Pericle despota democratico

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Paolo Mieli, Corriere della Sera 4 maggio 2010, recensione al saggio di Luciano Canfora "La democrazia di Pericle", incluso nel volume I volti del potere, Laterza, 2010

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Corriere della Sera 4 maggio 2010

Il saggio. Luciano Canfora ridiscute il quadro dei fatti fornito da Tucidide Il tema La decadenza di un

sistema fondato sulla partecipazione popolare

Il fallimento di Pericle despota democratico

Leader disinvolto, indusse Atene a guerre disastrose Una scelta deleteria Asserragliati nelle mura della

città puntando tutto sulla loro flotta gli ateniesi si esposero alla peste Il dominio Luciano Canfora e, in

alto, «L' età di Pericle» dipinto del 1853 del pittore tedesco Philipp von Foltz (1805-1877). Il dominio

assoluto di Pericle sulla vita pubblica di Atene durò per oltre trent' anni, dal 461 a.C. in poi

Paolo Mieli

Racconta Erodoto che la madre di Pericle, quando attorno al 500 a.C. stava per darlo alla luce, «ebbe una visione nel sonno e le parve di partorire un leone». È un dettaglio che ha colpito Luciano Canfora, il quale di qui prende le mosse per un breve ma denso saggio, La democrazia

di Pericle (farà poi parte del volume I volti del potere, Laterza), che tra qualche giorno - il 14 maggio - sarà oggetto di una discussione con gli studenti al Salone del libro di Torino.

La menzione dell' animale, sostiene Canfora, è gravida di significati dal momento che il leone simboleggia la tirannide. Strano questo accostamento tra il «democratico» Pericle e la dittatura, o forse addirittura il dispotismo. E sì che Erodoto non fu affatto un detrattore di Pericle; tuttavia, scrive Canfora, il parto del leone «segnala, quasi come un segno della storia successiva di questo straordinario gigantesco personaggio, quella scena archetipica». L' autore delle Storie, Erodoto, è dunque il primo che stabilisce un nesso tra democrazia e, quantomeno, un comando forte.

Del pari estimatore di Pericle fu Tucidide, che ne raccontò la morte ai tempi della peste di Atene (429 a.C.). Tucidide lo descrive come «personaggio potente, per prestigio e lucida capacità di giudizio, assolutamente trasparente e incorruttibile», in grado di reggere «saldamente il popolo senza però violare la libertà». E capace anche di non farsi «guidare da esso più di quanto non lo guidasse lui» (parole che, osserva Canfora, sembrano soppesate con il bilancino), per il fatto che «non cercava di conseguire il potere con mezzi impropri e perciò non era costretto a parlare per compiacere l' uditorio». La sua Atene, dice Tucidide, «di nome, a parole, era una democrazia, di fatto il potere del primo cittadino». Tucidide in sostanza sostiene che la democrazia funziona solo se, come nell' Atene del V secolo a.C., ad averne in pugno le redini è un leader forte e carismatico. Ciò che, sostiene Canfora, comporta da parte sua un sostanziale «smascheramento della finzione democratica».

Diverso è il giudizio di Platone, nato poco dopo la morte di Pericle. Platone nel Gorgia fa parlare Socrate, il quale inserisce Pericle tra i quattro grandi corruttori della politica (gli altri tre sono Milziade, Temistocle e Cimone), reo d' aver reso «gli ateniesi peggiori di quello che erano». Perché? Per la sua oratoria demagogica - il contrario di quel che sostiene Tucidide - cioè tesa a compiacere gli ateniesi («li ha corrotti, assecondandoli»). E per il fatto che per primo introdusse «un salario per chi si dedicasse ai pubblici uffici». Il che, sempre secondo Canfora, costituisce l' architrave del meccanismo democratico ateniese.

È un tema, quello della natura della democrazia ad Atene nel V secolo, cioè ai tempi di Pericle, sul quale Canfora si è soffermato più volte. Nel recente L' uso politico dei paradigmi storici (Laterza), dove ha ben spiegato come e perché quel termine, democrazia, abbia oggi un significato molto diverso da quello che ebbe venticinque secoli fa. In Un mestiere pericoloso (Sellerio), nel quale prestò attenzione al colloquio, tramandato da Senofonte, tra un Pericle ormai vecchio e un Alcibiade giovanissimo. Argomento della conversazione tra i due è la

