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ABSTRACT:“L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” e “La mano nel cappello”, casi di perdita di memoria. Raffronti tra il protagonista del romanzo, il Marinaio perduto e Thompson (Questione d’identità). Analisi della struttura sociale, istituzione e organizzazione. Identificazione proiettiva e teoria della riparazione. “Lector in fabula” come riferimento teorico.

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PSICOLOGIA SOCIALE

Memoria e identità Psicologia sociale e Neurologia dell’identità

nei testi narrativi

Andrea Cangialosi

25/01/2010

“L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” e “La mano nel cappello”, casi di perdita di memoria. Raffronti tra il protagonista del romanzo, il Marinaio perduto e Thompson (Questione d’identità). lisi della struttura sociale, istituzione e organizzazione. Identificazione proiettiva e teoria della zione dall’“Introduzione all’opera di Melanie Klein”. “Lector in fabula” come riferimento teorico.

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Memoria e identità: Psicologia sociale e Neurologia dell’identità nei testi narrativi

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INDICE

Premessa .................................................................................................................................................. 2

Materiale bibliografico............................................................................................................................. 2

Autore incognito ...................................................................................................................................... 3

Deficienze manifeste ............................................................................................................................... 3

Anosognosia ............................................................................................................................................. 3

“Deficit”, anzi, perdite ............................................................................................................................. 3

Caotica realtà ........................................................................................................................................... 4

Nel mare senza ormeggi .......................................................................................................................... 4

Excessus ................................................................................................................................................... 5

Nudità ...................................................................................................................................................... 5

Funambolo d’identità .............................................................................................................................. 5

Tempo in gradienti ................................................................................................................................... 6

I Parte: Prestigiatore ................................................................................................................................ 7

Memorie di un Korsakoffiano .................................................................................................................. 8

II Parte: Altri libri di sangue ..................................................................................................................... 9

Panacea Morte ...................................................................................................................................... 10

Memoria è identità? .............................................................................................................................. 10

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PREMESSA

Ho scelto di dare questo particolare sottotitolo al lavoro che intendo svolgere per suggerire, il più pos-sibile fedelmente e immediatamente, gli ambiti di ricerca nei quali mi sono mosso: “psicologia sociale” e “neurologia dell’identità”. Il connubio psyché lógos è originario di un “insieme infinito” di elementi: è il discorso su tutto quello che la mente nel logos può costruire. Ancora, l’ambito di ricerca è il sociale perché sociale è tutto ciò che ci circonda. La definizione della seconda, invece, si ritrova nella prefazio-ne de L’uomo che scambio sua moglie per un cappello:

“L’intima natura del paziente è del tutto pertinente all’ambito d’indagine più elevato della neurologia e alla psicologia, poiché esse hanno intimamente a che fare con la personalità del paziente, e lo stu-dio della malattia non può essere disgiunto da quello dell’identità. [...] Richiedono anzi una nuova d i-sciplina che possiamo chiamare «neurologia dell’identità», poiché si occupa dei fondamenti neu-rofisiologici dell’io [...]”

Infine, l’applicazione delle suddette discipline, trova spazio e riscontro nei testi narrativi, quali un ro-manzo, su cui svolgerò il lavoro.

MATERIALE BIBLIOGRAFICO

Oliver W. Sacks, neurologo londinese, fornisce casi clinici particolarmente rilevanti al fine di meglio comprendere il romanzo La mano nel cappello, riguardo ai deficit e alle compensazioni causati dalla sindrome di Korsakov. Della pletora di pazienti con lesioni encefaliche tratti da L’uomo che scambio sua moglie per un cappello, quindi, mi soffermerò particolarmente sul “marinaio perduto” Jimmie G. e sull’”emulo Sheherazade” Thompson. L’autore si definisce “medico e naturalista, [...] un teorico e un drammaturgo, [...] attratto dall’aspetto romanzesco non meno che da quello scientifico”; “in questi campi, lo scientifico e il romantico, il romanzesco, chiedono a gran voce d’incontrarsi” e questo fa di lui un e-sponente della «scienza romantica», inaugurata nell’Ottocento e rinnovata dal sovietico Aleksandr R. Lurija, nel Novecento.

Nel romanzo in esame, il protagonista si rileva anch’egli un caso psichiatrico. Le sue narrazioni sono spesso surreali, seducenti, “suggerimenti dell’acido”. Il tentativo di districarsi nell’intreccio prosastico e no, della trama, dunque, si può dire riuscito solo in risonanza con l’ordito fornitomi da Sacks, col suo summenzionato libro. Sono molteplici le relazioni e le situazioni in cui queste si rivelano particolaris-sime microstrutture sociali. Nonostante il punto di vista non si sposti quasi mai dal protagonista, egli interpreta, vive e “indossa” le svariate identità dei personaggi.

