LINKiostro - Febbraio 2016 - Anno I Numero II

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ANNO I, NUMERO II - Febbraio 2016 Politica&Attualità Breve ritratto di “El Chapo” Guzmán, pag. 04 MiBACT: più volontari oggi? Ancora disoccupati domani! pag. 07 Uguaglianza dei diritti o ennesima occasione sprecata? pag. 08 Schengen: grandiosa macchina a rischio stop pag. 10 Quando il denaro non può pulire il sangue: la morte di Giulio Regeni pag. 12 Link in Rete Baobab: vittime di terrorismo e ignoranza, pag. 14 Mutualismo e nuovi spazi, pag. 16 Diritto allo studio: non ci fermia- mo!, pag. 18 Economia Il ruggito della tigre, pag. 20 Cultura Cannabis di Stato: istruzioni per l’uso?, pag. 22 Impara l’arte e non metterla da parte, pag. 24 La musica è la mia religione, pag. 26 È nato! (il Jazz), pag. 27 Recensioni Irrational man, pag. 30 Sport Sporting Locri: la città s’è desta?, pag. 32 Novak Djokovic e il Grande Slam, la rincorsa continua, pag. 33 Scintille Coraggio, altruismo e fantasia, pag. 36 Squilibrio perfetto – Seconda Pun- tata, pag. 38 “Populista sarà lei!” E perché no?, pag. 42 Che Luna gira a… Febbraio, pag. 44 Rispondere alle aspettative Editoriale pag. 02

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Rispondere alle aspettative

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ANNO I, NUMERO II - Febbraio 2016

Politica&AttualitàBreve ritratto di “El Chapo” Guzmán, pag. 04

MiBACT: più volontari oggi? Ancora disoccupati domani! pag. 07

Uguaglianza dei diritti o ennesima occasione sprecata? pag. 08

Schengen: grandiosa macchina a rischio stop pag. 10

Quando il denaro non può pulire il sangue: la morte di Giulio Regeni pag. 12

Link in ReteBaobab: vittime di terrorismo e ignoranza, pag. 14

Mutualismo e nuovi spazi, pag. 16

Diritto allo studio: non ci fermia-mo!, pag. 18

EconomiaIl ruggito della tigre, pag. 20

CulturaCannabis di Stato: istruzioni per l’uso?, pag. 22

Impara l’arte e non metterla da parte, pag. 24

La musica è la mia religione, pag. 26

È nato! (il Jazz), pag. 27

RecensioniIrrational man, pag. 30

SportSporting Locri: la città s’è desta?, pag. 32

Novak Djokovic e il Grande Slam, la rincorsa continua, pag. 33

ScintilleCoraggio, altruismo e fantasia, pag. 36

Squilibrio perfetto – Seconda Pun-tata, pag. 38

“Populista sarà lei!” E perché no?, pag. 42

Che Luna gira a… Febbraio, pag. 44

Rispondere alleaspettative

Editoriale pag. 02

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0202 Editoriale

Migliaia di pagine da studiare; decine di fogli di carta sparsi o in blocchi o in quaderni o in raccoglitori riempiti di riassunti, schemi, esercizi; matite, penne, colori, evidenziatori consuma-ti; uno o più esami da sostenere, nes-suno o uno o più di uno superato, con un voto più o meno alto, più o meno soddisfacente.

Diversa per ciascuno ma analoga per tutti, noi studentesse e studenti uni-versitari abbiamo vissuto una nuova sessione di esami; e ognuno ha vissuto il suo intersecarsi di dimensioni: studio – lavoro – studio – tempo libero – studio – casa – studio – biblioteca – studio – famiglia – studio – amori – studio – amicizie – esami; e il mondo ha vissuto il suo succedersi di eventi nei più disparati intrecci tra i piani e le categorie in cui essi, coi propri luoghi e le proprie persone coinvolte, posso-no essere incasellati.

Fare informazione significa aprire la propria dimensione individuale alla dimensione del mondo anche quando le due possano risultare separate; un gruppo di studentesse e studenti di Roma Tre l’ha fatto durante questa sessione invernale di esami e il risulta-to è il secondo numero de LINKiostro. Questo, per noi, è rispondere alle

aspettative.

Con l’editoriale del primo numero, il progetto LINKiostro ha fissato per sé un obbiettivo programmatico molto alto: raccontare la realtà del mondo in tutti i suoi diversi aspetti adottando un punto di vista aperto e dialettico verso ciò che è diverso e altro dalla realtà individuale di chi ci si confron-ta, riconoscendolo per quel che è dav-vero. Una sfida che troppo spesso non viene vinta dai più grandi e forti mass media a livello internazionale; figuria-moci da un giornale studentesco in un contesto locale.

Però, in una qualsiasi sfida tanto la sconfitta quanto la vittoria dipendono dalle mosse che si sceglie di fare, se si decide di farne.

Ecco allora un gruppo di ragazze e di ragazzi che si riuniscono a formare una redazione, studentesse e studenti dello stesso ateneo che dei propri libri e dei propri appunti qualche volta lasciano da parte la fisicità di cui sono fatti, ma mai il messaggio che tra-smettono. Perché dalla sensibilità del discente si genera il punto di vista di cui si è detto.

Rispondere alle aspettative

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Individui che scelgono di analizzare e commentare un argomento o un fatto, che scelgono per farlo una scadenza entro la quale aggiornare un racconto già avviato oppure avviarne uno nuovo. Individui che scelgono di do-cumentarsi ed elaborare un pensiero su quanto accade intorno a loro al di là di quanto capiti loro, che scelgono di rendere pubblico il frutto di questo proprio lavoro. Individui che scelgono di curarsi delle unioni civili, dell’anda-mento delle borse mondiali, del na-scondimento alla vista di statue espo-ste in un museo, di ascoltare un disco o di vedere un film e di pensare ad un dottorando ucciso che non può più farlo; che scelgono di non trascurare lo studio e gli esami per approntare un nuovo numero de LINKiostro che parli anche di questo. Perché compiere tali scelte significa condurre il racconto di cui si è detto.

È vero: in questo numero del nostro giornale non si trovano tutti i fatti che si sono verificati, tutto quanto abbia-mo visto e sentito, vissuto e sperimen-tato nell’intero arco di quest’ultimo mese. Nel secondo numero del primo anno di pubblicazione de LINKiostro si trova quanto di tutto ciò il gruppo di ragazze e di ragazzi che siamo ha scelto di raccontare. E soprattutto la scelta di farlo anche se è poco, anche se siamo pochi, come primo passo per il raggiungimento dell’obbiettivo del

progetto.

Questo, per noi, è rispondere alle aspettative.

Francesco Balsamo

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0404 Politica & Attualità

Yo soy agricultor. Sono un contadino. Rispose così Joaquín Archivaldo Guzmán Loera ai giornalisti che gli avevano chiesto che cosa facesse per guadagnarsi da vivere.

Era il 10 giugno del 1993: El Chapo (“il tarchiato”) era stato appena arrestato – per la prima volta – in Guatemala, poi estradato in Messico, condannato a vent’anni per narcotraffico e crimine organizzato, rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Altiplano e infine trasferito in quello di Puente Grande.

Joaquín Guzmán, in un certo (inge-nuo) senso, un contadino lo era davve-ro. Nato forse nel 1957 a La Tuna, un piccolo paesino nello stato di Sinaloa incastrato tra le montagne della Sierra Madre, da una famiglia povera e nu-merosa, il giovane Joaquín sopravvive-va coltivando papavero da oppio, pra-tica in realtà piuttosto diffusa nelle zone rurali del Messico.

El Chapo comincia a farsi strada nel mondo della criminalità durante gli anni Ottanta, quando inizia a con-trabbandare stupefacenti oltre il con-fine nord per Miguel Ángel Félix Gal-lardo, El Padrino, uno dei capi del Cartello di Guadalajara, al tempo

l’organizzazione criminale più poten-te del Messico. Félix Gallardo viene arrestato nel 1989: dal carcere, El Pa-drino provvede a spartire il suo terri-torio tra i suoi principali collaboratori. Da quello di Guadalajara nasceranno così i cartelli di Tijuana, di Juárez e di Sinaloa, quest’ultimo guidato da Guzmán e da El Mayo Zambada. Ma la pace dura poco: Tijuana e Sinaloa ini-ziano una sanguinosa guerra per il possesso della città di Tijuana, vicinis-sima alla frontiera e strategico “corri-doio” per il trasporto di droghe negli Stati Uniti.

E così torniamo al 1993. Durante una sparatoria tra membri dei due cartelli rivali, l’illustre cardinale della città di Guadalajara è incidentalmente colpito a morte. El Chapo viene incolpato dell’omicidio: il governo messicano mette su di lui una taglia di 5 milioni di dollari, il suo volto compare ovun-que. Il 9 giugno Guzmán viene ferma-to presso il confine col Guatemala, riportato in Messico e rinchiuso in una prigione di massima sicurezza.Sembrerà forse strano, ma durante gli anni a Puente Grande El Chapo non soltanto continua a dirigere indistur-bato i suoi affari, ma accresce addirit-tura il suo potere e vive nel lusso anche dentro una cella, servito e

Breve ritratto di “El Chapo” Guzmán

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riverito (prostitute incluse) dai suoi stessi carcerieri. Nel 2001 decide di evadere, e lo fa nel modo più comico e assurdo possibile: nascosto in un car-rello della lavanderia.

Seguiranno anni di latitanza, e qual-che sporadica apparizione pubblica. Il suo Cartello di Sinaloa continua a cre-scere, fino a diventare l’organizzazi-one criminale più potente d’America e probabilmente anche del mondo: non soltanto domina – letteralmente – il mercato statunitense del narcotraffi-co, essendosi imposto come il princi-pale fornitore di cocaina, eroina, mari-juana e metanfetamine, ma è anche uno dei maggiori trafficanti di narco-sostanze in Asia e nel Pacifico (lo scrive il Financial Times, settembre 2015).

Nel 2011 la rivista Forbes inserisce Joa-quín Guzmán nella lista degli uomini più potenti del mondo, stimandone il patrimonio attorno al miliardo di dol-lari. La DEA, l’agenzia antidroga sta-tunitense, lo considera «il più potente narcotrafficante al mondo», più grande perfino di Pablo Escobar.

Il latitante El Chapo viene ri-arrestato, la seconda volta, nel febbraio 2014: la Marina messicana lo scova in un resort di una località balneare nello stato di Sinaloa. Viene detenuto presso il car-cere federale di massima sicurezza di

Altiplano. Iniziano a circolare insi-stentemente voci di una guerra gene-razionale all’interno del Cartello di Sinaloa, di nuove generazioni che vo-gliono il potere; si scrive del Chapo come di un boss decadente, ormai finito...

E invece, l’11 luglio scorso, Guzmán spiazza tutti. Evade da Altiplano, e lo fa – ancora una volta – in maniera sce-nografica: si introduce prima in un piccolo condotto aperto dai suoi com-plici sotto la zona doccia della sua cella, si cala con una scala per dieci metri, e infine percorre un secondo tunnel (completo di sistemi di illumi-nazione e ventilazione) a bordo di una motocicletta rossa modificata per viaggiare su rotaie. Nel video della fuga, ripresa dalle telecamere di sicu-rezza, si possono sentire chiaramente i rumori delle martellate con cui i suoi complici provvedevano a rompere il pavimento per permettergli di calarsi nel corridoio che lo porterà verso la libertà: sorprendentemente, nessuno dei sorveglianti si accorse di nulla. Da quando El Chapo scompare dalla vista delle telecamere all’arrivo delle guar-die carcerarie nella sua cella passano più di venticinque minuti. L’ennesima evasione di Joaquín Guzmán imbaraz-za profondamente il Messico agli occhi del mondo, e specialmente agli occhi degli USA, che più volte avevano chiesto (e si erano visti rifiutare)

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0606 Politica & Attualità

l’estradizione del criminale in territo-rio statunitense, dove è ricercato per numerosi reati.L’8 gennaio, però, sei mesi dopo, il nuovo – il terzo – arresto: ancora nello stato di Sinaloa, ancora un articolato sistema di gallerie con cui El Chapo cerca (stavolta inutilmente) di sfuggi-re alla cattura. Joaquín viene, sorpren-dentemente, trasferito ad Altiplano, lo stesso carcere dell’ultima evasione. Le istituzioni messicane acconsentono, stavolta, all’estradizione negli Stati Uniti, che potrebbe concretizzarsi però soltanto tra parecchi mesi (o ad-dirittura parecchi anni), a causa dei ricorsi legali degli avvocati del signor Guzmán.