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dialettica tra «forza» (o violenza) e «legge». Pericle ammette che quando la violenza è del dèmos («e sta volutamente adoperando le parole costitutive del termine democrazia», fa notare Canfora), quella non può necessariamente chiamarsi illegalità, mentre lo è quando a porsi al di sopra della legge sono «i pochi» o il «tiranno». Ne La natura del potere (Laterza) Canfora ha analizzato con sagacia il giudizio di Tucidide secondo il quale solo quando giunse al vertice del potere Pericle ebbe la forza di porsi come educatore e non come demagogo compiacente. Secondo Tucidide, Pericle giunse alla vetta del comando potendo contare sul suo prestigio sociale, cioè sulla forza rappresentata dal gruppo familiare cui apparteneva, e sul suo essere «palesemente incorruttibile». «In queste parole», nota maliziosamente Canfora, «c' è di sicuro un elemento apologetico visto che il principale artefice della politica periclea di lavori pubblici, cioè Fidia, fu addirittura portato in tribunale con l' accusa di aver sottratto parte dell' oro destinato alla statua di Atena piazzata nel Partenone, edificio simbolo del potere di Pericle». E qualcosa di sospetto in tutta quella gigantesca ondata di lavori pubblici ci doveva essere, se il grande poeta comico Cratino, a un certo punto, lanciò l' accusa di «intenzionale immobilità dei lavori». «Feste e lavori pubblici», prosegue Canfora, «erano il grande strumento di consenso: salario per impegni di lavoro interminabili (vedi la denuncia di Cratino) e cibo più ricco del solito grazie alle feste». In quel periodo «Atene ha il primato di giorni festivi e di celebrazioni festive rispetto a tutta la Grecia e feste vuol dire animali sacrificati agli dei, cioè carne gratis per il popolo». Insomma il consenso era «ottenuto con strumenti che comportavano una evidente utilità sociale». Di lì l' inizio di un tragitto che nel giro di qualche decennio avrebbe portato ad una evidente degenerazione dei costumi.

Nel secolo successivo a quello in cui aveva vissuto Pericle, Demostene, che pure vuole proporsi come erede di Pericle, si mostra consapevole del fatto che non soltanto la corruzione dilaga ma nessuno pensa più di portarla in tribunale. È quasi amata, la corruzione. «Se uno ammette senza mezzi termini di rubare, il popolo ride compiaciuto» afferma Demostene nella Terza Filippica. «Il politico corrotto, e perciò ricco, e perciò potente», osserva Canfora, «suscita ammirazione e la voglia di imitarlo, di fare come lui, per diventare, magari, come lui». Dove ha avuto origine quel percorso che nel giro di qualche decennio ha portato Atene alla situazione descritta da Demostene? Secondo Plutarco l' anno di svolta nella vita di Pericle è il 462 a.C. Da tempo Atene aveva creato un impero marittimo e i marinai erano diventati essenziali per il funzionamento dell' impero divenendo importanti come gli opliti, cioè i guerrieri che si armavano a proprie spese e che, di conseguenza, costituivano una vera e propria classe sociale. Opliti e marinai in qualche modo si bilanciavano nell' assemblea di Atene. In quel 462 alla guida della città c' è Cimone (figlio di Milziade, il vincitore della battaglia di Maratona contro i persiani) grande amico di Sparta. Ed è proprio su esortazione di Sparta che Cimone si impegna in una campagna in Messenia contro gli schiavi, gli iloti, che si sono ribellati. Per questa guerra Cimone mobilita quattromila opliti che fino a quel momento erano stati il perno, o quantomeno uno dei perni, della democrazia ateniese, lasciandola per così dire sguarnita. Ne approfittano due leader, il vecchio Efialte e il giovane Pericle, che tolgono all' Aeropago i poteri giudiziari passandoli ai tribunali popolari. Il che, secondo Canfora, «significava spostare il peso decisivo su un altro ceto». «I quattromila opliti stavano in Messenia a combattere, ed Efialte e Pericle realizzano con il sostegno di un' altra massa cittadina una riforma epocale». E non è tutto. Poco dopo Efialte viene misteriosamente ucciso e c' è chi avanza il sospetto («da prendere con le molle», puntualizza Canfora, che pure non lo considera del tutto privo di fondamenta) che dietro quell' assassinio ci sia lo zampino dello stesso Pericle.

