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“I mutamenti dei sistemi di relazioni industriali: dentro una nuova fase costituente” Di Daniele Principi 1

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“I mutamenti dei sistemi di relazioni industriali:

dentro una nuova fase costituente”

Di Daniele Principi

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Indice Introduzione: ............................................................................................................................................3

La sfida della crisi globale al sindacato...............................................................................................................3

Caratteristiche del movimento sindacale in Europa: una classificazione dei modelli contrattuali prima della

crisi. ....................................................................................................................................................................7

I modelli di relazioni industriali nel vortice della crisi: trasformazioni convergenti o divergenti? ...............9

Il modello di relazioni industriali in Germania: obiettivo nessun licenziamento .............................................13

Il modello di relazioni industriali scandinavo nel nuovo millennio: il caso svedese. .......................................19

Il modello di relazioni industriali americano: quando vince il neo-liberismo. .................................................25

Conclusioni .............................................................................................................................................29

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Introduzione La sfida della crisi globale al sindacato. Addentrarsi oggi nell’analisi comparata delle relazioni industriali, soprattutto in Occidente, significa innanzitutto compiere un viaggio all’interno di un mondo che si appresta a scavallare il quinto anno della crisi economica peggiore mai attraversata dal secondo dopoguerra. Questa premessa è fondamentale per poter entrare immediatamente nell’ottica giusta per affrontare la questione della diversità delle relazioni industriali ma soprattutto per comprendere al meglio ciò che riguarda le mutazioni che esse stanno subendo e i risvolti sulle caratteristiche dei sistemi contrattuali. L’ obiettivo principale alla base di questo lavoro è, infatti, riuscire a comprendere nella maniera più profonda possibile le risposte che le organizzazioni sindacali occidentali stanno elaborando al fine di ridurre ed invertire il destino (che invece secondo alcuni è quasi inevitabile) di sconfitta delle ragioni del lavoro nella battaglia della storia, ormai invece considerate necessariamente subordinate rispetto a quelle del capitale. Il rifiuto di questo assunto e la convinzione di come nell’odierno villaggio globale per comprendere a pieno cosa sta accadendo si debbano inevitabilmente analizzare i processi da un punto di vista sovra-nazionale ed internazionale mi hanno spinto a compiere quest’analisi comparata tra i vari sistemi di relazioni industriali europei, mettendoli in relazione anche a quando è avvenuto e sta tutt’ora accadendo in USA, con l’affermazione di un modello di relazioni industriali particolare, all’interno del quale il sindacato sembra condannato ad ammainare la propria vocazione originaria. Per analizzare detti processi, bisogna però iniziare centrando il contesto all’interno del quale ci muoviamo che, come detto, è caratterizzato dalla crisi economica iniziata nel 2007 negli USA a seguito dello scoppio della bolla del mercato immobiliare legato ai mutui subprime e dalla quale soprattutto l’Europa sembra completamente incapace di uscire. Il 2014 sarà il sesto anno di crisi economica in Europa: una crisi che si scrive economica ma che ormai si legge politica e sociale: è ormai acclarato come dallo scoppio della bolla legata ai mutui subrpime ad oggi le diseguaglianze di ordine sociale e democratico siano aumentate a dismisura nell’ intero mondo occidentale e come le istituzioni politiche siano state spesso svuotate del loro ruolo, sostituite da un establishment tecnocratico di chiara matrice ideologica. Una crisi che diventa sempre più di carattere globale, ma che in effetti nasconde l’imponente e veloce spostamento della ricchezza dalle aree tradizionalmente avanzate del mondo (leggi Occidente), verso nuove aree geografiche, che da periferia stanno assumendo un ruolo sempre più di primo piano nello scenario internazionale. In un suo libro di recente pubblicazione il sociologo Luciano Gallino sostiene come (da ormai qualche decennio) sia in atto una vera e propria “lotta di classe verso l’alto”, condotta dalle classi dominanti globali, a discapito delle classi meno abbienti, allo scopo di impedire un freno all’accumulazione del capitale, soprattutto finanziario1. Questa lotta di classe verso l’alto, avviene soprattutto grazie alle azioni di interventismo politico volte a garantire l’adozione di provvedimenti di politica economica e/o fiscale in grado di