Ma la storia (che in Messico ha assun-to i toni esasperanti di una telenovela) non finisce qui: si scopre che El Chapo aveva in mente di girare un film auto-biografico, che si era perciò messo in contatto con vari attori e produttori, e ad un giorno dall’arresto la rivista Rol-ling Stone pubblica un articolo, firma-to da Sean Penn, in cui il famoso attore racconta addirittura del suo incontro con Joaquín Guzmán, avve-nuto qualche mese prima grazie alla mediazione di Kate del Castillo, cele-bre attrice messicana di fiction, che pare già intrattenesse da tempo una conversazione privata con il leader del Cartello di Sinaloa.A corredo dell’articolo, Rolling Stone

rilascia anche una esclusiva video-in-tervista in cui El Chapo risponde ad alcune domande fattegli da Sean Penn. Tralasciando il fatto che Guzmán ha sfruttato l’occasione per ripulire la propria immagine e mo-strarsi come un pacato uomo di fami-glia vittima di circostanze sfavorevoli, non c’è nulla di particolarmente inte-ressante. Se non un piccolo particola-re: El Chapo si presenta apertamente come un narco, che traffica droghe «più di chiunque altro al mondo». Un bel passo avanti per un uomo che amava definirsi «un agricoltore».

Marco Dell’Aguzzo

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MiBACT: più volontari oggi? Ancora disoccupati domani!

Il bando pubblicato lo scorso 29 dicembre dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo non può di certo passare inosservato in un paese in cui regna il 45% della disoccupazione giovanile. Perché?Per il progetto “Archeologia in Cam-mino” e per nove mesi in occasione del Giubileo straordinario della Miseri-cordia, il bando prevede l'assunzione di 29 volontari del Servizio Civile Na-zionale, mettendo loro a disposizione un esiguo compenso, ma concedendo “flessibilità oraria”, “partecipazione a corsi o seminari” e “partecipazione ad attività anche nei giorni festivi e prefe-stivi”. Di conseguenza ci troviamo di fronte ad un'ulteriore circostanza in cui viene sottratto lavoro a chi ancora sperava che la sua figura professionale gli avrebbe consentito di svolgere mansioni retribuite adeguatamente alla propria formazione e ai propri

titoli di studio. Invece in questa situa-zione archeologi, archivisti e storici dell'arte sono costretti a fare i conti con una concorrenza evidentemente per loro molto svantaggiosa, se non addirittura “sleale”. La campagna “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” ha sollevato la giusta polemica al riguardo, insieme ad altre associazioni legate al settore, proprio per chiedere al MiBACT il ritiro imme-diato di questo bando molto “perico-loso”, in quanto porta ad un legittima-zione anche a livello nazionale e stata-le di una pratica, quella del volontaria-to, già diffusa in ambito locale e tra enti privati. Il progetto “Archeologia in Cammino” volto ad “implementare ed ampliare la conoscenza e la fruizio-ne dei beni culturali, artistici e archi-tettonici del Municipio Roma I” sembra svilire non solo i professionisti a cui spetterebbero tali compiti, ma anche la figura di un'Italia presentata ancora incapace di dare un giusto valore al suo patrimonio artistico, pro-prio quel patrimonio che l'ha resa uno dei centri di attrazione turistica più gettonati al mondo.

Martina Iele

Logo della Campagna ( )http://on.fb.me/1TzSBn2

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0808 Politica & Attualità

Quale migliore occasione dell’uscita del film “The Danish Girl” per affron-tare un tema così delicato come quello dei diritti gay; la pellicola racconta infatti la storia biografica di Lili Elbe, nata con il nome di Mogens E. Wege-ner.

Lili è stata la prima persona al mondo a decidere di cambiare sesso; erano i lontani anni ‘40, e questo è stato il pre-cedente che ha rivoluzionato la storia, contribuendo all’accettazione di quelli che erano, e che forse ancora oggi sono, chiamati diversi.

Ma torniamo alla nostra epoca; siamo nel 2016, sarebbe giusto chiedersi: in settanta anni cosa è cambiato?Ormai gran parte dei Paesi Europei ha riconosciuto i diritti LGBT: diritto di

esprimere se stessi liberamente, senza avere paura, diritto di essere conside-rati cittadini uguali agli altri; di amare e di poter condividere la vita con il/la proprio/a partner, diritto di sposarlo/a e di poter avere, crescere e amare dei figli.

E in Italia?

L’Italia attualmente è uno dei pochi paesi UE a non avere ancora oggi leggi che tutelino in maniera chiara e ine-quivocabile le coppie omosessuali. Da mesi ormai si discute in Parlamento del disegno di legge Cirinnà, nel quale non solo non si fa cenno alle parole matrimonio e adozione, ma che nel trattare la possibilità della stepchild adoption sembra creare uno stato di panico tra le diverse forze politiche.

Uguaglianza dei diritti o ennesima occasione sprecata?

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La stepchild adoption consiste nella possibilità di adottare il figlio del co-niuge, affinché il bambino, in caso di morte del genitore naturale, possa continuare a crescere con chi lo ha amato, protetto, consolato, educato fino a quel momento… con la persona che in poche parole è la sua Famiglia, un genitore a tutti gli effetti.

Certo comprendiamo la necessità di mediare su argomenti ritenuti delicati come questo; ma la cosa che riteniamo inaccettabile è il pregiudizio con cui sono trattati, l’utilizzo di vuote retori-che e beceri populismi per spaventare l’opinione pubblica creando un grosso mostro “munito di pallette e lustrini” da cui bisogna proteggere i valori tra-dizionali della famiglia e del matrimo-nio.

Ma che cos’è la famiglia se non un nucleo di persone che si vogliono bene, che si proteggono, che si stanno vicine nei momenti di difficoltà, che gioiscono e soffrono insieme, che farebbero qualunque cosa per coloro che amano?

E allora perché dovrebbero esistere famiglie di serie A e famiglie di serie B?

Questo è lo scopo, il riconoscimento del Matrimonio e delle così dette “Unioni Civili”; questa è la necessità,

garantire a tutte le famiglie i medesi-mi diritti (possibilità di incontrare il partner in ospedale, di non perdere il tetto in cui si è vissuti insieme, di cre-scere quello che ormai è un figlio o la possibilità di averne uno).

La domanda che quindi bisogna porsi è: esiste veramente questo Mostro Ar-cobaleno, o è solo nelle nostre teste?

E.C.

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1010 Politica & Attualità

Schengen: grandiosa macchina a rischio stop

Mentre il Consiglio Europeo, a margi-ne di una seduta dedicata alla crisi siriana e all'ipotesi Brexit sottolinea la necessità di un “pieno ritorno a Schen-gen”, e il premier Renzi definisce “inimmaginabile” l'introduzione di nuovi controlli e recinzioni sul Bren-nero annunciati dall'Austria, sono già 6 i Paesi UE che hanno almeno par-zialmente sospeso l'accordo di libera circolazione delle persone in Europa. Si tratta di Norvegia, Svezia, Danimar-ca, Germania, Francia e Austria, che, a fine Gennaio, hanno formalmente richiesto alla Commissione UE l'atti-vazione delle procedure per una vera e propria sospensione di Schengen, per un periodo che – ai sensi dell'art. 26 del Trattato - potrebbe arrivare sino a due anni.Se andasse in porto, tale operazione sarebbe una grossa tegola per i paesi del Sud Europa - in primis Italia e Grecia - che si troverebbero ancora più soli nella gestione della crisi migrato-ria, in assenza di un piano di acco-glienza europeo efficiente, e potrebbe portare ad un rapido sgretolamento dell'accordo in tutto lo spazio euro-peo. Sarebbe la fine dell'Europa degli Erasmus e degli ideali di Ventotene.Ma come si è arrivati a questo punto

potenzialmente “di non ritorno”? Per capirlo occorre fare un balzo indietro nel tempo, sino allo scorso Giugno, quando le autorità transalpine, di fronte alla pressione migratoria al confine tra Francia ed Italia, decisero di reintrodurre pesanti controlli alla barriera di Ventimiglia. Fu in quel mo-mento che il principio di libera circo-lazione delle persone cominciò a vacil-lare.Mentre decine esseri umani - soprat-tutto eritrei e sudanesi - si rifugiavano sugli scogli della riviera ligure per non vedere infrangersi il sogno di una nuova vita nel vecchio continente, il responsabile della prefettura delle Alpes-Maritimes, però, dichiarò che “la frontiera italo-francese non è mai stata chiusa” e che Schengen non era stato sospeso. Perché?Il punto è che tale trattato risulta – in effetti – aggirabile in diverse maniere. Stipulato nel 1985 e ratificato progres-sivamente da 26 Paesi, tra cui 22 membri Ue e quattro Paesi esterni (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera), prevede l'istituzione di una zona di libera circolazione per le per-sone, ossia l'abolizione dei controlli alle frontiere per i cittadini degli stati aderenti all’accordo, ed il

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rafforzamento delle frontiere esterne del cosiddetto Spazio Schengen. Il trattato, però, prevede altresì che la polizia di qualsiasi Paese europeo possa effettuare comunque controlli frontalieri, senza necessità di richie-dere autorizzazioni, a patto che questi controlli siano “a campione” e non “si-stematici”: è proprio questo l'escamo-tage utilizzato da diversi stati negli ultimi mesi per bloccare di fatto il flusso dei migranti, senza dover fare esplicita richiesta di sospensione di Schengen alla Commissione Europea. Richiesta che può essere concessa per un periodo di massimo sei mesi, esclusivamente in caso di pericoli per la sicurezza nazionale: dunque, non certo a causa di un “semplice” aumen-to dei flussi migratori.Sicuramente però, dallo scorso Giugno la realtà si è fatta molto più complessa. A sommarsi alla questione migratoria, gli attentati di Parigi del 13 Novembre hanno allarmato i governi e soprattutto le opinioni pubbliche di tutto il continente, sempre più inclini a facili nazionalismi e a misure che proteggano i “sacri” confini. Ed il rischio terrorismo ha fornito motiva-zioni valide per sospendere ufficial-mente l'accordo. La Svezia, sino ad oggi Paese modello per l'accoglienza dei rifugiati, ha compiuto un repenti-no dietrofront. Così oggi, per attraver-sare il ponte sull'Oeresund, che colle-ga Copenhagen a Malmoe, non sono

più presenti treni diretti ed è necessa-rio esibire un documento di identità. La Danimarca, a sua volta, ha aumen-tato i controlli verso la frontiera tede-sca.Ma quanto costerebbe la fine del trat-tato? Per il think tank francese “France Stratégie”, la reintroduzione di controlli permanenti nell'UE coste-rebbe 110 miliardi di euro e farebbe calare il PIL europeo di circa 0,8% punti in un decennio; senza contare i danni per i ritardi nella logistica (60 milioni i tir che annualmente attraver-sano i confini di Schengen) e nello spostamento delle persone (circa 3,5 milioni all'anno), e i costi del pattu-gliamento (150 mila euro al giorno sol-tanto per controllare il già citato ponte sull'Oeresund). Ed i migranti, per quanto Grillo e Salvini vedano di buon occhio il ritorno delle frontiere, rimar-rebbero semplicemente “intrappolati” dentro confini del primo Paese di arrivo.Sarebbe un'altra sconfitta – forse l'ul-tima? – per l'Europa.

