Lusofonie

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LINGUA È POTERE 179 Per una geopolitica del portoghese nell’èra della globalizzazione. L’importanza della Lusosfera, galassia segnata dal crescente peso del Brasile e centrata sull’Atlantico del Sud. Il fascino della lingua di Camões sugli alloglotti. Le strategie di Lisbona. LUSOFONIE di Roberto MULINACCI LUSOFONIA, AL SUO GRADO ZERO DI significazione etimologica, è un termine neutro, che sta a indicare quello spazio, geograficamente e culturalmente composito, in cui si parla portoghese come lin- gua nazionale e/o ufficiale. Ovvero, sul modello di altri neologismi etnolinguistici – penso in particolare a quello di francofonia, che costituisce l’archetipo da cui deriva, per via analogica, la nomenclatura inerente ai singoli idiomi nazionali (anglofonia, ispanofonia, italofonia eccetera) – lusofonia è un’etichetta assimila- toria e livellatrice, il cui campo di applicazione coincide essenzialmente con l’in- sieme degli otto paesi di lingua portoghese. Un autentico «continente immateria- le» (secondo la bella definizione di Eduardo Lourenço 1 ) distribuito su quattro continenti e sorto quale epifenomeno della colonizzazione lusitana. Non è un caso perciò che la risultante contemporanea di questa diaspora storica della lingua di Camões, che ha ottenuto altresì, nel 1996, un riconosci- mento ufficiale – istituzionalizzandosi sub specie geopolitica nella Comunità dei paesi di lingua portoghese (Cplp) – faccia fatica a scrollarsi di dosso lo scomodo retaggio della secolare dominazione perpetrata dal Portogallo sulle popolazioni americane, africane e asiatiche del suo antico impero. Se è inevitabile che sopra l’edificio utopisticamente comunitario della lusofonia continuino ad aleggiare i fantasmi del colonialismo portoghese, nondimeno il progetto che ha presieduto alla sua costruzione assume, a posteriori, le sembianze di una grande metafora, una sorta di meccanismo compensatorio con cui la pequena casa portuguesa, 1. «Imagem e miragem da lusofonia», in A Nau de Ícaro seguido de Imagem e Miragem da Lusofonia, 2 a ed., Lisboa 1999, Gradiva, p. 174. Mi viene quasi voglia di dire che non c’è una lingua portoghese: ci sono lingue in portoghese. José Saramago 179-188 QS lingue mulinacci 2 20-12-2010 14:27 Pagina 179

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Lusofonie, articolo dalla rivista di geopolitica LIMES

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Per una geopolitica del portoghese nell’èra della globalizzazione.L’importanza della Lusosfera, galassia segnata dal crescente pesodel Brasile e centrata sull’Atlantico del Sud. Il fascino della linguadi Camões sugli alloglotti. Le strategie di Lisbona.

LUSOFONIE di Roberto MULINACCI

LUSOFONIA, AL SUO GRADO ZERO DI

significazione etimologica, è un termine neutro, che sta a indicare quello spazio,geograficamente e culturalmente composito, in cui si parla portoghese come lin-gua nazionale e/o ufficiale. Ovvero, sul modello di altri neologismi etnolinguistici– penso in particolare a quello di francofonia, che costituisce l’archetipo da cuideriva, per via analogica, la nomenclatura inerente ai singoli idiomi nazionali(anglofonia, ispanofonia, italofonia eccetera) – lusofonia è un’etichetta assimila-toria e livellatrice, il cui campo di applicazione coincide essenzialmente con l’in-sieme degli otto paesi di lingua portoghese. Un autentico «continente immateria-le» (secondo la bella definizione di Eduardo Lourenço 1) distribuito su quattrocontinenti e sorto quale epifenomeno della colonizzazione lusitana.

Non è un caso perciò che la risultante contemporanea di questa diasporastorica della lingua di Camões, che ha ottenuto altresì, nel 1996, un riconosci-mento ufficiale – istituzionalizzandosi sub specie geopolitica nella Comunità deipaesi di lingua portoghese (Cplp) – faccia fatica a scrollarsi di dosso lo scomodoretaggio della secolare dominazione perpetrata dal Portogallo sulle popolazioniamericane, africane e asiatiche del suo antico impero. Se è inevitabile che sopral’edificio utopisticamente comunitario della lusofonia continuino ad aleggiare ifantasmi del colonialismo portoghese, nondimeno il progetto che ha presiedutoalla sua costruzione assume, a posteriori, le sembianze di una grande metafora,una sorta di meccanismo compensatorio con cui la pequena casa portuguesa,

1. «Imagem e miragem da lusofonia», in A Nau de Ícaro seguido de Imagem e Miragem da Lusofonia,2a ed., Lisboa 1999, Gradiva, p. 174.

