Guerra e pace | numero 29 - gennaio 2016

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In questo numero: - La politica dell’occhio per occhio e il cambiamento interiore (di Giulia Silvestri) - IPERDRONI, KILLER-ROBOT E SUPER UMANI per le guerre globali del XXI secolo (di Antonio Mazzeo) - Troppo piombo e poca cooperazione. Il folle bilancio delle spese militari in Italia (di Antonio Cormaci) - Realtà pacifiste in Italia (di Luca Ercolini) - Alex Zanotelli: "Le armi? Solo un mezzo per difendere i privilegi" (di Alice Facchini) - "Insieme per la pace". 10 anni di forum interreligioso (di Giuseppe Mugnano) - Piccola critica alla nonviolenza "pura" (di Enrico Campagni) - Strategie e pratiche di nonviolenza sul campo (di Stefano Fornito) - Aprire spazi di pace. PBI fra nonviolenza e diritti umani (di Roberto Meloni) - Il coraggio della nonviolenza. Testimonianze dalla Colombia (di Sara Ballardini) - Operazione Colomba (di Francesca Notari) - Tiziano Terzani, giornalista di pace in tempo di guerra (di Giovanni Modica Scala)

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IPERDRONI, KILLER-ROBOT E SUPER UMANI PER LE GUERRE GLOBALI DEL XXI SECOLO

TROPPO PIOMBO E POCA COOPERAZIONE. LA FOLLIA DELLE SPESE MILITARI IN ITALIA

LE REALTÀ PACIFISTE IN ITALIA

PADRE ALEX ZANOTELLILE ARMI? SOLO UN MEZZO PER DIFENDERE I PRIVILEGI

LA SOTTILE ARTE DELLA NON VIOLENZA

APRIRE SPAZI DI PACEPBI FRA NON VIOLENZA E DIRITTI UMANI

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OPERAZIONE COLOMBA25

TERZANIGIORNALISTA DI PACE IN TEMPO DI GUERRA

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Giulia SilvestriEDITORIALE

Antonio Mazzeo

Antonio Cormaci

Luca Ercolini

a cura di Alice Facchini

Enrico Campagni

Stefano Fornito

Piccola critica alla non violenza pura

Strategie e pratiche di non violenza sul campo

IL CORAGGIO DELLA NON VIOLENZATESTIMONIANZE DALLA COLOMBIA

INSIEME PER LA PACEDIECI ANNI DI FORUM INTERRELIGIOSO

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Giuseppe Mugnano

Roberto Meloni

Sara Ballardini

Giovanni Modica Scala

Francesca Notari

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Fare la nostra parte dentro di noi. Potrebbe suonare scontato o quantomeno inefficace nel ri-solvere il problema immediato delle guerre, dei bombardamenti contro civili, degli uomini, delle donne che muoiono ogni giorno a causa di ogni violenza, psicologica o fisica, ma credo

davvero che senza un cambiamento interiore non si possa arrivare a concepire un mondo senza conflitti. Tutto nasce dalla bramosia del potere, che è la vera radice di ogni guerra, e che cresce fino a diramarsi nella punizione del capro espiatorio, nella condanna a morte degli infedeli, nella riven-dicazione di un territorio come proprio. Non sono un’idealista che vive nel mondo dei sogni, sono convinta che sia fondamentale agire ora e un cambiamento interiore, se non è avvenuto nel corso di secoli, non può certo realizzarsi dall’oggi al domani. Tuttavia la risposta giusta agli atti di violenza non sarà mai un altro atto della stessa matrice e questo è ampiamente dimostrato dal passato e dalla storia che studiamo (in fondo senza impararla davvero): gli atti terroristici sono avvenuti in Europa per una ragione più profonda e che va al di là della “guerra agli infedeli”, e gli occidentali hanno fomentato il conflitto in medio-oriente con la scusa della lotta al terrorismo e per pura vendetta contro coloro che hanno provocato l’abbat-timento delle torri gemelle, attacchi a loro volta perpetrati da uomini manipolati dagli americani. La violenza causa violenza, l’odio logora i popoli per secoli, ce lo insegnano Israele e Palestina: un popolo cacciato dal proprio territorio, che dopo secoli fa ritorno nella terra promessa e per realizza-re questo esilia un altro popolo.La politica dell’occhio per occhio non ha mai funzionato, ma ha solo portato il mondo alla cecità, parafrasando Gandhi, dunque non può essere la risposta. È necessario scoprire un modo di agire che non contempli la violenza, che sia non violento. Ciò non significa non fare nulla: anche Martin Luther King non era solo un semplice visionario, ma un uomo concreto che ha trovato il modo più adatto di rispondere alla brutalità bianca in quel periodo e in quel contesto. Ogni realtà può farlo: anche in Italia ci sono movimenti che riescono a vincere battaglie senza armi e senza morti. La strada c’è, va trovata e percorsa, da tutti. �

Jan chiedeva con amarezza: cosa spinge l’uomo a distruggere gli altri? E io: gli uo-mini, dici, ma ricordati che sei uomo anche tu. E inaspettatamente, quel testardo, brusco Jan era pronto a darmi ragione. Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra:

dobbiamo cercare in noi stessi e non altrove

editoriale

di Giulia Silvestri

La politica dell’occhio per occhio e il cambiamento interiore

Etty Hillesum

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“Il campo di battaglia del futuro sarà popolato da un numero infe-riore di esseri umani. Quelli sul campo di battaglia, però, avranno capacità fisiche e mentali superiori: avranno una migliore per-cezione dell’ambiente e saranno più forti, intelligenti e potenti. Combatteranno fianco a fianco ai Killer Cacciatori Automatizzati

di vario genere”.

di Antonio Mazzeo

IPERDRONI, KILLER-ROBOT E SUPER UMANI

per le guerre globali del XXI secolo

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Così scrivono il Diparti-mento della Difesa degli Stati Uniti e l’US Army

Research Lab, il laboratorio di ricerca scientifica dell’eserci-to Usa, nel report Visualizing the Tactical Ground Battlefield in the Year 2050 (pubblicato il 25 luglio 2015) che prefigu-ra le modalità di conduzione della guerra terrestre entro la metà del XXI secolo. Battaglie che saranno combattute da ro-bot assassini e Super-Umani, “macchine da guerra spaven-tose ed inarrestabili, coraz-zate e dotate di armi laser…”. Mostruosi non esseri viventi (o quasi) capaci però di di-struggere ogni essere vivente, armati di leeches (letteralmen-

te sanguisughe), “velivoli sen-za pilota che saranno lanciati dall’operatore verso una fonte di energia…”.La iperdronizzazione delle guerre future è perseguita an-che dalla Marina e dall’Aero-nautica militare: quest’ultima, in particolare, ha predisposto da anni un cronogramma che fissa il 2048 come l’anno in cui i conflitti saranno automa-tizzati al 100% e gli ordini di attacco giun-geranno da un network di computer e sistemi di i n t e l l i g e n z a a r t i f i c i a l e , satelliti, ter-minali di tele-comunicazio-ne, velivoli senza pilota e armi nucleari, assolutamente indi-pendente dal controllo umano. Entro i prossimi cinque anni, l’US Air Force diverrà già la più grande forza da combattimen-to UAV (unmanned aerial vehi-cle) del pianeta. Oltre tre mi-liardi di dollari d’investimenti per dotarsi di ben 17 squadro-ni di superdroni da dislocare prevalentemente nella basi aeree di Beale (California), Da-vis-Monthan (Arizona), Pearl Harbor (Honolulu) e Langley Newport (Virginia).La progettazione e sperimen-tazione di micidiali sistemi di distruzione di massa e robot killer procede inarrestabile in tutto il mondo, mentre le dot-trine strategiche si uniforma-no allo scopo di estromettere prima possibile i militari in carne ed ossa dalle catene de-cisionali in tempo di guerra. Le armi letali del tutto automatiz-zate sono definite in termine tecnico-militare “LAR” (Lethal

Nonostante siano dotati di sofisticatissime tecnologie

di telerilevamento, essi non sono in grado di distinguere i “combattenti” nemici dalla

popolazione inerme

Autonomous Robotics). “Se utilizzati, i LAR possono avere conseguenze di enorme por-tata sui valori della società, soprattutto quelli riguardanti la protezione della vita, e sulla stabilità e la sicurezza inter-nazionale”, ha denunciato il Consiglio per i Diritti Umani dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in un rapporto speciale pubblicato il 9 aprile 2013. “Essi non possono essere

program-mati per rispettare le leggi u m a n i -tarie in-ternazio-nali e gli standard di prote-

zione della vita previsti dalle norme sui diritti umani. La loro installazione non com-porta solo il potenziamento dei tipi di armi usate, ma an-che un cambio nell’identità di quelli che li usano. Con i LAR, la distinzione tra armi e com-battenti rischia di divenire indistinto”, aggiunge il report Onu. “Raccomandiamo agli Stati membri di stabilire una moratoria nazionale sulla spe-rimentazione, produzione, as-semblaggio, trasferimento, ac-quisizione, installazione e uso dei Lethal Autonomous Robo-tics, perlomeno sino a quando non venga concordato a livello internazionale un quadro di riferimento giuridico sul loro futuro”. Ovviamente l’appello non è stato accolto da nessun paese. I droni-killer protagonisti delle sanguinose incursioni Usa nei principali scacchieri di guerra internazionali sono i “Preda-tor”. Nonostante siano dotati