In ogni caso da quel momento Pericle resta padrone del campo. E continuerà a esserlo per oltre trent' anni, facendosi rieleggere ogni dodici mesi. «Trovata geniale» quella di farsi rieleggere ogni anno, ha scritto il grande storico tedesco Eduard Meyer, «perché questo rendeva

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impossibile la richiesta del rendiconto». Allo spirare della magistratura, infatti, sarebbe stato necessario affrontare un processo, il rendiconto, ma Pericle, scrive Canfora, «era già magistrato per l' anno dopo, quindi questa resa dei conti non veniva mai». Già Mario Attilio Levi nel suo Pericle (Rusconi) aveva notato come nel regime democratico ateniese l' unico vero potere esecutivo fosse nelle mani degli strateghi: nel collegio degli strateghi chi era più influente rimaneva più a lungo in carica con le rielezioni e pertanto si finiva per avere una ristretta oligarchia dominante, quella degli strateghi eletti. Fra costoro, poi, «vi poteva essere uno che finiva per soverchiare tutti gli altri». In teoria, scriveva Levi, «ogni cittadino poteva prendere la parola nell' assemblea, ognuno che appartenesse al concilio aveva parte nelle decisioni, anche su qualsiasi questione legislativa o amministrativa, non lasciando margini di poteri delegati in modo definitivo ai magistrati». In pratica «vi erano persone che avevano l' influenza e la capacità di guidare chi era impreparato e non al corrente degli affari». E Pericle fu una di queste persone, anzi lo fu più di ogni altro. Nell' interessante Pericle, l' inventore della democrazia (Laterza) Claude Mossé ha dedicato un intero capitolo all' evoluzione del giudizio sul grande ateniese. Mossé presta grande attenzione agli studi più recenti i quali - pressoché tutti e in particolare quelli di Josiah Ober e Patrice Brun - sono d' accordo con la tesi di Canfora secondo cui non bisogna farsi eccessivamente sedurre da Tucidide, che tende a idealizzare Pericle per meglio contrapporlo ai suoi successori. In primis Cleone, sotto il dominio del quale Tucidide fu esiliato e con cui «lo storico aveva dei conti personali da regolare» (Brun). E, pur riconoscendo l' importanza del fatto che l' Atene del V secolo conobbe la prima esperienza nella storia di una «sovranità detenuta dalla comunità dei cittadini», Mossé definisce il regime politico ateniese dell' epoca in cui Pericle guidò la politica della città, «quasi una monarchia». Ma torniamo a Pericle. Giunto al potere, avvia una politica, scrive Canfora, «di enorme disinvoltura», i cui cardini sono i lavori pubblici (dei quali abbiamo detto poc'anzi) e l' aggressività imperiale. Sotto il profilo militare, sostiene l' autore, si potrebbe dire che Pericle non abbia avuto una straordinaria capacità: la sua unica guerra vinta è quella all' isola di Samo, contro un alleato ribelle; «guerra feroce durata due anni e passa, con dispiegamento di forze incredibile». Tucidide sostanzialmente occulta il catastrofico attacco all' Egitto: una guerra durata sei anni, finita con la perdita di duecento navi e di migliaia di uomini. E perché Pericle si lanciò in quell' avventura? Lo dice lui stesso nel suo ultimo discorso: per allargare l' impero, cioè per ampliare le entrate e avere più risorse per alimentare il dèmos. «Ecco il nesso tra consenso e politica imperialistica» sentenzia Canfora.

Ciò che ci porta dritti al lungo conflitto tra Atene e Sparta (431-404 a.C.) Una guerra diversa da

tutte le altre - come recita il titolo del bel libro di Victor Davis Hanson (Garzanti) - nel senso che per l' epoca ebbe caratteristiche, durata, implicazioni e dimensioni da guerra mondiale. La strategia di Pericle per la guerra del Peloponneso, ha ben spiegato Simon Hornblower ne La

Grecia classica (Bur), era semplice: non far nulla e limitarsi a resistere agli attacchi degli spartani. Di qui «quell' ambiguità che, appropriatamente, è insita nelle parole usate da Tucidide per descrivere gli intenti di Atene nello scontro». Atene doveva, alla lettera, «riuscire a farcela». Agli ateniesi Pericle «aveva raccomandato di starsene fermi all' interno delle mura della città e di non cercare di estendere il loro impero nel corso della guerra». In quale misura «essi si attennero a questa linea di condotta, chi fu il responsabile o i responsabili delle deviazioni rispetto a quest' ultima e quanti inconvenienti ne derivarono, è controverso». In ogni caso se poi Atene ebbe la peggio non fu colpa di Pericle. Così ancor oggi gran parte degli storici dell' antichità. Secondo Canfora, invece, le cose stanno in un modo un po' diverso. La strategia di Pericle - cioè chiudersi nella fortezza Atene protetta da mura imprendibili, dominare i mari con la propria flotta lasciando agli spartani la libertà di «devastare le nostre terre» - è «apparentemente» lungimirante, ma a un esame più attento appare «miope». In realtà, scrive,

