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In questa slide sono riassunti gli obiettivi del secondo modulo.

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La rinite allergica, che rappresenta la forma più frequente in assoluto di rinopatia cronica, è una allergopatia respiratoria a prevalenza elevata (3-35% della popolazione generale nei Paesi industrializzati) e in costante aumento in quasi tutto il mondo (Progetto Mondiale ARIA 2014): basti pensare che negli Stati Uniti la sua prevalenza è paragonabile a quella dell’ipertensione e di altre patologie croniche.

La rinite allergica non è una malattia banale e la sua influenza sulla qualità della vita è notevole: le attività all’aperto, il lavoro, l’attività scolastica, lo sport e il sonno ne vengono condizionati. In controtendenza, un’elevata percentuale di pazienti non si rivolge al medico.

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È bene precisare che un processo infiammatorio della mucosa nasale (rinite appunto) può essere di varia natura: infettiva, vasomotoria, infiammatoria allergica o non allergica, legato ad alterazioni meccaniche del naso (deviazione settale, concha bullosa, anomalie anatomiche), oppure da corpo estraneo e così via.

Inoltre alterazioni meccaniche possono sovrapporsi in caso di rinite allergica e non (poliposi, ipertrofia dei turbinati).

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Le rinopatie raggruppano un gruppo ampio ed eterogeneo di patologie, che possono essere di natura infettiva, infiammatoria, vasomotoria, neoplastica, iatrogena, ormonale e così via.

Il Progetto ARIA ha formulato questo schema classificativo nel quale si identificano le rinopatie allergiche, distinte in intermittenti e persistenti.

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Il progetto ARIA (Allergic Rhinitis and its Impact on Asthma) ha elaborato una classificazione della rinite allergica aggiornata nel 2005 sotto l’egida OMS da un comitato internazionale di esperti e basata sulla durata e sulla gravità della sintomatologia clinica, incluso l’impatto sulla qualità di vita della persona colpita.

Tale classificazione distingue in base alla durata della sintomatologia una forma intermittente e una forma persistente, che sono a loro volta distinguibili, in analogia con la classificazione dell’asma bronchiale, in una forma lieve e una moderata-grave.

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Sia la forma intermittente sia quella persistente di rinite allergica possono essere considerate di gravità lieve o moderata-grave in relazione all’impatto dei sintomi sulla qualità di vita del paziente.

In questo modo è stata del tutto superata e per così dire archiviata la distinzione tradizionale in rinite “stagionale” e “perenne”, che faceva riferimento al periodo di insorgenza della sintomatologia nasale, e di conseguenza al tipo di allergene scatenante: ad esempio, i pollini stagionali oppure gli acari della polvere, i derivati epidermici di animali e le spore fungine che sono allergeni perenni.

La riclassificazione ARIA della rinite allergica utilizza parametri di durata temporale meglio misurabili nella pratica clinica, rispetto alla difficoltà di definire la stagionalità dei sintomi, in caso di polisensibilizzazione (per esempio ai pollini di Graminacee e Ambrosia), oppure per la possibilità che i livelli ambientali di concentrazione di allergeni perenni, quali per esempio gli acari, si riducano tanto da non provocare sintomi anche nel lungo termine.

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Il riscontro di rinite allergica è frequente in soggetti di tutte le età, e si manifesta clinicamente con sintomatologia acuta o ricorrente, espressione dei processi infiammatori IgE-mediati che interessano la mucosa nasale e che sono indotti dall’esposizione agli allergeni sensibilizzanti.

La reazione allergica si sviluppa tipicamente nei cosiddetti soggetti “atopici”, ovvero predisposti costituzionalmente alla produzione in eccesso di anticorpi IgE verso sostanze estranee all’organismo, ma di per sé innocue in soggetti non allergici.

Il fattore atopico è un tratto genetico familiare: infatti, anche i genitori o altri parenti di un soggetto atopico hanno nella loro storia più malattie allergiche sia respiratorie sia cutanee e di altri organi.

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Le reazioni allergiche si manifestano di solito precocemente nei primi anni di vita, in forma di dermatite eczematoide (o atopica) e/o intolleranze alimentari; successivamente è frequente il manifestarsi di forme di allergia respiratoria, che progrediscono in sequenza temporale dalla rinite all’asma, nell’ambito della cosiddetta “marcia allergica”.

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I sintomi identificano di solito in maniera evidente la rinite allergica. In alcuni casi è presente anche un interessamento della mucosa oculare, che si manifesta con lacrimazione, prurito e iperemia congiuntivale, configurando il quadro dell’oculo-rinite allergica.

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Il quadro clinico della rinite allergica è frequentemente complicato dall’associazione di numerose altre patologie (congiuntivite, rinosinusite, poliposi, otite) e, soprattutto, dalla concomitante presenza di asma bronchiale.

