – disse Tucano. La copertina azzurra con il nomericamato in un angolo si alzava e scendeva in maniera quasiimpercettibile. – Eccolo, – si voltò verso Nicolas, che se ne stavafermo, con i palmi sulla vetrata, la testa puntata verso quel neonatoche ora sorrideva, o così pareva a Tucano.

– Maraja…Silenzio.– Maraja, mo’ che facimmo?– Come s’accide ’nu criaturo, Tuca’?– Che cazzo ne so, mo’ ti viene in mente?Nicolas estrasse la Desert Eagle dalle mutande e con il pollice tolse

la sicura.– Secondo me è come quando si schiatta un palloncino, no? –

continuò Tucano.Nicolas spinse delicatamente la porta, come volesse usare la

gentilezza di non far troppo chiasso per evitare di svegliare gli altribambini. Si avvicinò ad Antonello, il figlio di Dentino, il figlio di chiaveva ucciso suo fratello Christian sparandogli alla schiena comel’ultimo dei traditori.

– Christian… – disse, a fior di labbra. Era la prima volta chepronunciava il suo nome dal giorno del funerale. Pareva vittima di unincantesimo, gli occhi neri fissi davanti a sé ma sprofondati chissàdove. Tucano avrebbe voluto prendere a pugni il vetro, urlare a

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Nicolas di spicciarsi, che quel figlio di infame doveva spararlo subito,immediatamente, e invece quello aveva appoggiato la bocca dellaDesert sul pancino ma il dito sul grilletto non si spostava. La pistolafaceva su e giù, piano, come se i polmoni di quella creatura fosserodavvero in grado di sollevare i due chili del ferro. Tucano si voltò acontrollare l’imbocco del corridoio e si accorse che nel tempo diquell’esitazione un’infermiera era apparsa alle loro spalle. Si stavaavvicinando rapida, imbracciando come una lancia l’asta di una flebo:– E tu che ci fai qua? –. Poi inquadrò Nicolas e prese a urlare: –Stanno arrubbando i criaturi! Stanno arrubbando i criaturi! –. Tucanola puntò veloce con la sua Glock e l’infermiera si bloccò all’istante, conl’asta a mezz’aria, però non la piantava di gridare.

– Stanno arrubbando i bambini! Si stanno portando via i bambini!Aiuto! Aiuto! – La voce sempre più stridula, come una sirena.

– Maraja, spara, fai ampress’, c’hanno sgamato, schiattalo… – MaNicolas adesso aveva anche piegato la testa di lato, come a osservaremeglio il figlio di Dentino e della Koala. Dormiva sereno, il respiroancora profondo e costante, nonostante la pistola: anche Christian –quando sua madre era tornata a casa dall’ospedale, dopo il parto –dormiva in quell’identico modo. Lei lo faceva sedere in poltrona eglielo metteva fra le braccia, e Christian continuava a dormire. Attornoad Antonello, invece, gli altri bambini presero a svegliarsi. In unattimo la nursery fu una bolgia, il pianto di un neonato contagiavaquello a fianco, un’onda assordante che riuscì a scuotere Nicolas dalsuo torpore.

– Stanno arrubbando i criaturi! Stanno arrubbando i criaturi! –continuava l’infermiera, e roteava l’asta, a guadagnare inerzia perscagliarla con più forza possibile.

– Maraja, spara, schiattalo ampress’! – urlò Tucano. L’infermieracontinuava ad avvicinarsi e lui non sapeva se stenderla con un pugnoin faccia, spararla per ferirla o per ucciderla. Non sapeva.

– Maraja, la situazione si sta facendo malamente, ce ne dobbiamoandare via da qua. Subito. Ma proprio ampress’ ampressa.

Nicolas si portò la mano sinistra sul tatuaggio che si era fattoimprimere sulla nuca, che gli desse la forza, che gli confermasseanche lì, davanti a un altro innocente, che quella era la cosa giusta da

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fare. Per sé, per sua madre, per la paranza dei Bambini. Perché quelloera il tempo della tempesta, e lui era la tempesta che si stavaabbattendo sulla città. Premette con forza la pistola sul corpo delneonato e anche Antonello iniziò a piangere.

Tucano era indietreggiato fino a sbattere con il casco contro lavetrata. – Chiattona, – diceva all’infermiera, – ti ammazzo, staiindietro. – Ma quella avanzava, e altre due infermiere, richiamate dallesue urla, erano sbucate dal corridoio. Appena videro la collega,cominciarono pure loro a urlare: – Uddio si stanno arrubbando icriaturi! Stanno arrubbando i criaturi!

– Indietro! Vi ammazzo! Vi ammazzo tutte! – urlava Tucano, e oratutto il suo corpo era appiccicato alla vetrata. C’era un solo modo peruscirne. Strinse la Glock anche con l’altra mano e mirò alla frontedell’infermiera con l’asta.

Bum.Un’esplosione. Poi silenzio. Tucano si guardò la mano che non aveva

fatto a tempo a sparare.Il proiettile infatti arrivò da dietro, infranse il vetro della nursery in

una pioggia di frammenti affilati, schegge che tintinnarono sul casco diTucano, brillarono sopra i camici delle infermiere che si coprivano ilviso con le mani, rimbalzarono sul soffitto, si conficcarono nelle paretie nel pavimento. Quando Tucano si voltò per capire chi aveva sparato,trovò Nicolas che teneva la Desert Eagle ancora puntata dove unavolta c’era la vetrata della nursery. Sul muro di fronte, in alto,campeggiava il foro dove era andato ad annidarsi il proiettile.

Le urla dei bambini, che per una frazione di secondo si eranointerrotte, ripresero disperate e Nicolas si riscosse con rabbia: – Via,via di qui.

Come all’andata, non incontrarono nessuno. Scesero dalle scalelarghe del Policlinico e poi da quelle che conducevano alla hall. LìNicolas aprì il gas al massimo per farsi largo tra vigilantes chearmeggiavano per estrarre la pistola e vigili del fuoco con le maschereal volto. L’ultima persona che schivarono fu l’infermiere che li avevafatti entrare, che però teneva gli occhi affondati nell’iPhone e non siaccorse di loro.

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Nicolas rientrò a casa, mentre la palazzina si svegliava. Sentiva ilrumore delle docce, i richiami ai figli, che si spicciassero emuovessero, che i cancelli a scuola non aspettavano il loro sonno.Solo casa sua era muta, e vuota. Sua madre era già alla stireria, ognimattina ci arrivava un po’ prima; e suo padre, quello se ne era andatosubito dopo la morte di Christian, era uscito con loro per il funerale enon era più tornato. Ma potevano farne a meno, non era lui chefaceva la differenza – non l’aveva mai fatta. Nicolas piegò la bocca inuna smorfia, lanciò le chiavi sul tavolo e accese il televisore. Il volumeera al minimo, pure il telegiornale non voleva saperne di spezzare quelsilenzio che sapeva di rimprovero. In coda ai servizi di politica locale,dallo schermo si affacciarono le immagini dell’ospedale, la vetrata infrantumi, le infermiere che portavano via dalle culle i neonati dai volticonvulsi, i segni delle sgommate sul pavimento. Bravata al Policlinico,recitava il titolo. Un minuto e il servizio era finito, lo spazio che sidedica a una coglioneria.

