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    Ecologia dell'attenzione

    Un pezzo pubblicato su Link, febbraio 2009. Grazie alla redazione che mi permette di postarlo

    anche qui.

    Ecologia dell'attenzione

    Televisione, radio, giornali. Posta elettronica, social network, blog. Messaggi sonori nelle stazioni,

    cartelloni pubblicitari nelle vie della citt, telecamere per la sicurezza degli uffici. La presenza

    capillare dell'informazione nella vita quotidiana delle persone nei paesi occidentali un'esperienza

    generalizzata. Ciascuno ne fruisce e ne genera in continuazione. La quantit di messaggi cresce

    inesorabilmente, senza un ordine apparente. Cresce e basta. Il crollo del costo delle comunicazioni

    anche l'inflazione dei messaggi. Mai come in questa epoca il concetto di "information overload", il

    sovraccarico di informazioni che si contendono l'attenzione della gente, una condizione con la

    quale ogni ricerca sulla vita sociale deve fare i conti. C' evidentemente una ricchezza straordinaria

    nell'abbondanza di informazioni. Ma c' anche il rischio di una paralisi delle idee, di fronte

    all'eventuale ingestibilit dell'inflazione di informazioni.

    E' un problema che ne contiene molti. E che si rivela strategico per tutta l'industria editoriale, per le

    piattaforme mediatiche, per gli autori e, naturalmente, soprattutto per il pubblico. Richiede una

    ridefinizione dei ruoli per tutti gli attori coinvolti, nel complesso passaggio storico che attraversano

    le societ post-industriali. E si comprende solo nella consapevolezza del fatto che l'information

    overload non solo l'effetto della moltiplicazione dei messaggi, ma anche la conseguenza del

    fallimento dei sistemi che dovrebbero filtrare l'informazione, come per esempio suggerisce

    l'internettologo Clay Shirky. Nel caos creativo cui assistiamo in questa fase di passaggio, si

    sperimentano strategie pi o meno sostenibili. Quali sono i percorsi che ci possono condurre a

    costruire un ecosistema dell'informazione pi sano e vivibile?

    Di certo, l'elaborazione di nuovi strumenti concettuali e pratici per affrontare il sovraccarico di

    messaggi e la loro svalutazione sempre pi urgente. E le ricerche nate intorno al concetto di

    "economia dell'attenzione" sono un fecondo spunto di riflessione. E' una ricerca teorica. Ma

    http://blog.debiase.com/CoverLinkFebbraio2009.html
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    anche, in un certo senso, una questione di sopravvivenza culturale. Perch, probabilmente,

    l'information overload non una novit di per s: nuova l'ansia che viene associata al fenomeno.

    C' una moltiplicazione dei messaggi e contemporaneamente una crisi dei modi per filtrarli, anche

    come conseguenza di una crisi delle letture sintetiche del presente. Il che pienamente

    comprensibile. Durante una grande trasformazione epocale, una popolazione pu reagire

    proiettandosi fiduciosamente nella costruzione del futuro, oppure dilaniandosi in un labirinto didubbi e paure. Oppure, dividendosi in gruppi che reagiscono in modo diverso, in base alle loro

    tensioni culturali, abitudini mentali, strutture organizzative, capacit interpretative e di adattamento.

    E poich molti segnali ci inducono a pensare che il presente sia un periodo storico caratterizzato da

    una profondissima trasformazione, connessa alla globalizzazione dell'economia alla digitalizzazione

    dei media, alla smaterializzazione dell'economia, non stupisce che uno dei fenomeni emergenti sia

    la difficolt di leggere la prospettiva che le persone possano adottare per darsi un progetto cui

    dedicare la vita.

    1. Critica dell'attenzione

    Il concetto di "economia dell'attenzione" ha ormai una storia piuttosto lunga. Gi nel 1971, Herbert

    Simon, premio Nobel per l'economia, scriveva: L'informazione consuma attenzione. Quindi

    l'abbondanza di informazione genera una povert di attenzione e induce il bisogno di allocare

    quell'attenzione efficientemente tra le molte fonti di informazione che la possono consumare. In un

    contesto nel quale l'informazione sovrabbondante, si assiste a una crescente scarsit di attenzione.