Lector in fabula di Umberto Eco sarà, per quanto possibile, lo “strumento” teorico col quale vivisezio-nerò il testo, in alcune sue parti. Facente parte di una trilogia, assieme a Opera Aperta e Trattato di Se-miotica generale, tratta di cooperazione interpretativa nei testi narrativi. Un eccellente bisturi non fa il chirurgo, per mio gran dispiacere. Eco apre senza “forzare” sia l’opera, sia la mente del lettore, alle strutture discorsive e narrative; alle strutture di mondi; a quelle attanziali e ideologiche. Interessantis-simo anche il coaching delle “passeggiate inferenziali”, che porta a camminar dentro enciclopedie, capi-toli fantasma, mondi possibili. Nel seguente lavoro mi sono ritrovato più volte, quasi letteralmente, a correre a perdifiato tra tutto ciò, consapevole di essere un Lettore Modello non molto capace.

Altro testo essenziale è stato Introduzione all’opera di Melanie Klein, per mano di una sua studentessa, Hanna Segal, che illustra lodevolmente la ricerca e i risultati della psicologa. La Klein, adoperando nuovi canali di simbolizzazione, come i giochi, analizza i primi stati dell’età dello sviluppo. I fertili svi-luppi si traducono in numerose teorie, come le posizioni (schizo-paranoide e depressiva), la precocità del complesso edipico, difese maniacali e riparazione, etc. I mondi della fantasia inconscia e delle sue dinamiche, essenziale l’identificazione proiettiva, forniscono un ambiente entro cui teorizzare. Melanie Klein riesce ad ampliare i confini dello stesso suo maestro, Freud, donandoci un lascito preziosissimo.

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AUTORE INCOGNITO

Malauguratamente, essendo un romanzo inedito, 68esimo partecipante al concorso a premi “Nanà” del 2008, non se ne conosce l’autore. La mano nel cappello non si è classificato, di fatti, nelle prime tre po-sizioni, per cui, dell’autore, si sa solo quel che si legge dalla premessa:

“1995. Durante una lezione di psicologia sul tema dell’handicap [...] sto prendendo appunti [...] e bu t-to giù ciò che mi pare l’inizio di un’alterazione mentale.

[...]È un libro portatore di handicap, lo è il mio linguaggio [...]”

L’anonimo mette in guardia, dunque, sul linguaggio e sul contenuto che seguirà. Nient’altro è dato sa-pere, anche se, dalle questioni sviluppate, sembrerebbe quasi implicita una conoscenza personale o te-orica di pazienti affetti da patologie della memoria e, o dell’identità.

DEFICIENZE MANIFESTE

Hand-in-cap è letteralmente “mano nel cappello”. Il termine proviene dal 17esimo secolo: un gioco d’azzardo, quasi una lotteria, consisteva nell’estrazione di monete da un cappello che le conteneva. Pa-radossalmente, quindi, la condizione di svantaggio era del vincitore stesso, secondo le regole.

Autore, opera e lettore, sono accomunati nella stessa inferiorità di comprensione, di percezione, di pe-netrazione della realtà postagli davanti. Ciò nonostante sembrano aver coscienza di questo stato di handicap. Dettaglio non trascurabile, giacché a restarne ambiguamente fuori, è proprio il protagonista narratore.

ANOSOGNOSIA

L'«anosognosia» (o anosoagnosia) è un disturbo neuropsicologico della consapevolezza di avere un de-ficit neurologico o neuropsicologico. Questo termine, derivante dal greco, significa letteralmente “mancanza di conoscenza sulla malattia”. È importante soffermarsi su questo, perché è un elemento ri-corrente. L'incapacità del paziente di riconoscere e riferire il suo stato di malattia, si risolve nella fer-ma convinzione di possedere ancora le capacità perse in seguito ad una lesione cerebrale, ad esempio. La particolarità, a volte geniale e buffa, a volte drammatica e commovente, è che il paziente, messo a confronto con i suoi deficit, attua delle confabulazioni oppure si cela dietro delle spiegazioni assurde, incoerenti con la realtà oggettiva.

“DEFICIT” , ANZI, PERDITE

“Il termine preferito della neurologia è «deficit», col quale si denota una menomazione o l’inabilità di una funzione neurologica: perdita della parola, perdita della memoria [...] mancanze e perdite di funzioni (o facoltà) specifiche.”

Sacks non si lascia attrarre dalle interpretazioni meccanicistiche e semplicistiche del rapporto mente-cervello, piuttosto, sulla scia di R. A. Lurija, A. R. Lurija (già citato), Leont’ev e altri, si orienta verso la neuropsicologia più che neurologia.