Raggiunse la cameretta, si sdraiò sul letto del fratello e intrecciò lemani dietro il collo, lasciando che le dita percorressero il nome cheaveva fatto tatuare: Christian. Una lettura braille meticolosa, avanti eindietro, e poi ancora, un giro sull’ovale della bomba a mano e dinuovo, lentamente, ricominciare. La bomba l’aveva voluta come quellache sul petto chiudeva il suo nome, “Maraja”, identica, una gemella.

Cos’aggio fatto? si chiese. Si ficcò i pugni nelle orbite e cominciò ascavare.

Il gatto col topo. Un gatto furioso alla caccia di un topo fantasma.Le piazze stavano andando bene. La coca girava. L’eroina di

Scignacane si vendeva. Il mensile delle estorsioni arrivava puntuale. Ilsole illuminava i territori della paranza dei Bambini, al centro di Napoli.Ma Dentino era ancora vivo, e Nicolas non riusciva a fare pace conquesta idea. Era come un mal di schiena che non passa, una carie chetormenta il sonno: l’infame era ancora in città, nascosto chissà dove.

Da cinque mesi si sfiniva in appostamenti continui. Aveva cominciatocol tendergli un agguato fuori dal cortile della parrocchia. Quelrettangolo portava ancora i segni delle loro partite a calcio. Poi avevapassato parecchie notti davanti al dentista dove Dentino aveva spesola sua prima mesata per sbiancarsi le arcate che il fumo e la droga

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avevano annerito. La casa dei genitori, dei nonni materni, quellipaterni, il parco di Capodimonte perché qualcuno aveva detto diaverlo visto lì, su una panchina, e quindi a Nicolas era sembrato logicotentare anche alla stazione. Barbone per barbone, cesso per cesso.Con il naso tappato aveva rivoltato quegli uomini sfiniti addormentatinei loro stracci. Alla casa dove viveva la mamma di Dumbo avevadedicato una settimana di continue imboscate, a qualsiasi ora dellanotte e del giorno, convinto che prima o poi l’infame avrebbe cedutoalla tentazione. Invece niente.

Il topo non era spuntato da nessuna parte, e allora dovevaschiacciare il topolino. Ma non ci era riuscito… come si accide ’nucriaturo?

– Basta, – urlò Nicolas, – basta. – Un solo movimento, il braccio chespazza via tutto. Santini, immaginette, della Madonna, di SanGennaro, di Padre Pio, foto di Christian alla prima comunione, incostume con lui su una spiaggia di cui non aveva ricordi. Contemplòl’ammasso di oggetti ai suoi piedi, poi si levò scarpe, pantaloni e felpa.Infine scostò la coperta e si infilò sotto le lenzuola, tenendosi leginocchia con le braccia. E si decise a fare quello che avrebbe dovutofare da un pezzo.

Cominciò a piangere.

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Sabbie mobili

Un nido di vespe. Nicolas le sentiva svolazzare intorno alla sua testae senza aprire gli occhi cercò di allontanarle con delle manate. Poi lacoscienza prese il sopravvento. Nicolas aprì un occhio. Le vespe? Ivecchi Star TAC che lui e la paranza usavano come telefoni usa e gettaper evitare di essere intercettati. Chissà da quanto sfrigolavano sullascrivania.

Si alzò di scatto. Aveva dormito tutta la mattina e parte delpomeriggio, ma il sonno non lo aveva ristorato. Si sciacquò la facciacon l’acqua ghiacciata, poi si calò il cappuccio della felpa sulla testa,come se così si potesse proteggere dal dolore che gli stava montandodietro la nuca. Una di quelle cefalee che si accaniscono su un puntopreciso, infinitesimale, e scavano, scavano come farebbe un sadicocon un trapano a punta fine. Da piccolo, quando aveva la febbre ostava poco bene di stomaco, Mena, sua madre, gli preparava acqua,limone e zucchero. Era il suo rimedio universale, con questo, diceva,ogni male se ne va.

Ora però Mena non c’era, e lui aveva pensato di spazzare via ildolore prima con il fumo, poi con una botta, alla fine aveva optato perun caffè forte e un messaggio in chat alla paranza: li voleva tutti alprivé, alle cinque in punto, c’era molto di cui discutere. Anche se didiscutere proprio non aveva voglia, e poi non aveva niente da dire.Voleva solo farsi investire dalle parole dei suoi, nella speranza cheavrebbero ricacciato indietro quella cosa che sentiva sotto il ronzio deltrapano a punta fine. Un grumo di impotenza e insoddisfazione di sé,che più restava da solo più continuava a crescere.

Il Nuovo Maharaja era in ristrutturazione. O almeno così Oscar, ilproprietario, ripeteva a chiunque si presentava davanti al locale ognisera. Embargo totale. Andava incontro a quelli che guardavano leimpalcature che nascondevano il bianco della facciata e, posando le

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mani sulla pancia molle, garantiva che alla riapertura avrebberotrovato un Nuovo Maharaja ancora più splendente. In realtà i “lavori diristrutturazione” consistevano in una mano di bianco e nella lucidaturadella pista da ballo, ma Oscar lavorava sull’attesa. Lavorava suimiraggi.

Per la paranza dei Bambini, però, il Nuovo Maharaja era sempreaperto, anche quando era chiuso.

Oscar vide arrivare il T-Max di Nicolas veleggiando a un’insolitavelocità di crociera, placida come quella delle navi che si potevanoammirare dalla balconata del Nuovo Maharaja. Lo osservòabbandonare lo scooter come un qualsiasi pezzo di ferraglia, e tiraredritto senza buttare uno sguardo né su lui né sulle due ragazze concui stava discutendo: bionde, alte, giovanissime.

– Maraja, – cercò di trattenerlo, – vieni che ti presento il nuovocorpo di ballo. – Ma Nicolas non lo sentì neppure, voleva solo arrivareal privé, stendersi sul divanetto e possibilmente starsene un po’ albuio prima dell’arrivo degli altri. Provò a mettere in ordine le priorità,dopo quel suo raid mancato all’ospedale. Parlare con Tucano? Farglicapire con le buone o le cattive che non doveva spifferare nulla aglialtri di quello che era accaduto. Oppure affrontare Mena, dirle delfallimento? Perché non c’era un’altra parola per definirlo. Forse giàsapeva tutto, forse lei non si era lasciata sfuggire quel servizio al tgregionale.

Il primo ad arrivare fu Lollipop, seguito da Briato’. Il suo vecchioamico del calcetto zoppicava ancora vistosamente. Dopo la rottura inquattro parti, la gamba non era più tornata a posto e il dottore gliaveva detto che sarebbe rimasto per sempre zoppo, ma lui non se nefaceva un cruccio e, anzi, accentuava la camminata “alla De Niro”.Nell’antro buio del privé non riuscirono a individuare subito Nicolas,che se ne stava con le mani premute contro le tempie. Era sul suotrono, così che gli altri lo vedessero dove doveva stare, le luci perònon era riuscito ad accenderle.