Leonardo Filippi

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1212 Politica & Attualità

Il 25 Gennaio 2016 Giulio Regeni scompare nella notte egiziana. I gior-nali affrontano la notizia quasi timi-damente; la pista seguita è quella della motivazione personale; si vocifera di una qualche azione da parte dei fon-damentalisti islamici, mentre il mini-stro degli esteri Paolo Gentiloni pro-mette piena collaborazione da parte delle autorità egiziane. Su Twitter compare l'hashtag #whereisgiulio, ma anche in questo caso l'Italia non si distingue all’interno della comunità internazionale.Il 3 Febbraio Giulio Regeni viene tro-vato in un fosso. La polizia parla di incidente stradale. Però i segni che il corpo del giovane porta con sé, come fossero un tatuaggio, sono inequivo-cabilmente quelli di una tortura, smentiscono le parole delle autorità egiziane. Le ipotesi sulla data della morte, causata dalla rottura del mi-dollo spinale, sono diverse: si calcola dai due fino ai cinque giorni dalla data della scomparsa; molte più numerose sono le teorie che vorrebbero spiegare la sua scomparsa.La Repubblica parla di concorrenza tra servizio segreto egiziano e servizio segreto militare, dai cui ranghi provie-ne Al Sisi. Per l'Huffinngton Post è

colpa di infiltrazioni dei Fratelli Mu-sulmani che vorrebbero utilizzare la morte di Regeni per rovinare i rapporti tra Italia ed Egitto. Presto alle teorie del complotto se ne aggiunge un'inte-ra altra categoria, quella legata alla stessa figura (da vivo) di Regeni. Il Giornale parla più volte di una possi-bile appartenenza del ricercatore ai servizi segreti, prima italiani, poi inglesi o americani: il suo assassinio diventerebbe quindi un legittimo mezzo della polizia per ottenere l'e-stromissione dell'intelligence stranie-ra dagli affari egiziani.Intanto in Italia si scopre che Giulio ha collaborato con il Manifesto per un articolo, scritto sotto pseudonimo, intorno alla cui pubblicazione il quo-tidiano vive una diatriba con la fami-glia del ricercatore; il pezzo è sulla rinascita del movimento sindacale nell'Egitto autoritario e militarizzato di Al Sisi, racconta di quel lavoro di ricerca che potrebbe essergli costato la vita. Lo stesso giornale lascia infatti trapelare, in maniera neanche troppo sottile, quale sia la sua ipotesi riguar-do la scomparsa del giovane, rapito e ucciso dal braccio violento del regime egiziano.

Quando il denaro non può pulire il sangue: la morte di Giulio Regeni

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Regeni è infatti solo l'ultimo di una lunga lista di uomini schiacciati dalla macchina che domina il paese dalla rivoluzione del 2011, quest'Egitto che impedisce qualsiasi tipo di manifesta-zione in quella piazza Tahrir da cui partì la protesta che avrebbe fatto cadere il presidente Hosni Mubarak. Alcune voci egiziane hanno messo in dubbio il coinvolgimento del regime nell'omicidio, dichiarando che se fos-sero stati veramente gli uomini di Al Sisi a far scomparire Regeni il corpo non sarebbe mai più stato ritrovato. La risposta a queste affermazioni è però tremendamente semplice: il regime non poteva permettersi di rimanere con l'occhio dell'occidente puntato addosso. Se l'Italia continua infatti a dimostrarsi, in maniera delu-dente, tutto sommato disinteressata nella ricerca della verità sulla sorte del ricercatore – tanto che la notizia sta già cominciando ad abbandonare i nostri telegiornali e le home dei siti di informazione – il resto del mondo sa essere, fortunatamente, meno ottuso di noi. Diversi articoli della stampa britannica incitano il Paese a prendere una posizione al riguardo, sottoline-ando come il caso Regeni sia anche un “problema inglese”. Anche dall'altro lato dell'oceano la diplomazia ha saputo dimostrarsi più interessata di noi, così che gli Sati Uniti hanno inse-rito la discussione su Regeni nell'ordi-ne del giorno di due meetings tenutisi

al Cairo e a Washington a metà Feb-braio. D'altronde, le cause di questa scarsa intransigenza da parte delle istituzioni italiane verso le autorità egiziane sono facilmente individuabi-li. “L’Egitto è un’area straordinaria di op-portunità. Abbiamo fiducia nella sua leadership, nelle sue riforme macroe-conomiche… in favore della prosperità e della stabilità”: queste le parole usate dal premier Renzi in un incontro a Sharm el Sheikh. Human Rights Watch denuncia i innumerevoli casi di arresti illegali nel paese, torture e numerose morti durante i periodi di detenzione, ma l'Italia preferisce sor-volare e lodare la corretta applicazione della scienza economica. Siamo stati il primo Stato europeo a legittimare, tramite scambi di visite reciproche, il regime di Al Sisi. Solo l’ENI ha investi-to nel paese circa 14 miliardi di dollari, ma il totale di aziende nostrane pre-senti in Egitto ammonta a 130. Si va da Banca Intesa San Paolo fino al gruppo Caltagirone. Una montagna di denaro che a quanto pare, per la nostra diplo-mazia, sul piatto può ben bilanciare la morte di un giovane troppo coraggio-so.

Emanuele Papi

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1414 Link in Rete

Più un fenomeno è complesso, maggio-re è il raggio d’azione che esso ha. Se-guendo la massima appena formulata, consideriamo due fenomeni: migrazio-ne e terrorismo. Tra i due un binomio viene creato per essere strumentalizza-to, da politici stolti e ignoranti che pro-pongono modelli nazionalisti come risposta per entrambi i fenomeni non comprendendo, molto spesso, né l’uno né l’altro. Ma il nucleo della questione non è la debaclé, seppur evidente, della classe politica nazionale ed europea, bensì il danno collaterale che il terrori-smo – e l’ignoranza – ha causato in Italia: ossia una respinta del migrante ed una futile presa di posizione contro molti centri di accoglienza. Se “mi-grante” sta a “potenziale terrorista”, allora “centri d’accoglienza” sta per “potenziali basi operative”. Follia, stru-mentalizzazione per fini politici e ignoranza!Roma, Via Cupa 5. Nel 2004 in una vec-

chia vetreria abbandonata nasce il Centro Baobab, un centro di prima accoglienza per profughi, fondato e gestito solo ed esclusivamente da vo-lontari. Questi liberi cittadini, nono-stante i loro impegni quotidiani, rie-scono a dar vita ad una realtà in grado di restituire speranza e dignità a perso-ne che fuggono da fame, guerre e vio-lenze di ogni genere, dando pasti caldi e beni di prima necessità ad un totale di più di 35.000 migranti. Inoltre si attrezza per la raccolta di abbigliamen-to e cibo da donare ai nuovi arrivati. Il lavoro del Centro va oltre i preziosi aiuti pratici, mobilitandosi per sensibi-lizzare all’accoglienza e incentivare nuove politiche comunitarie. Il 5 novembre dell’anno appena tra-scorso, Patrizia Paglia, fondatrice del Centro Baobab, è ospite a Roma Tre per l’inaugurazione di un ciclo di incontri organizzato da Link Roma Tre - Sinda-cato Universitario, avente per tema la questione “Migranti e accoglienza”. Af-fianco a Patrizia, due filosofe, Federica Giardini ed Emanuela Fornari, affron-tano la calda tematica della “fortezza Europa”.Si pone l’accento sull’oltrepassamento dei confini che queste donne, uomini e bambini si trovano a dover affrontare dopo aver oltrepassato mare e muri, terre e torri.

Baobab: vittime di terrorismo e ignoranza

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Confini identitari e di cittadinanza, dunque. Per “confine” non intendia-mo la pura delimitazione territoriale, la dogana per intenderci, ma quel limite etico e politico che si trova all’interno così come all’esterno del territorio. Dentro e fuori la società civile o la politica o l’Italia e l’Europa. Il Centro Baobab mira ad abbattere confini di tal genere fornendo aiuto pratico ai migranti e proposte cultura-li alla cittadinanza.Qualche giorno dopo l’incontro uni-versitario, il Centro deve affrontare un nemico molto più complesso di quanto si pensi: il terrorismo – e la sua strumentalizzazione politica. La risposta nazionale agli attentati di Parigi del 13 dicembre non tarda ad arrivare. I livelli di allerta crescono in modo esponenziale e la politica inizia a strumentalizzare le due parti in causa senza comprendere la reale situazione. Ancora una volta i primi a subire tali misure sono gli immigrati innocenti e i volontari delle strutture di accoglienza o primo soccorso. Il Baobab è una di queste. In tenuta anti-sommossa e con unità cinofile, le forze dell’ordine iniziano una perlustrazio-ne a tappeto prelevando ventiquattro migranti per l’identificazione. Questo è ciò che accade il 24 novembre; e questi eritrei, etiopi e maghrebini sono solo i primi ad esser allontanati da Via Cupa. Ad inizio dicembre il rastrellamento verrà ultimato ed il

Centro Baobab chiuso. Si legge sul co-municato del centro che “il Comune ha imposto la chiusura dello stabile per motivi amministrativi, legati alla controversia con la proprietà, e non per esigenze di ordine pubblico. […] Qualora i volontari e gli immigrati, non liberino gli spazi entro gli orari indicati l’amministrazione ricorrerà all’uso della forza pubblica.” Nonostante la chiusura, il Baobab non scompare. Dal 6 dicembre è attivo un presidio gestito da volontari con il supporto di associazioni per garantire i servizi medici essenziali, seppur le risposte dal comune capitolino tardi-no ad arrivare. Il Baobab è ancora vivo ma ora è necessario che la politica e le istituzioni facciano la loro parte salva-guardando centri d’accoglienza e cit-tadini impegnati nel sociale come questi volontari. Questa è la vera lotta al terrorismo – e all’ignoranza – che in Italia si deve portare avanti, ascoltan-do e comprendendo le esigenze dell’altro perché solo una visione plu-rale può riaprire lo spazio politico e di discussione attorno alle imponenti questioni del contemporaneo.

Andrea Carnì

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1616 Link in Rete

Viviamo in una fase in cui l’azione quotidiana del sindacato studentesco, volta alla difesa dei diritti degli stu-denti, spesso non è sufficiente: infatti, se da un lato si riescono ad ottenere piccole vittorie – dall’aumento degli appelli d’esame a miglioramenti nel sistema di diritto allo studio – dall’altro i diktat dell’austerity euro-pea e i vincoli di bilancio ci fanno scontrare con la costante indisponibi-lità di finanziamenti, soprattutto nel caso degli enti locali. Inoltre, portiamo avanti come rappre-sentanti degli studenti le nostre batta-glie in luoghi della formazione sempre più elitari ed escludenti: è noto a tutti il drastico calo delle immatricolazioni nel nostro Paese negli ultimi anni, spesso dovuto alla grave carenza di un dignitoso sistema di diritto allo studio e/o a una disillusione della nostra generazione, sempre più condannata a un futuro di precarietà e disoccupa-zione. Molti studenti che riescono a lottare contro l’espulsione sono invece costretti a mantenersi gli studi tramite lavoretti, spesso in nero, sottopagati, che non consentono loro di frequenta-re assiduamente l’università e di essere quindi intercettati da studenti e stu-dentesse in mobilitazione per i propri diritti. Dobbiamo anche essere consapevoli

che le università sono vissute e attra-versate da figure nel limbo tra forma-zione e lavoro, come i dottorandi, gli abilitandi all’insegnamento o gli spe-cializzandi in materie mediche, prota-gonisti di ingiustizie e da coinvolgere nelle lotte degli studenti e dei precari.In questo quadro, il sindacato studen-tesco deve interrogarsi su pratiche e strumenti innovativi di aggregazione e di pressione, conscio della limitatez-za e della parzialità dei suoi strumenti tradizionali. In tal senso, è importante investire in sperimentazioni mutualistiche, ovvero in attività di mutuo scambio e condivisione tra studenti e non, che non si esauriscono nell’erogazione di un servizio, ma mirano all’aggregazi-one, alla formazione di una comunità studentesca consapevole e da politi-cizzare, sempre da inserire in una piattaforma rivendicativa e di pressio-ne nei confronti delle istituzioni. Il sindacato studentesco Link Roma Tre ha sperimentato con successo l’ape-rtura di un’aula studio domenicale al C.S.O.A. “La Strada”, legata alla caren-za di spazi-studio, di socializzazione e produzione di cultura nella capitale, soprattutto nel weekend; la sfida è il coinvolgimento degli studenti e delle studentesse che beneficiano di questa iniziativa, in un’ottica