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Nel maggio 2007 i Predator sono stati trasferiti pure nella base di Herat, sede del Coman-do regionale interforze per le operazioni in Afghanistan. Nel corso delle operazioni bel-

liche contro la Libia di Ghed-dafi della pri-mavera-estate 2011, i velivoli a pilotaggio remoto dell’A-eronautica ita-liana hanno avuto un ruo-lo chiave nelle

operazioni d’intelligence del-la coalizione internazionale a guida Usa. Negli ultimi due anni due velivoli-spia sono stati schierati a Gibuti, Corno d’Africa, nell’ambito della mis-sione antipirateria dell’Unione Europea “Atalanta”, mentre nello scalo aereo di Kuwait City sono stati rischierati due droni appositamente riconfi-gurati per operare con la coali-zione internazionale anti-Isis in Iraq e Siria. Sino ad oggi ai

“Predator” sono state assegnate solo mis-sioni d’intelligence e riconoscimento; lo scorso anno, però, l’I-talia ha ottenuto dal Congresso degli Stati Uniti l’autorizzazio-ne ad armare i propri droni con 156 missili AGM-114R2 Hellfire II prodotti da Lockhe-ed Martin, 20 GBU-12 (bombe a guida laser), 30 GBU-38 JDAM ed altri sistemi d’arma. L’Italia sarà così uno dei primi paesi Nato a disporre di spietati droni-killer e il primo teatro operativo po-

trebbe già essere nei prossimi mesi quello libico.Nel campo dei velivoli senza pilota, l’Italia si è conquista-ta una leadership in ambito internazionale. Nei piani del-le forze armate Usa e Nato, la base di Sigonella è destinata a fare da vera e propria capi-tale mondiale dei droni, cioè un centro d’eccellenza per il comando, il controllo, la ma-nutenzione delle flotte di UAV chiamati a condurre i futuri conflitti globali. Oltre ai “Pre-dator”, dall’ottobre 2010 Sigo-nella ospita pure tre-quattro aeromobili teleguidati da os-servazione e sorveglianza RQ-4B “Global Hawk” dell’US Air Force. Alla iperdronizzazione delle guerre si preparano pure i paesi membri dell’Allean-za Atlantica. Entro la fine del 2016 sarà pienamente operati-vo il programma denominato Alliance Ground Surveillance (AGS) che punta a potenziare le capacità d’intelligence, sor-veglianza e riconoscimento della Nato nel Mediterraneo, nei Balcani, in Africa e in Me-dio oriente. Il sistema AGS ver-terà su una componente aerea basata su cinque velivoli a con-trollo remoto “Global Hawk”

versione Block 40, che saranno installati anch’essi a Sigonella. Nella stazione siciliana, dove nei prossimi mesi giungeran-no 800 militari dei paesi Nato, funzionerà il centro di coordi-namento e controllo dell’AGS in cooperazione con i “Global Hawk” Usa. Sigonella è sta-ta prescelta infine come base

di sofisticatissime tecnologie di telerilevamento, essi non sono in grado di distinguere i “combattenti” nemici dalla popolazione inerme. Dall’au-tunno del 2012 alcuni di questi droni dell’US Air Force v e n g o n o ospitati nel-la stazione a e r o n a v a l e siciliana di S i g o n e l l a , sulla base di u n ’ a u t o r i z -zazione top secret del Ministero della di-fesa italiano. Anche l’Aeronau-tica militare italiana, prima in tutta Europa, ha acquistato i “Predator” statunitensi; l’1 marzo 2002, nella base aerea di Amendola (Foggia), è stato costituito il 28° Gruppo Ami per condurre le operazioni ae-ree con i velivoli teleguidati. Il battesimo di fuoco dei droni italiani è avvenuto in Iraq nel gennaio 2005, nell’ambito del-la missione “Antica Babilonia”.

[...] la base di Sigonel-la è destinata a fare da vera e propria capitale

mondiale dei droni

L’Italia sarà così uno dei primi paesi Nato a

disporre di spietati dro-ni-killer e il primo teatro

operativo potrebbe già essere nei prossimi mesi

quello libico.

illustrazione di Guglielmo Manenti

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LA GUERRA IN SIGLE

UAV Unmanned Aerial Vehicle | sistema aereo senza pilota LAR Lethal Autonomous Robotics | armi letali totalmente automatizzate GBU bombe a guida laser AGS Alliance Ground Surveillance

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operativa avanzata del sistema aereo senza pilota (UAS) MQ-4C Triton, anch’esso basato sulla piattaforma del “Global Hawk” acquistati dalla Marina militare Usa.Le società Piaggio Aereo In-dustries e Selex Es (Finmec-canica) utilizzano dal no-vembre 2013 la base del 37° Stormo dell’Aeronautica mili-tare di Trapani Birgi per i test di volo del dimostratore P.1HH DEMO, il nuovo aereo a pilo-taggio remoto “HammerHe-ad” (Squalo Martello) che sarà consegnato all’Italia nei primi mesi del 2016. In Sardegna, l’aeroporto di Decimomannu

e il grande poligono militare di Perdasdefogu (Ogliastra) sono stati utilizzati invece per sperimentare il prototipo di robot-killer volante nEUROn, l’aereo senza pilota da combat-timento coprodotto da Italia, Francia, Svezia, Spagna, Sviz-zera e Grecia. Il nEUROn è il primo aereo europeo a pilotag-gio remoto dotato di materiali con accentuate caratteristiche stealth che gli consentiran-no di penetrare nello spazio aereo nemico senza essere individuato e operare a tutti gli effetti come una spietata macchina-killer per colpire e uccidere a distanza grazie agli

ordigni di precisione per gli at-tacchi aria-suolo a guida laser da 250 kg. Al programma nEU-ROn partecipa in qualità di ca-pofila con una quota del 50% il consorzio francese composto da Dassault Aviation, Thales e EADS-France; ci sono poi l’i-taliana Alenia Aermacchi (Fin-meccanica), la svedese SAAB, la spagnola EADS-CASA, la greca EAB e la svizzera RUAG. La pazza corsa ai droni e ai ro-bot killer è innanzitutto il più grande affare della storia del complesso militare-industria-le e finanziario transnazion ale. �

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di Antonio Cormaci

TROPPO PIOMBO E POCA

COOPERAZIONE

I fatti di Parigi hanno scombussolato gli equilibri politici nazionali e internazionali. Un incessante turbinio di paure e morte ha spazzato via quel già precario equilibrio europeo e non solo, che lentamen-te viaggiava su una lama di rasoio. Il risultato è la paura. La voglia di vendetta, un ritrovato patriotti-smo tanto di moda negli ultimi tempi. La spada di Damocle, ovviamente, cade sulle politiche relative all’immigrazione, adesso più che mai severe e poco morigerate, ma anche sulle spese militari, in Italia già di per sé folli anche in tempi di “pace”. Il virgo-lettato è d’obbligo considerato che l’Europa, l’Italia,

sono in guerra ormai da più di 10 anni.

Sebbene i conclamati an-nunci del Ministero della Difesa sulla diminuzione

delle spese militari in Italia, tema in continuo contrasto con gli ammonimenti Nato che vogliono un 2% del Pil, queste non cessano di scemare. Anzi.Le forze armate italiane sono costate, nell’anno solare 2015, 17 miliardi di euro, di cui 4.7 miliardi spesi per l’acquisto di mezzi militari, missili e muni-zioni. Facendo un calcolo in base a quanto dichiarato dal Governo, ossia di spendere al-

meno altri 13 miliardi di euro in 3 anni, si potrebbe attuare, con la stessa cifra, una spesa previ-denziale che permetterebbe di finanziare le pensioni, al fine di garantire un welfare più ef-ficace. Non sono solo le armi la principale voce di spesa nel bilancio: a far la voce grossa è anche il personale militare, al quale sono stati destinati qua-si 10 miliardi nell’anno 2015 per i loro stipendi e le loro pensioni; si tratta di un perso-nale che annovera 174.500 uo-mini tra Esercito, Marina ed

Aeronautica. L’abbondare di queste cifre, decisamente troppo per una spesa pubblica che dovrebbe rafforzare altre prerogative di un sano welfare, è una chiara patologia della riforma Di Pao-la, che non è mai decollata e la cui unica nota lieta è stata una riduzione di 1382 dipendenti rispetto al 2014. Per il resto, solo lentezze. Anzi, v’è addi-rittura stato un aumento della spesa totale, con un +1,6%, con 1,3 miliardi di euro destinati alla manutenzione di armi, ca-serme e basi. Paradossale è che le cifre spese per la manuten-zione e spese affini, non sono sufficienti, essendo quindi ne-cessari finanziamenti derivati da provvedimenti governativi di sostegno alle missioni inter-nazionali.In sostanza possiamo defini-re l’apparato militare italiano come fortemente precario, in quanto strutture e mezzi non sembrano particolarmente tu-telati da voci di spesa consi-

Il folle bilancio delle spese militari in Italia

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[...] il MiSE e il Mini-stero della Difesa non

fanno mancare l’ac-quisto di costosissimi nuovi mezzi, simbolo del più bieco efficien-

tismo di facciata.