Mi viene quasi voglia di dire che non c’è una linguaportoghese: ci sono lingue in portoghese.

José Saramago

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lungi dal limitarsi a elaborare, quasi freudianamente, il lutto per la perdita dellasua grandeur imperiale, mirava comunque a farne sopravvivere lo spirito, ricon-vertendola in egemonia linguistica.

Pertanto, proprio allo scopo di sfrondarlo dai risvolti psicologistici, oltre cheideologici, di cui la storia ha sovraccaricato il suo nucleo concettuale, ho prefe-rito sostituire al singolare lusofonia il plurale lusofonie, nell’intento di rimarcare,perfino terminologicamente, lo scarto critico da quel principio di unità nella di-versità che troppo spesso i filologi portoghesi e brasiliani hanno trasformato inuna specie di petizione di principio. Così, la vexata quaestio delle varietà nazio-nali della loro lingua, nonostante il riconoscimento delle oggettive differenzeche le separano, ha finito per soggiacere alla logica centripeta di una dogmaticareductio ad unum, con il falso mito della grammatica comune assunto a vero eproprio feticcio di ogni approccio storico al problema della variazione. Eccoperché, senza cadere nell’estremo opposto, esasperando centrifugamente gli ef-fetti di deriva nel portoghese contemporaneo, vorrei invece partire da una equi-distanza analitica in grado di far dialogare sincronia e diacronia in un quadro diriferimenti teorici condivisi.

A cominciare da quella nozione di lingua, la quale, nonostante sia spesso fat-ta riduttivamente coincidere con il complesso delle sue regole grammaticali – eda cui, tra l’altro, discende anche l’ovvio corollario dell’«apparato valutativo-san-zionatorio messo in atto dalla scuola» 2 contro le trasgressioni della norma –dev’essere necessariamente reintegrata nella sua fondamentale dimensione socia-le e politica, in quanto specchio dell’identità di un popolo, anziché puro e sem-plice strumento di comunicazione. Ne consegue che ostinarsi a identificare toutcourt il portoghese con l’insieme delle possibilità astratte offerte dall’omonimo si-stema linguistico rischia forse di far perdere di vista il valore storico e culturale –per tacere di quello simbolico – delle sue concrete attualizzazioni normative nel-l’ambito delle principali comunità nazionali.

Se creare automatiche equivalenze tra lingua ufficiale e lingua nazionale(nel senso di lingua materna) è sempre sconsigliabile – anche in contesti appa-rentemente meno problematici quali l’Italia, dove comunque, la linea di demar-cazione tra italofoni e dialettofoni risulta tuttora attiva, a dispetto delle percen-tuali statistiche nettamente a favore dell’italiano – si può dunque immaginare ilgrado di aleatorietà insito nelle disinvolte sovrapposizioni tra lingua ufficiale elingua nazionale in realtà plurilingui. È il caso dei Palop (Paesi africani di linguaufficiale portoghese), nei quali non solo esiste una pluralità di lingue nazionalidiverse dal portoghese e rispetto ad esso largamente maggioritarie, ma in cui lostesso portoghese presenta varietà locali distinte da quella standard usata a livel-lo istituzionale. Dire insomma che in tutti i paesi membri della lusofonia si parlaportoghese, più che impropria, è un’affermazione incompleta. Oltre a non tene-

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2. L. SERIANNI, Prima lezione di grammatica, Roma-Bari 2006, Editori Laterza, p. 3.180

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re in debito conto i rapporti di forza interni alle singole aree e tra i vari idiomidi volta in volta concorrenti, essa omette di precisare la natura del suo oggetto,omogeneizzando dall’esterno, sulla base di un modello linguistico artificiale (eperlopiù importato), norme e varietà troppo eterogenee per prestarsi a similisemplificazioni.