– Maraja, dove stai? – gridò Briato’.– Sto qua, – disse Nicolas, – che urlate a fare?Lollipop si accasciò sul divanetto, mentre Briato’ illuminava a giorno

il privé. Un sole bianco esplose dietro gli occhi di Nicolas.

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Bastò un’occhiata perché Briato’ facesse tornare il buio.A poco a poco, arrivarono tutti. L’ultimo a presentarsi fu Drago’, che

si accomodò accanto a Drone, ricomponendo l’emiciclo che proprio lìaveva sancito la distribuzione delle piazze. Erano sagome incolori, piùo meno dense a seconda della quantità di luce che muovendosiriuscivano a catturare. Solo Nicolas, affondato nel trono, sembravaaver perso i tratti del suo corpo elastico.

Biscottino non riusciva a tenere ferme le mani. Frusciavanonell’ombra, accompagnando le sue parole: – Maraja, che è tutto stobuio? Oscar non paga più le bollette?

– Quello le bollette non le ha mai pagate, – intervenne PesceMoscio, – gli hanno fatto l’allaccio col condominio qua vicino. L’energiala prende là.

Le risate erano spilli che si piantavano nel cranio di Nicolas, ma nondisse niente. Ago dopo ago, i suoi fratelli lo avrebbero guarito.

– Ma le due femminone bionde fuori le avete viste? Oscar deveusare la scala per chiavarsele… – disse Lollipop.

Altre risate, altri spilli, e già si sentiva un po’ meglio. Era il solitorituale di cui lui era da sempre il cerimoniere: prima il cazzeggio, poi lamarea di battute rientrava, e alla fine si arrivava alle cose importanti.Le piazze. I soldi. Il loro regno.

All’inizio c’era stato un boom. Quei prezzi così bassi non si erano maivisti, a Forcella pareva sempre Natale. Arrivavano tutti nel quartiere,anche dalla provincia, la roba della paranza dei Bambini finiva in unamattinata e allora bisognava organizzare il rifornimento. Tutto erafilato liscio, e la clientela si era trasformata in una folla. Drone si eraautonominato logista dell’operazione, governava i flussi. Si eraprocurato un contapersone manuale, di quelli che usano le hostessper verificare gli imbarchi, e correva da una piazza all’altra. Tlac, tlac,tlac. Si piazzava in un angolo e a ogni persona che passava percomprare faceva calare il pollice. Tlac. Quando i clienti erano troppi,faceva in modo di interrompere la fiumana oppure attivaval’approvvigionamento. Quel contapersone era diventato un’estensionedella sua mano, e anche quando stava al Nuovo Maharaja capitava disentire quel tlac, tlac, tlac.

– Da me non ci sta più niente da fare, – disse Tucano, – non li

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tengo più. Vogliono vendere di nuovo la roba del Micione. Non riescoa tenere fermi gli spacciatori.

L’euforia era scemata nel giro di tre mesi. La roba della paranza deiBambini era andata a ruba, ma adesso stava finendo. Così ai gestoridelle piazze era passata l’ubriacatura e avevano deciso di riabbracciareil vecchio fornitore, che ne aveva approfittato inondando il mercatocon tonnellate della sua roba.

– Anche a San Giorgio, – disse Lollipop. – Fino a settimana scorsasai come mi chiamavano? Don Vince’! Capito? E mo’ che la roba stafinendo sono tornati a fare come hanno sempre fatto. Parlano colMicione e noi torniamo a essere i frati del cazzo.

– Lollipop, – disse Drago’, – il problema tuo è che non ti ingegni. –Si avvicinò a Lollipop per allungargli un pizzicotto sulla guancia maquello si scostò e i due si allacciarono in una zuffa morbida, senzafoga, tanto che a Nicolas quei corpi ricordarono per un attimo unvideo di gattini – o erano cuccioli di orso? – che aveva postato Letizia.Come si erano appiccicati, velocemente i due si staccarono e Drago’tornò a sedersi. Con voce rotonda, gonfia di soddisfazione, raccontòche da lui, a Vicaria Vecchia, i clienti doveva cacciarli da tanti erano.

– Ho raddoppiato il prezzo, – spiegò, – la merce se ne va via piùlentamente e gli spacciatori così se ne stanno tranquilli.

– ’Azzo, sentitelo, l’imprenditore!– Hai scassat’i ciessi!– Eh, ma accussì guadagnano di meno, – disse Tucano.– Guadagnano di meno, magari cchiù lentamente, – disse Drago’, –

però evitano di stare tra l’incudine e il martello.– Ua’, gruoss’, Drago’, – disse Biscottino, – quanno si ’ncudine

statte, ma quanno si martiello vatte. Ua’, la grandezza vesuviana.Nicolas, se avesse aperto bocca, avrebbe detto che non conveniva

tanto scherzare. Erano nelle sabbie mobili e stavano affondando. Unapiazza dopo l’altra, sarebbero caduti tutti, chi prima chi dopo. Forsequalcuno avrebbe mantenuto il controllo su un paio di strade, masarebbe rimasto strozzato tra la potenza di fuoco del Micione e ildestino che spetta a chi non ha mai visto nemmeno la faccia delproprio fornitore. Le scorte dell’Arcangelo erano agli sgoccioli. Losapeva Nicolas e lo sapevano anche gli altri, ma nessuno aveva il

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coraggio di dirlo. Certo, l’eroina di Scignacane continuava ad arrivareregolare, ma da sola non poteva bastare a tenere in piedi la fedeltàdelle piazze della paranza.

Questo avrebbe dovuto dire, ma il mal di testa non mollava la presa.Allora taceva e si limitava a controllare Tucano, che teneva gli occhibassi. Stava aspettando il suo turno per rivelare cosa non era statobuono a fare in quell’ospedale, per denunciare la sua debolezza?Sarebbe bastata una parola e addio Maraja. Io lo farei, pensava,perché Tucano non parla? Non desiderava anche lui una paranza tuttasua?

– Maraja, – disse Drago’, – Tucano e Lollipop tengono ragione. Laroba sta finendo. Questi tra poco li perdiamo.

– Ammazziamoli tutti, – intervenne Briato’. – È così che funziona,no? Quando uno vende la roba di un altro senza essere autorizzatodeve essere sparato.

– Le piazze sono così, – disse Drone, – o vendi la droga di un boss oa quel boss gli devi pagare la tassa. A noi non ci stanno dandonessuna tassa e la droga sta finendo.

– Nico’, chiamiamoli tutti al locale e gasiamoli, – propose Briato’,scatenando le risate della paranza. Nicolas riuscì solo a fare unasmorfia, ecco che ripartivano a cazzeggiare.

– Io e Maraja, – prese a raccontare Pesce Moscio, – ce ne stavamolà, no, sapete?, a piazza Bellini. C’erano questi chiattilli, con delle polo.Ci fissavano, io avevo già la mano sul ferro. E poi questi stronzetti siavvicinano, io guardo Maraja e lui alza le spalle.