Circa il 40% dei rinitici persistenti ha anche asma e la rinite è quasi sempre presente nell’asma allergico. La congiuntivite allergica è una comorbilità frequente nella rinite allergica. Va poi ricordato che la rinite allergica e l’asma, insieme alla rinosinusite, rientrano tra le cause di tosse cronica e che la rinite allergica peggiora il controllo dell’asma e aumenta il rischio di riacutizzazioni.

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La diagnosi di malattia allergica si basa essenzialmente su una valutazione anamnestica approfondita e sui risultati di indagini specifiche per confermare il sospetto clinico. L’anamnesi ha l’obiettivo di valutare la familiarità, le abitudini alimentari e di vita, l’ambiente domestico e lavorativo, l’età di insorgenza, la stagionalità, la durata, i rapporti con fattori scatenanti ambientali e/o individuali della malattia allergica presentata dal soggetto.

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Le indagini diagnostiche principali per la rinite allergica sono: il prick test, il dosaggio delle IgE sieriche e il test di provocazione nasale specifico (utilizzato a scopi di ricerca e, in misura minore, nella pratica clinica). I test allergologici cutanei (prick test) rappresentano l’indagine di prima scelta per la facilità di esecuzione, l’affidabilità, la rapidità della risposta e il basso costo economico. I prick test hanno, però, scarsa utilità per la diagnosi allergologica nel bambino prima dei 3-4 anni.

Nei soggetti con storia clinica indicativa, è utile ripetere i test anche successivamente alla prima indagine, per la frequente insorgenza di nuove sensibilizzazioni. Nei soggetti in cui si sospetti fortemente un’origine alimentare è opportuno estendere la ricerca allergologica anche agli allergeni alimentari.

Il dosaggio delle IgE sieriche specifiche è un’integrazione ai test cutanei e quindi non rappresenta un esame di I livello; per l’elevato costo, deve essere limitato agli allergeni su cui esiste un dubbio diagnostico. Le metodiche maggiormente utilizzate per il dosaggio delle IgE specifiche sono rappresentate dal RAST e dalla più recente metodica ISAC.

In alcune condizioni, per determinati pazienti e per alcuni allergeni è importante confermare la diagnosi con un test di provocazione (congiuntivale, nasale e/o bronchiale). Si tratta di esami complessi e rischiosi, per cui il loro utilizzo deve essere limitato a casi ben selezionati.

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Negli anni recenti si sono approfondite le conoscenze relative all’esistenza di correlazioni tra vie aeree superiori e inferiori relativamente ad affezioni come quelle allergiche che interessano, in concomitanza o in successione, i due tratti dell’apparato respiratorio, superiore e inferiore.

Vari anni fa venne anzi coniato il termine di “sindrome rino-bronchiale” per etichettare quadri patologici con caratteristiche prevalentemente infettive, rappresentate in genere da rinosinusiti croniche associate o seguite da tracheobronchiti ricorrenti.

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Le conoscenze di fisiopatologia sono state integrate dai risultati di ricerche sperimentali e cliniche sui rapporti tra patologie nasali e ostruzione bronchiale (siano esse manifeste o latenti), tra “clearance” mucociliare nasale e bronchiale e quindi tra coinvolgimento al processo infiammatorio a carico delle vie aeree superiori e inferiori.

È stato, ad esempio, osservato che l’innervazione e la regolazione neurovegetativa del naso e delle vie aeree inferiori sono molto simili.

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Le rilevanti differenze delle strutture anatomiche determinano però differenti risposte ai vari stimoli nei due settori. Diversi studi hanno dimostrato che la rinite e l’asma frequentemente insorgono contemporaneamente e comunque sintomi nasali sono stati segnalati tra il 30% e l’80% dei pazienti asmatici, contro il 20% della frequenza osservata nella popolazione generale.

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È difficile stabilire se la rinite rappresenti la prima manifestazione di un’allergopatia respiratoria in un paziente che successivamente sviluppa asma o se la patologia nasale costituisca l’espressione di una sindrome che coinvolge le vie aeree nella loro globalità.

Un individuo con ostruzione nasale derivante da una rinite allergica non curata adeguatamente è comunque obbligato a respirare attraverso il cavo orale e ciò potrebbe influenzare negativamente le basse vie aeree, per il venir meno della funzione nasale di condizionamento e di filtrazione dell’aria inspirata.

L’infiammazione nasale potrebbe inoltre diffondersi alle vie aeree inferiori mediante l'interazione di un complesso network di citochine e mediatori e il ruolo del sistema neurovegetativo.

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È stato anche osservato che pazienti con rinite allergica senza evidenza clinica di asma manifestano un’iperreattività bronchiale non specifica evidenziabile con test di provocazione bronchiale con metacolina.