1 La lotta di classe dopo la lotta di classe, L. Gallino

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congelare le entrate al fine di giustificare importanti tagli alla spesa ed opere di privatizzazioni/liberalizzazioni. Quando parliamo di tagli alla spesa parliamo soprattutto di quella spesa considerata “improduttiva” dalle élite economiche ispiratrici di queste misure e cioè sostanzialmente a tutto ciò che riguarda il cosiddetto modello sociale di welfare state (istruzione, sanità, ammortizzatori sociali, ecc.). Assistiamo quindi quotidianamente all'assurdo paradosso per cui gli stessi modelli economici e le politiche neoliberiste che hanno la responsabilità principale della crisi globale continuano ad essere imposti come unica medicina possibile per ritornare a crescere. L’imposizione del pareggio di bilancio nelle costituzioni come “regola d’oro” nell’adozione del fiscal compact si inserisce ovviamente in questa direzione e creerà non pochi problemi in futuro, sia a livello politico ma anche rispetto alle possibili rivendicazioni sindacali. Contro questo quadro di grave crisi e perpetuazione dell’egemonia politico-culturale neoliberista si scontra quotidianamente l’azione del movimento sindacale odierno. Una valutazione ex-post ormai possibile ci dice che la crisi ha avuto un impatto maggiore nei paesi poco sindacalizzati a basso sistema di protezione sociale ma è indubbio che, al di là di rare eccezioni, oggi in Occidente il sindacato è costretto quasi ovunque sulla difensiva. Un leitmotiv assoluto delle politiche oggi dominanti è infatti il duplice attacco, sia ai salari che (soprattutto) ai sistemi di protezioni sociali che hanno rappresentato per oltre mezzo secolo quel compromesso “sociale” che ha permesso all’Europa di crescere e prosperare nell’ottica di uno sviluppo capitalista, senza però mai perdere di vista gli obiettivi di eguaglianza ed equità. Quando Madio Draghi, da Presidente della BCE, decreta solennemente al Wall Street Journal che “il modello sociale europeo è morto” non si limita solo a celebrare un funerale dialettico: quest’affermazione infatti nasconde semplicemente l’obiettivo ultimo della ristrutturazione governata oggi dall’egemonia neo-liberale: costruire un mondo dove lo “stato del benessere” dei cittadini non debba essere obiettivo dell’azione politica dei Governi ma lasciato alla sfera individuale e privata, regolata ovviamente dalle leggi del laissez faire e del libero mercato. Per raggiungere questo obiettivo è quindi necessario porre in atto una sistematica opera politica di ridimensionamento dei diritti e dell'agibilità sindacale (sciopero e contrattazione collettiva) per poi intervenire successivamente e con determinazione sui salari e quindi sulla distribuzione del reddito in senso lato. Alcuni indicatori ci mostrano chiaramente quali sono le prime conseguenze di queste politiche sulla nostra base sociale di riferimento: intanto si assiste ad un sempre maggiore allargamento della forbice tra ricchi e poveri, poi siamo sempre più in presenza di una riduzione del tasso di sindacalizzazione medio e della copertura della contrattazione collettiva, sempre più spostata verso la contrattazione aziendale ed individuale; infine possiamo constatare un aumento della liberalizzazione del mercato del lavoro, volto a ricercare quelle forme di “flessibilità” viste come la panacea dell’economia, capace di curarne tutti i mali. Pensare che queste dinamiche macroeconomiche non avrebbero finito per influire sulle scelte strategiche delle organizzazioni sindacali si è rivelato clamorosamente illusorio. I sindacati sono ormai chiaramente sotto attacco quasi ovunque, ma questo processo è iniziato ben prima della crisi attuale ed è soprattutto in Europa che sta producendo uno smottamento dei sistemi di relazioni industriali nelle diverse forme e tradizioni in cui si erano consolidati nei diversi Paesi.