Il portoghese del Portogallo e quello del Brasile sono la stessa lingua? Ilportoghese africano rientra davvero in un’unica categoria onnicomprensiva, pri-va di distinzioni geografiche? E Timor Est? Siamo sicuri che possa essere consi-derata una nazione lusofona? Ebbene, la risposta forse più pertinente a tuttequeste domande è: «Dipende…». Dipende da quale concetto di lingua si assumea parametro di riferimento. Se la discriminante è la lingua ufficiale, quella stan-dardizzata delle istituzioni più che quella dei media – sensibile, malgrado certerecrudescenze di vetero-purismo, agli inevitabili fenomeni di nativizzazione – al-lora non c’è dubbio che si possa rispondere positivamente alla filza di interroga-tivi retorici testé citati. Solo che una lingua è fatta per essere parlata più chescritta. Ed ecco riproporsi, nella loro assoluta fondatezza, le ragioni intrinsechedi quelle domande, a cui spero di offrire risposte un po’ meno ovvie di quantosia lecito attendersi.

Intendiamoci: so perfettamente, e l’ho già scritto altrove 3, che «lusofonia» èun’etichetta di comodo, chiamata a dare compattezza descrittiva a un universolinguisticamente frastagliato. E da questo punto di vista non nego neppure chela parola assolva con sufficiente pertinenza, faute de mieux, a tale primariocompito di nominazione. Essa si rivela però palesemente inadeguata quando sitratti, appunto, di far combaciare i nomi e le cose. Giacché al nome «portoghe-se» non corrisponde sempre lo stesso referente nei molteplici spazi culturali do-ve si trova ad essere declinato, tanto da richiedere spesso un supplemento didesignazione mediante il ricorso ad attributi geografici (portoghese europeo,portoghese brasiliano, portoghese mozambicano eccetera). L’unità glottonimicaimplicita nel nome comune di lusofonia si sfalda nei nomi propri in cui si arti-cola internamente l’insieme delle varietà del portoghese, demandando così allageografia la responsabilità di supplire alle titubanze epistemologiche dell’ap-proccio linguistico.

Da qui l’opzione per quell’insolito plurale di matrice saramaghiana, le «lin-gue portoghesi», con cui intendo affrontare l’analisi geopolitica dell’attuale poli-centrismo lusofono. A partire dal riconoscimento previo della significativa, in-sopprimibile variabilità che caratterizza oggi il portoghese diffuso nel mondo eche – in modo non dissimile da altre lingue internazionali come l’inglese (ma ildiscorso vale in generale anche per lingue di minor proiezione geopolitica, tipoil tedesco) – ne rende ormai impropria una trattazione in termini unitari.

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3. Cfr. R. MULINACCI, «Della lusofonia: itinerari di una presenza tra passato e futuro», in A Língua emMil Pedaços Repartida. Sulla divulgazione della letteratura lusofona in Italia, a cura di V. TOCCO eM. LUPETTI, Pisa 2010, Edizioni Ets, pp. 13-22. 181

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Il portoghese e la globalizzazione: una questione geopolitica

Di solito, quando ci si riferisce a una lingua, si comincia col fornire i dati uti-li al suo inquadramento nel contesto linguistico internazionale: dove si parla equanti sono, grosso modo, coloro che la parlano. Una specie di carta d’identitàcon cui la lingua si presenta al mondo. Non voglio certo sottrarmi a questa ne-cessaria incombenza informativa. Vorrei però cercare di renderla un po’ menoovvia e scontata di quel che appare normalmente nella sua formulazione essen-ziale, allargando i contorni di una geografia linguistica la cui intrinseca comples-sità rischia altrimenti di sfuggire al lettore non specialista. Se infatti la vecchia re-gola «una lingua, un popolo e una nazione» è divenuta ormai da tempo un’ecce-zione su scala globale, ciò non significa che la nuova regola delle lingue condivi-se da popoli e nazioni diverse abbia risolto d’emblée il problema delle implica-zioni territoriali di quel rapporto.

Si prenda, per esempio, l’oggetto di questo articolo, il portoghese, che rien-tra nel novero delle cosiddette languages of wider communication. Lingue, cioè,distribuite in più regioni e continenti, all’interno dei cui singoli Stati esse svolgo-no frequentemente anche funzioni di lingue ufficiali, non soltanto per popolazio-ni di parlanti nativi. Anzi, nella fattispecie, l’utilizzo del portoghese in veste uffi-ciale avviene, in maggioranza, proprio nell’ambito di aree plurilingui, ovvero nel-le quali i suoi parlanti madrelingua convivono, per giunta in condizioni di infe-riorità numerica, con quelli delle varie lingue etniche locali. Come dimostranoanzitutto Angola e Mozambico – in cui spetta inoltre al portoghese anche lo sta-tus di lingua veicolare – oppure la Guinea-Bissau e Timor Est. Altre volte, invece,come a Capo Verde e a São Tomé e Príncipe, il portoghese coesiste con il creolo(o i creoli) in un sostanziale regime di bilinguismo, ancorché senza parlantiesclusivi e con interessanti sfumature diglossiche (tra «macrodiglossia» e «microdi-glossia») per quel che concerne gli specifici domini d’uso. Ebbene, degli ottopaesi che compongono la cosiddetta Lusofonia (Angola, Brasile, Capo Verde,Guinea-Bissau, Mozambico, Portogallo, São Tomé e Príncipe, Timor Est), sonoappena due quelli in cui il portoghese risulta come lingua effettivamente nazio-nale, oltre che ufficiale: Portogallo e Brasile. In tutti gli altri, la presenza del por-toghese, almeno in quanto lingua materna, si attesta su bassi indici percentuali,compresi tra il 5 e il 40% dell’intera popolazione.