Mutualismo e nuovi spazi

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di allargamento di attività mutualisti-che e di ottenimento di nuovi spazi culturali nella nostra città, a partire dall’estensione degli orari di apertura delle biblioteche universitarie e comu-nali.Alla Sapienza, lo spazio “De Lollis Un-derground”, ottenuto in seguito a ripe-tute occupazioni dello studentato De Lollis finalizzate ad ottenerne il pieno funzionamento – che hanno portato all’assegnazione per gli studenti di più di cento posti letto prima inutilizzati – , porta avanti sperimentazioni mutua-listiche in continuo incremento: dall’aula studio, al book-sharing in opposizione al caro libri, allo sportello sul diritto allo studio, alla sala prove per studenti. Nel quadrante di città che ospita l’ate-neo di Tor Vergata, la rete di associa-zioni e centri sociali Cinecittà Bene Comune ha messo in campo l’intere-ssantissima sperimentazione mutua-listica della “tenda contro la crisi”, che si sostanzia in mensa solidale e ambu-latorio; in particolare, l’esperienza dell’ambulatorio permette tanto a medici quanto a studenti di medicina di mettere le proprie competenze al servizio della società, in un’ottica di mutuo scambio esente dal profitto. È questo a nostro parere il ruolo dei saperi: non mera acquisizione di no-zioni al servizio del mercato, ma pro-duzione di sapere critico in grado di ribaltare e migliorare l’esistenze e di

essere utile in un’ottica sociale. In tal senso valutiamo positivamente l’esp-erienza della “Legal clinic” del Dipar-timento di Giurisprudenza del nostro ateneo, corso tramite il quale gli stu-denti mettono le proprie competenze al servizio dei migranti per l’assistenza legale.Speriamo che si moltiplichino espe-rienze di questo tipo e auspichiamo che il mutualismo e l’interscambio possano sempre più servire come stru-mento di ricomposizione della nostra generazione per far valere i nostri diritti, costruire opposizione sociale e produrre un effettivo miglioramento della nostra condizione.

Serena Fagiani

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Già nello scorso numero de LINKio-stro avevamo raccontato i significativi mutamenti che in questi mesi si sono registrati nel panorama del Diritto allo Studio, in tutta Italia e nella nostra Regione; la riforma dell’ISEE – che non poco ha inciso sui benefici erogati dalle singole regioni a livello nazionale: decine di migliaia di stu-dentesse e studenti esclusi in tutta Italia, 3000 dei quali solo nel Lazio – ha costretto tutti gli enti regionali per il diritto allo studio e tutte le regioni ad adottare provvedimenti immediati come misure “tampone” per fermare l’emorragia.

Nel Lazio, in particolare, dopo un tavolo di confronto e di lavoro con Re-gione Lazio e Laziodisu da un lato e i rappresentanti degli studenti dall’altro, dopo un autunno di mobili-tazioni, siamo riusciti ad ottenere la riapertura delle graduatorie per gli esclusi da borse di studio e posti allog-gio a causa di motivi formali (doman-da trasmessa senza codice PIN, CFU sopra la norma, et similia) e l’impegno a sbloccare i pagamenti dei Premi di Laurea.

A seguito dell’incontro avuto il 15 Gen-naio, Regione e Laziodisu hanno con-fermato a noi rappresentanti di Link

Roma che la riapertura delle graduato-rie fosse effettiva: già mentre scrivo è possibile trasmettere le domande, fino alla nuova scadenza fissata per il 29 Febbraio. Siamo inoltre riusciti ad ottenere la copertura totale dei 3500 idonei non vincitori – rivendicazione storica di Link Roma – entro il mese di Aprile.

Ancora, tra la fine di Marzo e gli inizi di Aprile, previa approvazione del MIUR, verranno erogati sussidi stra-ordinari per gli esclusi causa ISEE ed ISPE, aumentando il tetto ISEE a € 24.000 e il tetto ISPE a € 43.000. Gli esclusi perché “l’attestazione ISEE non è presente in banca dati INPS” rientreranno in questo gruppo, veden-dosi erogati i benefici richiesti verso la fine di Marzo.

Ciascuno di questi risultati è il frutto di battaglie portate avanti con costan-za e vinte duramente, dopo molte pressioni e diversi incontri. Ma se è vero che la nostra Regione, come molte altre in Italia (Toscana, Emilia Romagna, Campania, Puglia, ecc.), ha predisposto delle misure di conteni-mento degli effetti disastrosi di questa riforma dell’ISEE, che abbatte forte-mente il welfare studentesco, è altresì vero che la strada da fare è

Diritto allo studio: non ci fermiamo!

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molta e che in tutto il Bel Paese ancora oggi gli esclusi e le escluse sono mi-gliaia e migliaia, con una riduzione della platea di beneficiari pari al 20%. Il MIUR, per legge, ha tempo fino al 28 Febbraio per emanare un decreto che aggiorni le soglie ISEE e ISPE per acce-dere alle borse di studio – soglie asso-lutamente ridicole alla luce della sopracitata riforma – ; ma nel momen-to in cui scrivo ciò non è ancora avve-nuto, e il dicastero non ha dato rispo-ste.

Nel frattempo Link Coordinamento Universitario il prossimo 27 Febbraio presenterà, al Teatro della Casa dello Studente di via Cesare de Lollis a Roma, una Legge di Iniziativa Popola-re sul Diritto allo Studio, mettendo assieme istanze e rivendicazioni dal basso di studenti, organizzazioni e sindacati.

Francesco Pellas

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2020 Economia

Non è un mistero che l'economia finanziaria cinese non navighi nel mi-gliore dei mari. Nonostante la crescita annua del 6.9% la borsa ha bruciato dal Giugno 2015 più del 40% del pro-prio valore.

All'inizio del 2016, a un mese dall'ini-zio dell'anno cinese della scimmia, le contrattazioni sono state chiuse dopo essere crollate del 7%. È stato questo l'esordio del “circuit breakers” un meccanismo studiato dopo una lunga e dura estate per stabilizzare gli indici.Un po' di storia: dopo un anno di grande crescita, vicino al 150% per la borsa di Shanghai, dal 12 Giugno a Luglio 2015 sul mercato borsistico mondiale sono stati bruciati 330 mi-liardi di dollari.

Il mercato finanziario spagnolo, per

fare un esempio, vale meno di quanto la Cina è stata capace di distruggere in un solo mese. Gli economisti hanno parlato da subito di bolla finanziaria: nel corso del 2014 il prezzo delle azioni era infatti schizzato alle stelle senza nessun reale collegamento con i risultati delle aziende.

Pechino ha quindi partorito il “circuit breakers”, meccanismo che blocca ogni contrattazione per mezz'ora qua-lora gli indici di riferimento di borsa dovessero salire o scendere di più del 5 % e che decreta la chiusura anticipata se si arriva al 7%. Il meccanismo non ha però sortito gli effetti desiderati e già il 4 gennaio la scivolata al -7% ha fatto sentire i suoi effetti sulle borse occidentali. Il circuit breakers infatti non fa altro che aumentare il panico degli investitori, che cercano di

Il ruggito della tigre

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aumentare le vendite/gli acquisti per completare le operazioni prima che il governo impedisca loro di farlo.

Alcuni hanno tentato di spiegare lo stato di crisi con il crollo del settore manifatturiero cinese, ma nell'ultimo decennio quest'industria ha contato troppo poco all'interno della crescita economica, il cui settore trainante era l'investimento in costruzioni ed infra-strutture. Inoltre la classe media sta avanzando e con essa il livello dei salari, situazione che spinge le fabbri-che a delocalizzare presso i “nuovi poveri”, paesi come il Vietnam e il Bangladesh. È comunque vero che i dati segnalano una Cina lenta come non lo era da 25 anni, con una crescita del 6.9%, nettamente inferiore a quella del 7.3% registrato nel 2014.Inoltre va crescendo la diffidenza verso i dati trasmessi dagli istituti cinesi, colpevoli del vizio di gonfiare le statistiche.

Alle preoccupazioni dei mercati si ag-giungono poi quelle legate alla moneta, lo yuan. Negli ultimi tempi gli investitori guardano infatti ad un nuovo Spread, che approda sui moni-tor dei mercati direttamente dalla Cina. Si tratta del confronto tra yuan “spot” e “onshore”, il primo è control-lato dalla People's Bank of China, quindi in una posizione di semi-rigi-dità, mentre il secondo, quotato ad

Hong Kong, è libero di fluttuare seguendo le regole della domanda-of-ferta. I mercati seguono con il fiato corto le variazioni di questo spread: ad esempio, quando lo yuan offshore au-menta il suo valore rispetto allo spot, gli investitori cominciano ad aspettar-si che la People's Bank of China svaluti lo yuan rispetto al dollaro, causando così enormi rivolgimenti nelle borse globali. Riprova di quanto conti per i mercati la svalutazione cinese è la tranquillità che il governatore della banca cinese ha generato in borsa semplicemente affermando che il Paese non ha intenzione di svalutare ulteriormente lo yuan.

Emanuele Papi

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2222 Cultura

Negli Stati Uniti il 2016 potrebbe essere l’anno della svolta epocale in fatto di legalizzazione della marijuana; ad oggi, peraltro, le nazioni che hanno detto stop al proibizionismo sono nu-mericamente maggiori di quelle di che mantengono il divieto di coltivazione e distribuzione, in materia di droghe leg-gere.

Anche il Paese del Proibizionismo per eccellenza, dunque, sta modificando le proprie politiche al riguardo; ma che fa, invece, il nostro Paese?

In Italia la produzione di cannabis dalla coltivazione alla distribuzione conti-nua ad essere proibita, nonostante sul tema vi siano vari progetti di riforma mai andati in porto e comunque il dibattito sociale non si sia mai (fortu-natamente!) sopito.

La legalizzazione della cannabis, però, non è culturalmente accettata: a frena-re i più è spesso la paura delle conse-guenze che potrebbero derivarne; eppure, guardando alle esperienze estere ci si può facilmente rendere conto di come la legalizzazione possa essere anche uno strumento di contra-sto alle criminalità organizzate, nazio-nali e internazionali, le quali lucrano sul traffico di stupefacenti e quindi

anche della marijuana.

Forse cambieremmo le nostre posizio-ni, se sapessimo che, da quando alcuni stati della federazione hanno legalizza-to la coltivazione, il commercio e il consumo della cannabis, il volume degli scambi commerciali in fatto di droghe tra gli USA e il Messico è lette-ralmente crollato, lasciando i narco-trafficanti privi di uno dei migliori introiti?

Tuttavia, anche se non si tratta affatto di legalizzazione, nel nostro Paese un piccolo passo in avanti è stato fatto da alcune Regioni, ultima la Lombardia proprio a inizio 2016, le quali ammetto-no l’utilizzo terapeutico della sostanza.Ma cos’è l’utilizzo terapeutico?“Istruzioni per l’uso: 200 milligrammi per volta, o per via orale o per via inala-toria”

L’uso medico della canapa ha una storia millenaria condivisa da molte culture; scientificamente è provato che la sostanza in essa contenuta, il THC, ha effetti positivi sul sistema nervoso dei pazienti che presentanospasticità, dolore neurogeno, cachessie ed in genere chi si sottopone a cure chemioterapiche, radioterapiche e per l’HIV.

Cannabis di Stato: istruzioni per l’uso?