    La teoria economica tradizionale ha trattato questa scoperta in modo piuttosto ovvio: la scarsit di

    attenzione ne aumenta il valore per chi riesce a produrla e rivenderla. L'industria che pi di ogni

    altra capace di produrre attenzione quella dei media. E chi ha pi interesse ad acquistarla la

    pubblicit. Su questo semplice assunto si basata gran parte della crescita impetuosa della

    televisione e dei giornali nell'ultimo quarto del secolo scorso. E su questa idea, per qualche motivo,

    si pensa in questo secolo che si possa basare anche una gran parte dello sviluppo dei nuovi media

    digitali, internet in testa.

    Ma che questa concezione sia esatta, o lo sia ancora, tutto da dimostrare. E gi nel 1997, Michael

    Goldhaber, nel suo paper intitolato The attention economy, invitava a tener conto della

    complessit dell'argomento. Pensare all'attenzione come a un qualunque bene industriale sempre

    meno soddisfacente: troppe sono le relazioni bilaterali che intercorrono tra chi offre informazione,

    chi la riceve, chi cerca attenzione, chi la concede, chi la vuole sfruttare per deviarla su altri percorsi

    mentali allo scopo di pubblicizzare prodotti e marchi di ogni genere. L'interpretazione lineare del

    processo che va dalla generazione mediatica tradizionale di attenzione al suo trasferimento agliinvestitori pubblicitari si va sciogliendo nella complessit dei nuovi media digitali interattivi.

    Il sistema dei media stesso appare in crisi di fronte alle sue stesse conquiste. La moltiplicazione dei

    canali televisivi digitali, il fenomeno esplosivo della telefonia mobile, il boom dei videogiochi e

    soprattutto la fioritura internettiana delle forme di comunicazione e informazione si sono

    manifestate tutte insieme e in modo relativamente improvviso nel corso di una quindicina d'anni: un

    vero e proprio terremoto che ha messo in discussione la tenuta strutturale del sistema dei media. La

    musica ne stata stravolta. Il mondo dei giornali ne uscito profondamente trasformato. La

    produzione di opere cinematografiche, librarie, televisive ha cambiato radicalmente la sua

    organizzazione. La televisione, in particolare, sembra destinata a combattere ancora a lungo per

    mantenere la sua quota di tempo mediatico generale. Ma come dice Federico Di Chio, uno deimassimi esperti italiani dell'argomento, la tv ha gi perso la colonna portante della sua centralit

    strategica: l'accordo sociale per il quale il palinsesto televisivo coincideva con l'agenda quotidiana

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    dell'intera popolazione.

    Dal punto di vista tecnico, la digitalizzazione forse il fenomeno portante del terremoto mediatico.

    Ma a nulla sarebbe servita se non avesse risposto a un insieme di esigenze particolarmente sentite:

    le persone hanno adottato velocissimamente i nuovi strumenti di comunicazione e informazione,

    probabilmente, anche perch questi consentivano loro di tornare in possesso degli strumenti diespressione e connessione con gli altri che nel periodo d'oro dei mezzi di comunicazione di massa

    avevano in parte perduto. In ogni caso, il crollo del costo della produzione e della trasmissione dei

    messaggi li ha moltiplicati: per opera dei professionisti del business mediatico ma anche e

    soprattutto per il massiccio contributo del pubblico attivo, abilitato dai nuovi mezzi come i blog,

    YouTube, Flickr e i vari social network.

    Il caos che apparentemente ne consegue contemporaneamente un successo dei nuovi media e un

    insuccesso dei vecchi editori, la cui funzione di filtro e il cui ruolo di generatori di sintesi sono al

    momento messi in discussione. Tutto questo ha fatto saltare gli equilibri dell'economia

    dell'attenzione tradizionale. E ha aperto la strada alle citate considerazioni di Goldhaber. Ha creato

    l'immenso spazio di crescita che stato valorizzato da Google, il cui motore tra l'altro unamacchina per la gestione semplificata del caos contenutistico del web. Ha consentito il boom di

    social network come Facebook, che si candida tra l'altro a semplificare la gestione delle

    comunicazioni rese sempre pi complesse dall'esplosione di messaggi di posta elettronica.

    Fenomeno quest'ultimo ormai enorme: ogni dipendente di un'azienda americana riceveva, nel 2006,

    una media di 126 messaggi di posta elettronica al giorno (con un aumento del 55 per cento rispetto

    al 2003); e dedicava alla posta elettronica, dunque all'azienda stessa ma anche a corrispondendi

    esterni, un quarto della giornata lavorativa (secondo uno studio del Radicati Group).