Poco importa che questo squilibrio sia compensato dal fatto che Portogallo eBrasile rappresentano da soli la parte più consistente – demograficamente par-lando – dell’enorme contenitore linguistico cui appartengono, ospitando oltre200 dei suoi complessivi 235 milioni di abitanti attuali. Quello che conta, da unpunto di vista strettamente geopolitico, è piuttosto che sei Stati su otto presentinosituazioni di alloglossia latentemente o potenzialmente conflittuali, benché il tipoe l’intensità dei conflitti tra le lingue in contatto vari a seconda dei differenti terri-tori. Non dobbiamo pensare per forza a tali conflitti in termini drammatici, di ve-ra e propria guerra tra entità statuali o militari contrapposte e di cui la lingua sa-

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rebbe ancora una volta un emblematico riflesso. Sebbene ci sia stato qualcosa disimile perfino nel recente passato di alcuni paesi membri della Lusofonia 4, ogginessuno di essi sembra correre di questi rischi. Non a caso ho parlato di stato dilatenza – o, al massimo, di potenza – come quello che meglio identifica la con-flittualità linguistica attuale di quest’area. Ma latente non significa inesistente, népotenziale ha qui il valore di impossibile.

Tra l’altro, non è che poi Portogallo e Brasile siano completamente immunida situazioni del genere, dato che neppure lì, a voler essere rigorosi, vige il mo-nolinguismo assoluto. Solo che le tensioni a cui si trova sottoposto il portoghesea Lisbona o a San Paolo – ossia, le tensioni più o meno tipiche delle modernesocietà multiculturali, dal bilinguismo da emigrazione alle questioni delle mino-ranze linguistiche (come ad esempio quelle storiche, legate alle lingue indigenein Brasile, che la costituzione del 1988 ha finalmente elevato al rango di linguenazionali, soggette a specifici piani di tutela) – non sono minimamente compa-rabili con quelle delle propaggini in Africa o Asia. Dove, per contro, agli even-tuali problemi connessi all’allargamento delle sfere d’influenza di altre grandilingue europee in contesti già non egemonicamente lusofoni (come l’inglese inMozambico e a Timor, oppure il francese in Guinea-Bissau), si sommano i pro-blemi reali di quella che rimane perlopiù una lingua seconda, appresa quasiesclusivamente a scuola e non di rado estranea al repertorio linguistico delle co-munità di parlanti autoctone. Nonostante di fronte alla profonda frammentazio-ne linguistica di quelle aree il portoghese assolva anche al compito di garantire«relativa stabilità politica» 5, al punto da configurarsi in Mozambico addiritturacome simbolo di unità nazionale 6, resta il fatto che proprio la sua ancora par-ziale diffusione geografica e sociale (che la riduce a lingua essenzialmente urba-na, elitaria, maschile e giovanile) non solo rischia di mettere a repentaglio quel-l’unità, ma finisce altresì per limitare fortemente i diritti di cittadinanza di ampiefasce della popolazione.

Non stupisce che proprio al fine di favorire una maggiore integrazione delleloro variegate componenti etniche e sociali all’interno del progetto di nazionepostcoloniale, alcuni Stati di questa Lusosfera abbiano deciso di adottare – o pre-vedano di farlo – come lingue ufficiali, a fianco del portoghese, le lingue nazio-nali. È il caso del tétum a Timor Est e soprattutto del creolo capoverdiano, la cuiauspicata, futura parificazione rispetto al portoghese verrebbe a sancire, più cheun preciso impegno costituzionale, il riconoscimento della sua assoluta premi-