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Alcune regioni lo permettevano già da tempo per via giurisprudenziale, come la Toscana; oggi, in Lombardia, secon-do il provvedimento regionale del 16 Gennaio di quest’anno che recepisce il decreto del Ministero della Salute del Dicembre 2015, le cure a base di can-nabis saranno permesse per le patolo-gie che comportano sia dolore sia spasmi, come la sclerosi multipla e le lesioni del midollo spinale, come effetto ipotensivo nel glaucoma resi-stente alle terapie convenzionali, per la riduzione dei movimenti involonta-ri del corpo e facciali nella sindrome di Gilles de la Tourette, come effetto an-tichinetosico e antiemetico in nausea e vomito causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per HIV, come stimolante dell’appetito nella caches-sia e nell’anoressia.

A beneficiarne in Lombardia, secondo gli esperti di terapia del dolore, do-vrebbe essere un migliaio di pazienti.Forti dunque rimangono le restrizioni per l’accesso al l’uso medico della can-nabis: questo infatti, come emerge anche dalla recente delibera della regione Piemonte, può essere consi-derato solo un trattamento sintomati-co di supporto ai trattamenti stan-dard, e solo quando i trattamenti con-sueti non hanno prodotto gli effetti desiderati per alcune precise patologie gravi.

Di positivo c’è che la fornitura avverrà direttamente da parte del servizio sanitario nazionale presso le sue strut-ture pubbliche; eppure finché non sarà possibile coltivarla sul nostro ter-ritorio saremmo costretti ad impor-tarla dall’estero.

Intanto la cannabis viene sempre più riconosciuta come farmaco, se non proprio comune, almeno tollerato: staremo a vedere le prime esperienze concrete, e seguiremo i possibili svi-luppi.

A quando un serio cambio di rotta?

Valentina Muglia

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2424 Cultura

“Siamo ancora alla ricerca del respon-sabile del misfatto”.

Dopo quasi un mese non si è ancora scoperto il mandante dell’ “inscatola-mento” delle statue.

“Chiedete a palazzo Chigi”, aveva asse-rito Franceschini, Ministro dei Beni e le Attività Culturali e del Turismo, pochi giorni dopo l’accaduto. Così mi sono incamminata verso Palazzo Chigi interrogando portoni, muri e finestre, ma non ho ricevuto risposta alcuna.

Ma ora torniamo al misfatto: il 25 gen-naio scorso, in occasione della visita istituzionale a Roma del presidente ira-niano Rohani è stata organizzata una conferenza stampa all’interno della sala Esedra di Marco Aurelio in Campi-doglio. Dovendo Rohani attraversare un corridoio adornato da statue anti-che come Veneri classiche e gruppi equestri, qualcuno ha pensato bene di “inscatolarle” per non turbare la sua sensibilità.

Tra le statue in questione vi sarebbero la Venere Esquilina di età adrianea, un Dioniso di età antonina e un paio di gruppi monumentali raffiguranti un leone che azzanna un cavallo e un leone che azzanna delle fanciulle.

È ancora dubbio se la decisione sia stata presa in seguito ad una esplicita richiesta della delegazione iraniana oppure sia stata un’autonoma valuta-zione da parte italiana.

Sta di fatto che in seguito allo stupore suscitato dalla vicenda, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi e il suo Mi-nistro Dario Franceschini si sono affrettati a prendere le distanze dagli ignoti responsabili di tale atto. “Non siamo Stato noi!”.

“Voglio una risposta entro 24 ore”, è stato l'ordine di Renzi. Ma, dopo che il commissario prefettizio Francesco Paolo Tronca ha iniziato parallelamen-te un’indagine interna al Comune, di ore ne sono passate ben 648.

L’ “indiziata numero uno” sembra essere Ilva Sapora, capo del Cerimonia-le di Palazzo Chigi. Tuttavia, il fatto sorprendente è che sia Renzi che Fran-ceschini fossero all’oscuro di tutto. Può davvero un funzionario determinare le sorti, nel bene e nel male, di un incon-tro politico?

E se invece dell’eccesso di zelo vi fosse stato l’intento di creare un incidente diplomatico?

Impara l’arte e non metterla da parte

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“La nostra storia poteva imbarazzare il leader di uno Stato con cui stavamo per chiudere 15 miliardi di euro di con-tratti” avrà pensato Ilva Sapora.

“Dobbiamo creare le condizioni per una presenza attiva degli imprenditori italiani ed europei in Iran, perché parte del mercato iraniano si offre agli investitori europei per accedere insie-me al grande mercato che ci circonda” ha detto infatti il presidente iraniano Hassan Rohani alla stampa.

Tra le aziende italiane con cui l’Iran ha stipulato contratti vi sono: Saipem, società petrolifera facente parte del gruppo ENI; Danieli, multinazionale italiana leader mondiale di impianti siderurgici; Condotte, società di co-struzioni e grandi opere; Gavio, società leader nella gestione di reti infrastrutturali; Fincantieri, impor-tante complesso cantieristico navale; Alitalia; Ferrovie dello Stato.

Forse, tra gli obiettivi di Renzi, quello di “una grande opera, di importanza storica, che questa Nazione salverà”?Eppure, quando il presidente iraniano dopo l’Italia è andato in visita in Fran-cia, il presidente Hollande non ha ceduto alla richiesta iraniana di servi-re un pranzo senza vino, preferendo piuttosto rimandare l’incontro nel po-meriggio.

Il solito provincialismo italiano e il solito orgoglio francese?

In ogni caso, qualche giorno dopo mi sono recata ai Musei Capitolini e, pro-babilmente per la mancanza di sonno, mi è sembrato di sentire le statue del corridoio incriminato dialogare tra loro. “In quasi 2000 anni non mi è mai successa una cosa del genere”, ha detto la Venere Esquilina; Bacco le ha rispo-sto, “Sai perfettamente anche tu che Bacco, tabacco e Venere, riducono l’uomo in cenere, forse non si poteva fare altrimenti”. “Io non mi sono accorto di niente” ha dichiarato la statua acefala di Veiove, il quale, alle continue domande di Venere su chi avesse avuto un’idea tanto spiacevole ha risposto: “Ho sentito dire che sia stata la Sapora, ma queste sono solo voci di corridoio.”

Emma BiancaLuna

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2626 Cultura

Uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, lo statunitense Jimi Hendrix, ha vissuto con la musica e per la musica, come molti vivono le loro giornate con il loro Dio e per il loro Dio.

Questa musica, di cui Jimi Hendrix ci parla, è stata spesso vista nella storia dell'uomo come un qualcosa di sacro. Non potremmo vederla anche noi come una religione?

Oggi noi ragazzi veniamo spesso visti come delle persone prive di valori, di credenze, di spiritualità, di missioni; ma potremmo semplicemente vivere una vita spirituale differente da quella di tutti gli altri.

Abbiamo sicuramente utilizzato gli au-ricolari più volte di quante abbiamo fatto un segno della croce, o passato più tempo ad ascoltare canzoni che a pre-gare... forse perché la musica ci sembra una cosa davvero necessaria?

Necessità. Cosa è la religione se non la necessità dell'uomo di sentirsi protet-to, di sperare in un mondo migliore, di credere in un paradiso? Io, personal-mente, quando ascolto Bob Marley è proprio lì che mi sento: in paradiso (e vi assicuro che non fumo)!

La musica crea dei legami, ci rende tutti simili, potremmo dire ''fratelli''. Ci fa provare emozioni uniche. Poi capita anche che le frasi delle nostre canzoni preferite diventino una sorta di filoso-fia di vita e che il nostro cantante prefe-rito venga visto come una sorta di pro-feta.

Ora ditemi: quando siete sul vostro letto, di sera, e con delle grosse cuffie ascoltate la vostra canzone preferita, non vi sembra che la vostra stanza si trasformi in una grande e sacra catte-drale? In una specie di ''chiesa persona-le''?

Vi sentite ancora soli quando c'è una canzone a farvi compagnia? E ditemi ancora un'ultima cosa: non si crea attorno a voi una specie di… Magia?

Forse viviamo una spiritualità maggio-re di quella di tanti altri praticanti. E se non vi rispecchiate in queste frasi, ma volete provarne l'essenza, vi consiglio di cambiare genere musicale. Sapete, fa la differenza!

Giorgia Granata

La musica è la mia religione

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Ora, però, ci si cali in questa dimensio-ne: Camden, New Jersey, anno 1917. La rinomata Victor Talking Machine Company detiene ormai il monopolio più totale sulle incisioni discografiche statunitensi, distinguendosi pure per l’elevatissima qualità dei suoi apparec-chi e soprattutto per il sommo prestigio dei suoi utenti, per lo più dal mondo sinfonico: Caruso, Kreisler, Herbert, Paderewski, Rachmaninoff, Toscanini, tanto per citarne i massimi esponenti.Si immagini, dunque, quanto potesse

temere una casa prestigiosa a tal punto la pubblicazione di un disco di jazz! Dopotutto, nel 1917, Il jazz – o jass secondo la grafia dell’epoca – era musica degenerata, perversa, “quel genere di uomo che non vorresti mai vedere associato a tua figlia”! Persino negli annunci pubblicitari la Victor Co. esordiva con un: “Ecco a voi l’Original Dixieland ‘Jass’ Band, una brass band che ha dato di matto!”.

È nato! (il Jazz)

Fiumi – ma che dico? Cascate! – d’inchiostro sono stati versati sulla storia del jazz. Inchiostri neri, blu, rossi… e, in effetti, sul jazz se ne son dette di tutti i colori! Un dato sicuro, però, riaf-fiora alla mente ragionando sul mese corrente: il primo disco di musica jazz – o perlomeno classificabile come tale – fu inciso proprio in Febbraio, esattamente 99 anni fa. Di seguito una scheda tecnica di questa leggendaria incisione su gomma-lacca:

TITOLO: Dixie ‘Jass’ Band One-Step (Lato A); Livery Stable Blues alias Barnyard Blues (Lato B)ANNO DI COMPOSIZIONE: Ignoto (Dixie ‘Jass’ Band One-Step) Ignoto (Livery Stable Blues/Barnyard Blues)COMPOSITORE/I: Original Dixieland ‘Jass’ Band (Dixie ‘Jass’ Band One-Step) Ray-mond Edward ‘Ray’ Lopez & Alcide Patrick ‘Yellow Al’ Nunez? Dominic James ‘Nick’ LaRocca? Anonimo? (Livery Stable Blues/Barnyard Blues)ESECUTORE/I: Original Dixieland ‘Jass’ BandSTRUMENTISTI: Alcide Patrick ‘Yellow Al’ Nunez – clarinetto soprano Dominic James ‘Nick’ LaRocca – cornetta in SIb Edwin Brand-ford “Eddie” Edwards - trombone tenore. Henry Ragas – pianoforte Antonio ‘Tony’ Sparbaro (alias Sbarbaro o Spargo) – batteria di percussioniETICHETTA: Victor Talking Machine CompanyDISCO: 18255DATA D’INCISIONE: 26 Febbraio 1917

È nato! (il Jazz)

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2828 Cultura

Ma quei ritmi frenetici, elettrizzanti e selvaggi erano ormai penetrati nelle ossa degli ascoltatori: persino i più timidi non resistevano al desiderio di ballare in maniera scimmiesca. Queste affermazioni, oggi, possono apparire estremamente ridicole, anche perché, prestandovi orecchio, nel disco sopracitato troveremmo quanto di più innocuo possibile.

Abbiamo già potuto notare come l’antica grafia della parola jazz fosse jass – numerose in realtà le varianti del nome –, termine avente una con-notazione volgare, forse sinonimo di “copulare”, secondo lo slang francese tanto diffuso lungo le rive del Missis-sippi; termine che però poteva benis-simo essere anche una sorta di ono-matopea: il suono, cioè, derivato dalla percussione di un piatto musicale, il crash, elemento fondamentale della batteria primitiva.