    Non mancano anche i tentativi di monetizzare l'attenzione in modo ancora pi esplicito. In un paper

    di Byron Reeve e altri, intitolato "A marketplace for attention", gli autori tentavano di sperimentare

    una soluzione per filtrare il tempo dedicato alla posta elettronica basata sul pagamento

    dell'attenzione che si dedicava ai messaggi attraverso un sistema di punteggi che poteva in qualche

    modo costituire una sorta di generatore di un sistema di priorit per i messaggi. I risultati sono stati

    eminentemente teorici. Ma il concetto era abbastanza chiaro: in un periodo di inflazione di

    informazioni, l'attenzione non pi soltanto scarsa ma diventa rarissima e costosissima.

    In effetti, si potrebbe immaginare che un'ulteriore crescita dei messaggi innalzerebbe il valore

    dell'attenzione a livelli impagabili. Trasformandola in un valore senza prezzo. In questo senso,

    l'attenzione tenderebbe a sfuggire al terreno tradizionale dell'economia monetaria per entrare nelle

    pi sottili e umanistiche dimensioni dell'economia del gratuito, dei beni relazionali e culturali.L'attenzione che si dedica agli amici e alle persone intime incommensurabilmente pi elevata di

    quella che si dedica ad altre e pi impersonali fonti di messaggi.

    Non si tratta di un fenomeno marginale. Si tratta di un fenomeno che potrebbe diventare strategico.

    E che potrebbe aprire la strada a veri e propri conflitti culturali. In corrispondenza con il

    problematico passaggio dal paradigma industriale a quello dell'economia della conoscenza.

    2. Il conflitto paradigmatico

    Il dibattito pubblico intorno alle difficolt pratiche in cui versa la popolazione dei paesi occidentalirispecchia sempre pi spesso una difficolt teorica: manca un sintetico racconto del percorso che i

    sistemi economici occidentali hanno imboccato e del progetto comune che propongono alle societ.

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    Una difficolt densa di conseguenze per la vita quotidiana, per il consenso sociale, per

    l'incentivazione dell'innovazione, per la coltivazione delle speranze dei giovani, per la costruzione

    di scenari in base ai quali investire. A questo proposito, una delle interpretazioni pi convincenti e

    ripetute sostiene che l'epoca post-industriale destinata a essere governata dall'economia della

    conoscenza. Concetto peraltro in pieno sviluppo. Per non dire ambiguo.

    Nell'economia della conoscenza, il valore si concentra nello sfuggente territorio delle idee:

    informazione, immagine, senso... Si compra, si produce, si desidera il significato che si legge nei

    prodotti molto pi di quanto non si compri, non si produca e non si desideri la materia della quale

    quei prodotti sono fatti.

    Nella scienza economica, questa trasformazione ridefinisce il perimetro di indagine: si ricuce lo

    strappo positivista, per esempio suggerito dall'opera di Lionel Robbins, che aveva imposto di

    escludere dalla ricerca il tema della compatibilit e della comprensione dei fini, obbligando gli

    studiosi a concentrarsi solo sulla questione della scelta e della moltiplicazione infinita dei mezzi.

    Questa nuova consapevolezza abbatte le vecchie barriere che separavano l'economia dalle altre

    scienze sociali, dalla psicologia all'antropologia, dalla storia alla geografia. Perch se il valore nelsenso generato da chi produce e riconosciuto da chi acquista, allora, teoricamente, il baricento della

    questione economica si sposta dal mondo del capitale a quello della persona. E alla dinamica della

    competizione si affianca, profondamente, la dinamica della collaborazione.

    Le conseguenze sono concettualmente rilevantissime. La smaterializzazione dell'economia post-

    industriale e l'avvento dell'economia della conoscenza implicano una grande trasformazione nelle

    forme della propriet, dell'organizzazione produttiva, del rapporto tra pubblico e privato. Cambiano

    il concetto di scarsit, che non si applica pi soltanto ai mezzi, ma anche alle molteplici dimensioni

    della relazione umana: fiducia, attenzione, comprensione. Il prezzo si determina tanto nella

    conversazione quanto nella contrattazione. L'elaborazione di una visione diviene la questione

    strategica dell'azienda, il laboratorio di ricerca - con l'incertezza dei suoi risultati - entra a far parte

    integrante del processo produttivo, la tecnologia cessa di essere il limite del possibile per

    trasformarsi nel suo costante superamento. Il design diventa progettazione e racconto, i media

    diventano distribuzione e conversazione, gli autori diventano generatori di valore e di motivi di

    connessione tra le persone. I fruitori e i produttori tendono in molti casi a coincidere. E la

    complessit prende il posto della linearit: perch nella smaterializzazione della produzione, la

    cultura diventa il luogo dell'economia, molto pi di quanto non lo sia la fabbrica, il mercato o

    l'ufficio.