In altri termini essi sono a rischio di sviluppare asma. La rinosinusite cronica nell’asma severo, inoltre, rappresenta un importante fattore di rischio, che determina esacerbazioni più frequenti, infiammazione delle vie aeree periferiche e un declino più rapido della funzione respiratoria.

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L’asma è una malattia infiammatoria cronica caratterizzata da ostruzione variabile delle vie aeree a regressione spontanea o a seguito di terapia. In Italia colpisce circa il 6-7% degli adulti, come documentato da un’indagine di Dal Negro et al. (I costi della malattia dell’asma in Italia, 2007).

Benché sia percepita come una malattia comune e di semplice trattamento, l’asma può essere altamente invalidante e incidere in modo rilevante sulla vita di chi ne è affetto.

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Senso di oppressione al torace, fame d'aria (dispnea), respiro sibilante all’espirazione e tosse sono alcuni dei principali sintomi provati quotidianamente dal paziente. Accade, tuttavia, che queste manifestazioni si aggravino, fino a sfociare in un attacco d’asma vero e proprio, potenzialmente fatale per il paziente.

È esperienza comune di ogni medico che curi pazienti asmatici che un’ostruzione intensa e talvolta grave delle vie aeree possa verificarsi in corso di infezioni respiratorie, soprattutto virali, o in seguito ad esposizione a concentrazioni elevate di allergeni o di agenti dell’inquinamento degli ambienti sia esterni sia interni, o dopo esercizio fisico intenso.

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La diagnosi di asma può essere facilmente sospettata in presenza di sintomi suggestivi riferiti dal paziente (dispnea accessionale, respiro sibilante, tosse secca, costrizione toracica) e del riscontro di fattori di rischio (atopia, substrato allergico, reflusso gastro-esofageo ecc.) o scatenanti (esercizio fisico, esposizione ad allergeni o a fattori climatici, infezioni virali).

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L’esame obiettivo può essere di aiuto in presenza di sibili espiratori, che documentano l’ostruzione bronchiale. La conferma del sospetto diagnostico richiede la dimostrazione della presenza di ostruzione bronchiale reversibile e/o variabile, oppure della presenza di iperreattività bronchiale.

La spirometria è fondamentale per evidenziare e quantificare l’ostruzione al flusso aereo e monitorare la risposta alla terapia e l’andamento della malattia. La spirometria, unitamente ad altre indagini, come la valutazione dell’ossido nitrico esalato (eNO), consente inoltre di prevedere la comparsa di riacutizzazioni sia nell’adulto sia nel bambino, ed è un buon predittore della prognosi e in particolare della remissione di asma a distanza di anni.

In base alla presenza o assenza di ostruzione bronchiale alla spirometria, si può ricorrere rispettivamente al test di reversibilità o al test di iperreattività bronchiale.

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Il test di broncodilatazione viene praticato somministrando salbutamolo per via inalatoria in 4 dosi successive da 100 µg mediante dispositivo con spaziatore, e ripetendo la spirometria dopo 15 minuti.

Il test di provocazione bronchiale con metacolina, per la scarsità di effetti collaterali e la buona riproducibilità, è il metodo più usato per lo studio della reattività bronchiale.

Un test negativo è utile per escludere la diagnosi di asma in soggetti con spirometria normale e sintomi simili all’asma. Un test positivo è tanto più utile per confermare la diagnosi di asma quanto maggiore è la probabilità clinica (sintomi e prevalenza della malattia).

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La broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) è una condizione patologica riconducibile a un danno a carico delle vie aree e del parenchima polmonare, ovvero del tessuto del polmone, causato principalmente dal fumo di sigaretta e, in misura minore, da altri agenti inquinanti.

La BPCO provoca una sindrome ostruttiva scarsamente o per nulla reversibile e si caratterizza per un progressivo declino della funzione respiratoria. L’impatto sociale della patologia è molto significativo, in particolare negli stadi più avanzati di malattia nei quali frequentemente il soggetto deve ricorrere all’ossigenoterapia (o in alcuni casi alla ventiloterapia domiciliare) per sopravvivere, con un conseguente significativo peggioramento della qualità di vita.

Questo impatto è tanto più rilavante se si considera che la malattia colpisce mediamente il 6% della popolazione, con punte del 25% tra i fumatori sopra i 40 anni.

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La BPCO nel 2020 rappresenterà, secondo le stime, la terza causa di morte nel mondo, guadagnando una posizione rispetto a oggi, e la prevalenza della malattia registrerà un incremento nella popolazione femminile del 130%, rispetto al solo 50% degli uomini.

Attualmente, a livello mondiale, il 14% degli uomini e il 6% delle donne di età >45 anni presentano un’ostruzione bronchiale cronica moderata-severa, ma da almeno un decennio si registra un incremento della BPCO tra le donne: già oggi tra le donne è evidente un tasso più elevato di mortalità per questa patologia e tra dieci anni si osserverà un sorpasso sul genere maschile anche per numero di casi.