Come mai, allora, successivamente, si impose l’odierna grafia jazz in modo definitivo e imperituro? Un famoso aneddoto, tramandatoci da Jimmy La-Rocca, figlio di quel famoso “Nick” a capo della OD’J’B, risponde a questa nostra domanda. In un epoca in cui il jass era tanto osteggiato dal bigotti-smo del tempo, ennesimo oltraggio al genere era reso attraverso un’azione alquanto peculiare: quando uscirono i primi manifesti di concerti, serate e

incisioni, infatti, la gente si divertiva a strappare la “J” dalla parola “Jass”, così che jass music divenisse l’ingiurioso ass music. La Victor Co. pensò bene di ovviare al problema sostituendo tutte le S con le Z, soluzione che funzionò a meraviglia e che, sin da subito, si affer-mò in maniera irrevocabile.

È difficile pensare al 1917 come una sorta di ’68, anno in cui, al di là dell’Atlantico, un pensiero ben più grande occupava le menti della popo-lazione globale: la Prima Guerra Mon-diale. Eppure, fu proprio così: il jazz era divenuto veicolo di ribellione ai vecchi costumi puritani d’età vittoria-na ancora imperanti, e per la prima volta s’incideva pure un disco rivolto esclusivamente a un pubblico giovane. Ma gli aspetti rivoluzionari della cosa non si fermano qui. Lo stesso com-plesso strumentale dell’OD’J’B, tanto esiguo (solo 5 elementi), era cosa del tutto inusuale: ben altro, infatti, rispetto alle grandi bande militari da concerto che occupavano i palchi dei teatri di mezzo mondo. Era una for-mazione, quella, tipicamente negra, povera, popolare, tipica delle regioni del Sud; e infatti la band nacque pro-prio a New Orleans, il crogiolo cultu-rale d’America.

Già dal primissimo ascolto dei due brani si evince una caratteristica fon-damentale: un senso di caos…

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Caos che deriva dalla sovrapposizione di più melodie all’unisono, ma non un’autentica polifonia, piuttosto un’eterofonia: è la cornetta – che pure fatica a sovrastare gli altri elementi – a guidare il gruppo, e dà il tema fonda-mentale del pezzo; gli altri, però, svi-luppano quel tema medesimo in ma-niera del tutto autonoma, intuitiva, improvvisata: abbiamo quindi, nei due brani, gli strilli del clarinetto, le smorfie del trombone, il ritmo rigido e martellante del pianoforte, gli accenti singhiozzanti delle percussioni.

Eppure, in realtà, di reale improvvisa-zione non vi è poi molto, ascoltando bene i due brani: per entrambi vi è una costante ripetizione, più o meno variata, di soli tre temi e la melodia principale non è mai stravolta e sempre riconoscibilissima. Ma natu-ralmente siamo ancora alle origini. Nel primo lato abbiamo un One-Step, danza vivace su temi di 16 battute. L’altro lato ci presenta invece un blues (estremamente edulcorato) su temi, stavolta, di 12 battute, come da tradi-zione ormai pienamente consolidata nei contesti urbani. In particolare è da segnalare, in quest’ultimo, la simpati-ca imitazione strumentale di tre versi di animali: il clarinetto simula infatti il chiocciare di una gallina, la cornetta nitrisce come un cavallo e il trombone risponde infine con un muggito, poche note gravi e staccate.

Alla luce di tutto ciò, difficilmente le parole potrebbero esprimere adegua-tamente l’importanza di questo disco: certo modesto quanto a valore artisti-co, ma pietra miliare all’interno della storia della musica internazionale. Sembra, infatti, di udire più una sorta di esperimento, di prova, che un’ese-cuzione professionale. Ma non voglio togliere altro tempo ai miei lettori, li incoraggio piuttosto ad ascoltare il disco il più presto possibile. Che le vostre orecchie ne siano deliziate!

Davide Longo

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3030 Recensioni

Woody Allen torna a fare cinema e lo fa firmando la regia e la sceneggiatura di Irrational man. Presentato fuori con-corso al festival di Cannes 2015, il film racconta di un professore di filosofia, Abe Lucas - interpretato da un panciu-to Joaquin Phoenix - che ha perso la voglia di vivere e si abbandona alla de-pressione. “La filosofia è solo mastur-bazione mentale”, tuona Abe; un per-sonaggio depresso, quello portato sulla scena dal regista newyorkese, critico fino alla disillusione nei confronti della tanto vituperata disciplina che inse-gna, che non esce granché bene da questo film.

Dedito all’alcol e alle droghe, non è più capace di provare piacere nel vivere, tanto da non riuscire nemmeno ad avere rapporti con il sesso opposto: una visione forse un po’ troppo stereotipa-ta, tanto da risultare forzata e stucche-vole. Un altro stereotipo è quello della studentessa, Jill Pollard, interpretata da una poco convincente Emma Stone,

che si innamora del proprio professore. Inizialmente lui le fa capire, in un quasi inaspettato gesto di maturità, che pos-sono essere solo amici, che lei non è innamorata di lui ma dell’idea di inna-morarsi del suo professore. Oltre tutto Abe ha una relazione segreta con una sua collega, Rita Richards (interpretata da Parker Posey), sposata ma pronta a scappare in Europa al suo seguito. Fin qui tutto bene, ovvero niente di nuovo.

Ma un giorno Abe e Jill in un caffè ascoltano per caso una conversazione: una donna si dispera del fatto che per colpa di un giudice corrotto perderà i propri figli e non sa come fare. Allora Abe prenderà una decisione, non troppo sofferta, che stravolgerà per sempre le loro vite; la sua esistenza però ritroverà senso. Adesso ha qualco-sa per cui vivere, uno scopo insomma.Con questo film il regista statunitense ci esprime tutto il suo cinismo ed una disillusione nei confronti della vita, co-municandoci come abbia un senso

Irrational man

TITOLO: Irrational manREGISTA: Woody AllenCAST: Ioaquin Phoenix, Emma Stone, Parker Posey, Jamie Blackley, Betsey Aidem, Ethan Philips, Meredith Hagner, Ben Rosenfield, David Aaron BakerPRODOTTO DA: Letty Aronson, Stephen Tenenbaum, Edward WalsonDISTRIBUITO DA: Warner Bros (Italia)ANNO: 2015

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arbitrario, ovvero un senso che non è univoco ma che varia da persona a per-sona. Ogni individuo è libero di sce-gliere ciò che ritiene più giusto come fine a cui tendere. Ma questo atteggia-mento ci fa sprofondare in un relativi-smo che assume le fattezze di un oceano dove non troviamo mai una riva dove approdare ma solo qualche galleggiante a cui aggrapparsi. E no-nostante siamo coscienti che questo sia un surrogato di ciò che stiamo cer-cando non possiamo farne a meno. Perciò ci sforziamo e ci agitiamo tra le onde della vita quotidiana in cerca di un qualcosa per cui continuare a gal-leggiare che, alla fin fine, è sempre meglio che lasciarsi andare. Oltre tutto la scelta di uno scopo adatto non può prescindere dalla moralità di ogni individuo, ovvero la capacità di distin-guere il bene dal male. Questa dialet-tica interiore viene messa bene in mostra dai tormenti di Abe Lucas che cerca sempre di giustificare le proprie azioni, convincendosi che ciò che fa deve essere fatto, è giusto che si faccia.L’opposto metodo di discernimento di ciò che è giusto da ciò che è sbagliato è ben rappresentato, anche se non sul piano della recitazione ma più che altro sul piano delle battute del perso-naggio creato da Woody Allen, da Jill, la studentessa che sa benissimo ed in modo immediato, quasi seguendo un istinto naturale, ciò che si può fare e cosa no. Quale dei due sia migliore

Allen non lo dice. Si limita a mostrarci come entrambi questi atteggiamenti siano compresenti in ognuno di noi. Istinto o ragione? Chi ha la meglio? Fin dove siamo legittimati a spingerci per ciò che riteniamo giusto? E soprat-tutto, ciò che è giusto per noi è vera-mente giusto? Può diventare cioè quello che Kant chiamava un impera-tivo categorico, ovvero un qualcosa che metta tutti d’accordo senza nuo-cere a nessuno? I filosofi non hanno ancora risposto, Woody Allen nem-meno.

Lorenzo Picca

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3232 Sport

Per lo Sporting Locri, spenti i riflettori si accende la speranza. Dimessosi Fer-dinando Armeni per via delle intimida-zioni subite, il nuovo presidente della società è Vittorio Zadotti, imprendito-re milanese originario di Locri. Il suo profilo imprenditoriale è di spicco: dirigente della Lombarda Servizi, con un passato da Consigliere del Consor-zio Termale di Antonimina, prende ora le redini di questa squadra che milita nella massima serie di Calcio a 5 fem-minile. Il neo-presidente, nella confe-renza stampa di insediamento del 26 gennaio, segnala l’intenzione della società tutta di “riorganizzare lo Spor-ting Locri dando prevalenza alla sua matrice calabrese, rendendola una squadra del territorio” e non semplice-mente nella Calabria. Un forte ed orgo-glioso senso di appartenenza dunque, come base valoriale per una rinascita della squadra. Così viene promosso in prima squadra l’intero staff della cante-ra; primo fra tutti il mister Gianfranco Sansotta, che subentra all’esonerato allenatore spagnolo Willy Lapuente. Il rinnovamento societario ha permesso l’ingresso di altre figure professionali necessarie, come la nutrizionista (Elisa Ventre) e il preparatore atletico (Vin-cent Belvedere). Dopo quattro lettere intimidatorie e tre sconfitte (sul campo) consecutive, il rinnovamento

societario era inevitabile nel tentativo di portare stabilità fisica e morale alle atlete e alla società civile tutta. Se sul campo lo Sporting Locri ha chiuso la Regular Season in quinta posizione con un netto 9-2 in casa contro l’Olimpus Olgiata, fuori da esso ha dato un segna-le forte all’Italia intera. Dinanzi ad un escalation di intimidazioni che da mesi coinvolge la Locride in modo più inci-sivo del solito, lo Sporting Locri può divenire un simbolo di reazione contro una società affarista e corrotta. Nel frattempo gli inquirenti proseguono le indagini “per minacce a carico d’ignoti” riguardo alle intimidazioni subite dall’ex presidente Ferdinando Armeni. Per gli inquirenti solo la pista passiona-le può esser esclusa; tutto il resto è ipo-tizzabile, incluso un collegamento del gesto con ambienti di ‘ndrangheta. Altre piste inducono ad altri sospetti: magistrati e carabinieri di Locri stanno vagliando i bilanci societari dopo che alcune fonti hanno messo in dubbio la stabilità finanziaria dell’azienda. Pur proseguendo le ricerche di un colpevo-le, altri canali di reazione devono aprir-si. La società civile della Locride deve rinascere emarginando e debellando il grande male della ‘ndrangheta. Questa è l’unica reale soluzione.

Andrea Carnì

Sporting Locri: la città s’è desta?