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4. Penso a Timor Est, la cui invasione da parte delle truppe indonesiane (avvenuta il 7 dicembre1975) segna il passaggio del piccolo Stato asiatico sotto il dominio di Giacarta fino al 1999, periododurante il quale, alla violenta repressione dell’uso del portoghese ha fatto pendant l’imposizione delbahasa indonesia come lingua dell’insegnamento e dell’amministrazione. 5. A. JORGE LOPES, «O português como língua segunda em África: problemáticas de planificação epolítica linguística», in Uma Política de Língua para o Português, a cura di M.H. MIRA MATEUS, Lisboa2002, Edições Colibri, p. 23.6. G. FIRMINO, A «Questão Linguística» na África Pós-Colonial. O Caso do Português e das LínguasAutóctones em Moçambique, Maputo 2002, Promédia. 183

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nenza nelle diverse situazioni comunicative della vita quotidiana dell’arcipelago,con un impiego così pervasivo da sconfinare talora anche in ambiti tradizional-mente riservati alla rivale europea 7.

Prima di continuare a tratteggiare l’intrico geopolitico della rivalità tra lingueche va in scena entro i confini dell’ex impero lusitano – una rivalità alla quale laprospettiva lusofona conferisce tuttavia la copertura ideologica di un’apparenteomogeneità sovranazionale – vorrei ritornare brevemente all’aspetto della forzanumerica del portoghese. Come si sa, il numero dei parlanti nativi di una linguaè un indicatore imprescindibile per stabilirne l’ordine di grandezza. Sotto questorispetto il portoghese, con i suoi 204.681.678 di madrelingua (secondo le recentistime fornite dall’Observatório da Língua Portuguesa, cfr. tabella sottostante), stadecisamente bene. Si colloca al sesto posto nella classifica degli idiomi più par-lati al mondo, che diventa poi un’onorevolissima terza piazza – subito dopo l’in-glese e lo spagnolo – se si considerano soltanto quelli europei. Eppure, a guar-dare anche l’esempio di altri idiomi che lo precedono in questa graduatoria, tracui l’hindi e il bengali (e, se si vuole, perfino l’indonesiano, che a seconda dellestatistiche prese in esame lo tallona o lo sopravanza, comunque sempre di po-co), si capisce una cosa: che «il numero, nelle lingue, non si traduce necessaria-mente in potere» 8.

E qui sta il punto: limitarsi a una visione brutalmente semplificata di una lin-gua, qual è quella che si riduce ai dati spaziali e quantitativi, può far incorrere inerrori di prospettiva. La vera grandezza di una lingua, quel valore aggiunto a cuisono affidate, in qualche misura, le sue chances di successo nell’agone mondiale,non deriva unicamente dalla demografia, bensì da una complessa concomitanza

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7. Nel suo saggio «Cabo Verde – Ir à Escola em L2» (in Língua Portuguesa e Cooperação para o De-senvolvimento, a cura di M.H. MIRA MATEUS e L. TEOTÓNIO PEREIRA, Lisboa 2005, Edições Colibri, p.123), Mafalda Mendes cita la testimonianza dello scrittore capoverdiano Tomé Varela, secondo ilquale il creolo sarebbe usato a volte addirittura dai deputati dell’Assembleia Nacional nell’ambitodelle sedute parlamentari. 8. C. MARAZZINI, «L’italiano nell’epoca della globalizzazione», in Quaderns d’Italià, n. 8/9, 2003/2004,p. 166.184

ANGOLABRASILECAPO VERDEGUINEA - BISSAUMOZAMBICOPORTOGALLOSÃO TOMÉ E PRÍNCIPETIMOR ESTTOTALE

Paesi Cplp Popolazione

14.900.000187.464.211

508.9001.565.00019.696.23410.564.541159.250949.750

235.807.886

Tot. lusofoni

5.960.000186.901.818

230.56078.250

1.280.25510.141.960

31.85056.985

204.681.678

LA LUSOFONIA IN CIFRE

%%%%%%%%

% lusofoni

4099,7405

6,596206

Fonte: Observatório da Língua Portoguesa

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di fattori descritta in un celebre articolo di George Weber (1997) 9. Tra i quali fi-gurano sia il peso economico dei paesi che usano quella lingua sia il prestigiosocio-culturale della stessa (a cui si riallaccia, in fondo, anche un altro parametrofondamentale: quello dei locutori che la parlano come lingua seconda). È inte-ressante notare come, a distanza di oltre dieci anni, i sei criteri cardine di quel-l’indice di valutazione delle lingue non solo risultino ancora sostanzialmente vali-di – sebbene, nel 2007, un altro grande linguista, Louis-Jean Calvet 10, ne abbiaproposto indirettamente una corposa integrazione, che nulla toglie alle felici in-tuizioni del predecessore – ma sembrino dare esiti pressoché analoghi a quellioriginari, con il portoghese sempre relegato in ottava posizione, a fianco delgiapponese.