– Pesce Moscio, – disse Drone, – che stai raccontando? Mi sembriPiero Angela!

– Uno dei due dice che è di un tg, – proseguì Pesce Moscio come seniente fosse, – e ci chiede se ci può intervistare, ’overo, Maraja?

Le sette sagome si voltarono verso Nicolas, ma dal trono non arrivòuna parola. Drago’ si alzò, dribblò il braccio di Lollipop, che avevaintuito le sue intenzioni, e alzò gli interruttori del privé.

Nicolas ’o Maraja se n’era andato.

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Basta chiagnere

A Forcella ci tornò portando il T-Max come all’andata. La manopoladel gas aperta a metà, mai una tacca sopra o sotto, qualche colpoleggero al freno quando necessario. La riunione al Nuovo Maharajanon era servita a molto, se non a rassicurarlo del fatto che non cisarebbe stato nessun golpe. Quasi che i suoi fratelli non si fosseroaccorti che qualcosa in lui non andava, che si sentiva come fuorifuoco. Peggio: si sentiva come in quel vecchio film che gli aveva fattovedere il professor De Marino, L’invasione degli ultracorpi. Presto sisarebbero accorti che di lui non era rimasto che un guscio vuoto.Guidato dall’abitudine, il T-Max svoltò su via Vicaria Vecchia, poitracciò una morbida curva a destra. Via dei Carbonari. Era arrivato.

Ma che spacimm’’e pensiere sto facenno, pensò Nicolas. Era colpa diquel grumo che gli si era piantato dal risveglio dietro la nuca, e lotormentava con un sentimento che nella vita non aveva mai provato.La sensazione di non esser più buono a fare niente.

Sguardo a terra, parcheggiò lo scooter e uscì dal vicolo a piedi. Daquanto non camminava per la sua città?

Senza rendersene conto, arrivò in via Mezzocannone. Un paio diuniversitari lo chiamarono per nome. Chissà, forse vecchi clienti deitempi in cui spacciavano per Copacabana. Li ignorò, tirò dritto, ormaiForcella era alle spalle e con lei il murales di san Gennaro. Allungò ilpasso soppesando con gli occhi ogni incrocio, ogni angolo, ogninegozio per quel bisogno di controllare il territorio che ormai si eratramutato in istinto. Lo squarcio nella porta bronzea del MaschioAngioino stava lì a ricordargli che, solo qualche anno prima,passeggiandoci davanti con Letizia aveva giurato che pure lui avrebbelasciato un segno sulla città, sulle sue pietre, sulle sue persone.

A Castel dell’Ovo arrivò senza fiato. Annaspava, come se stesseaffogando. Salì le scale e uscì sul balcone. Si appoggiò contro il muro,

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spalle attaccate al tufo, ginocchia raccolte al petto. Davanti a lui ilmare. Un tremito di piacere gli fece rizzare i peli delle braccia. Il mare.Ecco cosa gli serviva, ecco l’antidoto ai pensieri. Quel blu inesauribilenon gli chiedeva niente e niente lui poteva chiedergli. Solo davanti almare riusciva a non pensare, a non pianificare, forse perché tuttoquell’orizzonte lo rendeva libero di vagare, sciolto da ogni calcolo.

Si sentiva meglio, ma mancava ancora qualcosa. Estrasse l’iPhone e,senza curarsi delle chiamate senza risposta e dei messaggi, scrisse aLetizia:NicolasSto al solito posto, annanz o mare.

Quando Letizia arrivò, Nicolas era ancora nella stessa posizione, sivoltò appena a guardarla, e lei non fece altro che sederglisi accanto,la sua testa sulla spalla. Sembravano quello che erano: un diciottennee una sedicenne. Il vento allungava i capelli di Letizia sul volto diNicolas, ma lui non li scostava, si lasciava frustare, si riempiva labocca, e poi li liberava in attesa di un nuovo giro. Abbandonò con gliocchi il blu del mare, che adesso aveva preso la stessa tonalità delcielo al tramonto, e la baciò. Prima sulle palpebre, poi sul mento, sifermò sulle labbra e poi passò al lobo delle orecchie. Aveva esposto ilcollo e Letizia vi si tuffò, baciandolo, mordicchiandolo.

– Ogni volta che ti bacio sul collo, – gli disse, – vedo a Christian,perché leggo il suo nome.

La bocca di Nicolas, morbida di baci, si contrasse.– Il suo nome lì deve stare, – disse soltanto.Letizia si legò i capelli con un elastico, la magia di prima era

svaporata. – Però mi sento ’o mariuolo in cuorpo, come se fossimostati noi…

Erano mesi che Nicolas provava a fare i conti con quel ladro dentroil corpo, avrebbe voluto dire a Letizia.

– Ma accirelo a stu mariuolo, – disse invece, – sono stato io che nonl’ho saputo difendere. Quando Scignacane mi ha detto che volevaammazzare a Dumbo dovevo tenere le palle di ammazzarlo io a

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Dumbo, e pure a Dentino. Ho fatto il lavoro a metà, e loro si sonopigliati la mia metà. Fratemo.

Letizia scosse la testa, sventagliando la coda dei capelli. – Nico’, ioqueste cose non le voglio sapere.

– E allora che cazzo mi parli di mariuolo ’n cuorpo? Non dire proprioniente e basta. Se non vuoi sapere, ste cose non devono proprioesistere per te.

Letizia si alzò, non voleva più sentire il corpo di Nicolas, le gambeche cercavano le sue. Fece qualche passo indietro e si appoggiò allaparete. Lui la lasciò fare.

Se non voleva sapere, allora poteva anche andarsene.– Perché quest’ananas alla fine della N di Christian, qui, dietro al

collo? – chiese Letizia, recuperando un po’ di affetto nella voce.– È una bomba a mano, – fece Nicolas senza voltarsi.– Lo so, scemo. Le saccio ste cose, – disse, ma intanto gli passò una

carezza leggera sul collo. Piano. – Ma che c’azzecca questa cosabrutta vicino al nome bello di tuo fratello?

– Sta cosa brutta mi ricorda che quelli che l’hanno ucciso hann’’amurì. Tutti.

– Non devi dirmi queste cose, già te l’ho detto, mi fanno paura.Tienatelle pe’ tte.

– E allora non mi chiedere cose, fatt’e cazzi tuoje.– Maro’, Nico’, quando parli così pari ’n’animale…– ’N’animale ’o sape difendere ’o frate. Fai ’o ciesso. Statte zitta.– Sai che si’ proprio ’na chiavica, Nico’? Ma vaffanculo! – Le parole

le uscirono tremolanti. Non si era mai rivolta così a Nicolas, non conquella violenza, ma lui non si era scomposto. Pure questa indifferenzaera nuova fra loro.