“[...] Non tanto i deficit in senso tradizionale, quanto le turbe neurologiche che colpiscono il sé . Queste [...] possono derivare da un eccesso non meno che da un indebolimento di una funzione, e p a-re ragionevole considerare queste due categorie separatamente. [...] Una malattia non è mai sempli-cemente una perdita o un eccesso , c’è sempre una reazione, da parte dell’organismo o dell’individuo colpito, volta a ristabilire, a sostituire, a compensare e a conservare la propria i-dentità [...]”

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Da questa breve dissertazione sulle perdite e sugli eccessi, si possono cogliere speditamente le psico-dinamiche e le dinamiche, quindi, psicosociali derivanti da un attacco e dalla conseguente reazione vol-ta a ristabilire o conservare l’identità. Si sta parlando chiaramente di ristabilire l’equilibratura origina-ria, di mettere in ordine il caos.

CAOTICA REALTÀ

La teoria kleiniana e quella della complessità, in questa sede, non saranno forse sufficientemente trat-tate, ma costituiscono teorie fondamentali, fondanti e fondative della Psicologia sociale stessa.

“La fisiopatologia della sindrome di Parkinson è lo studio di un caos organizzato, un caos indotto in prima istanza dalla distruzione di importanti integrazioni e riorganizzato su una base instabile nel processo di riabilitazione.”

Qui Sacks si rifà a Ivy McKenzie, ed io mi rifaccio a questa citazione per menzionare il processo di rea-lizzazione, in altre parole della messa in forma della realtà, che, inevitabilmente, si costruisce e de-costruisce ciclicamente. Saranno gli attrattori, gli absorber a rendere il caos della percezione esteriore e interiore, un caos “organizzato”, attraversando e “facendosi attraversare”.

NEL MARE SENZA ORMEGGI

Sacks è chiamato, nel 1975, in una casa di cure a visitare il simpatico, intelligente, smemorato Jimmie G.. Questi, socievole e disposto, risponde alle domande: nome, città di provenienza, famiglia, scuola e lavoro, a bordo di un sottomarino. Sacks rileva che “quando rievocava e riviveva il passato, si animava: sembrava piuttosto parlare del presente.”. Fatto tanto bizzarro quanto la convinzione di avere dician-nove anni e di essere ancora nel ’45!

Nelle sue memorie, il cineasta Luis Buñel, appunta: “Senza memoria la vita non è vita”. Affermazione lapidaria e, come vedremo, apparentemente motivata. Addirittura, prosegue:

“[...] La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il no-stro agire.”

Posto davanti allo specchio, l’ex-soldato sbianca, “disorientato”, ritrovatosi in un incubo pazzesco, me-schinamente giocato. Dopo averlo fatto calmare, profittando della perdita della memoria a breve ter-mine, spiegata la diagnosi, Jimmie ride dicendo di “sospettarlo”, nonostante avesse la limpidezza dei ricordi passati. Egli avvertiva come un’"eco” dei fatti compiuti, indice della labilità nelle tracce mnesti-che.

Sotto continua pressione delle anomalie e delle contraddizioni cominciava a dar segni di stanchezza, d’irritazione e di nervosismo. “Isolato in un singolo momento privo di senso dell’esistenza, con tutt’intorno un fossato, o lacuna di smemoratezza” viveva, se si può dire, proprio da “anima perduta”, «de-animato». Per i frequentatori dell’ospedale, divertimento distaccato e indifferenza erano di lui ca-ratteristici. Come stabilire continuità col passato, raggiungendo le parti intatte della memoria? L’incontro col fratello, dapprima non riconosciuto, si rivela però un’apertura catartica, di profonda commozione.

Se da una parte, a dirla con Hume:

“altro non siamo se non un fascio o un accumulo di sensazioni diverse, che si susseguono con i-nimmaginabile rapidità, e sono in perpetuo flusso e movimento”

Dall’altra, attesta Sacks:

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"per quanto grandi siano il danno organico e la dissoluzione humeana, rimane intatta la possibilità di una reintegrazione attraverso [...] il contatto con lo spirito umano.”

Il fenomeno di Comunione, Sacra e personale, di Jimmie, in preghiera, ha del miracoloso. In questa si ritrova, trattenuto, assorbito, rapito in una calma e concentrazione assolute.

EXCESSUS

Le stesse difficoltà, incontrate nella definizione delle “perdite”, si ritrovano nella seconda parte del li-bro, riguardante gli “eccessi”:

“turbe siffatte [...] non hanno mai ricevuto l'attenzione che meritano. La ricevono in psichiatria, dove si parla di eccitazione e di turbe produttive - eccesso di fantasia, d'impulso... di mania.”