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Secondo qualcuno il giudizio diventa addirittura impietoso e si arriva a sostenere, non senza ragione che “nell'ultimo decennio è progressivamente cambiata la cifra (il senso) delle relazioni industriali e della regolazione dei rapporti di lavoro, o più precisamente dell'intervento normativo o di indirizzo della UE in questi ambiti, si è cioè passati dal dialogo sociale al dumping sociale, con un arretramento generalizzato del livello dei diritti sindacali e della protezione sociale del lavoro.”2 Negli ultimi anni le politiche di deregolamentazione delle relazioni di lavoro è stato senza dubbio un fattore determinante di questo processo e ha mostrato una non adeguata capacità di reazione del movimento sindacale. In questa direzione l’Unione Europea, intesa sia come istituzione politica che come istituzione economica ha compiuto delle scelte molto rilevanti, al fine di indirizzare dentro un binario quasi ideologico l’intero dibattito sulla crisi e sulle possibili vie d’uscita dalla stessa. Non possiamo dimenticare la teorizzazione della crescita economica come risultato delle politiche di austerità e di contenimento della spesa che, come già abbiamo affermato, è stata promossa da tutto l’establishment politico-economico comunitario indipendentemente dai colori politici. Per quanto riguarda più in senso stretto la legislazione del lavoro, i diritti sindacali e le relazioni industriali, come vedremo in seguito è stata messa in atto una vera e propria strategia politica volta a modificare il ruolo dei sindacati e della tutela della contrattazione collettiva in favore di una maggiore discrezionalità delle imprese nella gestione della forza lavoro, al fine di aumentare al massimo la flessibilità del lavoro e di conseguenza diminuire la forza contrattuale e rivendicativa dei lavoratori. Il presupposto teorico di questa strategia politica è molto pericoloso, in quanto si inserisce in un’ottica adattiva degli interessi del lavoro rispetto a quelli dell’impresa. Secondo questo presupposto teorico infatti la competitività si raggiunge esclusivamente agendo sulla variabile del lavoro, unico elemento modificabile al fine di preservare la competitività e la produttività nel mercato globale. In questi anni l’Unione Europea ha promosso provvedimenti seguendo l’idea secondo la quale vi sarebbe preminenza del diritto alla libertà di insediamento e concorrenza delle imprese rispetto ai diritti derivanti dalla contrattazione collettiva e di tutela delle libertà sindacali (vedi proposta iniziale di Direttiva Bolkestein). Non va dimenticato nemmeno il ruolo attivo giocato dalla Corte di Giustizia, che con alcune sue note sentenze (casi Viking e Laval), è intervenuta in maniera pesante affermando principi che possono mettere in crisi la parità di trattamento tra lavoratori all’interno dello stesso sistema di relazioni industriali e esporre detti sistemi al pericolosissimo rischio di dumping sociale, tutto ciò a garanzia del primato del libero mercato e della libera circolazione dei servizi. Il rischio è che dalla palese volontà politica di perseguire i dettami neo-liberisti in termini di libertà di impresa, supportata dalle sentenze della Corte di Giustizia Europea, si arrivi a limitare l’azione sindacale fino a spingerla nella completa irrilevanza. Ad oggi poi ancora non può essere sottovalutato il famoso patto “Europlus”, con cui l’Unione Europea per la prima volta nella storia è intervenuta sulle dinamiche salariali e contrattuali, fissando una gamma di indirizzi, indicatori e sanzioni conseguenti.

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2 Maruca S. - “Lo stato delle Relazioni Industriali e del Movimento Sindacale nei paesi di più antica industrializzazione” Introduzione Seminario CGIL- IRES Emilia Romagna;