Le veniva da piangere, ma non voleva mostrarsi ferita, e spaventata.Prima di imboccare le scale per andarsene, alzò il dito medio alla

schiena di Nicolas, che continuava a guardare il mare.Riavvolse la strada come un nastro. Castel dell’Ovo, Maschio

Angioino, via Medina, San Biagio, Mezzocannone. Forcella. Casa. Dagiù poteva vedere la finestra della cucina spalancata, segno dellapresenza di Mena, che quell’abitudine di far cambiare l’aria

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all’appartamento la mattina e la sera non l’aveva persa neanche dopola morte di Christian. Aveva chiuso tutto, Mena, ma alla luce nonaveva rinunciato.

La trovò che piegava delle t-shirt fresche di bucato. Sollevava queicartocci di stoffa e, un colpo secco dei polsi, le magliette ritrovavanola loro forma. I polsi ruotavano sotto le ascelle, ed ecco la piega,infine un ultimo giro per la trasformazione finale: un rettangoloperfetto.

Nicolas aspettò che la madre terminasse il cesto della biancheriaprima di salutarla: – Ciao, ma’.

A lei bastò uno sguardo per leggergli in viso il carico che si stavaportando appresso.

– Sei stato al mare? – gli chiese.Lui annuì, non aveva voglia di parole, eppure sentiva il bisogno di

ascoltare le sue, quasi che dal risveglio non avesse fatto che vagareper la città per arrivare lì. Per tornare a casa da sua madre, epresentarsi al cospetto del tribunale che avrebbe infine gridato il suofallimento, la sua inadeguatezza.

Si avvicinò al tavolo e posò una mano sulla t-shirt in cima alla pila.C’era disegnato il London Eye. L’aveva regalata lui a Christian, con lapromessa che un giorno a Londra con le tasche piene di soldi loavrebbe portato per davvero, e allora sarebbero saliti sulla ruotapanoramica insieme. “Da lì pisciamo in testa a tutti gli arabi petrolieridi Londra,” gli aveva detto. Guardava la maglietta e gli pareva cheanche quella volesse accusarlo dell’assenza del corpo che solo qualchemese prima l’aveva riempita. Tolse la mano e la strinse finché sentì leunghie nel palmo.

– Hai visto quante cose teneva, Christian? – disse la madre con unsorriso morbido. – È incredibile, uno non si accorge quante cosegirano intorno alle persone, anche inutili, eh, anche se non servono aniente. Quante magliette, quante scarpe, quanti giocattoli… e non c’ènemmeno il tempo di metterle queste cose. – Si passò una mano fra icapelli che si erano imbiancati sulle tempie in ciocche spente. Luiguardava a terra, non riusciva nemmeno ad annuire, la mano ancoracontratta come se tra le dita gli pendesse la pistola che non era statoin grado di usare, inutile.

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– Nicolas, – lo richiamò a sé la madre. Quando pronunciava l’interonome, né Nicolino né Nico’, era segno che si preannunciava undiscorso. – Non so come ti vedo, Nicolas, – ripeté posando il ferroperpendicolare all’asse e passando adesso la mano nei suoi, di capelli,come faceva quando era piccolo, più piccolo di Christian.

– Tutt’a posto, ma’– rispose con un tono che voleva apparire sicuro.– Non mi sembra tutto a posto. Ti vedo moscio, triste… Ascolta a

me. Sono frasi che si dicono ma sono frasi vere: una mamma lo sa.Una mamma sa che il figlio bello è stato al mare. Una mamma sa chequel figlio porta un peso che se lo sta mangiando. Una mammac’azzecca sempre, Nico’.

– Mammà, – provò a dire Nicolas, ma non gli arrivava l’aria daipolmoni.

– E per una madre, – continuò Mena, che se lo guardava con gliocchi di chi non ha più nulla da perdere, – per una madre tutti i figlisono uguali. Ma nun è ’overo pe’ me. Christian era il cuore mio, lo sai,ma tu si’ sempe stato diverso. Christian era ’o cucciolo mio. Tu si’serie limitata. A lui ho dato troppe carezze, a te troppo poche. Hosbagliato, è mia tutta la colpa.

Pausa. Una voce da giù che cercava qualcuno e poi ancora silenzio.– Sono io che non ho saputo accorgermi, sono io che non ho saputo

proteggerlo. Mi sembrava di vedere tutto, che tuo padre non capivaun bel niente e io sì… ma poi a che è servito capire quello che stavatefacendo, dove guardavo? Mi illudevo e basta.

– Mammà…– Tu non hai sbagliato, Nicolas, te lo dico io. Hanno ucciso il nostro

piccolo. Non aveva fatto niente, sempre lontano lo hai tenuto. Era piùinnocente di un angelo. Il loro piccolo è un angelo pure lui. Comm’’opuo’ ammazzà ’n’angiulillo? Non puoi, Nico’, te lo dico io. Nun s’accirea ’n’angelo.

Nicolas sentì il corpo diventare molle e il grumo dietro la nuca farsicaldo, come se il sangue finalmente tornasse a circolare, libero discorrere.

– Mammà, allora lo sapevi del figlio di Dentino, io…– Una mamma sa tutto, Nico’, te l’ho già detto. Quando eri piccolo,

ti ricordi? Quando stavi dalle suore e giravi intorno alla palma che

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stava nel cortile. E poi, così, bell’e buono, iniziasti a prendere a schiaffiil tuo compagnuccio. Ti ricordi?

Lui alzò solo la testa e succhiò un no, “’nzù” . Continuava a pensareall’angelo. No, non avrebbe mai potuto ucciderlo. Sua madre avevaragione. Era semplice, ecco perché, e più se lo ripeteva, più tornava asentirsi se stesso.

– Madre Lucilla, a capa ’e pezze, ti ricordi? Mi chiamò e tu stavi tuttoarrabbiato. E quando ti chiesi perché avessi fatto una cosa così brutta,tu mi dicesti: “Mammà, quello una volta mi ha vattuto e allora io l’hovattuto perché chi mi ha fatto male una volta non deve più farmimale”. Nico’, eri piccino e già eri il più forte. Sei ancora il più forte. Haisempre camminato sulle tue gambe, non hai mai esitato, e purequando sbagliavi lo facevi per il bene. Tu si’ sempre stato uomo,anche quando eri piccolo. Più uomo che a tuo padre. – Si alzò dallasedia e si avvicinò alla finestra. Una brezza leggera aveva accostato lapersiana e lei si sporse per agganciarla al fermo. Si voltò verso di luicon la luce debole del vicolo alle spalle. Pareva una santa dentro a undipinto. – Tu hai fatto quello che dovevi fare, Nico’. Qualsiasi cosafanno i figli, le madri sono colpevoli. Pure quando un figlio si perde, lemadri sono colpevoli.

Mena gli si avvicinò di nuovo, e sul viso le tornò quel sorrisomorbido. – Non vi ho seguito abbastanza, e invece una mamma devesempre stare vicino ai figli suoi. Forse ti ho dato poche cose, ma tu,quelle che ti servivano, te le sei prese. Quelle che non ti ho dato, te lesei prese. E allora se te vuo’ piglià tutt’’e cose, be’, prenditi tutto, maveramente. È inutile stare a chiagnere qua. E lo dico anche a me,Nico’. Basta chiagnere, Mena. Si ’a strada r’’o bbene nun c’ha purtatoniente, forse la strada del male porterà qualcosa. Tu sei un figliospeciale. Tieni diciott’anni, si’ ommo. E allora fai quello che devi fare,e falla buona. Chi mi ha tolto Christian s’adda fà male.