Ora, quantunque non sia peregrino immaginare che George Weber in perso-na potrebbe forse oggi sottoscrivere l’avvenuto sorpasso del portoghese sul con-corrente nipponico in questa speciale top ten delle lingue più influenti al mondo,credo che ciò si dovrebbe tuttavia imputare non tanto a impennate nella consi-stenza numerica dei lusofoni, madrelingua o bilingui, quanto alla maggiore cre-scita economica e culturale delle loro molte patrie, in primo luogo il Brasile. Nonper niente, è proprio al gigante sudamericano che Weber faceva riferimento nelsuo saggio, quando trattava del portoghese (sempre espressamente qualificatodall’attributo «Brazilian»). Certo, i grafici di Weber relativi al portoghese risentonodi stime consapevolmente parziali, legate appunto all’opzione selettiva per la va-rietà brasiliana, il che pregiudica ulteriormente la rappresentatività di quei risulta-ti a livello di insieme. Ma non è il rango, alto o basso, del portoghese che mipreme discutere, bensì i fattori, massime extralinguistici, che presiedono alla suaclassificazione tra le principali lingue internazionali. E qui bisogna ammettereche, pur con tutti i suoi limiti, l’analisi di Weber coglieva nel segno ad additarenel portoghese brasiliano l’elemento trainante della lusofonia, giacché individua-va nel fattore Brasile, inteso come potenza economica e politica in ascesa, ilmaggiore volano del prestigio linguistico di quell’area. In altre parole, sarebberoi quasi 190 milioni di brasiliani, nelle vesti di nuovi attori di spicco della globaliz-zazione, a tenere alta la bandiera del portoghese di oggi e – sicuramente – di do-mani, le cui legittime ambizioni di protagonismo, non solo su scala regionale,passano ormai più dall’America Latina che dall’Europa (o dall’Africa). È la leggedei numeri, e in particolare del mercato, a decretarlo.

Sarà pur vero, insomma, secondo quanto scrive José Palmeira 11, che il pro-getto geopolitico lusofono ha come asse strategico il triangolo costituito da Por-togallo, Brasile e Angola, ma certo non si può negare che sia un asse decisamen-

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9. Di cui è disponibile adesso anche la versione online (www.andaman.org/BOOK/reprints/weber/-rep-weber.htm), rivista dall’autore e «aggiornata» al maggio 2008.10. Le poids des langues: vers un index des langues du monde, testo presentato nel corso dell’En-contro Internacional do Gt de Sociolinguística da Anpoll, tenutosi presso la Puc di Rio de Janeiro(31/7-3/8/2007). 11. J. PALMEIRA, «Xeoestratexia lusófona na era global», Tempo Exterior, n. 12 (segunda época) – gen-naio-giugno 2006, p. 19. 185

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te sbilanciato verso l’Atlantico meridionale, con l’emergente ex colonia africana(una delle economie in forte sviluppo di quel continente) a fare tutt’al più da fu-turo contraltare – in un ideale passaggio di consegne con l’antica metropoli – allapresente egemonia verde-oro. Uno sbilanciamento, probabilmente, destinato adaumentare nei prossimi quarant’anni, quando i parlanti di portoghese – almenostando alle previsioni dell’Instituto Camões, sulla scia di quelle riguardanti l’evo-luzione demografica della Cplp nel 2050 – dovrebbero raggiungere, non senzaqualche eccesso di ottimismo, la ragguardevole somma di circa 336 milioni.