    Tutto questo sottende una grande quantit di problemi. Dal punto di vista storico: davvero corretta

    la convinzione secondo la quale all'economia industriale succede indubitabilmente l'economia dellaconoscenza? Dal punto di vista epistemologico: siamo arrivati alla consapevolezza sufficiente per

    conoscere la conoscenza intorno alla quale l'economia si starebbe riorganizzando? Dal punto di

    vista antropologico: stiamo costruendo una cultura sufficientemente dinamica, aperta e consapevole

    da consentirci di convivere con il prodotto della nostra evoluzione sociale? E infine dal punto di

    vista meramente umano: la sostenibilit dell'economia industriale ormai molto dubbia, ma la

    sostenibilit dell'economia post-industriale certa?

    Storicamente, in particolare, vediamo che economia post-industriale non significa necessariamente

    economia della conoscenza, anzi: la finanziarizzazione e l'iperconsumismo si candidano a

    perpetuare le modalit economiche fondamentali dell'epoca industriale anche dopo la fine della

    centralit della fabbrica. Questo avviene capillarmente e in molti modi: trasformando la conoscenzain un insieme di beni scarsi attraverso l'ossessiva estensione del sistema della propriet intellettuale,

    invadendo la quotidianit con una enorme quantit di micronotizie finanziarie e pseudomessaggi

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    pubblicitari per mezzo di un sistema mediatico che non se ne pu liberare, occupando il tempo delle

    persone con ogni sorta di obbligo lavorativo e desiderio consumistico, intervenendo sulla coscienza

    delle persone attraverso un'ideologia del denaro fine a se stesso. La finanza e l'iperconsumismo

    possono apparire in crisi, negli ultimi anni, ma non sono certo fenomeni deboli. Anzi, sono

    strutturalmente radicati nelle societ. E dimostrano una resistenza e una resilienza straordinarie.

    Sicch, in questa fase di transizione si assiste a un conflitto culturale profondo: ne pu emergere

    l'avvento dell'economia della conoscenza, fondata necessariamente su una nuova centralit delle

    persone e delle loro relazioni, oppure un'economia post-industriale che si sviluppa in base a una

    riproposizione riadattata del modello spersonalizzante fondato sull'astrazione monetaria.

    In questo contesto instabile, l'attenzione non pi un bene che si conquista e si rivende, ma il

    complesso risultato di una strategia culturale. Alla quale si oppone quella che potremmo chiamare

    strategia della disattenzione.

    La strategia tradizionale dell'economia industriale prevedeva che un messaggio dovesse essere colto

    dal target cui era rivolto. Per ottenere questo risultato, si cercava di ottenere l'attenzione dellepersone e le si colpiva con il messaggio che avrebbe dovuto indurre a comportamenti coerenti

    con gli obiettivi dei produttori del messaggio stesso. Oggi, appare evidente, che molti

    comportamenti dei consumatori possono essere invece indirizzati anche con una strategia opposta.

    Come insegnano le ricerche di Daniel Kahneman e altri, i comportamenti sono molto pi spesso

    dettati dall'intuizione che dal ragionamento. E poich il ragionamento richiede molta pi attenzione

    dell'intuizione, se ne pu trarre la conseguenza che la disattenzione pu essere una condizione

    ideale per favorire certi comportamenti consumisti. Al limite si pu supporre che proprio facendo

    leva sull'information overload, e anzi alimentando la sovrabbondanza di messaggi con ogni genere

    di mezzo, si pu ottenere un risultato piuttosto efficace dal punto di vista della comunicazione.

    Quando si agisce per intuizione, in effetti, si sceglie in base alla prima idea che viene in mente. Se

    un'idea, un messaggio, viene ripetuto in modo molto insistente attraverso molti mezzi e in modo

    coordinato, tende a diventare, per molte persone, appunto, la prima idea che viene in mente. E ad

    essa si tende a ricorrere tanto pi spesso quanto pi si vive in una condizione generale di

    information overload e dunque di disattenzione, che sfavorisce il ragionamento e favorisce

    l'intuizione.