Al di là della effettiva cogenza e dell’applicazione immediata è un altro segnale che non può sfuggire all’analisi del movimento sindacale europeo, che deve elaborare un piano d’azione rispetto alle tematiche proposte. Per capire fino in fondo come la crisi vada ad incidere nelle relazioni industriali c'è un altro aspetto da non trascurare , quello che collega la limitazione della contrattazione collettiva, intesa come manifestazione della soggettività del lavoro nel poter negoziare liberamente condizioni e prezzo della prestazione lavorativa, ad una generale restrizione degli spazi di agibilità democratica. Se anche la contrattazione viene vista come una variabile necessariamente dipendente e subordinata alle dinamiche proprie del mercato e impossibilitata ad influenzare i processi è ovvio che si restringeranno gli spazi per l’azione sindacale, ed è inevitabile alla fine che i risultati in termine di accordi e contratti non faranno altro che aumentare i poteri di discrezionalità del datore di lavoro, a parità di costi. L’idea che non ci sia alternativa a questo percorso segnato significa implicitamente accettare l’idea che non ci sia più, in fin dei conti, bisogno della rappresentazione collettiva degli interessi del lavoro. Ma, come sappiamo, senza rappresentazione collettiva non c’è più nemmeno democrazia. Il capitale multinazionale ha scelto di salvarsi dalla crisi abbassando i salari e i costi del welfare e le classi dirigenti oggi preminenti esprimono e portano avanti una politica coerente e coordinata a livello internazionale, in cui l'attacco al modello sociale europeo è un passaggio determinante e forse l’obiettivo principale nella strada che porta all’affermazione totale di un mondo governato semplicemente dalle logiche di accumulazione del profitto. Il lavoro nella sua rappresentanza come movimento sindacale europeo e internazionale forse comincia a capire ora che la questione richiede una soluzione globale e che risposte nazionali sono improbabili. Manca però ancora l’affermazione di un ruolo strategico della CES, sia esso di propulsione e o di coordinamento delle varie azioni dei sindacati a livello nazionale. E’ ovvio che continuando a dare risposte nazionali ad input elaborati a livello internazionale e globale, la risposta non sarà mai abbastanza efficace. Nel frattempo però non è stato tutto fermo rispetto a quello che è accaduto e, nonostante le enormi difficoltà incontrate (calo degli iscritti, calo generalizzato della copertura contrattuale, incapacità di elaborare soluzioni di tutela efficace per i precari), si può dire che nel corso degli ultimi anni si sono viste esperienze diverse che possono darci interessanti spunti di riflessione rispetto alla possibilità per il movimento sindacale di elaborare risposte adeguate alle nuove sfide. E’ dall’analisi di queste esperienze di trasformazione come punto di partenza ipotetico di una nuova era di relazioni industriali che voglio partire per tentare di disegnare un quadro realistico sullo stato del movimento sindacale internazionale. Le trasformazioni e le sollecitazioni proprie del nostro tempo hanno incontrato resistenze e capacità adattive più o meno forti nei vari contesti. Per comprendere al meglio il perché di queste differenze bisogna necessariamente tenere bene a mente da dove si arriva ed è quindi opportuno soffermarsi su alcune caratteristiche proprie dei diversi movimenti sindacali nazionali europei, essendo questi, in fin dei conti, il risultato di un’evoluzione storica più generale che ha riguardato i diversi Paesi prima dell’integrazione.

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Caratteristiche del movimento sindacale in Europa: una classificazione dei modelli contrattuali prima della crisi. I sindacati sono, da sempre nella loro storia, una forza importante di cambiamento sociale. I primi sindacati artigiani nacquero alla metà del XIX secolo, per poi riunirsi in più ampie confederazioni poco tempo dopo. Il Trades Union Congress britannico nacque formalmente fra il 1860 e il 1870. La francese Confédération Générale du Travail, la svedese Landsorganisationen i Sverige, la belga Fédération Générale du Travail de Belgique e il predecessore della tedesca Deutscher Gewerkschaftsbund nacquero tutti fra il 1890 e il 1900, la CGdL in Italia formalmente nasce nel 1906. L’Europa mostra tutte le caratteristiche che ci si aspettano da un insieme di nazioni con storie, culture e tradizioni diverse, anche per quanto riguarda lo sviluppo industriale e, di conseguenza anche per i modelli di sindacalismo. Benché le categorie varino a seconda dell’analisi, fino a qualche anno fa erano ben distinti quattro modelli principali di relazioni industriali negli Stati membri dell’Unione europea: corporativismo nordico, partenariato sociale, pluralismo liberale e centralismo statale3. I ventotto Stati membri dell’UE vengono spesso divisi in sei gruppi: scandinavo, continentale, anglosassone, meridionale, nuovi Stati membri orientali e nuovi Stati membri mediterranei. È anche universalmente accettato che tali modelli e raggruppamenti siano solo indicativi, essendo categorizzati per macro caratteristiche, che tendono quindi a non rilevare differenze importanti anche tra sistemi che rientrano nella medesima categoria. Categorie e modelli si suddividono approssimativamente come segue:

i paesi scandinavi seguono il modello di corporativismo nordico (Danimarca, Finlandia e Svezia);

la maggior parte del gruppo continentale, più la Slovenia dei nuovi Stati membri orientali, hanno forme di partenariato sociale (Austria, Belgio, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi e Slovenia);

gli Stati membri anglosassoni e i nuovi Stati membri mediterranei seguono il modello di pluralismo liberale (Irlanda, Regno Unito, Cipro, Malta);

il gruppo meridionale, con la Francia, ha sistemi centralizzati di stato (Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna);

i nuovi Stati membri orientali possono invece rientrare in diverse categorie a seguito della transizione dall’ex blocco sovietico, spesso mostrando caratteristiche sia di pluralismo liberale che di centralismo di Stato.

Proviamo a descrivere brevemente le caratteristiche dei vari modelli, almeno quelle che hanno determinato le differenze maggiori fino al periodo pre-crisi: 1) Il modello del corporativismo nordico presenta alti livelli di adesione sindacale, negoziazioni a

livello di industria (settoriale) e accordi di contrattazione relativamente centralizzati; L’elevata densità sindacale ha sempre permesso che gli accordi collettivi si applichino alla stragrande maggioranza di lavoratori, senza il bisogno di un intervento del Governo in tal senso. In genere i gruppi sociali sono più integrati nel sistema rispetto ai Paesi con altri modelli e sono anche gestori di importanti pezzi di welfare state.

2) Il partenariato sociale si basa sull’appartenenza della maggior parte degli imprenditori alle associazioni datoriali, e dei sindacati alle confederazioni.

3I sindacati e le relazioni industriali nei Paesi dell’UE – Pubblicazioni CES (2007)

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Questo perché il modello dipende da parti negoziali forti, che possono far valere il rispetto degli accordi ma esistono differenze rilevanti fra Paesi che utilizzano questo modello. In Germania, ad esempio, dove esiste una solida struttura di organizzazione statale di tipo federale, il governo nazionale interveniva meno nelle contrattazioni rispetto a quanto accade in Austria o nei Paesi Bassi. Oggi la situazione è radicalmente cambiata, ma successivamente spiegheremo meglio in che direzione. In questo sistema i lavoratori impiegati in settori con grandi aziende sindacalizzate tendono a formare unità di contrattazione più forti. Esiste, di conseguenza, la tendenza per questi settori a conquistare condizioni migliori rispetto agli altri.

3) Le relazioni industriali in un sistema pluralista liberale sono basate per lo più a livello aziendale (i patti sociali dell’Irlanda rappresentano un’eccezione in tal senso). Il governo non si consulta molto con le parti sociali, limita il proprio campo legislativo e, così facendo, vi sono meno leggi riguardanti il mercato del lavoro, la protezione sociale e il welfare in generale. La densità sindacale tende ad essere più bassa e, pertanto, la copertura della contrattazione collettiva ristretta, dato che le negoziazioni non sono centralizzate e non esistono mezzi legali per estendere a tutto un settore gli accordi conclusi a livello di azienda.

4) Nel modello con centralizzazione di Stato, i governi agiscono maggiormente rispetto a quelli impegnati nel partenariato sociale, ma cercano comunque di creare le condizioni per gli accordi tra sindacati e imprenditori. Se fanno male i loro calcoli, il rischio è spesso quello di un aspro confronto sociale, dato che le relazioni industriali hanno caratteristiche maggiormente in comune con il processo di confronto dei sistemi liberali che con l’approccio improntato al consenso del corporativismo e del partenariato sociale. La densità sindacale è spesso più bassa in questi Paesi, ma la copertura della contrattazione collettiva può essere più ampia grazie alla possibilità di estendere gli accordi ai luoghi di lavoro non sindacalizzati, sia per legge che tramite le adesioni alle associazioni degli imprenditori. Questo quadro ci fornisce una prima importante classificazione e ci consente di sgombrare il campo da un primo equivoco fondamentale: non esiste quindi oggi un modello sindacale unico europeo. Questa frase, che può sembrare a prima vista una banalità, è invece importante perché ci permette di analizzare quindi le mutazioni intercorse nei vari sistemi contrattuali con l’avvento della crisi economica tenendo a mente il presupposto imprescindibile della diversità delle situazioni di partenza. Le differenze sopra descritte non sono semplicemente un’atavica eredità del passato ma rappresentano un patrimonio costruito nel tempo intorno alle caratteristiche stesse di un sistema-Paese ed è quindi normale che rispetto agli input immessi nei sistemi a seguito delle sfide della contemporaneità questi modelli contrattuali abbiano reagito in modalità differenti e, come vedremo meglio in seguito, a volte totalmente opposte.