La problematica si capovolge, rivelando, oltre la binaria visione della funzione o capacità, la versatilità della mente di reagire, rassettarsi («reset»), “ri-mapparsi”. Per questo si palesa obbligatorio il passag-gio “da una neurologia della funzione a una neurologia dell’azione, della vita”.

NUDITÀ

Se andiamo all’etimologia del termine «persona», troviamo, nella nostra cultura, l’ineludibile matrice latina (per-sonare), quindi ellenica (πρόςωπον): «parlare attraverso», «maschera». Trascurando la trat-tazione della tragedia in sé, sicuramente fertile, prendo un aforisma del filosofo Friedrich Nietzsche, tratto da Al di là del Bene e del Male:

“[...]Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profon-do cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpreta-zione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà .”

La maschera è dunque un mezzo ambiguo, dietro il quale da un lato la verità ama nascondersi per sal-vaguardare la propria profondità; ma che dall'altro noi utilizziamo per non vedere la realtà, per sfuggi-re da essa. Luoghi dinamici, esterno e interno, costruiti sulla frontiera della maschera stessa.

Peter Singer, filosofo interessatosi alla bioetica, nel suo scritto decisivo Killing Humans and Killing A-nimals, ha proposto una riformulazione rivoluzionaria della persona:

“[...] quella sostanza in grado di rappresentare se stessa esistente nel tempo”.

Chissà se S. Agostino riuscirebbe a ridefinire il tempo della "distensio animæ", senza memoria. Avevo in precedenza accennato all’abilità del protagonista del romanzo, di “vestire” altre identità, capacità for-zosamente e parossisticamente acquisita, nel caso che segue.

FUNAMBOLO D’IDENTITÀ

All’analisi pirandelliana di un tassista, il signor William Thompson “sembrava fosse stato dappertutto, avesse fatto di tutto, incontrato tutti”. Era chiara anche a questi l’impossibilità, per una persona, di far tutto ciò, di fatti quest’uomo è una persona senza identità. O meglio, la precarietà, il costante disorien-tamento, l’essere “sull’orlo di abissi di amnesia”, del paziente di Sacks, si risolve in un’inarrestabile par-lantina:

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“Per lui non erano fantasie, bensì il modo in cui all’improvviso vedeva o interpretava il mondo. Non potendone tollerare, o ammettere, nemmeno per un istante, il flusso e l’incoerenza intrinseci li so-stituiva con questa strana e delirante quasi-coerenza [...].”

Il marinaio Jimmie aveva perduto il passato, ma in parte; il neo-Shahrazad, era invece obbligato al suo trasformistico raccontarsi, freneticamente, senza posa. Sacks osserva acutamente:

“Rievocare il dramma di noi stessi. L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé. [...]”

Costretto a disfare e ritessere le trame della realtà, questa tormentata versione di “Penelope” delle i-dentità, non riesce a conservare un “autentico mondo interiore”. Riesce ad avere un «senso della real-tà», e non senza sforzo e dolore, riducendola ad una “superficie”, brillante, sì, ma pur sempre un “delirio senza profondità”. È vana la costruzione di “ponti di senso”, perché questi sono sbriciolati dalla malattia stessa, e William si ritrova incessantemente “sopra il caos che si spalanca [...]sotto di lui”.

Se solo tacesse per un istante, [...] allora sì che la realtà potrebbe scendere il lui, che qualcosa di au-tentico, qualcosa di profondo, di vero, di sentito potrebbe penetrare nella sua anima. [...] la vittima «esistenziale» non è la memoria [...] la perdita di una qualche capacità ultima di sentire.

Questa è la diagnosi di Sacks, rispetto a quella patologia ultima definita da Lurija “livellamento”. Questa particolare indifferenza distrugge definitivamente ogni mondo, ogni sé, nonostante si lotti con la «te-nacia dei dannati».

Il mondo, smantellato, ridotto all’anarchia e al caos, senza alcun centro intorno al quale possa gravitare la mente; in questo, resta una sola possibilità di “essere nel mondo, di essere reale”. Come per Jimmie, anche per Thompson la natura e la sua comunione effondo un balsamico “ordine non umano”. Nei giar-dini quieti, fra le piante, non vi sono “obblighi umani o sociali” da fronteggiare.