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Un’altra difesa è possibile

“La difesa della Patria è sacro dovere del cit-tadino”, recita la Co-

stituzione all’art. 52. La difesa della Patria deve essere civile, non militare. Eppure qualcosa non quadra. Eppure il Governo “promette” una spesa di 13 mi-liardi di euro in 3 anni per l’ac-quisto di nuove armi. Abbiamo visto l’ammontare delle spese militari italiane e, necessità o meno, è moral-mente deprecabile che un’e-

conomia precaria come quella italiana debba ritrovarsi gra-vata da una simile spesa. La crisi economica e sociale di questo Paese è drammatica e la soluzione non è l’acquisto di nuove armi, così come in-tende fare il Governo italiano nel prossimo triennio. Su que-sta linea di pensiero si basa la Campagna per il disarmo e la di-fesa civile, ossia una proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione e il finanzia-

stenti. E quindi perché queste cifre folli? Nell’Italia dei para-dossi anche questa domanda ha un perché: il Ministero del-lo Sviluppo Economico e il Mi-nistero della Difesa non fanno mancare l’acquisto di costosis-simi nuovi mezzi, simbolo del più bieco efficientismo di fac-ciata. È il caso della portaerei Cavour, quasi sempre ancorata poiché non vi sono sufficienti investimenti per il carburan-te. È il caso dei 2,5 miliardi di acquisto di armamenti. È il caso della nuova flotta da guerra della Marina. È il caso dei nuo-vi elicotteri Hh1010, dei cac-cia di addestramento M346, dei celebri cacciabombardieri Eurofighter (spesa da 768 mi-lioni di euro), dei carri armati ruotati Freccia, dei nuovi cac-ciabombardieri Tornado, dal valore di 80 milioni. Una spesa pubblica altissima nel 2015.Quelle analizzate, in partico-lar modo i 13 miliardi di euro in tre anni destinati all’acqui-sto di armi, sono cifre folli,

mastodontiche. È bene ricor-dare che nelle c.d. spese della Difesa sono annoverate anche le missioni di cooperazione, oltre che gli interventi mili-tari in senso stretto. Tuttavia v’è un disequilibrio notevole tra le spese militari e quelle di cooperazione. Un disequi-librio iniquo, complice anche le sopra citate sollecitazioni Nato che vogliono un rappor-to del 2% tra spesa militare e prodotto interno lordo. In pro-porzione, mentre 9 euro su 10 vanno alle spese militari, quel-le che abbiamo sopra elenca-to, solamente delle ininfluenti briciole – sempre provenienti dai provvedimenti governativi per le missioni internazionali – sono destinate alla coopera-zione. Nel 2014, per esempio, sono stati 2,9 i miliardi spesi per la cooperazione, contro i 23 per gli allestimenti milita-ri. È pur vero che l’Italia negli ultimi anni è salita dallo 0,2% del PIL allo 0,16% di spesa per la cooperazione ma deve esse-re fatto di più. Qualcuno, specialmente con la minaccia del terrorismo, ci ha provato. Con il decreto pre-

sentato il 10 febbraio del 2015, il governo ha rifinanziato per i primi nove mesi dell’anno le missioni all’estero con 542 mi-lioni di euro, una cifra in lie-ve calo rispetto ai 550 milioni spesi per i primi sei mesi dello scorso anno. La principale novità di quest’anno è rappresentata dall’inserimento di una prima lunga parte di norme dedica-ta appunto alla lotta al terro-rismo. Un decreto che, come è stato sottolineato da alcuni giornalisti ed esperti, con il passare degli anni è riuscito a “caricarsi di disorganicità, in-coerenza e confusione, rispec-chiando forse l’assenza di una chiara, definita e lungimiran-te strategia politica del nostro Paese per affrontare le crisi in-ternazionali.” �

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[...] si lotta affinché i miliardi annui spesi

per l’acquisto di mezzi militari vengano uti-lizzati per altri scopi

come la sanità, la tutela dell’ambiente, la previ-denza, l’istruzione [...]

che verrebbe concretizzato da una difesa civile alternativa a quella militare, finanziata dai cittadini attraverso l’opzione fiscale in sede di dichiarazio-ne dei redditi. Uno strumento che garantirebbe un alleggeri-mento della spesa pubblica ed il rispetto di altri diritti fonda-mentali sanciti nella nostra Costituzione.La parola sarebbe quindi dei soli citta-dini, i quali si ritro-verebbero in mano uno strumento per far organizzare dallo Stato la difesa civile, non armata e nonvio-lenta e che contempli innanzitutto la difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali che in essa sono affermati, la preparazione di mezzi e strumenti non arma-ti di intervento nelle contro-

versie internazionali, la dife-sa dell’integrità della vita, dei beni e dell’ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di ter-ritorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni: in sostanza si lotta affinché i miliardi annui spesi per l’acquisto di mezzi

m i l i t a r i v e n g a n o u t i l i z z a -ti per al-tri scopi come la s a n i t à , la tutela d e l l ’ a m -b i e n t e , la previ-d e n z a ,

l’istruzione anziché per finan-ziare l’acquisto dei vari caccia-bombardieri, portaerei ecc. Questi non sono solo sogni de-stinati a rimanere lettera mor-ta, ma sono priorità e valori di rango costituzionale troppo spesso calpestati. Ecco che lo strumento politico della leg-ge di iniziativa popolare può tornar utile per aprire, innan-zitutto, un confronto pubblico per ridefinire i concetti di di-fesa, sicurezza, minaccia, dan-do centralità alla Costituzione che ripudia la guerra – all’art. 11 – che afferma la difesa dei diritti di cittadinanza e affida ad ogni cittadino il sacro do-vere della difesa della patria, all’art. 52.Demilitarizzare per investire nel welfare, per creare benes-sere sociale, per creare un’eco-nomia più equilibrata e senza più disparità tra classi troppo ricche e classi troppo povere. È la Costituzione a chiederlo, è il popolo italiano che, pur incon-sapevolmente, ne necessita. �

mento del “Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta”. La ratio di que-sta proposta, presentata il 2 ot-tobre dello scorso anno duran-te la Giornata mondiale della nonviolenza, è dar vita allo spirito primigenio che sta alla base della nostra Costituzione, ossia il ripudio della guerra, più volte sancito dalla Legge e dalla Corte Costituzionale e

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realtà pacifiste in italia

di Luca Ercolini

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“Siamo rimasti prigionieri del ‘complesso militare industriale’, per usare un’espressione di Eisenhower. L’industria degli armamenti ci obbliga a produrre sempre più armi, spendendo miliardi di euro: ecco allora che la guerra diventa inevitabile”. A parlare è uno dei più noti sostenitori del pa-cifismo italiano, il missionario comboniano Alex Zanotelli, tra i fondatori del movimento Beati costruttori di pace. Dopo aver vissuto in svariati an-goli del mondo, ora abita a Napoli nel difficile rione Sanità, dove continua a sostenere molte campagne, da quella per l’acqua pubblica a quella sul disarmo. “A cosa serve la guerra? A difendere questo sistema malato in cui viviamo, che permette al 20% della popolazione mondiale di consumare il

90% delle risorse. Le armi ci servono per difendere i nostri privilegi”.

Padre Alex Zanotelli

a cura di Alice Facchini

Le armi? Solo un mezzo per difendere i privilegi

Nei primi anni 2000 il movi-mento pacifista aveva un gran-de fervore: il G8 di Genova, il social forum, il movimento contro la guerra in Iraq… Dopo cos’è successo?“Non è facile dare spiegazioni del crollo del movimento pa-cifista, le ragioni sono molto complicate. La prima, fonda-mentale, è che in questo tipo di società consumistica i pro-blemi veri valgono pochissi-mo, perché l’uomo è preso da un sacco di cose futili. Oltre a questo, le colpe sono anche interne al movimento, che si è frantumato. In Italia, nono-stante i tentativi di unirsi, non

si è arrivati a nulla, e anche oggi la disgregazione sta au-mentando, invece di diminu-ire. C’è poi da considerare un fattore poco sottolineato ma importante: in quegli anni, i partiti si sono intrufolati e hanno usato il movimento per i loro scopi, in particolare at-traverso i forum. Questo ha generato sospetto sul movi-mento stesso”.Come si può rilanciare il mo-vimento pacifista oggi? “Le varie realtà dovrebbe-ro mettersi insieme e non guardarsi in cagnesco per-ché ognuno si sente più puro dell’altro. E poi, bisognerebbe

fare uno sforzo per coinvolge-re anche i credenti, le parroc-chie, le diocesi... Più saremo uniti, più la nostra voce sarà forte. Oggi la situazione è gra-vissima, non si può più tempo-reggiare”. Come si può comunicare alle nuove generazioni il pacifi-smo?“Questo è un grosso scoglio, perché oggi i giovani usano un linguaggio diverso e non è facile catturare la loro atten-zione su temi come questo. Ma il vero problema è che ormai i giovani sono stati risucchiati dentro al sistema capitalista. Non vedono la guerra come

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[...] per portare la pace nelle nostre vite, do-

vremmo innanzitutto recuperare le relazioni

umane, imparare ad accogliere tutti, anche

il diverso.