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Se il buongiorno si vede dal mattino, per Novak Djokovic si prospetta un anno di grandi trionfi, un po’ come il precedente. Facendo un rapido excur-sus temporale infatti, il 2015 ha visto il campione di Belgrado concludere la stagione al primo posto nel ranking ATP, vincere tre tornei del Grande Slam su quattro, portare a casa ben sei Ma-sters 1000 ed imporsi alle World Tour Finals a fronte di un sovrumano bilan-cio di 82 vittorie e appena 6 sconfitte. Numeri da capogiro che hanno portato gli appassionati di tutto il mondo a creare una sorta di “guerra dei mondi”, dividendosi tra la stagione 2006 di Roger Federer e quella appena passata da Djokovic, entrambe, più o meno, sugli stessi livelli. Ma tornando all’attu-alità, anche questo inizio di stagione sembra ricalcare l’andamento della pre-cedente. Con la partecipazione a due tornei, sono infatti arrivate due vittorie, una un po’ meno importante a Doha, ed una dal ben più alto valore a Melbour-ne. Proprio in terra australiana, l’attuale numero 1 del mondo, ha conquistato il primo Slam stagionale (il suo sesto agli Australian Open) e il suo undicesimo personale, eguagliando a quota 11 cam-pioni del passato del calibro dello sve-dese Bjorn Borg e dell’australiano Rod Laver. Numeri alla mano, in tutto il

torneo, il “Djoker” (così è chiamato dai suoi sostenitori) ha concesso 3 soli set e ha sconfitto in semifinale e finale rispettivamente i numeri 3 e 2 del mondo Roger Federer ed Andy Murray. Quest’ultimo, alla quinta finale agli Au-stralian Open (con nessuna vittoria all’attivo), è stato liquidato in maniera netta in tre soli set in 2 ore e 52 minuti di gioco. Al giocatore serbo, non resta altro che aggiungere al suo enorme pal-mares il tanto agognato titolo del Roland Garros, l’unico torneo dello Slam assente all’appello. Ed è proprio sulla terra rossa di Parigi che, lo scorso anno, Nole ha subito la sconfitta più co-cente. Quella sopraggiunta in finale contro lo svizzero Stan Wawrinka, il quale, in una giornata di totale grazia, ha negato la vittoria al serbo e infranto i suoi sogni di Grande Slam. La vincita di tutti e 4 i major stagionali rappresenta perciò l’obiettivo numero uno, un’impr-esa che avrebbe dello storico. Un’impr-esa riuscita ad un solo uomo (Rod Laver) nell’ormai lontano 1969. Per gli avversari, con Federer unico in grado di poterlo mettere in difficoltà, la monta-gna da scalare rappresenta un’ardua sfida. Una montagna impervia, una montagna chiamata Novak Djokovic.

Damiano Mascioni

Novak Djokovic e il Grande Slam, la rincorsa continua

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3434 Scintille

Quando la posta in palio è ‘mportante,te batte tanto forte er core.

Non è semplice batte un calcio de rigore, quando dall'esito o vivi o muori,

quando sai che se sbagli, segna l'altro, e te stai fuori.

Quando vedi lì davanti a te quel trofeo, così bello e d'oro,Te vie’ da dì: - Nun je lo posso lascia’ a loro - .

Perché se quello ha fatto bene il primo tempotirando sotto il sette una mina,

l'ha fatto mentre io stavo in panchina. E quando so’ entrato ho pareggiato,

quel trofeo, che già se stavano a gusta’nella testa, je l'ho allontanato.

Ma il tempo passa e la partita non si decide, e la paura dentro me sale,

troppe ne ho perse io de sfide, tornano incubi che fanno male.

Tutti non sanno chi meriti di vincere,c'è chi m'applaude e tifa pe’ me,

ma la partita non ha deciso,e quella se sa, è una cosa a sé.

Coraggio, altruismo e fantasia

Un giocatore si vede dal coraggio,dall’altruismo e dalla fantasia”

FRANCESCO DE GREGORI

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Il mister me dice: - L'ultimo rigore lo batti tu -io guardo er trofeo, e n’ ce penso più,

agli spalti, a chi mi fischia, a chi mi supporta...Dipende tutto da me, ancora una volta.

È tutta una lotta:ci sto solo io e quella porta.

Ripenso a tutto, a tutte le delusioni, a tutti quei trofei non arrivati.A quei palloni calciati con amore ma mai entrati.

Quella rete che volevo vede’ move co’ tutto me stesso...troppe volte m'è stato negato ‘sto successo.‘Na volta l'emozione, ‘na volta la traversa,

e ‘na volta ‘na gran parata.Ma qui non esiste più margine d'errore,

‘sta coppa la vojo vede’ da me alzata.

E vojo ave’ i brividi, senti’ il respiro affannato,

come non mai da quando so’ nato.Vojo sentì ammutolito lo stadio pe’ la tensione, mentre mi preparo sul dischetto ‘sto pallone.

Vojo vede’ i pugni tesi,pe’ tutti quei minuti corsi in cui non ci siamo mai arresi.

L'occhi lucidi pe’ l'emozione, perché lo sai anche tu: pe’ me

questo non è un semplice rigore.E vojo vede’ gli occhi sbarrati, le schiene ritte,

rivolgo un ultimo sguardo al trofeo:- Saresti la vittoria più bella,

in una vita de sconfitte - .

Simone Trinca

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Monia SerapigliaSquilibrio Perfetto

Seconda puntata

.

La prima puntata su LINKiostro, Anno I, Numero I – Gennaio 2016; qui il link: http://bit.ly/21sAZMy

3636 Scintille

La notte non facevo in tempo ad arri-vare nella stanza che mi trovavo Fabri-zio già a metà corridoio, il corpo sbi-lanciato sul fianco destro, che mi aspettava. Ci abbracciavamo. Ci avvinghiavamo, ci consumavamo sul letto traballante e stretto. Ci racconta-vamo la giornata fino a quando la sua voce, a un certo punto, s'impigriva. Ormai non mi sforzavo più a inse-gnargli a parlare spigliato, avevo deciso che non era un problema. Gli spazi vuoti di parole, ci piaceva riem-pirli con i baci. I baci erano come l'aria per lui. Più di tutto, però, gli piaceva-no le carezze. Diceva che loro, le mie carezze, avevano addomesticato il suo corpo fantoccio. Lo facevano vibrare come uno strumento musicale. Io m'i-norgoglivo. E mentre ricalcava, con il dito mezzo spiegato, la mappa dei miei avvallamenti, rettilinei e pianure, sorridevo delle sue lotte, le prime volte, per slacciarmi il reggiseno. Un po' per il difetto, un po' per i suoi modi

goffi e infantili, pensavo di essere stata io la prima. L'aveva già fatto, invece. Con una prostituta: il regalo di un assistente, molti anni prima. La verità è che eravamo destinati. Il nostro oroscopo lo confermava: ottan-tasettepecento di possibilità di riusci-ta. Saturno e Sole in trigono disegna-vano un aspetto positivo, ci legavano per la vita. Con i miei precedenti ragazzi erano tutte quadrature di pia-neti ostili e disturbati. –, gli ho baciato l'incavo della gamba. Lui ha allungato il braccio buono e mi ha tirato sul suo petto. Poi si e messo a guardare il soffitto con uno sguardo assorto. A cosa pensava? Gli ho cerca-to la faccia per capire meglio. Aveva lo sguardo ficcato in una crepa del muro. Mi sono assestata sulle sue costole sporgenti e ci sono rimasta tutta la notte. Ma c'erano alcune complicazio-ni. Per esempio, il fatto che la comuni-tà fosse una specie di casa di vetro dove pazienti, operatori, dottori

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e inservienti mangiavano e dormivano come in una famiglia allargata, ci toglieva l'aria. A stare dai miei con le porte sempre aperte e i tramezzi di cartongesso non se ne parlava e della sua famiglia non chiedevo mai. Ero io la sua famiglia.– Ci facciamo dare una casa popolare –, gli ho baciato l'incavo della gamba. Lui ha allungato il braccio buono e mi ha tirato sul suo petto. Poi si e messo a guardare il soffitto con uno sguardo assorto. A cosa pensava? Gli ho cerca-to la faccia per capire meglio. Aveva lo sguardo ficcato in una crepa del muro. Mi sono assestata sulle sue costole sporgenti e ci sono rimasta tutta la notte. I miei genitori si erano innamo-rati spiandosi e sorridendosi sopra la stampante dell'ufficio postale dove erano impiegati, perciò quando ho detto che stavo con uno della Casa e che progettavamo di andare a vivere insieme, a mia madre è sembrata una conseguenza naturale. Mi ha guardata con la faccia contenta e lo sguardo complice. Ha detto che lo sapeva. Il sospetto le è venuto quando ho chiuso il detersivo per i piatti dentro il frigori-fero e dagli altri segnali che mi lascia-vo dietro: il sorriso scemo sempre appeso, gli occhi spersi, il passo legge-ro, la fame cronica. Ha detto: – Un medico –. Si è appog-giata al frigorifero, ha chiuso gli occhi e tirato un sospiro come se avesse cer-cato qualcosa tutta la vita e solo adesso

l'aveva trovato. Ha cominciato a toc-carsi la faccia, i capelli e a lisciarsi la gonna. Ha preso il cellulare da sopra il microonde, ha premuto sui tasti con dita urgenti, allegre, e ha prenotato una seduta da Estetica Licia per la mattina seguente. Poi ha tirato fuori dallo stipo il servizio di porcellana con i fiori gialli e l'ha messo a mollo nell'acquaio. – Digli di venire a cena, domani, così lo conosciamo –.– Fa fatica a deambulare ��– ho detto.– È per qualche incidente? –, ha fatto una faccia dispiaciuta. – No. È un difetto, una cosa piccola, congenita –, me lo sono visto davanti incespicare nei lacci delle Nike e mi è scappato un sorriso tenero. Mia madre ha detto – Ah – morsicandosi la lingua. Ha preso una sigaretta dal pac-chetto di mio padre, l'ha accesa, ha aspirato e soffiato il fumo, ha fatto una smorfia con la bocca, un no con la testa e l'ha spenta nel posacenere spingendo forte sul filtro. – Non sarà una cosa grave, se può lavo-rare, no? –– Mamma, è un ospite –, ho piluccato un chicco d'uva dal cesto e l'ho ingoia-to intero.– Che vuol dire che è un ospite? –, è sbiancata. – È uno che ha volontà, ce la mette tutta. È migliorato parecchiodal giorno che me l'hanno affidato. E poi...ci vogliamo bene –– Che vuol dire che vi volete bene? –

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Dalla finestra aperta, con la luce e il sole entravano spore e profumo di mimosa. – Accendiamo le candele, be-viamo il tè, leggiamo le poesie. Scrive versi per me; e poi –, ho fatto una pausa – è bello –.Le sono venute delle brutte chiazze rosse sulle guance, la vena sul collo ingrossata pulsava rabbiosa.– Che vuol dire che è bello! – ha grida-to.Il giorno dopo, nello spogliatoio, qual-cuno aveva scassinato il mio armadiet-to e staccato il nome dall'anta. Fabri-zio, lo sguardo sperso, mi guardava sgomento. Nella fotografia lui mi ap-poggiava il mento sulla testa, ma chi aveva profanato il mio spazio aveva strappato la metà che mi ritraeva e, adesso, la sua testa ciondolava perico-losamente nel vuoto. Per un momento il mio cuore si è fermato. Ho sentito una bocca invisibile succhiarmi il cer-vello, gli occhi svuotarsi alla vista delle mie scarpe bianche di gomma che puntavano in direzioni opposte sopra una montagnola di pennelli, tubetti di colore, bastoncini di legno, stoffe: tutto ammonticchiato dentro una sca-tola di cartone. Il mio ricettario giace-va a pagine in giù sul pavimento di linoleum. L'ho raccolto per il dorso, era aperto sullo stufato di agnello. Avevo vinto le resistenze di Anna e ottenuto il permesso dalla direzione. Ho scelto tra quelli più autonomi e ho formato un gruppo di cinque. Fabrizio

in testa, abbiamo marciato in direzio-ne della cucina.– Questo è il nostro laboratorio del mercoledì! – avevo esclamato entusia-sta. Il mio sguardo abbracciava tutto il gruppo ma per nostro intendevo mio e di Fabrizio.Lui ha cominciato a tirare giù dalle mensole i tegami, i cucchiai di legno, le fruste per sbattere le uova. Infilava le dita uncinate nei barattoli di mar-mellata, me le cacciava in bocca, mi disegnava baffi con la polpa, poi mi guardava nel suo modo assorto. E rideva. Anche la mia parte di ufficio era stata attaccata. I cassetti della scrivania erano stati svuotati e lasciati aperti, i post-it e le dispense con i programmi delle attività formavano una monta-gnola crespa dentro il cestino. Nella caduta un bigliettino si era appiccica-to al pavimento. L'ho raccolto, l'ho aperto sul palmo della mano. Possono essere amore?No, non lo so...Sono scoppiata a piangere. Insieme alle poesie hanno trovato fotografie mie. Le teneva dentro la federa del cuscino, ci dormiva sopra quando non facevo il turno di notte o ero di riposo. Anna, con la soffiata del refettorio, ha fatto il resto. Il licenzia-mento mi è stato spedito per posta. Dovevo firmare sotto la data e il luogo e rimandare indietro il foglio. C'era scritto: per riduzione di