TEMPO IN GRADIENTI

La sindrome, di cui erano affetti Jimmie e William, fu descritta per la prima volta dal neuropsichiatra russo Sergei Korsakov. È una malattia degenerativa del sistema nervoso, che raramente può dipendere da un trauma cranico, da un'affezione vascolare o tumorale, e solitamente ha base alcolica (alcolismo cronico, etilismo). La caratteristica principale di questa sindrome è un’amnesia anterograda, i soggetti, cioè, perdono la capacità apprendere nuove informazioni, accompagnata da anosognosia (v. sopra). Nella maggior parte dei casi, la memoria implicita e semantica, è conservata.

Ecco come, in Un esempio di ricerca neuropsicoanalitica, Mark Solms descrive i casi:

“ [...] Non possono organizzare nuovi ricordi [...] vivono di minuto in minuto senza aver ricordo al-cuno di cosa sia accaduto nell’attimo appena passato. [...] Colpisce soprattutto gli eventi più recenti, specialmente quelli che compaiono dopo la comparsa della malattia. [...] Anche i ricordi più antichi, ma progressivamente in minor grado; così abbiamo un gradiente temporale: più si va indietro nel tempo, più i ricordi sono sicuri.”

Frequente è poi il fenomeno che si definisce confabulazione: i pazienti riempiono i loro vuoti di memo-ria con produzioni fantastiche deliranti, spaventati, sostituiscono esperienze confuse e immaginarie a quelle che non ricordano bene. Inoltre spesso c’è una tolleranza eccessiva per la contraddizione: il pa-ziente accetta come vere due o più affermazioni che non possono in realtà essere tutte vere nello stes-so tempo. Ciò richiama alle “simmetrie” della mente, ai suoi diversi funzionamenti, nell’inconscio, piut-tosto che nella parte asimmetrica, del conscio. Se questa non è che la diagnosi di un osservatore, inve-ce, il punto di vista del soggetto affetto dalla sindrome è a noi ancora sconosciuto, forse.

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I PARTE: PRESTIGIATORE

Cercherò adesso di presentare, per quanto concisamente, il libro denso di storie e vicende La mano nel cappello, per trovarne le somiglianze con L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, al di là del fa-scinoso capo d’abbigliamento.

Il libro si divide in due parti, la prima esordisce col seguente incipit:

“Corro a perdifiato giù dalla collina Senzanome, completamente perso dentro a collezioni di ansie rarissime, la netta sensazione di doverla finire con quelle voci e quei rumori dentro. Ho ferite grandi come porte e il dolore ci entra senza bussare.

Lo smemorato corridore, “scava tunnel” nell’Incoscienza, con i suoi “pensieri smembrati [che] affiorano”, ritrovandosi “costretto a cantare alla malamemoria”. Lo fa nell’assenza, di spazio e tempo, tipicamente onirica, interrogandosi esistenzialmente, prima sui propri legami, poi sull’appartenenza dei suoi stessi ricordi. L’identità che assume è “pietra a Stonehenge”, “cima d’albero d’Europa”, poi “sabbia del deserto del Sinai” e ancora “acqua di fiume d’Africa”. Sono questi i “momenti che credo miei”, i frammenti, i so-gni, di una vita precedente all’attuale, una “Vita [...] come per tutti, scandita dal tempo”. Coerentemente, il tempo è una surreale “colomba nera”, che muove una danza che porta guerra, che “accende il san-gue”.

“Non avere più memoria è affascinante. E allucinante. [...] È come ricominciare. [...] Un’angoscia circolare, un’impossibilità concentrica, una follia sferica, [...] ebbrezza, [...] noia. Non avere più me-moria è apertura a un nuovo mondo, il poter formarsi una nuova fantasia, una nuova sensibilità, andare a scuola di feti.

Il primo omicidio è di un innocente caino, cui egli assiste, battendo “un tempo antico come il sangue, un tempo familiare”. Familiare?

“Non avere più memoria è camminare con piedi nuovi ma, a quanto pare, con scarpe vecchie. Gron-dano stanchezza. E sono sporche. Macchie rossastre, sembra sangue. È sangue. Non riesco a ricor-dare come ho fatto [...]".

“Pilotato da intrecci contorni”, vagabonda per spiagge e lidi, incontra il secondo assassino, un, apparen-temente, “classico bagnino”. Dopo aver sentito i pensieri di questo, averlo pedinato, avviene uno scam-bio d’identità, uno dei tanti: il padre di lui, diventa suo padre, il pugnale impugnato dal ragazzo, è stret-to e affondato dalle sue mani.

Scopriamo, dunque, che si tratta proprio di un sogno che il protagonista racconta, uno dei molti “coni-gli” che pesca fuori dal cappello dell’inconscio, della “(non)memoria” . Ecco l’ultima strofa della “Canzo-ne della mano nel cappello”:

“Sarò un paziente psichiatrico/Sarò un violento alcolista/Sarò un malato epilettico/Sarò un rifiuto sociale/Ma di sicuro non sono tuo fratello!”