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La BPCO nelle sue fasi iniziali non viene di solito riconosciuta poiché i sintomi compaiono in maniera subdola e possono essere confusi con i segni dell’invecchiamento.

Malgrado vari comitati internazionali abbiano fortemente raccomandato l’uso della spirometria come mezzo di “case finding” nei soggetti a rischio o sintomatici, questa viene tuttora eseguita in una minoranza di casi. Inoltre, test di funzionalità respiratoria più sensibili della spirometria possono essere necessari per una diagnosi precoce.

Questa è importante, in quanto la terapia farmacologica si è dimostrata efficace nel ridurre il declino della funzione respiratoria solo se iniziata negli stadi più lievi di malattia.

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Il “sintomo sentinella” è la presenza di tosse ed espettorato nei soggetti che presentano fattori di rischio, in particolare l’abitudine al fumo. Nei fumatori questi sintomi iniziali devono infatti indurre il medico a indagare a fondo la funzione respiratoria, perché il soggetto è a rischio di sviluppare la BPCO.

La dispnea, altro sintomo caratteristico che facilita ulteriormente la diagnosi, compare soltanto in una fase più tardiva, quando il trattamento precoce non è più possibile e la funzione respiratoria è ormai compromessa.

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La diagnosi di BPCO si formula tramite la spirometria, un esame semplice e accurato che dura pochi minuti. La spirometria permette di definire i volumi e i flussi dell’aria inspirata ed espirata e consente così non solo di diagnosticare le principali malattie respiratorie, ma anche di quantificare con esattezza il danno funzionale.

La spirometria rappresenta il primo step del percorso diagnostico che, dove opportuno, può essere integrato con altri esami come l’emogasanalisi arteriosa, che valuta la pressione parziale di ossigeno e di anidride carbonica oltre che il pH e altri importanti parametri nel sangue arterioso.

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I sintomi che caratterizzano la BPCO sono tosse, produzione di catarro e dispnea. Tosse e catarro si manifestano in particolare al mattino, perché durante la notte si crea un ristagno di secrezioni nell’albero respiratorio, che il polmone del fumatore non è in grado di “ripulire”, poiché il fumo di sigaretta altera la funzione delle ciglia che hanno il compito di eliminare il muco.

La dispnea subentra, invece, in una fase più avanzata della patologia, perché è legata all’alterazione della funzione respiratoria che regola gli scambi di ossigeno e anidride carbonica tra sangue e aria all’interno del polmone.

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Nelle donne la malattia è sottovalutata: quando si presentano dal medico, le pazienti hanno meno probabilità di ottenere una diagnosi tempestiva (e quindi una cura appropriata), anche perché la spirometria, l’esame che serve a valutare la funzionalità respiratoria, viene prescritta più frequentemente a un uomo che a una donna.

Da studi recenti emerge che la diagnosi di BPCO è stata posta, nelle donne, solo in una bassa percentuale di casi e che il 20-30% dei medici non ha posto diagnosi di BPCO neanche avendo a disposizione tutti i test diagnostici.

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Questa slide riporta la classificazione di gravità della BPCO proposta dalle linee guida GOLD. Come si può notare il criterio applicato si basa sui parametri spirometrici.

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Le nuove linee guida GOLD (Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Diseases) aggiornate al 2014 suggeriscono l’opportunità di considerare una diagnosi clinica di BPCO in presenza di dispnea, tosse, espettorato cronico ed esposizione a fattori di rischio.

La valutazione della gravità della malattia è un componente intrinsecamente correlato alla diagnosi, in quanto si pone la necessità di stabilire non soltanto l’entità dell’ostruzione bronchiale e del deterioramento della funzione polmonare, ma anche l’impatto della malattia sullo stato di salute del paziente, il rischio di riacutizzazioni e la presenza di eventuali comorbilità. Le linee guida indicano quindi una classificazione della gravità della patologia basata sui quattro elementi riportati nella slide.

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Il modified British Medical Research Council (mMRC) è un questionario di immediata utilità che consente di inquadrare e stadiare i pazienti sulla base del grado di dispnea e di intolleranza allo sforzo.

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Grazie a questa valutazione, introdotta dalle linee guida GOLD nel 2011, applicando più parametri è possibile suddividere i pazienti affetti da BPCO in quattro gruppi, A, B, C e D, schematizzati in questa slide.

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Questa slide ripropone lo stesso messaggio della precedente, evidenziando il rapporto tra caratteristiche dei sintomi e classificazione spirometrica di ciascuno dei quattro gruppi.

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La suddivisione dei pazienti nei 4 gruppi consente di mirare di conseguenza il trattamento, che sarà ripreso nel modulo successivo.

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