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un problema, ma come una di-fesa: difesa dai terroristi, dai musulmani, difesa dal diverso. Bisogna aiutare i giovani a ca-pire che la guerra non è mai la risposta”. Come possiamo sostenere la pace nella nostra vita quoti-diana? “La cosa che manca è una pre-sa di coscienza: dobbiamo renderci conto che la nostra società è es-s e n z i a l -m e n t e v i o l e n t a . Ormai non a b b i a m o più rappor-ti umani, sfruttiamo le persone solo quando ci servono e poi non le consideriamo più. Quin-di, per portare la pace nelle nostre vite, dovremmo innan-zitutto recuperare le relazioni umane, imparare ad accogliere

tutti, anche il diverso. Come ricordava Vittorio Arrigoni, ‘restiamo umani’. Poi esistono anche una serie di azioni più concrete: per esempio, toglia-mo i soldi dalle banche armate, quelle che investono il denaro in armamenti”.Cosa c’è dietro alle guerre ma-scherate da conflitti culturali, il cosiddetto scontro di civiltà? “Non esiste nessuno scontro

di civiltà, i nostri fratelli musulmani sono uguali a noi. La verità è che l’I-sis l’abbiamo cre-ata noi e la madre dell’Isis è la guerra in Iraq. Creiamo mostri continua-mente, senza ne-

anche accorgercene, e poi li fo-mentiamo con le nostre bombe e i nostri carri armati. Le re-ligioni dovrebbero diventare un baluardo di pace invece che un motivo di guerra. La chiesa

cattolica, per esempio, potreb-be giocare un ruolo enorme nel processo di pace, se affermas-se con fermezza che ogni guer-ra è profondamente ingiusta e che l’unica via è quella della non violenza attiva, che ci ha insegnato Gesù”.Quali sono le vere minacce del nostro tempo?“La vera minaccia è il nostro si-stema, non solo economico ma anche militare. Si tratta di un sistema fallato, che consuma moltissime risorse, al punto che la terra non lo regge più. Inoltre, è profondamente in-giusto: se ci fosse più giustizia sociale, non esisterebbero ne-anche i terroristi, che non sono altro che povera gente che non ha niente da perdere. Se vo-gliamo davvero raggiungere la pace, dobbiamo mettere in atto una rivoluzione culturale e spirituale, vivendo in manie-ra diversa. Se no finiremo per sbranarci tutti”. �

foto Andrea Scarfò

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Ha da poco spento dieci candeline il Forum interre-ligioso ‘4 ottobre’ di Parma, nato nel giorno di San Francesco d’Assisi in occasione delle celebrazioni per il Giubileo del Duomo del capoluogo ducale. In quella circostanza venne inaugurato un tavolo di dialogo, confronto e collaborazione fra le quat-tro religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo,

Islam e fede Bahá’í) presenti nella città.

“INSIEME

anni di Forum Interreligioso

di Giuseppe Mugnano

“Questa realtà nasce in primo luogo per parlare alla popo-

lazione, soprattutto alle nuove generazioni” – spiega Luciano Mazzoni Benoni, Presidente del Forum, nonché ex-docente di Antropologia delle religioni dell’Università di Bologna – “Il nostro obiettivo primario è in-segnare l’‘abc’ di ciascuna re-ligione, partendo da una reci-proca conoscenza e dalla messa

in discussione del concetto di individuo, sostituendolo con la categoria ‘persona’”. A tal pro-posito, tra i primi eventi orga-nizzati dal Forum c’è stata una mostra intitolata ‘Cattedrali, moschee e sinagoghe: segni di pace e fratellanza fra i popoli’, tenutasi presso la Biblioteca Palatina di Parma (con il pa-trocinio delle istituzioni locali di Comune e Provincia), in cui sono stati esposti manoscrit-

ti e miniature cristiane (il cui patrimonio relativo alla Bibbia è secondo solo a quello posse-duto dallo Stato del Vaticano), ebraiche e arabe, “al fine di at-testare – continua Mazzoni - la radice lontana del confronto tra le diverse comunità, in-terrotta drasticamente con il ‘Decreto di Alhambra’ del 1492, (con cui il sovrano spagno-lo Ferdinando II di Aragona sancì l’espulsione obbligatoria delle comunità ebraiche dai re-gni spagnoli e dai loro posse-dimenti, ndr), determinando di fatto la creazione dei ghetti”. Le dele-gazioni hanno colto l’occasione per or-ganizzare un nuovo confronto: la mostra pertanto è stata af-fiancata da una tavo-la rotonda dal titolo ‘Dal Dialogo all’In-contro’, come auspi-cio di un avvio di un processo ampio, in grado di coinvolgere

per la PACE”

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[...] attestare la radice lontana del confronto

tra le diverse comunità.

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la città e di rinnovare i tratti di civismo e di tolleranza. Le-zioni, queste, da trasmettere in primo luogo ai giovani. Nel

corso degli anni, infatti, gli eventi che si sono sussegui-ti hanno c o i n v o l t o p r i n c i p a l -mente le scuole, in-vitate ad ascoltare e a loro volta farsi veico-lo di mes-saggi di pace.Per que-sto moti-vo, sono proprio gli s t u d e n t i d’istruzione secondaria a cele-brare l’anniversario del Forum interreligioso. Come nel 2009, quando, in occasione della IV Giornata parmense del dialo-go interreligioso, alcuni di loro andarono in visita al Cimitero evangelico. Oppure come l’an-no seguente, con la visita alla chiesa ortodossa. O ancora nel 2011, quando l’attenzione

si spostò sulla chiesa metodi-sta e successivamente al Bat-tistero di Parma, attraverso delle visite guidate. Tutto ciò per trasmettere un messaggio fondamentale: la religione è sinonimo di arte e cultura; è espressione di un popolo, del-le proprie credenze e tradizio-ni. A partire dal 2012, invece, sono stati i giovani a rendersi

protagonisti prendendo par-te a dibattiti e organizzando la mostra ‘Vie di pace con le religioni’. Il percorso di for-mazione è culminato nel 2014, quando “dieci istituti superio-ri – racconta il Presidente del Forum - dopo un percorso in laboratorio portato avanti in-sieme, sono stati preparati a danzare per la pace. Si sono

esibiti alla fine dell’anno sco-lastico in Piazzale della Pace, erano più di 500 e ogni scuo-la indossava una magliet ta di colore diverso. Il Liceo Musica-le ‘Attilio Bertolucci’ portò an-che la sua banda, suonando al ritmo delle danze greche. Uno spettacolo bellissimo, un mo-mento di grande gioia e parte-cipazione”.

Accanto a queste iniziative si sono svolte annualmente ‘la giornata della spiritualità’ e la ‘giornata dell’accoglienza’, nonché la ‘Celebrazione del-la Settimana ONU per l’ar-monia tra le religioni’. Eventi che hanno assunto un risvolto fondamentale soprattutto alla luce degli ultimi tragici eventi che hanno visto sullo sfondo l’estremismo religioso, come il tavolo di dialogo sul tema della laicità dal titolo ‘Religio-ni e diritti nella società laica e plurale’. Partendo dalla storia e dall’attualità, “l’obiettivo è quindi – conclude il Professor Mazzoni - creare una nuova antropologia religiosa, fonda-ta sul dialogo e la convivenza pacifica”. �

foto: Giuseppe Mugnano

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La sottile arte della non violenza“La violenza è inutile e pure faticosa”, diceva con ironia Jacopo Fo. Tuttavia, nonostante le vittorie nonviolente

da una secolo a questa parte, notiamo come essa è ancora oggi la Cenerentola delle nostre lotte sociali e politiche.

È presente, ma le sue potenzialità sono sfruttate per una infinitesima parte, e i risultati sono pochi, troppo pochi.

Prima di parlare di non-violenza è a mio avviso utile prendere le distan-

ze da alcuni luoghi comuni e miti che la accompagnano, anzi, che sono spesso presen-tati come l’essenza della non-violenza stessa, da parte sia dei suoi oppositori che dai suoi proseliti. Questi luoghi comu-ni sono simili in entrambe le fazioni, proprio perché se da un lato conferiscono alla non-violenza un’aura di sacralità e purezza, dall’altro viene in-dicata dai “violenti” come ir-

realizzabile in molti contesti. Quali sono questi miti? Sono, tanto per citarne alcuni, la pu-rezza della nonviolenza, ossia il suo essere completamente scissa da ogni forma di vio-lenza; la sua efficacia sempre e dovunque, in ogni contesto storico e in ogni luogo sulla terra; la sua sacralizzazione, at-traverso anche la rimozione di lati “oscuri” di alcuni dei suoi grandi fautori come il Mahat-ma Gandhi, che riprenderemo più volte come esempio. La non violenza ha limiti pre-

cisi: è ben lontana dall’essere una cura ad ogni male, una “formula magica” che con un colpo di bacchetta trasforma i cattivi in buoni, mette la pace tra israeliani e palestinesi e trasforma in margherite ogni arma da fuoco. Alcuni contesti, infatti, sono oramai così de-strutturati, violenti, allo sban-do, che pensare di poterli cam-biare solo con un boicottaggio o con una protesta pacifica appare una idea molto lontana dalla realtà.Cercando un esempio nel pas-sato, basti pensare a un regime repressivo alla Pinochet o alla Mao Tse-tung, in cui proteste di questo genere non sortireb-bero quasi alcun effetto, per-ché i manifestanti verrebbero arrestati, torturati e uccisi in

Piccola critica alla “non violenza” pura

di Enrico Campagni

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poco tempo. Non solo: con una macchina della propaganda e un controllo dei mezzi di co-municazione totalizzante, la protesta non esisterebbe già a trecento metri di distanza. Quindi si può dire che essa può essere attuata solo in un luogo in cui i diritti di chi protesta sono almeno in parte ricono-sciuti (ad esempio l’India co-loniale). In un contesto in cui, insomma, l’immagine del poli-tico può essere modificata da azioni senza che esse vengano completamente censurate. Un esempio di questa situazione è sicuramente l’Italia di oggi, una democrazia mediatica ba-sata sul consenso televisivo e dei giornali di partito, in cui sono presenti grandi fazioni ma non un vero e proprio mo-nopolio: se da un lato questi media riescono a ignorare o distorcere alcuni fatti, esisto-no tuttavia ancora diversi ca-nali, anche in rete, in cui i fatti sono riportati in maniera più attendibile o comunque non vengono censurati del tutto.