Il protagonista si rivolge all’analista, la quale lo assimila al fratello, rifiutando la proposta di isolare “quella parte del tuo cervello/come il latte si separa dal caglio”. La Dottoressa non lo discolpa delle “a-trocità” delle quali, lui, al contrario, porta “segni inequivocabili”. Quali segni? Quali atrocità?

Uscito, si ritrova ad ascoltare la confessione di un tentato suicidio di un simpatico quarantacinquenne, dal Ponte dei Capogiri, ma l’intenzione non era quella di gettarsi al di sotto, infatti, il protagonista af-ferma:

“Sono ancora abbastanza curioso di ricordare, di strappare le ragnatele dal mio cervello, di capire chi sono e cosa ho fatto [...]".

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Descrive, con una metafora, il fastidioso e persistente vuoto come “sentire la voce adulta di un bambino che come una palla rimbalza nel tuo cervello”. Poi, con una similitudine: “È come tentare di gestire un Dolorificio...”. In questo luogo dell’immaginazione, la burocrazia gli richiede dei timbri, delle autorizza-zioni, che legalizzino la sua “non esistenza”. Il bambino, invece, cerca di smascherare il “personaggio travestito interiormente” del protagonista, confidando, in un’eco, un imprevedibile segreto: “Ritrova le tracce di sangue [...] ritorno alla tua Memoria [...] ricorda il filo di sangue”!

Scende nel porto, entra in un bar. Ne esce con altri quattro che, come lui, impugnano delle “lame”, alla ricerca dell’”emozione del morso nella carne”. Sporco di sangue, riesuma dalla memoria “scene di un film dimenticato”: una tragedia familiare, padre che uccide i nipoti, in gestazione della figlia sposata, sorella del protagonista. Il legame fra i due lo rimanda ad un particolarissimo S. Valentino. Da quando, un anno prima, la sua ragazza aveva pronunciato la terribile sentenza (“Sono stanca di questo tuo inesi-stere”), essi vivono un silenzio tesissimo, che si frantuma poi con un cavatappi nella mano di questi e una Parker fra le scapole di quella, termine ultimo del loro “odio per l’amore”.

“Mio pazzo amore dove abiti? Io ho giocato contro me stesso e ho perso, e ho vinto, e ho fatto vit-time, e poi ho ancora perso e di nuovo vinto, e sono morto dentro.”

In un lungo dialogo interiore, si chiede se sia possibile volare ancora con il suo pazzo amore, ora che le ha spezzato le ali, ora che ha ritrovato “la dignità di chi ha smesso di giocare al novello Chisciotte”. Ma le terribili visioni non lo abbandonano al cessar del vento, plagiandolo. In uno scenario notturno, fra le strade, passeggia una coppietta. È l’occasione, forse, per trovare “il filo di sangue [che] ricuce la memo-ria strappata”: così uccide i due amanti, in altre parole, il suo pazzo amore e suo fratello maggiore, più avanti i suoi genitori, entrambi. Ennesimo omicidio, plurimo: “Recisi la gola [...] in un bagliore accecante che fendette il sottile velo della mia memoria”, consapevole di aver, lì e in quel momento, interrotto il filo continuo su cui il suo sé si muoveva. Prima di essere accerchiato, egli si lancia in una folle corsa, che suona famigliare: la fine della prima parte, forse, coincide con il suo inizio, lo Smemorato corridore.

MEMORIE DI UN KORSAKOFFIANO

La mia interpretazione di queste vicissitudini è la seguente: il protagonista, in psicanalisi, riattraversa avvenimenti-chiave, da dentro le sbarre di una prigione (mentale e no), della sua vita. Sembra con-traddittorio dire che queste sono le memorie di uno smemorato, ma, a mio parere, il mondo narrato “dal di dentro” è differente da quello descritto clinicamente da Sacks. Che sia la sindrome di Korsakov o meno, il protagonista è affetto da una perdita della memoria e la sua interpretazione della realtà fa comprendere come sia faticoso, estenuante ritrovare un’identità personale, familiare, sociale.

Jimmie aveva la II Guerra mondiale come spartiacque fra il passato e il presente. I sopravvissuti rievo-cano emozioni fortissime, legate alle parti più recondite dell’animo umano, come quella in grado di uc-cidere, spegnere una o più vite. E la Comunione religiosa, l’estasi mistica di un congiungimento totale col tutto del marinaio perduto, è forse ciò che trova il protagonista uccidendo, abbandonandosi inte-ramente alla destrudo?