È proprio nella forbice tra il numero di parlanti nativi e non nativi – nellaquale rientrano, in astratto, anche i circa 30 milioni di cittadini dei Palop che nonhanno il portoghese come lingua della socializzazione primaria, limitandosi quin-di a usarlo, al massimo, con funzione veicolare (sebbene non sia trascurabile ladifferenza tra chi ha competenze linguistiche attive e passive e chi invece deveaccontentarsi appena di quelle passive) – che si misura la reale proiezione sovra-nazionale di una lingua valutata, per il portoghese, intorno al +39% 12. A questodato, che prende a riferimento la stima più accreditata di 250 milioni di lusofoninel mondo, distribuiti in più di trenta paesi, contribuiscono, tra l’altro, sia i grup-pi di emigrati delle varie «diaspore» nazionali (lusitana, brasiliana, capoverdiana,angolana eccetera) – i quali, pur abitando fuori dai confini della Cplp, hannoconservato la loro lingua d’origine – sia soprattutto i nuovi apprendenti di porto-ghese come lingua straniera. Mentre però gli uni – ossia gli emigrati, in specialmodo quelli di seconda e terza generazione – tendono comprensibilmente a su-bire il fascino degli idiomi con cui vengono in contatto nei paesi di accoglimen-to, confermando così una certa recessività del portoghese come loro prima lin-gua, gli altri, gli studenti di portoghese come L2, ne rappresentano il versantepropulsivo, l’incarnazione stessa della sua capacità di attrazione, da cui dipendepoi concretamente, alla fin fine, il riconoscimento dello status di grande lingua.

A tale proposito, occorre nondimeno sottolineare che questa capacità di at-trazione del portoghese sui parlanti alloglotti non si manifesta ovunque con iden-tica forza. Se in effetti il fascino di cui gode in Europa appare piuttosto scarso –secondo quanto documentato in una recente indagine a cura della Commissioneeuropea (cfr. Europeans and their languages, 2006), nella quale il portoghesenon figura neppure tra le lingue la cui conoscenza i cittadini comunitari ritengo-no utile, in aggiunta alle proprie – le cose vanno decisamente meglio altrove, peresempio in America Latina o in Africa, dove sfruttando il prepotere continentaledel Brasile o il peso regionale dell’Angola il portoghese è entrato stabilmenteperfino negli ordinamenti scolastici delle nazioni vicine, da quelle del Mercosul(Argentina, Uruguay, Paraguay, Cile, Venezuela) fino all’eteroclito drappello dellaSouthern African Development Community (con il Sudafrica in testa, seguito daZambia, Namibia e Botswana). Ora, non so se questi lusofoni acquisiti, sudame-

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12. Il dato, da rivedere forse un po’ al ribasso, considerato il minor numero di parlanti nativi presi ariferimento, è tratto da P. BAKER, J. EVERSLEY, Multilingual capital, London 2000, Battlebridge Publ.186

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ricani e sudafricani, siano da liquidare con l’analogo disincanto che un nostro il-lustre linguista riservava (forse un po’ sprezzantemente) agli albanesi e nordafri-cani sensibili al fascino dell’italiano, traendone l’analoga conclusione – absit iniu-ria verbis – che «quel tipo di fascino, su masse povere e diseredate, non dà pre-stigio internazionale alle lingue» 13. Sta di fatto che le «magnifiche sorti e progres-sive» della lusofonia non possono prescindere dall’avanzata anche in meridianiculturali come quelli suddetti, forse apparentemente meno nobili dei corrispettivieuropei, ma di rilevanza strategica cruciale in questo risiko linguistico di dimen-sione ormai planetaria.

Il Portogallo e la sua rendita lusofona

Non che l’Europa non possa ancora sperare di diventare terra di «conquista»per il portoghese. Anzi, a dispetto dei rilevamenti periodici delle singole opinio-ni pubbliche del Vecchio Continente, le cifre reali sembrano offrire un quadromeno fosco della situazione, grazie altresì all’attivismo dei vari governi lusitani,da anni impegnati concretamente nel sostegno e nella promozione internaziona-le della propria lingua mediante il finanziamento di un ricco sistema di corsi, ar-ticolato su più livelli – da quello iniziale all’Università – e gestito direttamentedall’Instituto Camões 14.

Se le nazioni europee a significativa presenza di «comunità» lusitane si con-fermano, nell’insieme, riserve più o meno stabili di parlanti portoghese L2, unanuova frontiera dell’espansione lusofona potrebbe forse rivelarsi quella dell’exblocco comunista, da cui proviene buona parte dei flussi migratori che hannocambiato, nel corso degli ultimi anni, il paesaggio sociolinguistico del Portogallourbano. Proprio uno dei principali luoghi d’origine dell’immigrazione portoghe-se, l’Ucraina – che figura al secondo posto, subito dopo il Brasile, tra i «fornitori»di popolazione straniera residente in Portogallo – ha fatto ufficialmente domandaper entrare da osservatore esterno nella Cplp, dove sono stati già ammessi, inquesta insolita veste, Guinea Equatoriale, Mauritius e Senegal. Certo è difficile di-re se questi gruppi di immigrati – anche indipendentemente da tali affiliazionisimboliche sul piano istituzionale – abbiano poi un concreto ritorno sotto formadi stimolo alla domanda di insegnamento della lingua nei loro paesi di prove-nienza, o in che misura possano comunque contribuire alla costruzione di un im-maginario culturale favorevole all’apprendimento del portoghese.