Questi media possono incide-re non di poco sull’opinione pubblica, la vera e forse unica arma di cui noi cittadini dell’e-ra mass-mediatica ancora di-sponiamo.Relativizzare e de-mitizzare la nonviolenza significa anche riconoscere il carattere “im-puro” delle azioni nonviolen-te: esse sono immerse in un continuum che va dall’azione “ideale” senza alcun uso di vio-lenza all’azione quasi-violenta. Ad esempio, boicottare arance israeliane provocando il falli-mento di una ditta e la disoc-cupazione di decine di lavora-tori può essere considerata al cento per cento nonviolenza? Certo che no. Oppure: sabota-re il Tav è del tutto nonviolen-to? Certo che no! Eppure forse questi sarebbero i due modi più efficaci e meno violenti di ottenere dei risultati in quei contesti. “Menoviolenti”, allo-ra, non “nonviolenti”.Prendiamo come esempio sempre Gandhi: in diverse oc-casioni, la sua protesta è risul-

tata efficace poiché, sotto un atto apparentemente comple-tamente nonviolento, si cela-va la minaccia dell’esplosione di una violenza inaudita. Nel 1932, ad esempio, il leader de-gli intoccabili Ambetkar aveva ottenuto dal governo coloniale britannico seggi separati per la sua casta, che avrebbe conse-gnato loro la maggioranza dei seggi nel Congresso Indiano. Per evitare questo, Gandhi si oppose con uno sciopero del-la fame che lo ridusse in fin di vita. Iniziarono tensioni tra gandhiani e intoccabili, che sarebbero molto probabilmen-te sfociate in un massacro dei secondi da parte dei primi nel caso di un decesso del Mahat-ma. Ambetkar rinunciò al di-segno di legge, trovando come soluzione una conversione di massa degli intoccabili al Bud-dhismo, che non prevedeva l’e-sistenza di caste.

Dopo questa piccola opera di decostruzione come si potreb-be definire, allora, la nonvio-

foto Fausto Carano

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[...] la disciplina che qui si richiede non ha nulla a che vedere con quella

tipica delle forze mi-litari: è una disciplina consapevole, che non

parte dall’accettazione passiva di ordine ma ri-chiede la comprensione

di tutto noi stessi.

lenza? Si potrebbe provare a definirla, senza alcuna pretesa di completezza, attraverso un insieme di termini opposti tra loro. Apparenza e sostanza, con-cretezza e creatività, combattere una persona e allo stesso tempo “umanizzarla”, sacrificio e tattica.L’apparenza, purtroppo, è la chiave della propaganda po-litica. Bisogna credere fer-mamente in ciò che si vuole ottenere, ma bisogna saperlo trasmettere a chi è diverso da noi. Bisogna che queste per-sone siano in grado di capirlo. Cambiare, consapevolizzare, stupire, scioccare, scalfire l’in-differenza tipica dell’Italiano Medio è l’unico modo per cam-biare in maniera democratica la nostra società sul breve e sul lungo termine. Bisogna essere dei ponti tra diverse concezio-

ni del mondo, tra il cittadino attivo e militante e quello me-nefreghista.La nonviolenza è concreta per-ché non basta andare in piaz-za. Occorre essere in nume-ro sufficiente, occorre essere pronti a reagire allo stesso modo, a non farsi prendere dal momento, magari dagli insul-ti, dalle percosse, dalla violen-za provocata nell’altro. Anche Gandhi ci diceva che l’arte del-la nonviolenza pretende una

saldissima disciplina dell’a-nimo. Infatti la disciplina che qui si richiede non ha nulla a che vedere con quella tipica delle forze militari: è una di-sciplina consapevole, che non parte dall’accettazione passiva di ordine ma richiede la com-prensione di tutto sé stesso: corpo, anima e mente.Evitare la violenza esige poi una dose enorme di creatività, perché occorre immaginazio-ne per inventarsi modi alterna-tivi di sensibilizzare la popola-zione e “sputtanare” i potenti. Ad esempio, il sindaco emerito di Bogotà, Mokus, riuscì a di-minuire gli incidenti stradali usando un “esercito” di clown al posto della polizia, ed in qualche mese si riuscì a con-sapevolizzare le persone attra-verso scenette, pianti, risate,

prese in giro. La n o n v i o -lenza im-plica una f e r v e n t e attività di f a n t a s i a : in questo senso è molto più f a t i c o s a della vio-lenza.

Occorre lasciare i vecchi for-mat e sperimentarne di nuovi, fare entrare l’ironico e il ridi-colo nell’attività politica. Come quando alcuni del gruppo Arte Migrante di Bologna, in occa-sione dell’ultimo comizio di Salvini a novembre scorso, si sono vestiti da leghisti per ac-cedere inosservati alla loro ma-nifestazione, per poi mettersi a ballare e danzare tra i devoti salviniani, ottenendo il loro to-tale spiazzamento. Forse pochi

militanti dei collettivi autono-mi accetterebbero di mettersi dei vestiti leghisti, o di fingere di essere “un nemico”. Perché? Perché non si vuole lasciare il

caro e comodo vecchio format, la propria cornice. Si vuole mantenere la nostalgica forma dello scontro, del duro e puro, del “celerino morto”. E poi cosa scrivono sui manifesti dopo averle prese una intera giorna-ta? “Grande resistenza sul pon-te di Stalingrado!”.Sempre il buon Gandhi ci dice come occorra amare chi ci odia per seguire la via della satyagraha o nonviolenza. Non leggerei questa frase come un comandamento imprescindi-bile dalle nostre scelte o come un dogma del sacrificio non-violento, bensì da un punto di vista tattico. Non considerare la persona da sconfiggere “un nemico da odiare”, ma un altro essere umano come noi ci dà un enorme vantaggio. Primo, perché siamo persone “a tutto tondo”, con lati negativi e lati positivi, celerino compreso. Considerare la possibilità di tenere sempre e comunque aperta una finestra di dialogo è utile. Da un punto di vista in-teriore – ma questa è una idea personale – odiare una perso-na arreca un grande danno a

foto Fausto Carano

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[...] la propria trasfor-mazione da sfidante o vittima a interlocutore,

che utilizza la violenza subita come strumento di comunicazione delle proprie posizioni agli

altri giocatori.

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La vita è un gioco, o meglio un continuo susseguir-si di inviti o possibilità

di giocare, ma il bello è che, a meno che non siamo obbliga-ti, siamo noi a scegliere le re-gole e se partecipare. Se qual-cuno mi tira un pugno posso restituirglielo o arrendermi, accettando le sue regole del gioco, oppure posso cercare di cambiarle e portare anche l’al-tro a doverle rispettare, in un campo a lui meno familiare, in cui avrà bisogno della mia col-laborazione per continuare a giocare.È questa una delle basi della nonviolenza, non la sottomis-sione alla forza dell’altro, ma la propria trasformazione da sfi-

dante o vittima a interlocutore, che utilizza la violenza subita o evitata come strumento di co-municazione delle proprie posizioni agli altri giocatori o agli spettatori.Le possibilità di azioni non voilen-te, in termini di tecniche e strate-gie, sono davve-ro innumerevoli, accresciute con-tinuamente dalla creatività e dall’originalità di generazioni di attivisti. Alcune di queste sono ormai desuete o anacro-nistiche, ma molte sono as-solutamente attuali e, chissà, fare una piccola rassegna di

queste può essere uno spun-to o una spinta per il lettore ad approfondirne qualcuna e, magari, applicarla.Tutte le azioni nonviolente hanno sempre un occhio rivol-to verso il pubblico, ma ci sono alcune tecniche che hanno come scopo principale quello di sensibilizzare la popolazione su alcune tematiche. Volantinag-gio, attività di controinforma-zione, marce, sono tutte azioni comunicative; fra queste una delle forme più creative ed ef-ficaci emotivamente è quella dell’azione teatrale. Si possono mettere in atto delle rappre-sentazioni per strada, coin-volgendo il pubblico, rappre-sentando delle problematiche sociali e chiedendogli come risolverle: è il caso del teatro fo-rum. Uno strumento molto più sottile e potenzialmente esplo-sivo è quello del teatro dell’invi-sibile: una donna entra in un locale, si sente male, ma chie-de ai soccorritori di non chia-mare l’ambulanza, è straniera e ha problemi di documenti. Chi l’ha aiutata lamenta delle ingiustizie subite dai migran-ti e cerca un’altra soluzione,

un altro av-ventore af-ferma invece che bisogna c h i a m a r e a m b u l a n z a e polizia per denunciarla. Fin qui era-no gli attori che avevano

creato questo scenario, quello che seguirà dipenderà da come le persone presenti interver-ranno nella rappresentazione cui inconsapevolmente sono stati inseriti, rappresentando se stessi e le proprie idee in