A Nicolas venne voglia di metterle la testa sul petto, come facevaquando a cinque anni si nascondeva nell’armadio e poi la chiamava,per farsi trovare. Ma durò un attimo. Era un uomo ormai, anzi, erasempre stato un uomo. Si sentì a disagio. Da un lato gli pareva diessere come protetto dalle parole di sua madre, dall’altro sentiva cheil mandato che lei gli affidava, il suo consenso, erano una brutta cosa,

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come se avesse avuto bisogno dell’ordine di una madre per fare quelloche doveva fare, come se non riuscisse a farcela da solo. Cercò disuperare la confusione nel solo modo che conosceva: – Mammà, tiamo.

– Pur’io ti amo, Nicolas. – Gli prese il volto fra le mani e gli sfiorò lafronte con un bacio. – Sto sempe cu te. E adesso pure di più. – Poistaccò la spina del ferro e si allontanò verso la cameretta con la piladelle magliette. – Chi c’ha fatto male non ci deve più fare male, – lasentì bisbigliare.

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Fante di coppe

Prima di arrivare ai confini del quartiere Ponticelli era stata propriouna bella giornata. Faceva caldo, nonostante fosse pieno autunno, e ilsole picchiava forte sulla testa rasata di fresco di Nicolas, ma unventicello gli spirava alle spalle e quasi sembrava spingere il T-Max.

Al mattino lo aveva detto ai suoi fratelli, riapparendo dal nulla cosìcome era sparito: – Per uscire dalle sabbie mobili aggi’’a parlà cu donVittorio –. Li aveva convocati al covo, e la paranza al completo avevaannuito, è giusto, accussì s’adda fà. Sul fallimento dell’incursione inospedale nessuno aveva detto una parola, e comunque lui ormaisapeva che la vendetta sarebbe passata per altre strade. Era tornato aessere ’o Maraja, lo sguardo negli occhi dei suoi – uno per uno, daBiscottino a Drago’. Il limite è ’o cielo.

Voleva arrivare al Conocal da dietro senza penetrare direttamenteda Ponticelli, solo per gustarsi quell’aria. Era un’aria che portava viatutto, e lo faceva in modo gentile, come accompagnando i bruttipensieri per mano.

Era da un po’ che non andava dall’Arcangelo, di strada da allora neaveva fatta parecchia, e i soldi che premevano sulle cosce stavano lì adimostrarlo.

Gli uomini del Micione li vide da lontano, perché solo loro potevanostarsene belli belli a rollarsi una canna seduti sul cofano di unaMercedes come se niente fosse. Ostentavano la sicurezza deisecondini che isolano un prigioniero importante. Nicolas provò altriaccessi: percorse il perimetro del quartiere, circumnavigò il rione LottoZero (altri due uomini, in moto questa volta), sfiorò i confini con SanGiorgio a Cremano, sicuro che da quella parte la difesa sarebbe statapiù blanda. Invece si trovò davanti un suv con i vetri fumé.

Lo vogliono seppellire vivo a don Vittorio, pensò. Si era fermato adistanza di sicurezza, fuori da un bar con i tavolini vuoti. La giornata

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aveva perso la sua bellezza, pure il vento di prima si era afflosciato.Chiamò l’Aucelluzzo: se sapeva come uscire da Ponticelli, doveva perforza sapere anche come entrarci. Dopo cinque minuti sentìl’inconfondibile rumore del suo scooter. Lo vide uscire dalla curvalanciato a bomba, orecchie a terra. Inchiodò davanti a lui, e ancoranon aveva posato tutti e due i piedi al suolo che già si sollevava la t-shirt per mostrargli il suo nuovo tatuaggio. Sul petto bianchiccio emagro si era fatto disegnare quattro fori di proiettile.

– Ua’, troppo bello, paro paro a Wolverine! – esclamò Nicolas, unpo’ per dargli soddisfazione, un po’ perché lo pensava davvero.

Appena si riabbassò la maglietta, Aucelluzzo partì con il solitopiagnisteo. Che non poteva chiamarlo solo quando gli faceva comodo,che già la sua era una vita di merda, che gli toccava spacciare perpochi euro, e mo’ c’erano pure i guardiani del Micione.

– Maraja, – disse alla fine, – io sono l’unico che entra ed esce, mimuovo come il vento.

Nicolas gli posò piano il pugno contro la spalla.– Come, non lo so? È per questo che ti ho chiamato, Aucellu’. Ho

bisogno dei tuoi superpoteri.Aucelluzzo gonfiò il petto, e senza dire una parola partì di slancio,

seguito da Nicolas. Si infilarono in un rimessaggio a ridosso della A3,arrivarono a un cimitero di roulotte arrugginite e da lì a una barriera dilamiera che confinava con via Mastellone: l’ingresso per Ponticelli.Aucelluzzo si avvicinò a un pannello che pendeva e senza sforzo lostaccò. Lo gettò a terra sollevando un muro di polvere: – Ora puoipassare, Maraja –. Nicolas gli fece un mezzo inchino e partì.

Quella zona di Ponticelli era se possibile ancora più desolata. Sistava prosciugando di vita. I pochi negozi avevano le saracinescheabbassate e imbrattate di scritte, e in giro non si vedeva quasinessuno.

’Na guerra nucleare, si disse Nicolas. Una guerra d’asfissia, un lungoassedio il cui unico obiettivo era esaurire le risorse dell’Arcangelo,spingendolo all’inedia, alla paralisi, alla morte per stenti. Prima o poi ilMicione avrebbe ottenuto la sua vittoria, pensavano tutti.

Tutti tranne ’o Maraja.Parcheggiò sotto i portici del condominio dove stava l’appartamento-

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cella di don Vittorio l’Arcangelo. Lanciò un’occhiata per vedere se dalletapparelle abbassate spuntavano gli occhi del Cicognone, il factotumdi don Vittorio, e poi suonò alla porta della professoressa Cicatello. Leiaprì con il solito mantesino pieno di macchie ovunque. Nicolas esordìcon il “buongiorno” più educato che gli riusciva, ma poi rovinò tuttocon “mannagi’a morte” perché si ricordò della ballerina di porcellanache aveva lasciato nel sottosella e corse giù a recuperarla. Quandotornò la professoressa era ancora lì, e Nicolas gliela piazzò in manocon un: – Pagamento anticipato, signo’, se no dopo me lo scordo –.Aveva già avuto troppi imprevisti per perdere altro tempo inconvenevoli, e poi lui la strada già la conosceva. Superò i ragazzi a cuila professoressa dava ripetizioni e arrivò in cucina: scaletta, botola, trecolpi ben assestati con la mazza della scopa sul soffitto. Il Cicognoneaprì guardandolo appena, perché l’Arcangelo stava urlando: – Ua’, chechiavata! Che chiavata!