Un immaginario che, a dispetto dell’oggettiva grandezza del portogallo – ri-gorosamente con la minuscola, seguendo l’editoriale del volume di Limes «IlPortogallo è grande» (5/2010), a indicare la «galassia geopolitica in formazione»

LINGUA È POTERE

13. C. MARAZZINI, op. cit.14. Tra l’altro, alla responsabilità dei centri linguistici e dei lettorati universitari, distribuiti abbastan-za capillarmente sul continente, l’Instituto Camões ha aggiunto – a partire dal 1° febbraio 2010 –anche quella dell’Epe (acronimo per Ensino do Português no Estrangeiro), la cui rete didattica con-sta, nel complesso, di 1.699 docenti, distribuiti in 72 paesi, per un totale di circa 155 mila studenti. 187

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scaturita dal Big Bang dell’omonima ex nazione imperiale e perfino degli sforzipromozionali della sua concreta incarnazione statuale (il Portogallo, appunto,ma con la maiuscola) 15 – sconta in Europa diverse debolezze. Quelle cronichedi quest’antica finis terrae continentale, quali l’economia, la demografia, la mar-ginalità geografica eccetera. Ma anche il penalizzante confronto con la storicarivale iberica, quella Spagna che gli anni della movida postfranchista hanno tra-sformato nel miglior spot pubblicitario possibile soprattutto per la propria lin-gua, assurta rapidamente a unica vera alternativa romanza al tramontato uni-versalismo del francese.

Così, se la partita geopolitica del portoghese si gioca, oltre che sui banchi discuola, anche su fattori meno palpabili (rispetto a quelli politici, economici e ter-ritoriali) quali sono le valutazioni di importanza attribuite dai parlanti alle singolelingue, fondate su criteri di giudizio spesso non disgiunti dal senso comune, ilsuccesso del Portogallo quale promotore europeo del portoghese dipenderà mol-to anche da come saprà sfruttare la sua rendita di posizione lusofona. Ciò nelquadro di un collateralismo strategico col Brasile che ha già trovato un primo,ambizioso banco di prova nella richiesta congiunta di inserimento del portoghesetra gli idiomi ufficiali dell’Onu. Solo che su questa presunta lobby politica luso-brasiliana continua a gravare, per l’appunto, quella moderna «questione della lin-gua» che ha spaccato le due sponde dell’Atlantico fin dall’Ottocento e che – nelcorso di una storia ormai davvero secolare, iniziata nel 1911 16 – tende periodica-mente a materializzarsi sub specie ortografica, sulla scia delle varie proposte concui, da una parte e dall’altra, si è cercato di far illusoriamente convergere, almenonello scritto, ciò che il parlato ha irrimediabilmente diviso.

Traguardate da questa angolatura prospettica, le polemiche non ancora sopi-te che hanno accompagnato, soprattutto in Portogallo, l’entrata in vigore (1° gen-naio 2009) dell’ultimo accordo ortografico, presentato alla stregua di un’ulterioreresa incondizionata alla «brasilianizzazione selvaggia» del portoghese contempo-raneo, sono la riprova più lampante non solo della persistenza di certe anacroni-stiche velleità egemoniche di Lisbona sulla «propria» lingua ma anche di come ilprincipale fronte geopolitico della lusofonia del XXI secolo coincida sostanzial-mente con quello interno.

Solo se la lingua portoghese riuscirà a sfuggire al paradosso geopolitico chela sovrasta e a integrare davvero paritariamente, dentro di sé, le due norme incui si articola il suo spazio simbolico attuale – sottraendo, cioè, la norma brasilia-na a una storica subalternità nei confronti di quella europea, ma senza rovesciar-la in una nuova asimmetria – solo in questo modo, forse, la «comunità immagina-ta» dei lusofoni potrà aspirare a diventare finalmente una comunità reale.

LUSOFONIE

15. «Dalla torre di Belém», editoriale, Limes, «Il Portogallo è grande», n. 5/2010, p. 8.16. Mi riferisco alla «nuova ortografia» portoghese elaborata, tra gli altri, dal filologo Gonçalves Via-na e che, fissata appunto da una commissione ufficiale nel 1911, inaugura l’èra delle riforme conge-neri del Novecento.188

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