Strategie e pratiche di non violenza sul campo

di Stefano Fornito

noi stessi. Ci rode, ci annebbia la mente, ci fa prendere scelte di cui in seguito, finito il mo-mento di odio, forse ci pen-tiamo. Essere distaccati, com-battere un’idea o una pratica e mai la persona salva quindi ciò che abbiamo dentro, qualsiasi “dentro” esista in noi.Qui (a Bologna, in Italia, in Eu-ropa) e ora (e non ad esempio durante il Fascismo) la prote-sta nonviolenta potrebbe es-sere invece l’arma più efficace in molte occasioni. Efficace perché con il minor numero di persone si potrebbe ottenere potenzialmente il risultato più concreto e utile che con una ri-sposta violenta. Sensibilizzare la gente, far perdere denaro, credibilità, consensi a una società o a un politico, sono fra gli obbiettivi principali di un’azione non-

violenta. Occorre rimanere concentrati sul proprio obiet-tivo, altrimenti si rischia di ri-tornare a quello, non ufficiale, di natura “socializzante” o “di sfogo” che traspaiono tanto nei movimenti anarchici, qu-nato nei circoli della lega e o nelle bocciofile per gli “anziani comunisti”. É certo un aspet-to importante, tuttavia non è l’obiettivo principale. Manife-stare per stare insieme e fare gruppo no, essere gruppo per manifestare sì. Bisogna ricor-darsi che sì, siamo sempre in guerra, ma in una guerra in-telligente, creativa, nonviolen-ta.�

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una situazione critica e di for-te impatto emotivo.Se invece l’obiettivo è spingere il proprio avversario a interrom-pere o modificare pratiche che si reputano ingiuste, allora il repertorio nonviolento offre un’ampia gamma di tecniche di non-collaborazione, boicot-taggio o intervento diretto. Uno degli esempi più antichi e originali di boicottaggio socia-le è raccontato nella commedia greca Lisistrata in cui tutte le donne di Atene arrestano ogni tipo di prestazione ses-suale fino alla cessazione della guerra: alla fine l’han-no vinta, ma è solo teatro. Oggi sono numerose invece le forme di boicottaggio sociale, politico o economico nei con-fronti di stati interi che ap-plicano politiche repressive e violente, multinazionali che non rispettano l’ambiente e i diritti dei lavoratori, istitu-zioni e politici corrotti. Segui-re continuamente un politico o i rappresentanti di un’isti-tuzione, denunciando le loro malefatte e delegittimandone i discorsi e la presenza in si-tuazioni pubbliche, può arri-vare a fargli commettere atti violenti e incontrollati, che li renderanno più vulnerabili e obbligati a scendere a compro-messi. Pressioni di questo tipo compromettono la reputazio-ne dell’avversario, lo isolano politicamente ed economica-mente, associano il suo nome a pratiche ingiuste che aveva cercato di nascondere, ma rese note ad esempio con la con-segna del premio al peggiore (il nobel per la guerra, l’inquina-tore dell’anno) o l’istituzione di record, come quello del sindaco responsabile di più sgomberi, per fare un esempio.

Il boicottaggio di beni può essere accelerato da azioni spettacolari e teatrali nei su-permercati per spingerli a non commercializzare i prodotti di certi marchi, con forti effetti mediatici e ingenti danni eco-nomici ai propri avversari. E se l’obiettivo è combattere, o almeno non collaborare con lo strumento di coercizione violen-ta più potente in mano agli stati, ovvero l’esercito, le cose si fanno complicate. Quando esisteva la

leva obbligatoria in Italia, cen-tinaia di pacifisti hanno subi-to processi ed incarcerazioni per l’obiezione di coscienza, fino a quando è stato istituito il servizio civile in sostituzione di quello militare. Dagli anni ’80, inoltre, è nata una nuova pratica: l’obiezione di coscienza alle spese militari, detta anche «obiezione fiscale», che consi-ste nel non pagare la percentuale di tasse che si stima sia destina-ta alle spese militari e devolverla altrove, assumendosi tutte le pene che sono previste per gli evasori.Gli interventi diretti sono inve-ce quelli più delicati, quelli che mettono più in pericolo la sa-lute degli attivisti a causa del-la repressione, e che rischiano di compromettere l’immagine dell’azione in caso di disordini ampliati mediaticamente. Abbonda un gran numero di

“-in”, dai più comuni a quelli meno familiari: sit-in, stand-in, read-in, milt-in (occupa-zione di un luogo continuando a muoversi), ride-in (occupa-zione dei mezzi di trasporto, tipica del movimento antise-gregazionista afroamericano), teach-in, sleep-in, die-in (una delle più grandiose fu la si-mulazione di morte atomica a Roma nel 1983, in cui cento-mila persone si accasciarono a terra al suono di fortissime

sirene), vomit-in (in consi-gli generali, assemblee, tri-bunali, forzarsi a vomitare quando è presa una deci-sione ingiusta). Spesso la presenza di videocamere degli attivisti che si occu-pano della comunicazione, o dei giornalisti, è decisi-va nell’evitare violenze da parte dei propri avversari, o almeno è utile a testimo-

niarle.In tutti i casi una rigorosa di-sciplina nonviolenta mette in seria crisi i dispositivi di re-pressione che sono abituati a utilizzare la forza per levarsi di torno presenze scomode, giustificati e appoggiati dall’o-pinione pubblica, la resistenza passiva invece mostra la bontà non solo delle proprie posizio-ni ma soprattutto del modo di esprimerle, e può attirare soli-darietà e consensi.Immaginiamo uno scenario fra quelli qui citati: all’improv-viso appare il proprio avver-sario fuori di sé oppure una squadra di omini blu armati fino ai denti con caschi e scu-di trasparenti, non c’è bisogno del loro libretto di istruzioni per capire quali sono secondo loro le regole del gioco, sta noi far capire e far rispettare le no-stre. �

commons.wikimedia

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Aprire spazi di pacePeace Brigades International fra non violenza e diritti umani

di Roberto Meloni

Sarebbe bello avere una bacchetta magica, recitare una formula difficile da pronunciare ma molto efficace appena terminata,

dormire una notte intera e risvegliarsi così, magicamente, in un mondo di pace. In un mondo dove i diritti fondamentali di tutti vengono rispettati perché qualcuno, tempo addietro, ha stabilito

che quei diritti sono fondamentali. Fondamentali per tutti gli essere umani. Sarebbe certamente bello avere quella bacchetta

magica. Ma così non è.

Lavorare per aprire spazi di pace è invece l’obietti-vo di Peace Brigades In-

ternational, organizzazione non governativa internazio-nale che nasce in Canada circa trentacinque anni fa e lavora in vari paesi del mondo con lo scopo di promuovere la non violenza e difendere i diritti umani.Ma cosa significa “difendere i diritti umani”? Cosa spinge ra-gazzi e ragazze provenienti da tutto il mondo ad impegnarsi

nella difesa dei diritti umani? Peace Brigades International aspira a un mondo in cui le persone affrontino i conflitti in maniera nonviolenta, in cui si difendano in modo univer-sale i diritti umani e in cui la giustizia sociale e il rispetto interculturale siano una real-

tà. PBI lavora in paesi in cui le comunità subiscono intimi-dazioni, repressione e violenti

conflitti. Per loro stesso dire, gli uomini e le donne che lot-tano in difesa dei diritti umani rappresentano il cuore di tut-to quello che l’associazione fa. L’associazione fornisce prote-zione, supporto e riconoscimento agli attivisti e attiviste per i di-ritti umani locali che hanno ri-chiesto l’aiuto dei volontari di PBI perché lavorano in zone in cui c’è repressione e conflitto. PBI aiuta gli attivisti e le atti-viste a fare rete e ad accrescere la consapevolezza rispetto alle

pbdcolombia.org

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Siamo convinti che una duratura trasformazione del conflitto non possa giungere dall’esterno, ma si debba basare sulla capacità e sulle aspirazioni della

popolazione locale.

problematiche che devono af-frontare. Le attività che l’asso-ciazione porta avanti in tutti i suoi progetti sono di sensibiliz-zazione e stimolo a diversi livelli – dal soldato che si trova al check point locale fino agli organi di governo nazionali e agli or-ganismi internazionali come le Nazioni Unite – per favorire l’assunzione di responsabilità in-ternazionale rispetto alla tutela dei diritti umani. Lo scopo di-chiarato dei volontari interna-zionali è quello di mandare un potente messaggio: il mondo sta a guardare ed è pronto ad agire.Dall’ultimo rapporto annuale dell’associazione si legge “Noi crediamo che non si possano ottenere una pace stabile e del-le soluzioni durature ai conflit-ti attraverso metodi violenti. Lavoriamo sempre su richiesta degli attivisti e delle attiviste per i diritti umani e in rispo-sta alle loro esigenze. Siamo convinti che una duratura tra-sformazione del conflitto non possa giungere dall’esterno, ma si debba basare sulla ca-pacità e sulle aspirazioni della popolazione locale. Evitiamo l’imposizione, l’interferenza o il coinvolgimento diretto nel lavoro svolto da chi accompa-gniamo. Non forniamo sup-porto finanziario o sostegno

allo sviluppo alle organizzazio-ni con cui lavoriamo. Il nostro lavoro è efficace perché utiliz-ziamo un approccio integrato, combinando la presenza sul campo accanto agli attivisti e alle attiviste per i diritti uma-

ni con il mantenimento di una estesa rete di supporto inter-nazionale.”La bacchetta magica non c’è ancora. Ed è proprio per que-sto motivo che ragazzi e ragazze si im-pegnano con PBI in vario modo. I pro-getti sul cam-po ad oggi aperti sono in Colombia, G u a t e m a l a , Honduras, In-donesia, Ke-nia, Messico e Nepal – paesi nei quali gli attivisti e le attiviste per i diritti umani subiscono in-t imidazioni , molestie, per-secuzioni, arresti, sparizioni forzate, torture e uccisioni a causa delle loro idee e delle loro azioni. Usando le informazioni dettagliate e precise degli atti-visti e delle attiviste impegna-te sul campo, l’associazione promuove la sensibilizzazione e mobilitazione della comuni-tà internazionale, per contri-buire a rendere il mondo un luogo più sicuro per chi si im-

pegna per i diritti umani. Per capire meglio il lavoro di que-sta realtà del pacifismo mon-diale, è bene ricordare qualche numero: in particolare il rap-porto annuale di PBI afferma, fra le altre cose, che “nel 2014