    La sensazione di incertezza generale che deriva dalla sovrabbondanza di messaggi, intesa sia come

    moltiplicazione quantitativa delle informazioni sia come mancanza di un racconto sintetico che aiuti

    a interpretarne l'insieme, che pu portare all'inazione, dunque a comportamenti depressi e orientati a

    ridurre i consumi di fronte all'ansia della scelta, pu essere dunque calmierata da una strategia

    fondata sulla ripetizione di messaggi semplici capaci di installarsi nelle menti e indurre acomportamenti stereotipati, basati sull'intuizione che emerge nella disattenzione. Il rischio di questa

    strategia quello di lanciare un'escalation di messaggi ripetuti che a loro volta moltiplicano gli

    effetti dell'information overload. Si pu parlare a questo punto di inquinamento dell'ecosistema

    dell'informazione.

    La strategia della disattenzione non difficile da implementare. Casomai difficile che ogni

    strategia basata sulla disattenzione funzioni. Ma il risultato generale comunque quello

    dell'inquinamento culturale. E questo pu mettere in difficolt i processi che richiedono davvero

    ragionamento e attenzione. Come quelli che consentirebbero di cogliere tutte le opportunit

    economiche e umane dell'avvento dell'economia della conoscenza. Che richiede una quantit di

    condizioni messe in discussione dall'information overload come un orientamento al ragionamentocontrollato, un ambiente silenzioso e riflessivo, una condizione esistenziale pacifica e per quanto

    possibile serena.

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    Il passaggio storico dunque tutt'altro che scontato. La sostenibilit ambientale, culturale e sociale

    di quest'economia in transizione verso l'ipotizzata epoca della conoscenza tutt'altro che garantita.

    Il che implica una presa di coscienza profonda e un'intensissimo impegno di ricerca.

    3. La sostenibilit nell'ecosistema dell'informazione

    Il valore organizzativo dei media enorme nell'epoca della conoscenza, ancora pi che nell'epoca

    industriale. Dunque, le strutture emergenti nel sistema dei media possono avere un'influenza

    profonda sul risultato di questa transizione. Cos come le strategie di coloro che li pensano, li

    gestiscono, ne interpretano il modello di business e la presenza nella societ.

    La strategia della disattenzione ha punti di forza significativi. Ma non detto che possa funzionare a

    lungo. Nel quadro dell'information overload, una strategia di comunicazione basata sulla ripetizione

    martellante di messaggi semplici, lanciati in modo coordinato su molti media, capace di cogliere

    con intelligenza una distratta attenzione per poi indurre a comportamenti intuitivi, o pococonsapevoli, nella quotidiana disattenzione, pu funzionare. E di fatto funziona benissimo. Ma non

    in tutti i casi.

    E comunque in tutti i casi richiede una crescente quantit di risorse. Con investimenti dal

    rendimento tendenzialmente decrescente. Che per mantenere la loro efficacia nel tempo devono

    aumentare, oltre che trovare forme comunicative sempre nuove. Con il risultato, comunque, di

    aumentare l'information overload e dunque anche il costo globale del lancio di ulteriori messaggi.

    Del resto, tutto questo ha l'ulteriore conseguenza di generare una sorta di inquinamento

    nell'ecosistema dell'informazione che alla lunga lo impoverisce. C' dunque una debolezza

    intrinseca nella strategia della disattenzione. Che non pu non essere segnalata.

    I costi di una strategia dell'attenzione sono molto pi sostenibili, per le singole imprese, per le

    persone e per il sistema nel suo complesso. Questa strategia punta sull'attenzione di alto valore ma

    senza prezzo che si coltiva attraverso le relazioni tra le persone. Agli amici, alle persone alle quali

    ci si sente legati, si dedica un'attenzione umana forte, molto diversa da quella che si cede alle

    sollecitazioni delle campagne mediatiche e pubblicitarie. In questo modello interpretativo,

    emergono altre dimensioni dell'ecosistema della conoscenza che hanno enorme valore, come la

    reputazione, la fiducia, la consapevolezza.

    L'ecosistema della conoscenza vive in modo sano se coltiva l'infodiversit, se i messaggi deboli e

    non urlati non sono continuamente cancellati dalla violenza dei predatori che puntano tutto sullastrategia della disattenzione. Se gli esperti, gli scienziati, gli artisti non sono costretti a traformarsi

    in comunicatori con l'altoparlante sempre acceso solo per farsi notare. Se l'ecosistema trova il giusto

    spazio per tutti, senza selezionare a priori soltanto quelli che sanno occupare il palcoscenico. La

    coda lunga dei contenuti che un ecosistema sano della conoscenza pu far vivere pu essere

    valorizzata soprattutto nel caso che tra i gruppi sociali che generano informazione sussista una

    relazione di simbiosi, non solo di caccia e di lotta per la sopravvivenza.