Nicolas li trovò davanti a Iss Pro Evolution. L’Arcangelo impugnava iljoypad quasi fosse un telecomando, con una mano sola, e lo agitavadavanti al televisore come se così potesse pilotare i giocatori. – Checazzo! – ripeteva. Si era alzato, nervoso, e Nicolas notò che i jeansche indossava erano di almeno un paio di taglie più grandi. Una t-shirtche una volta doveva essere di un rosso acceso pendeva sdrucita daun lato, mentre il pullover che gli copriva sghembo le spalle ospitavauna miriade di pelucchi. Don Vitto’ tiene i nippoli, pensò Nicolas equell’immagine smorzò la tensione che lo aveva preso quando eraentrato nell’appartamento. Oggi si giocava una fetta di futuro, edoveva affrontare quell’uomo che puzzava di sporco e di vecchio. Chepuzzava di morte.

– Ma come fate, – stava dicendo don Vittorio, – come fate adivertirvi co’ sta strunzata? – e con una manata sul joypad zittì la Play.– Cicogno’, – disse, – vai a fare il caffè, ja’, abbiamo un ospiteimportante.

– Sì, Cenerentolo ve lo fa ’o caffè, – borbottò il Cicognone e sparìdietro la porta della cucina. Appena furono soli, Nicolas aggiornòl’Arcangelo sugli affari, gli disse che andava tutto abbastanza bene,calcando su quell’“abbastanza”, e poi si sfilò le due mazzette di soldidalle tasche. – Questa è la parte del clan Grimaldi.

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L’Arcangelo le soppesò per un po’, incerto, socchiudendo gli occhi.– Don Vitto’, ma cumm’è, voi i soldi non li contate?– Ci stanno duje tipi r’’uommene. Quelli che li contano e quelli che li

pesano, Nicolas. Quelli che li contano non tengono ’e sorde. Quelli cheli pesano ce li hanno. Sai quanto pesa un miliard’’e lire?

– Di che?– Di lire, strunzo! La moneta che stava prima degli euro. Tredici chili

e quattrocento grammi.– ’Azzo. E qua dentro, secondo voi, quanto vi ho dato?– Sì e no cinquantamila euro, – rispose pronto. – Nico’, se la

vendevo io, il doppio ne facevo. Tu e sto cazzo di metodo Google…Nicolas abbozzò, non era il caso di tornare sull’argomento, era lì per

un motivo preciso. Sapeva cosa doveva chiedere, ma non sapevaquando, e se il vecchio fosse stato di cattivo umore, avrebbe rovinatotutto. Così provò a tastare il terreno: – Don Vitto’, ma a voi unafemmena vi viene mai a trovare?

– No, perché aggio perso ’o numero ’e mammeta. Ma ti pare che faiqueste domande? Ma che, avimmo magnato int’’o stesso piatto, –rispose un po’ sorpreso il vecchio, però erano parole dette col sorriso.

– No, don Vitto’, ma io veramente sto preoccupato che voi conCenerentolo là, – e con il mento indicò la cucina, – tra un caffè el’altro, voi e lui, lui e voi, magari glielo appoggiate… so che sietevecchio, però magari arizzate ancora.

Don Vittorio non smise il sorriso: – Anzi, mi devo ricordare se misono chiavato tua madre, una guagliona dalle parti di Forcellariciott’anni fa… magari tu si’ figlio a me.

– Eh, magari, don Vittorio.L’Arcangelo ebbe piacere di quell’inciso e sempre sorridendo lo

invitò finalmente a sedersi. – Dimmi un po’, Nico’, ma le armi che v’hodato io non le tenete mica nel covo di Vicolo dei Carbonari?

– E voi come sapete sto fatto del covo?– Io so tutto di te. Io ti ho fatto. La mela non care mai lontana

dall’albero. Tu si’ a mela mia.– Sta cosa della mela mi sa un po’ di ricchione, perdonatemi, don

Vitto’. Io sono Adamo, mica Eva.– Maro’, come sei scostumato… Ma ste armi dove le avete messe?

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– Stanno al sicuro.– Ma dove, fammi capì. – L’Arcangelo aveva fatto un investimento.

Era suo diritto imprenditoriale verificarne lo stato. – Se tu ti fidi deibambini tuoi, io mi fido di meno. A me in vent’anni non mi hannotrovato niente.

– Stanno da una badante, a Gianturco. Più sicuro di là ci sta solo lacaserma dei carabinieri.

– Bravo. E brava la paranza tua, avete messo tutto a sistema perbene. Stai diventando il principe di Napoli, bravo.

Nicolas inarcò le sopracciglia. – Ua’, don Vitto’, e se parlate così visbagliate, non lo sapete che significa Maraja in san-scri-to? – scandìbene e prima di pronunciare quell’ultima parola fece una pausa breve,quasi una rincorsa, per non inciampare sulla dizione complicata. –Grande re, significa. E voi potete stare sicuro che io non sono nato perfare il principe, io sono ’o re.

– Grande re… – ripeté l’Arcangelo, con una faccia che non si capivase si stava incazzando o ripensava agli anni in cui il re di Napoli eralui. – Un grande re tiene ’na spada, lo sai? È la sua patente percomandare. Tu hai fatto diciott’anni? La patente la tieni?

Nicolas annuì, imbarazzato.– Bravo, – continuò l’Arcangelo. – Però la patente più importante è

la patente della lama.E sulla cerata che copriva il tavolo comparve un coltello a scatto.

Nicolas lo prese come fosse cosa già sua. Il manico era un corno neroalla cui estremità era stata applicata una placca. Il blocco. Sapeva acosa serviva. Di tagli sul palmo della mano ne aveva visti a non finire,provocati dall’estrazione repentina del coltello dal ventre di unanimale, o di un uomo. Premette il bottone laterale e la lama schizzòfuori come un fulmine. Anche quel suono – quello stac –, lo conoscevabene Nicolas. Solo allora, vedendosi riflesso nell’acciaio, si ricordò diringraziare. Ma subito la curiosità si mangiò i convenevoli: –Arcangelo, ma voi avete mai ucciso? Con la mano vostra, voglio dire?– chiese.

– Sta scostumatezza, Nico’! Sono sicuro che tua madre te l’ha datal’educazione, sei tu che te la sei persa, – disse l’Arcangelo aprendo lebraccia e lasciandole cadere piano sulle gambe.

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– E ditemelo, ja’, Arcangelo, – disse Nicolas. Palmo per chiudere lalama e pollice sul bottone.

– A sparare sono buoni tutti, – rispose don Vittorio, – non ci vuoleniente. ’A tecnica distrugge ’o valore, nun te l’hanno ’mparato ’a scolatoja? I vecchi boss non la toccavano proprio la pistola, per questo tuttili rispettavano, si sapevano difendere con le mani.