Come William, il protagonista sa di non essere nessuno, però è consapevole anche di essere stato qual-cuno. Questo lo salva dal livellamento, portando alla “dannazione” di cui parlava Lurija. Difficile distri-carsi trai suoi sogni e frammenti, è arduo definirli “ponti di senso”, come per Thompson. Sono piuttosto dei caotici ricordi che non trovano ordine.

Il leit-motiv della prima parte del romanzo è proprio quest’assenza d’istituzione, garante dell’ordine, nella sua memoria; manca la messa a terra ultima, che dà pace al protagonista; latita quell’affermazione, dell’io e del sé, unitaria e stabile. “Inizia così” è il sottotitolo della prima parte, la seconda: “Continua così”...

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II PARTE: ALTRI LIBRI DI SANGUE

In questa parte, il protagonista è un assassino internato in un manicomio criminale. Lo stile è legger-mente diverso, più realistico, alterna, però, le voci del protagonista, o almeno così sembra voler fare pensare l’autore (potrebbero effettivamente sovrapporsi i mondi, v. Eco), il suo diario e la psicanalista.

“[...] In tutti questi anni sarà la ventesima psicanalista [...].

La mia storia... ma sì, quasi quasi la richiamo e gliela racconto [...] dieci anni di silenzio e di impe-gno a fare il pazzo, più di quel che sono, cominciano a pesarmi [...]”

Queste affermazioni mettono in dubbio che l’assassino sia il protagonista di tutte quelle vicende che si erano narrate, alquanto inverosimili, in fondo. Ma subito prima si legge anche:

“Sono stato un prigioniero acrobatico della memoria .[...] Una giornata con me e afferri il nulla fra le tue mani. Io ho fatto della Danza sott’Acqua, la mia incomunicabilità pubblica. Voglio vivere nella mia faccia. Da solo.”

Decide di tentare di comunicare al “mondo là fuori” facendo un patto con la psicanalista: lei ascolterà registrando, senza domandare, la sua e la storia di altri suoi “amici reietti”. A suggello del patto, si rade la barba. Nella cella, aspettando l’indomani, l’assassino intrattiene un dialogo con il suo amore, raffigu-rato in un ritratto sul muro. Guardando al passato, affiora un sogno ricorrente: lui cerca lei senza tro-varla, resta con soltanto un ricordo: lei violata da alcuni uomini, poi loro due in volo, poi tutto finisce e lui resta nuovamente solo. Svegliandosi si aggrappa all’ultimo ricordo di loro, in una piscina, quando lui la tenne sott’acqua quasi fino a farla morire.

La narrazione del passato (“per capire come mai ho ammazzato tante persone”) parte dal padre, che “si credeva un piccolo Re”. Il padre ubriacone lo picchiava, lui aiutò l’amante a suicidarsi, la stessa che il padre mandava a spacciare o prostituirsi, incastrandolo.

“Sono interessata al suo caso, dello smemorato omicida che ha ucciso padre, madre, fratello e la sua donna, e diverse altre persone, compresa una mia collega, o sono attratta da qualcosa in lui?”

Sono i pensieri di Mira, la psicologa, che il giorno seguente fa la conoscenza del “Nuotatore di Sopra”. Dopo aver fatto la Prima Comunione, da ragazzino, scoprì di poter sospendersi in aria per brevi attimi, poi, con l’allenamento, comprese che riusciva a sollevarsi, nuotare nell’aria. Riusciva a sentirsi “diverso in una città indifferente a tutto, fuorché alla diversità”. A quarant’anni volle chiudere con la realtà che non riconosceva più sua, ma fallì, cadendo uccise un uomo e così mancò anche il suo progetto di Nuota-tore a tempo pieno. Per via di un incidente nel carcere (la morte di un infermiere) deve ora portare un macigno al piede.

Il giorno successivo, racconta il viaggio in Marocco, quand’era ventiquattrenne e cercava di accettare la fine della storia con la sua ragazza, psicologa. In viaggio porta con sé una testa d’asino mozzata, curio-samente. Per il resto, la gente del posto lo accoglie (“hai la testa come la nostra!”) e trascorre sei mesi a Marrakech. Un giorno, in preda ad una violenta febbre, vaga con l’anima nel Deserto, per essere poi ri-portato indietro dai Tuareg. Si trasferisce, scrive una lettera a Francesca, il suo amore celebrale. Ma non la spedisce e quella notte, “avvolto da una sensazione che non [saprebbe] descrivere”, svegliatosi, parla all’Oceano e obbedisce al reclamo di una vita: la sottrae alla ragazza del suo amico, per meglio com-prendere la sua. È il primo omicidio. Si formula nella mente turbata di Mira e dell’assassino, una richie-sta di liberazione molto particolare.