    La simbiosi si mostra nei casi in cui la relazione tra due specie tale che ciascuna non vive senza

    l'altra. In un certo senso, un grande motore di ricerca sul web non vive senza una grandissima

    quantit di piccoli siti interessanti per poche persone; e questi non vivono senza che un grande

    motore di ricerca consenta a poche o tante persone di trovarli. Analogamente, nel nuovo contestodella rete, gli autori, il pubblico attivo, gli editori, i gestori delle piattaforme di distribuzione e di

    accesso sono potenzialmente specie simbiotiche: nessuna di queste specie vive bene se non

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    trovando il modo di servire le altre. Se una di queste specie tende a dominare parassitariamente

    l'ecosistema, se vive alle spalle delle altre mettendole in una condizione di silenzio, che nel mondo

    dell'informazione equivale all'estinzione, l'infodiversit sparisce e l'ecosistema dell'informazione si

    impoverisce. In particolare, gli editori simbiotici sono servitori del pubblico pi che conquistatori di

    target: la rete ha bisogno di editori che facciano da filtro nella quantit di informazioni disponibili,

    seguendo una linea interpretativa trasparente e riconoscibile. Mentre i gestori di piattaformeservono simbioticamente gli editori, il pubblico attivo e gli autori se favoriscono l'infodiversit

    senza tentare di controllarla.

    Per molti, la creativit rielaborazione continua di idee che sono nell'ecosistema della conoscenza.

    Una rielaborazione che aggiunge un valore che viene poi in parte venduto e in parte restituito

    all'ecosistema stesso.

    Questa implicita collaborazione che si sviluppa anche tra competitori una delle forme pi ricche e

    arricchenti della vita nell'ecosistema della conoscenza. E la sua dinamica quotidiana avviene

    essenzialmente in base alla creativit delle persone che si esprimono e si connettono. Espressione e

    connessione, d'altra parte, sono fruttuose solo se tra le persone stesse si instaura una relazione difiducia, se le persone si riconoscono reciprocamente un'autorevolezza e una buona reputazione, se

    l'elaborazione collaborativa avviene in un clima di consapevolezza del progetto comune, implicito o

    esplicito, al quale si partecipa.

    Fiducia, reputazione, consapevolezza sono elementi di un insieme di beni comuni fondamentali per

    la pacifica convivenza e per la ricchezza di un ecosistema della conoscenza sostenibile. Le strategie

    della disattenzione tendono a consumare questi beni comuni, generando sfiducia, diffidenza e

    disattenzione. Insomma, tendono a inquinare l'ecosistema della conoscenza.

    Nel tempo, per, mentre le strategie della disattenzione costano sempre di pi in termini di

    investimenti in comunicazione e di sostenibilit generale, le strategie dell'attenzione conquistano a

    basso - o nullo - prezzo la capacit di lanciare messaggi credibili, forti e duraturi. Generando

    ambienti culturali pi capaci di ottenere risultati economici di largo respiro innovativo.

    Ci si pu domandare se le regole istituzionali possano essere a loro volta innovate per favorire lo

    sviluppo sostenibile della conoscenza. E la risposta certamente positiva. Ma prima che questo

    possa avvenire, occorre diffondere la consapevolezza di queste dinamiche.

    In gioco c' un valore fondamentale, la grande responsabilit del sistema dei media: la vera risorsa

    scarsa e la meno rinnovabile il tempo delle persone. Cio, la vita delle persone. I media si

    rivolgono alle persone e chiedono essenzialmente il loro tempo. Si pu pensare di schiacciare la vitadelle persone su un iper-persente traboccante di informazioni insensate oppure di liberarla

    elaborando una prospettiva interpretativa che allunghi lo sguardo a una prospettiva consapevole che

    va dal passato al futuro. Intorno a questa idea si possono riformare le metodologie usate per valutare

    l'impatto dei messaggi e la qualit dei media. Pu essere un passaggio strategico per favorire

    l'emergere di una nuova legittimit dei racconti condivisi, delle visioni che accomunano, in rapporto

    alle quali ciascuno pu trovare il modo di contribuire con profitto e soddisfazione al progetto della

    societ. Umanizando, in sostanza, l'idea di economia nell'epoca della conoscenza. Regalando

    attenzione a ci che la merita.

    Luca De Biase

    (pubblicato su Link, febbraio 2009)

    http://www.link.mediaset.it/magazine/magazine_12.shtmlhttp://www.link.mediaset.it/magazine/magazine_12.shtml