Nicolas azionava il coltello a scatto sempre più velocemente. E ilrumore metallico si portò via almeno un po’ della tensione. Glitornarono alla mente un paio di libri di mafia dove si raccontava divecchi boss che consideravano indegno impugnare un’arma da fuocoe onorevole solo avere a che fare con i coltelli.

– Affrontare una persona e vincerla ti dà rispetto, spararla perstrada ti rende come tutti quanti!

Aumentò il ritmo. La pratica rende abili, pensò.– Mo’ basta pazziare, Nico’! – Il vecchio si avvicinò a uno scaffale

che gli arrivava all’altezza della testa, scostò una bottiglia di vinopregiato e un paio di mazzi di carte consunte e prese un Toscanofumato per metà. Se lo accese aspirando forte tre, quattro volte, poiarrivò ’o Cicognone. Il caffè era servito.

Nicolas ripose il coltello nella tasca posteriore e tentò con un’altradomanda: – Ma qui state sempre chiusi? –. Il Cicognone prese le duetazzine e le poggiò su un tavolino di cristallo ormai opaco. – DonVitto’, – continuò Nicolas, – non vi manca l’ossigeno?

– Chest’è la volontà d’’o Signore, – rispose l’Arcangelo. Il Toscano siera finalmente acceso e lui andò a sedersi nella solita poltronasnodabile.

– Davvero voi pensate che il Signore vi vuole chiuso in gabbia? –Nicolas sentiva di aver esaurito i preliminari, e quella sensazione digirare intorno al vero motivo della visita gli contagiò tutto il corpo. –Don Vitto’, posso chiedere una cosa?

– E fino adesso cosa hai fatto? Vai, continua a romper’’o cazzo, mafai ampress’. – Don Vittorio l’Arcangelo gli dava il consenso di arrivareal punto.

Nicolas si alzò quasi a sfruttare lo slancio del corpo per far uscire leparole, ma poi se ne restò zitto e prese a schiacciare le frange deltappeto con la punta delle Nike.

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L’Arcangelo per un po’ lo lasciò fare, divertito. Poi si stancò: – Nico’,ma cumm’è che te si’ aggliuttut’’a lengua?

– Mi dovete dare il contatto vostro, – disse Nicolas. Così, come siconfessa un tradimento a una fidanzata.

– Che stai dicendo? – Non c’era rabbia in quella domanda, soloincredulità.

– Il contatto vostro, – ripeté, – quello che vi dà la roba, erba,hashish, cocaina…

– Mmm. – Un suono basso, da ottone, gli uscì dalla gola. Poil’Arcangelo si alzò e si sfilò la cinta.

Nicolas si irrigidì, però era pronto. La cinghiata se la sarebbe presa,sì, eccome, era diritto di quel vecchio.

L’Arcangelo lanciò la cintura lontano, contro le tapparelle, poi scavòtra la pelle e l’elastico delle mutande e con un unico movimento si calòi pantaloni e tutto il resto, rivelando un corpo rugoso eppure nonancora in abbandono. Si voltò piano e si mise a quattro zampe.

– Poggialo, Nico’! Vai, ja’, mettimelo a culo! Forza! Chiavammello ’nculo.

Davanti a quel sedere flaccido Nicolas scoppiò in un’incontenibilerisata. L’altro si tirò in piedi con agilità, si risistemò alla bell’e meglio, esi fece sotto a Nicolas. Lo affrontò con la pancia, facendoloretrocedere. Preso alla sprovvista, mentre ancora rideva, Nicolas sentìche il fiato gli veniva risucchiato via, poi le mani inaspettatamente fortidell’Arcangelo lo sbatterono contro una libreria vuota, che dondolòminacciando di franargli addosso.

– Non ci sta un cazzo da ridere, piccire’. – L’Arcangelo continuava aspingerlo contro le mensole. – Ma come ti permetti? – disse una volta.– Ma come ti permetti? – disse due volte, aumentando il tono. – Macome ti permetti? – disse tre volte, a voce così alta che a Nicolasfecero male i timpani. – Mo’ pure le pulci si mettono a parlare. Ti seimesso a fare il re a casa mia? Muschillo!

– Qua’ muschillo… – provava a dire Nicolas, – fatemi parlare, donVitto’… fatemi parlare!

– Ma ancora stai parlanno, muccusiello? – Un’altra spinta, questa piùforte, quasi all’altezza del collo. Nicolas sbatté la testa, e per un attimopensò di colpire don Vittorio sul naso con una craniata, annebbiargli la

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vista con il sangue e andarsene da quel posto, ma si controllò. Laposta in gioco lo manteneva lucido. Affondò gli occhi come due spilli inquelli di don Vittorio: – Mi fate parlare? Lo so benissimo che il contattoè cosa personale. Ma la roba sta finendo. I tempi vostri sono lenti. Voistate al fant’’e coppe… il mondo gioca con la Play, don Vitto’, voiancora a scopone. Qua vi stanno levando l’ossigeno.

– Più roba c’è da vendere, più roba ti faccio avere, – dissel’Arcangelo. La furia si stava sciogliendo. Voleva più roba, il ragazzino?E lui gliel’avrebbe data. Ma il contatto no, il contatto è sacro, ilcontatto è come tua moglie, come le tue creature. Anzi di più, perchédà da mangiare a tua moglie, alle tue creature.

– Don Vitto’, con rispetto parlando, voi non avete i soldi percomprare la roba. Le piazze che la mia paranza si era presa sonovuote, se le sta ripigliando tutte il Micione. – Nicolas era riuscito adivincolarsi. Ansimava, piegato in due sulle ginocchia, la magliettastorta che lasciava vedere il graffio fresco, vicino alla carotide. – Noi cipossiamo prendere il mare, – continuò, – e voi vi state accontentandodi fare il bagno nella boccia dei pesci.

– Tu si’’nu pesce rosso, – rispose l’Arcangelo, – e statti nella bocciatua a Forcella.

Nicolas si tirò su, sollevò il mento e perse la pazienza che fino a lì loaveva guidato. – Don Vitto’, nuje ’e Furcella simmo r’’o centro ’eNapule, stiamo ’ngopp’’o mare, siete vuje che state rint’’a gabbia.Siete diventato il secondino del quartiere vostro.

– Omm’’e mmerda! – urlò stridulo l’Arcangelo e si lanciò di nuovo suNicolas, ma il Cicognone, che fino a quel momento era rimasto aguardare in attesa di un segnale, lo anticipò. Arrivò da dietro,sgambettò Nicolas, che cadde a terra, e poi con una pedata lo fecerotolare verso la botola aperta.

Nicolas precipitò nella cucina della professoressa Cicatello, e queltonfo fece tremare le pareti dell’appartamento. Accorse il marito dellaprofessoressa, seguito a ruota dalla signora, e sulla soglia i ragazziche sbirciavano. Nicolas si rizzò in piedi come se non fosse successonulla e, malandato, con un taglio sulla guancia che gli imbrattava ilviso di sangue, fendette quella piccola folla a spallate.

– So’ scivolato, che vulite? Che è, nun pozzo scivolà?! – mormorò,

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più rivolto a se stesso che a quelle facce sorprese.