Ancora una storia da mano nel cappello: è un architetto di successo, buon gusto, discreta abilità nel tennis, giusto uno screzio con la moglie. Si dice che solitamente, chi muore, vede prima scorrere la propria vita davanti. Accade qualcosa di molto particolare, invece, il mondo che gli sta attorno cambia, muta, parlandogli: è improvvisamente prigioniero della sua stanza, il computer conta al contrario i mi-nuti restanti della sua ultima ora di vita, il telefono non risponde, etc. Quello che dall’esterno è un sui-

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Memoria e identità: Psicologia sociale e Neurologia dell’identità nei testi narrativi

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cida nudo, vestito di numeri e lettere sulla pelle, con la moglie in frigorifero dentro dieci barattoli, dall’interno è un uomo che lentamente capisce dove ha sbagliato, come rimediare, come vivere bene. Bizzarro come la mente disordina e riordina.

L’assassino, che queste cose le ha capite, cerca di far partecipe Mira di questo mondo. Alla fine, ne ri-flette gli effetti:

“È stata una vera e propria esperienza, che mi ha stremato [...] Sto diventando il suo contenitore. E la sua unica salvezza.”

Ancora un altro giorno, presenta un altro personaggio: Saponanda, bancario, in cerca del mistico. “Un viaggio dentro quello squarcio della [...] vita che ha preceduto il lungo tempo della perdita della memoria [...]”. Una cruda vendetta ad un misero colpo basso del Maestro, un masso sul cranio dell’Anziano Sag-gio.

Alva, invece, era una bambina di dieci anni, quando il patrigno e i due fratellastri ne abusarono. Ne par-la l’assassino, che la incontrò su un bus, lei non parla più da quando le intimarono che ne sarebbe valsa la vita dei fratellini. Tornato dal Marocco, aveva cercato lì di annullarsi, per “ammansire” l’istinto a uc-cidere. Divenuta donna, si erge da quasi due metri d’altezza, Alva con una roncola insozzata di sangue, alla fermata. Sale, fa strage, poi gli si siede accanto, prendendo la sua mano fra le sue. Arrestata, ritro-varono i resti dei suoi violentatori imbottigliati. Prima di andarsene, all’orecchio, Mira riceve sussurra-ta la richiesta che, il giorno dopo, sarà esaudita.

L’ultimo racconto riguarda l’Agglomerato: un gruppo di monomaniaci col quale spesso confonde “la [sua] immagine con quella riflessa nello specchio da uno qualunque di loro”; Only Bella: “una femmina patita, [...] innamorata, [...] ragazza mai diventata madre”; e Logodream: “Logo [...] per logorroico. Lui ha solo un sogno: [...] edificare una città tutta sua, che sia inequivocabilmente al servizio degli esseri umani, ma da un punto di vista eco-etico [...]”. Quando finisce di raccontare la storia, è lì che termina la vita di Logo, appeso al soffitto, ed è lì che vuole che termini la sua stessa vita: tentato omicidio di Mira, legit-tima difesa di questa, una rivoltella al cuore.

PANACEA MORTE

Osservando le relazioni, la reciprocità, che si stabilisce fra i vari personaggi, di volta in volta, si può ba-nalmente generalizzare che questi libri di sangue, queste fragili vite segnate da storie particolarissime, sono appese ad un filo, un filo di sangue. Paradossalmente, la morte è la cura, è la via d’uscita, l’unico modo per razionalizzare un mondo incomprensibile, in cui non si riesce a sopravvivere. Spesso sono persone violate in infanzia, che non riescono poi a protendersi verso il mondo umano, fin troppo scot-tate. Incapaci di discernere amico/nemico, di esprimere le pulsionalità, non possono fare altro che uc-cidere o essere uccisi.

MEMORIA È IDENTITÀ?

Esiste un’identità tra memoria e identità? Il gioco di parole è fastidioso ma rende l’idea del labirintico specchiarsi, dei ricorsivi rimandi interni dei soggetti, delle relazioni. Giovanni Jervis, psichiatra e psico-logo, la descrive in questi termini: “L'identità [soggettiva] è l'insieme delle mie caratteristiche così come io le vedo e le descrivo in me stesso.” Questa visione introspettiva, però, è lesa e stravolta, nei personaggi precedenti, le loro vite (o storie, v. William), non coincidono più con la realtà fattuale, sono ormai tra-sferite su altri piani di percezione.

Se memoria è identità e il mondo è percezione, si riesce a spiegare il dolore, lo sfinimento di un uomo che cerca di vivere senza esistere in un mondo che non è il nostro.