PBI ha garantito protezione ed appoggio a 124 attiviste e 167 attivisti dei diritti umani di 57 organizzazioni. Nel com-plesso, queste organizzazioni

appoggiano migliaia di donne, uomini, bambine e bambini a cui vengono negati i diritti fondamentali perché espulsi con la forza dalle loro terre, o spettatori delle “sparizioni” di familiari o sottoposti a tor-tura e violenza da parte delle forze armate. Nel 2014 PBI ha garantito 1738 giorni di accom-pagnamento fisico alle attivi-ste ed agli attivisti dei diritti umani. Abbiamo visitato le organizzazioni e le persone ac-compagnate 407 volte nel 2014. Queste visite e riunioni danno appoggio morale e consulenze pratiche, e consistono nel ve-rificare lo stato di benessere delle attiviste e degli attivisti e nel dare aiuto con risposte concrete a specifici incidenti di sicurezza.”I volontari di PBI si sono però organizzati anche in gruppi

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nazionali in 15 diversi paesi del mondo. Senza i gruppi nazio-nali, PBI non potrebbe offrire un accompagnamento protet-tivo alle attiviste e agli attivisti

per i diritti umani e avrebbe un sostegno e un impatto in-ternazionale limitato. I grup-pi nazionali contribuiscono a cercare, formare e sostenere i volontari internazionali di PBI, raccolgono i fondi per i progetti sul campo, sviluppa-no legami con i parlamentari, il personale delle Ambascia-te, avvocati, giudici, studiosi, ONG, Chiese, comunità e sin-goli individui per sostenere i difensori dei diritti umani. I gruppi nazionali fanno atti-vità di sensibilizzazione sulle violazioni dei diritti umani e fanno attività di advocacy per stimolare l’azione della comu-nità internazionale.Sarebbe bello avercela quella bacchetta magica. Per il mo-mento però c’è ancora tanto e tanto lavoro da fare per per-mettere agli attivisti che si oc-

di Sara Ballardini

Yomaira ed Enrique, contadini afrodiscen-denti, ci parlano con

commozione del loro forte le-game con la terra e della loro appartenenza alla comunità afrocolombiana. La loro voce non esita neanche un momen-to nello spiegarci che, essendo contadini afrodiscendenti in Colombia, sono vittime degli interessi delle imprese agroin-dustriali, che non lasciano spa-zio alla coltivazione tradizio-nale della terra. E la violenza è la strategia usata per imporre i megaprogetti. Yomaira ed Enrique (con altre centinaia di famiglie ) hanno preso una posizione chiara:

nonviolenza e difesa del terri-torio. Sorge spontanea la do-manda: “Come siete arrivati a questa scelta? Perché la non-violenza?” Ma come potrebbe Enrique raccontarci in poche parole gli anni dello sfollamen-to, le assemblee fino a notte fonda, la ricerca di appoggio internazionale, la costruzione di rete fra comunità, il percor-so di formazione con giovani e adulti, i gruppi di donne, le vittime, le minacce e gli attac-chi, le diffamazioni, le senten-ze giuridiche...? Non ci sono parole sufficienti. Ma la sua ri-sposta risuona chiara: “La non violenza è l’unica possibilità reale che abbiamo. Se ci lascia-

Il coraggio della nonviolenza: testimonianze dalla Colombia*

cupano di diritti umani di fare il loro lavoro, di autodetermi-narsi, di lottare con metodi pacifisti e non violenti per un mondo più giusto. La non vio-

pbd-italy.org

lenza e il pacifismo esistono e PBI dimostra che anche solo una goccia è importante per far si che l’oceano non si pro-sciughi. �

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La non violenza ci fa più forti, ci dà

una forza diversa.

Afrocolombiane. Sono le popolazioni discendenti dagli schiavi deportati dall’Africa durante il colonialismo. CONPAZ. Rete di 110 comunità colombioane a cui appartengono Enrique e Yomaira. ht-tps://comunidadesconpaz.wordpress.com/

Curvaradó e Jigua-miandó.

In queste zone della Co-lombia, a partire dal 1996, le incursioni e i massacri fatti da paramilitari ed esercito hanno costret-to alla fuga le comunità contadine. Con la scusa di combattere la guerri-glia, militari e parami-litari hanno attaccato i contadini; chi è soprav-vissuto e fuggito (“solo con gli abiti che aveva addosso, abbandonando tutto”, ricordano Yomai-ra ed Enrique) è rimasto sfollato per anni, in pre-carietà assoluta.

Quando, dopo anni, alcu-ne famiglie sono riuscite a tornare sulle proprie terre, le hanno ritrovate coperte da estese pian-tagioni di palma da olio, introdotta da impresari (in seguito condannati per collaborazione con i paramilitari). I tribuna-li hanno dato ragione ai contadini, riconoscendo che la terra gli appartie-ne e ordinando lo sgom-bero degli impresari; ma l’occupazione illegale dei territori continua oggi, mentre i contadini che rivendicano la propria terra vengono attaccati con ogni forma di violen-za (vari sono stati uccisi, anche recentemente).

mo provocare e coinvolgere in atti di violenza, daremo la scu-sa per schiacciarci come zan-zare. La nonviolenza ci fa più forti, ci dà una for-za diversa da quella che usano impren-ditori e paramilita-ri/militari.”Yomaira ed Enrique sono do-vuti scappare dalla loro terra, dopo anni di attivismo nelle proprie comunità, e dopo aver denunciato gli assassini dei propri familiari. In pochi mesi hanno subito sette attentati e decine di minacce e diffama-zioni. Entrambi hanno dovuto lasciare il proprio Paese chie-dendo rifugio temporaneo in Europa. Nella sofferenza del-la distanza (e con le minacce che continuano contro le pro-prie famiglie), hanno deciso di raccontare la loro storia per comunicarci in prima persona quello che succede in Colom-bia, e per coinvolgerci nella loro resistenza nonviolenta in difesa del territorio. In Trentino, ci hanno invitato a riflettere sui nostri acquisti e sugli investimenti che faccia-mo (il messaggio di Enrique è chiaro: “Credo non vogliate mangiare banane sporche del nostro sangue”); hanno chie-sto di fare pressione sui nostri politici, affinché l’Italia smetta di appoggiare le politiche che violano i diritti umani in Co-lombia; hanno chiesto di at-tivarci per chi (come loro) sta subendo attacchi a causa del loro ruolo di leader della resi-stenza nonviolenta. E ci hanno invitato ad andare a trovare le loro famiglie, nel

Curvaradó (Chocó - Colom-bia), perché, oltre le parole, è l’esperienza diretta che ci fa capire la straordinarietà della

loro scelta. Come volontaria di Peace Brigades In-ternational (PBI), ho camminato a

lungo per i sentieri e le strade del Curvaradó e del Jiguamian-dó. L’obiettivo della presenza di PBI nella zona è protegge-re attivisti come Enrique e Yomaira e permettere loro di portare avanti le proprie riven-dicazioni, forti dell’accompa-gnamento internazionale. Yomaira ed Enrique ci hanno commosso con le loro parole e i loro volti segnati dalla soffe-renza; è una commozione che ci chiede di muoverci, di prose-guire, sempre più convinti, nel cammino della nonviolenza, sostenendo le Zone Umanita-rie del Curvaradó e Jiguamian-dó e i loro leader. Ci chiede di fare rete tra le tante organizza-zioni che si occupano di pace e diritti umani (in prima fila nell’organizzare l’incontro con Yomaira e Enrique sono stati il Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani, Operazione Co-lomba, il Centro di Educazione Permanente alla Pace di Ro-vereto, Il Gioco degli Specchi, Yaku e PBI Italia Onlus), per rendere la nostra azione più efficace, qua in Trentino come in altre regioni del mondo. �

*articolo pubblicato sul sito dell’associazione AZIONE NON VIOLENTA

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A volte capita che i poten-ti rispondano “di pan-cia” agli attacchi terro-

ristici, ed è allora che scoppia la guerra: i bombardamenti però non colpiscono solo il tanto temuto nemico barbuto, ma anche i civili, i bambini, le donne, gli ospedali. Dicono i politici: “Dobbiamo risponde-re all’invasione dei musulma-ni”. Peccato che una recente ricerca Ipsos Mori sostenga che in Italia i migranti rappre-sentino il 7% della popolazio-ne, percentuale che scende al 4% se si parla di musulmani. Si può definire invasione questa? Eppure, l’occidente sembra faticare a trovare risposte ai problemi complessi del nostro tempo, come le migrazioni: oltre alle bombe, stiamo as-sistendo alla chiusura delle frontiere, alla militarizzazione dei territori, alla dichiarazio-ne di stato d’emergenza, con conseguente sospensione della democrazia. Ma ci sono alter-native a tutto questo? Alcune realtà dimostrano che, come si usava dire una volta, “un altro mondo è possibile”.Parliamo ad esempio di Opera-zione Colomba, il corpo non-violento di pace della comu-nità Papa Giovanni XXIII, che

dal 2004 opera in Palestina. Anche in un territorio come quello, dove la guerra si vive tutti i giorni, è possibile agire secondo principi nonviolenti: i volontari scortano i bambini palestinesi a scuola, accompa-gnano i pescatori in mare e la-vorano per avviare un dialogo tra le parti belligeranti. Ope-razione Colomba ha progetti anche in Libano, in Albania e in Colombia, dove la filosofia è sempre la stessa: la nonvio-lenza è l’unica via per ottene-re una pace vera, fondata sulla condivisione e sull’accettazio-ne dell’altro. Sempre in Palestina, un’altra realtà interessante è il Comi-tato popolare delle colline al sud di Hebron, nato nel 1999 ad At-Tuwani in seguito alla deportazione armata della popolazione di 15 villaggi da parte dei coloni israeliani. La Palestina è maestra in mate-ria di resistenza popolare non violenta, e in quell’occasione è stato evidente. Gli abitanti, subito dopo essere stati sgom-berati, si sono riuniti in questo Comitato, dandosi due regole: la prima, “non lasciare mai la terra, qualsiasi cosa accada”, la seconda, “per farlo, non usare mai la violenza”.