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personale. Il direttore, ha detto lui, mi ha voluto risparmiare l'umiliazione. Ma era furioso, delirava di squilibri intolle-rabili, carceri mentali, violenze psicolo-giche, processo all'etica. Come se volere qualcuno fosse diventa-to, all'improvviso, un reato grave. Ho preso la lettera e ci ho pisciato sopra.Mia madre si è presa un periodo di aspettativa dal lavoro, stava in casa con me, mi sorvegliava. – Fino a quando non ritrovi la ragione –, ha detto.Passava il tempo a cercare sui siti inter-net articoli di giornali e sentenze di giu-dici che trattavano la questione, – Ti è andata bene, Alice – oppure – Ma ci pensi, ci pensi a quello che poteva suc-cedere? – e – Ma che ti è passato per la testa? –. Svicolava, ma ciò che le strug-geva la testa, che si rifiutava di nomina-re le affiorava sulla faccia storcendole i lineamenti, arrossandole gli occhi. Alla fine, l'ha sputato come un boccone avvelenato: – Santoddio Alice, ha il cer-vello di un bambino! –. Ho sentito un sorriso beato allargarmi la bocca. Le menti acute non erano fatte per me. Fabrizio mi corrispondeva: non ragionava di drammi esistenziali, le vicende del mondo non lo sfioravano, la vita con le sue occupazioni e pretese lo

annoiava. Si stupiva, invece, di una far-falla che gli si posava sulla spalla, lo incantava un fiore sbocciato nella fessu-ra di una pietra, non si impressionava a farsi strisciare sul braccio lombrichi e scorpioni. Era capace di contrarre le pu-pille, nasconderle da qualche parte all'interno dell'orbita e fare restare solo il bianco. Quello che ci serviva ce l'ave-vamo. Le nostre energie erano collegate. Non c'era altro. In pochi giorni, la distanza dalla Casa, da lui, mi aveva consumato. Non facevo differenza tra giorno e notte, dormivo sempre. Qualche volta di soprassalto mi svegliava un pensiero come la puntura di un insetto: staranno attenti a non sfregiargli il collo quando lo radono? E i vestiti, lui glielo dirà quali gli piacciono, i colori, gli accostamenti che preferisce? No. Non glielo dirà. Zitto, immobile, un burattino. Me lo vedevo il mercoledì, seduto al tavolo della cucina, con lo sguardo fisso alla porta ad aspettare; lo vedevo in sala ricreazione, bianco e sfatto, dondolarsi in bilico e cercarmi disperatamente con gli occhi; oppure nella sua camera, al buio, scattare con la testa al minimo rumore di passi che gli arrivava dal corridoio.

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ANTICIPAZIONICe la farà Alice a lasciarsi alle spalle la storia con Fabrizio, a dimenticarlo, a rifarsi una vita?Oppure forse i due amanti riusciranno a ricongiungersi per realizzare il progetto di una vita insieme?Scopritelo nella prossima puntata, sul prossimo numero de “LINKiostro”!

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A questo mondo, purtroppo o per for-tuna non saprei dirlo, esistono ancora dei masochisti coi fiocchi. Niente che riguardi pratiche sessuali, intendiamo-ci; magari si parlasse di quello - per quanto in Italia di sesso non si possa parlare senza correre il rischio di essere immediatamente definiti volgari o peggio ancora -, che tanto nello stiva-letto gli epiteti per le altrui camere da letto non mancano mai, scarseggiando forse i fuochi di artificio nelle proprie. Parlo di un masochismo diverso, persi-no più perverso di quello che comune-mente si intende: il masochismo di chi, conscio di vivere in un Paese che non è per i vecchi ma è vecchio ad oltranza e quasi per conformazione naturale, corre ancora il rischio di interessarsi alla società, che è come dire alla politi-ca, che è come dire al niente con un bel vestito. E chi si interessa di politica, non per mestiere ma per semplice presa di coscienza di ciò che lo governa e quindi dovrebbe anche riguardarlo, ha le orecchie ormai anestetizzate. I politici non si rinnovano, a prescindere dal fatto che la loro età media possa au-mentare o diminuire in qualche modo. È come se avessero un vocabolario ben preciso, ormai trito e ritrito, che tirano fuori dalla tasca quando hanno inten-zione di esprimere un concetto. Un po' come dire che, permettetemelo, se le

parole usate son datate è anche datato il concetto che con queste parole si vuole esprimere.E dunque è sempre più comune, in realtà da un po' di tempo a questa parte, l'uso di alcuni vocaboli che all'occorrenza vengono tirati in ballo; solitamente succede quando non vi sono concetti reali, nascosti dietro i discorsi, o quando si hanno poche e confuse idee che non si vuole mettere in mostra per dare prova definitiva della scarsità di pensiero del soggetto in questione. Parole come "populista", "qualunquista" e compagnia bella sono quindi la massima espressione che i nostri politici riescono a trovare, imba-stendo su questi termini comizi su comizi, a cui purtroppo partecipano fiumi di persone che quando c'è da lamentarsi sono sempre in primissima linea, ma che quando poi si deve far qualcosa per cambiare le sorti son sempre indisposti causa malore mo-mentaneo. Eppure, se solo si facesse una ricerca nemmeno troppo accurata, si scoprirebbero mondi nuovi nascosti dietro ad un vocabolo. Mondi talmente nuovi da essere ormai decrepiti, almeno per anni di servizio. Si potreb-be quindi scoprire che la parola "popu-lista" è nata con una accezione non solo positiva, ma altamente auspicabile in tempi di magra sociale come questi:

“Populista sarà lei!” E perché no?

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letteralmente si riferiva ad un movi-mento culturale e politico nato in Russia (parliamo della fine del 19° secolo e gli inizi del 20°) e guidato da alcuni intellettuali che aveva un chia-rissimo intento rivoluzionario: quello di migliorare le condizioni di vita delle classi più disagiate (come sempre con-tadini e affini, giacché la sorte delle classi sociali non è mai cambiata real-mente a prescindere dalle belle parole spese sui libri di storia quando si par-lava di questa o quella rivoluzione) e di realizzare una sorta di socialismo rurale. Ideali che, insomma, nessun tipo di schieramento politico è più in grado di esprimere. E nonostante questa loro incapacità di intenti e di utopie lontane dall'esserlo se solo ci fosse una reale volontà, i governanti (governatori?) di oggi mischiano le carte ed utilizzano un'accezione nega-tiva del termine, senza minimamente preoccuparsi di essere magari più accurati, rispettando la sua origine. Più che altro, a questo punto, si parlas-se di demagogia, termine nato anche lui per indicare qualcosa di positivo come "l'arte di guidare il popolo" (quando ancora si credeva che ci vo-lesse arte, appunto, e non mestiere) e poi fin da subito relegato in zone semantiche più negative: "La pratica politica tendente ad ottenere il con-senso di masse, lusingando le loro aspirazioni, con promesse difficilmen-te realizzabili."

Nessuno tocchi il popolo, dunque? Mai detto. Specie se si tratta di un popolo volubile e del tutto estraneo al progresso come quello che abita l'Ita-lia da tempo immemore, salvando greci e romani per ovvi motivi. Ma almeno attenzione a quello che all'ori-gine si intendeva, con alcuni termini, e attenzione al loro contenuto forte-mente attuale e contemporaneo con il quale si potrebbe (e dovrebbe) davve-ro dare avvio ad un cambiamento sistematico delle cose. In Italia c'è il sentore quasi sempre confermato che la gente sia molto più "avanti" di chi la governa. Ossimoro, se pensiamo al fatto che chi la governa è stato eletto dalla gente stessa. Come dite? Non è più così da diversi anni? Ma allora questa gente chi l'ha messa ad occupa-re quelle poltrone? E con quale anor-male tranquillità procediamo come se niente fosse? Ci saremo mica arresi? E con cosa pagheremo lo sciatto panora-ma che vediamo all'orizzonte? Soldi non ne abbiamo. In natura va bene lo stesso?

Luca Casamassima

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Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai silenziosa luna?

La Luna in ciel, specie se piena, è uno spettacolo che affascina l’uomo da tempi immemori. La sua forma e il suo chiarore hanno ispirato versi e compo-nimenti musicali e hanno influenzato l’animo umano spingendolo alla crea-zione.

C’è chi l’aspetta tenendo il conto sul calendario e chi, alzando gli occhi all’Universo, ci si imbatte per caso, ma a tutti noi è capitato di assistere allo spettacolo che ci offre la Luna Piena, o Plenilunio: ce ne riempiamo gli occhi e il cuore. La notte si veste di magia, la Luna Piena strega, ispira, rende creati-vi, ci influenza a dirigere in maniera

creativa la nostra energia.

Gli uomini e le donne di tempi antichi, ahimè perduti, si radunavano per festeggiare sotto la sua bianca luce la Dea Madre, la collegavano al parto e alle nascite, credevano che influenzas-se la vita dell’uomo. Gli antichi intuiva-no l’importanza della Luna per la vita sulla Terra. Le loro osservazioni sono state tramandate di generazione in generazione nei racconti, nei miti, nei canti. La Luna è rappresentativa del Principio Femminile, vale a dire tutto ciò che riguarda le emozioni, i sogni, le consuetudini, la ciclicità, la versatilità, la variabilità, la memoria e molto altro ancora.

Nei Tarocchi la Luna simboleggia il mi-stero dell’anima, il processo segreto della gestazione, tutto quello che è na-scosto.

L’appuntamento con la Luna Piena in questo mese di Febbraio è il giorno 22 alle ore 18:18. Alzando gli occhi all’Uni-verso potremo vedere quella che gli an-tichi chiamavano Luna di Ghiaccio o Luna Immacolata. È la Luna della Libertà dell’Essere: la natura dorme sotto il manto dell’inverno, ma le gior-nate cominciano ad allungarsi e le piante cominciano a germogliare

Che Luna gira a… Febbraio

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aprendosi alla speranza di una nuova vita. Uomini, piante ed animali guar-dano già alla Primavera che è rinascita per antonomasia. Gli antichi popoli del Nord, molto sensibili ai cicli della natura, ricordavano questo tempo di rinnovamento celebrando Imbolc, una delle quattro feste celtiche chia-mate “Feste del Fuoco” (inteso quest’ultimo con una sua funzione di faro, luce guida nella notte) caratteriz-zate dall’accensione di fuochi e falò. Gli antichi celebravano, dunque, la luce (Imbolc) che si rifletteva nell’allu-ngamento della durata del giorno e che rendeva più vicino l’arrivo della Primavera.

Al pari della Natura che si prepara al risveglio, anche noi possiamo schiu-dere la mente e il cuore a progetti im-portanti che la luce crescente contri-buirà a nutrire e a crescere. L’energia della Luna di Febbraio è connessa al segno dell’Acquario che è il segno del rinnovamento e del futuro. Ci invita a rompere con il passato ed abbracciare, fiduciosi, il futuro in termini di idee, progetti, alleanze. L’acqua che sgorga dal suo vaso è un’acqua purificatrice; nutre e guarisce. La Luna di Febbraio ci invita a disintossicare il corpo con diete appropriate, a meditare per libe-rarci da cattive abitudini, a illuminare e a riscattare dal lungo inverno le zone buie della nostra personalità per ab-

bracciare la nostra interezza in piena libertà. La luna non irradia luce pro-pria, ma raccoglie e riflette quella del sole così come la mente, l’intelletto, non ha virtù attiva ma solo riflessiva: raccoglie e riflette la luce del cuore e la effonde per illuminare il cammino.

Buona Luna a tutti.

Monia Serapiglia

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