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«Pericle esce di scena in tempo, cioè muore prima che la sua strategia fallisca». E il contesto in cui muore, la peste di Atene, è la cornice appropriata per questo fallimento. È lo stesso Tucidide a descrivere la morte di Pericle contestualizzandola nel clima di una città in preda alla devastazione morale e materiale, con cumuli di cadaveri, degrado etico, «crollo dei freni che regolano, per così dire, e guidano l' esistenza». È in questo quadro tremendo, precisa Canfora, che Pericle scompare: «Esce di scena in una situazione di tragedia per la città». Ha portato Atene alla guerra e la guerra ha potenziato il contagio proprio per la sua tattica, quella di cui s' è detto: chiudersi dentro le mura. Una tattica che lo ha reso impopolare presso i contadini esposti alle razzie spartane e che contiene già in partenza gli elementi che porteranno Atene alla catastrofe finale. Il racconto di Tucidide appare in tutto e per tutto come una difesa di Pericle. «Per il tempo che Pericle fu a capo della città in periodo di pace, governò sempre con moderazione, garantì la sicurezza della città la quale sotto di lui raggiunse il massimo splendore. Dopo lo scoppio della guerra visse ancora per due anni e sei mesi, e solo in seguito alla sua morte le previsioni da lui formulate circa la guerra vennero comprese appieno. Giacché agli ateniesi aveva sempre detto che se fossero rimasti con i nervi saldi, se avessero provveduto alla flotta e non avessero tentato di accrescere l' impero con la guerra non avrebbero corso rischi. Ma quelli, dopo la sua morte, fecero tutto il contrario. Nel governo della città presero per ambizioni personali altre iniziative che apparivano del tutto estranee alla guerra ed ebbero un esito negativo per se stessi e per gli alleati». Ma è tutto vero? Anche la parte finale, quella in cui Tucidide sottolinea le differenze tra il virtuoso Pericle e i suoi troppo ambiziosi successori? O, piuttosto, Tucidide tra le righe allude a un' altra storia, diversa da quella che si apprende dalla lettura «alla lettera» di questa pagina? Abbiamo parlato prima del tragico fallimento dell' attacco di Pericle all' Egitto. Canfora nota quanto quell' impresa sia «la stessa cosa» di quella che «farà Alcibiade con la Sicilia». Vale a dire che il successore di Pericle, Alcibiade, si renderà responsabile della catastrofe di Atene inseguendo un sogno militare simile a quello che anni prima era stato dello stesso Pericle. Altro che differenza tra il grande leader del V secolo e i suoi successori. La logica imposta dalla necessità di alimentare il dèmos è implacabile. Lo sbocco non può non essere una guerra. E quando si intraprende quel genere di avventura le cose possono andare a finire male. Molto male. Al punto che si può tranquillamente ipotizzare che se Pericle fosse rimasto alla guida di Atene nei trent' anni successivi alla sua morte, le cose per la città non sarebbero andate in modo diverso da come andarono.

Chiudiamo con un dettaglio. Canfora valorizza quel famoso passo di Lisia in cui questi dice di ricordarsi che Pericle «secondo alcuni avrebbe detto che le leggi non scritte sono più importanti di quelle scritte». «Tutti pensano subito ad Antigone, si commuovono - e va bene - anche se poi la legge scritta è garanzia di uguaglianza, mentre la legge non scritta è appannaggio delle caste sacerdotali» scrive Canfora. «Bisognerebbe stare un po' attenti nell' inneggiare tanto alle leggi non scritte, con tutto il rispetto per Antigone, beninteso». Notazione beffarda. Ma appropriata.

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Il saggio di Luciano Canfora La democrazia di Pericle è incluso nel volume I volti del potere (pp. 328, Euro 16), in uscita domani per Laterza, che comprende anche contributi di Andrea Giardina, Chiara Frugoni, Alessandro Barbero, Alberto Mario Banti, Emilio Gentile, Andrea Graziosi, Vittorio Vidotto, Giovanni Sabbatucci, Andrea Riccardi, Michelle Perrot.

Altri testi su Pericle sono: Claude Mossé, Pericle. L' inventore della democrazia (Laterza, 2006), Victor D. Hanson, Una guerra diversa da tutte le altre (Garzanti, 2008), Mario Attilio Levi, Pericle e la democrazia

ateniese (Rusconi, 1996).