Così il Comitato popolare del-le colline al sud di Hebron ha basato la sua resistenza sulla non risposta alle armi, sul dia-logo con le forze militari isra-eliane, in collaborazione con altre associazioni palestinesi e estere. Una strategia che vieta l’uso della forza non dà effetti immediati, è vero, ma a lungo termine risulta vincente. E i ri-sultati si sono visti: in 17 anni di operato, si è riusciti a otte-nere uno spazio dove sono sta-te costruite una clinica e una scuola, e dove si può usufruire dell’elettricità e dell’acqua cor-rente. Purtroppo, l’assurdità della guerra porta ancora i bambi-ni di At Tuwani a dover essere scortati nel tragitto casa-scuo-la, per non essere vittime dei continui attacchi dei coloni israeliani. Anche i pali della luce sono stati presi di mira: dovevano essere abbattuti, erano già arrivate le ruspe, quando uno scudo umano di donne palestinesi si è frappo-sto. Insomma, i problemi an-cora sono enormi, ma almeno risulta chiaro che i risultati prima o poi arrivano, se si sce-glie di combattere con l’arma della nonviolenza. �

OPERAZIONE COLOMBA

di Francesca Notarituwaniresiste.operazionecolomba.it

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Tiziano Terzani

Giornalista di pace in tempo di guerradi Giovanni Modica Scala

Nel lontano 2001, quan-do aveva già chiuso i conti con il giornali-

smo ritirandosi nelle amene vette dell’Himalaya, Tiziano Terzani decide di tornare in campo in seguito all’attentato terroristico dell’11 settembre.Quella che si presentava era una “buona occasione per ripen-sare tutto: i rapporti tra Stati, tra religioni per fare un esame di coscienza, accettare le nostre re-sponsabilità di uomini occidentali e magari fare finalmente un salto di qualità nella nostra concezione della vita”.Dopo le esperienze di guerra in Vietnam, Cina e Cambogia,

sente l’irrefrenabile “bisogno di fare il corrispondente non di guer-ra ma contro la guerra”.La forma prescelta per questo ‘pellegrinaggio di pace’ tra la frontiera pak-afghana (Pe-shawar, Quetta), Kabul e Delhi è quella delle lettere, coerente-mente con il desiderio di po-tere scrivere senza limitazioni di spazio, libero dalla perento-rietà delle scadenze: un accor-do con Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, gli permette di tornare a fare il proprio mestiere. Questi testi andranno a costi-tuire Lettere contro la guerra, la cui dedica è riservata al nipo-

tino Novalis, sua fonte di ispi-razione come lo stesso autore ebbe a confessare in Un altro giro di giostra: “Due anni, curio-so e inconsapevole, pieno di entu-siasmi e ancora senza quel senti-mento che presto soffoca tutti, la paura. Volevo lasciargli qualcosa che non fosse solo il ricordo di un nonno con la barba”.Ne esce fuori un’opera di gran-de valore in cui si fonde una grande dote narrativa - che illumina anche le descrizioni dei paesaggi martoriati dal-la guerra – con analisi stori-che, geopolitiche e filosofiche cristalline che conducono il lettore alla conclusione del-

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“Devi andare a sentire le ragioni degli altri.

Oggi il grande problema è che ci viene impedito di sapere cosa vogliono gli

altri, chi sono.”

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la vanità di ogni violenza. Si parla dalle radici afghane del panislamismo, del dramma del mondo musulmano nel suo confronto con la modernità, del ruolo dell’Islam come ide-ologia anti-globalizzazione e, ripetutamente, della necessità da parte dell’Occidente di evi-tare una guerra di religione. Si citano personaggi storici più o meno celebri: da Gandhi a Bandshah Khan (“il musul-mano soldato di pace”), leader afghano che si unì giovanissi-mo al movimento di Gandhi e dedicò tutta la sua vita a con-vincere i pashtun, una delle et-nie più bellicose della terra, a rinunciare alla violenza; senza trascurare Ashoka, imperatore che, nel III sec. a.C., dopo l’en-nesima conquista, si rese con-to dell’assurdità della violenza e cominciò a scolpire nella pie-tra manifesti antimilitaristi.Non ritengo opportuno soffer-marmi a lungo - in quanto già ripetutamente sviscerata dopo i fatti di Parigi - sulla polemi-ca alimentata dalla querelle con Oriana Fallaci, sostenitri-ce dell’egemonia occidentale e, nella sua essenza, islamo-foba. Rimandando alla lettura integrale dell’interessante di-battito tra i due fiorentini, mi limito a sottolineare l’impa-

reggiabile onestà intellettuale che permea Lettere contro la guerra facendone un trattato di antimilitarismo ‘raziona-le’: “con queste lettere non cerco di convincere nessuno – sostiene Terzani nell’incipit – voglio solo far sentire una voce, dire un’altra parte di verità, aprire un dibattito perché tutti prendiamo coscienza, perché non si continui a preten-dere che non è successo nulla, a far finta di non sapere che ora, in Afghanistan, migliaia di persone vivono nel terrore di essere bom-bardate dai B-52, che in questo momento un qualche prigioniero,

portato incappucciato e incate-nato a venti ore di volo dalla sua terra, viene ora ‘interrogato’ su un ultimo lembo di terra coloniale degli USA a Guantanamo, mentre gli strateghi della nostra coali-zione contro il terrorismo stanno preparando altri attacchi in chi sa quali altri paesi del mondo”.Per il giornalista fiorentino, non si tratta di giustificare ma di capire. Emerge qui, a propo-sito del ruolo dell’intellettuale, l’essenzialità della pratica del dubbio: “Dubitare è una funzio-ne essenziale del pensiero. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo, ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte al-trui e mi si lasci porre delle oneste domande”.Ciò che anima l’opera di Ter-zani sono le ragioni degli altri: “tutto il mio lavoro di giornalista prima e, ora, di vecchio viaggia-

tore è sempre stato quello di rap-presentare il punto di vista degli altri. Nelle guerre ci sono sempre due parti: se stai da una parte sola non capirai mai cos’è la guerra. Devi andare a sentire le ragioni degli altri. Oggi il grande pro-blema è che ci viene impedito di sapere cosa vogliono gli altri, chi sono”.Altro leitmotiv delle lettere è la riflessione filosofica sull’i-dea di progresso che ha deter-minato, paradossalmente, un drammatico imbarbarimento dell’uomo: “Anni di sfrenato ma-terialismo hanno ridotto e mar-ginalizzato il ruolo della morale nella vita della gente, facendo di valori come il danaro, il successo e il tornaconto personale il solo me-tro di giudizio. Senza tempo per fermarsi a riflettere l’uomo del be-nessere e dei consumi ha come per-so la sua capacità di commuoversi e di indignarsi”.“Che fare?”, dunque, si chie-de in chiusura Terzani. La so-luzione, oltre all’abbandono della violenza come mezzo di risoluzione di qualsivoglia controversia, consiste in una rivoluzione interiore: “Ancor più che fuori, le cause della guer-ra sono dentro di noi. Lentamente bisogna liberarcene. Opponiamo-ci – inveisce – non votiamo per chi appoggia una politica che in-veste sulla militarizzazione delle nostre società, controlliamo dove abbiamo messo i nostri risparmi e togliamoli da qualsiasi società che abbia anche lontanamente a che fare con l’industria bellica, intro-duciamo una cultura di pace nei giovani. Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo quello dell’abbrutimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, del-la nostra estinzione? Allora: buon viaggio! Sia fuori che dentro.” �

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Chiunque voglia interagi-re con la nostra redazione, inviare materiale proprio o dare qualsiasi tipo di se-gnalazioni e reclami (anche in forma anonima), può uti-lizzare i contatti seguenti:

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Crediti fotografici:- Andrea Scarfò | p. 13

- Fausto Carano | pp. 16,17,18- Giuseppe Mugnano | p. 15

Illustrazioni e immagini:- Guglielmo Manenti | p. 6

- Bansky | pp. 10,28

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S O S T I E N I L ’ A S S O C I A Z I O N E :

Carlo Tamburelli

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