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I modelli di relazioni industriali nel vortice della crisi: trasformazioni convergenti o divergenti? Considerare il legame tra la crisi economica sopra descritta e le trasformazioni legate alle relazioni industriali, analizzarne le evoluzioni e calcolarne le ricadute è oggi un compito complesso ma inevitabilmente necessario. Da tempo studiosi e sindacalisti si interrogano rispetto a questi temi ed hanno contribuito ad approfondire i rischi delle strade intraprese ed a mettere in guardia rispetto alle possibili ripercussioni sui sistemi di regolazione del lavoro che noi tutti abbiamo conosciuto fino ad oggi. La contemporaneità ci mostra infatti un interessante paradosso, come già sostenuto nell’introduzione: nonostante appare ormai acclarato come questa crisi economica sia causata dalle scellerate scelte strategiche compiute in nome dell’infallibilità del mercato e del primato del laissez faire, le ricette proposte dai governi europei e dalle istituzioni economiche sovranazionali (BCE, FMI, Banca Mondiale, ecc.) per traguardare l’uscita dalla stessa tendono a ricalcare i leitmotiv più rigidi del pensiero neo-liberista, prefigurando scenari di tagli drastici alla spesa (soprattutto quella che riguarda il sociale, ritenuta improduttiva) e di deregolamentazione economica. Tutto ciò ha inevitabilmente delle conseguenze anche per quanto riguarda i sistemi di relazioni industriali che ovviamente rimangono influenzate dai processi di deregolamentazione dell’economia e di tagli alla spesa sociale, essendo profondamente legati alle scelte compiute in questi campi dagli attori istituzionali. Appare quindi oggi necessario approfondire l’analisi comparata tra i vari sistemi di relazioni industriali, non accontentandosi però di una mera analisi descrittiva, come fatto nel paragrafo precedente, ma soffermandosi maggiormente sulle reazioni di questi sistemi agli stimoli esogeni ed endogeni causati dall’avanzata della crisi peggiore del dopoguerra e dalla volontà della maggior parte dei sistemi politici di trasformarsi secondo i paradigmi propri della cultura egemonica neo-liberista. Partendo da un’analisi comparata dei vari modelli di relazioni industriali possiamo affermare subito con certezza che le modalità con cui tendono ad adattarsi le istituzioni, comprese quelle relative alle relazioni industriali, rispetto alle trasformazioni indotte dalla pressione dei mercati globalizzati variano a seconda delle soggettività più o meno presenti all’interno dei vari sistemi nazionali e della forza attraverso la quale queste stesse soggettività interagiscono tra loro (istituzioni, associazioni sindacali, associazioni datoriali). Queste variano anche a seconda delle caratteristiche di partenza e di come le relazioni industriali si potessero collocare in uno dei gruppi di classificazione classica. Nel corso degli ultimi anni, come abbiamo visto sopra, le sfide imposte dall'intreccio tra mercato globale, crisi finanziaria ed egemonia del pensiero neo-liberista hanno imposto delle pressioni immani ai sistemi di relazioni industriali (pur nelle loro peculiarità) al punto che alcuni studiosi sono arrivati anche a definire il rischio di una "convergenza neo-liberista" dei sistemi di relazioni industriali4, intendendo con ciò una traiettoria comune che vede la sconfitta completa delle ragioni del lavoro come traguardo ultimo. Possiamo anche noi affermare che stiamo percorrendo la strada che porta inevitabilmente ad una convergenza in senso neo-liberista nel cambiamento delle pratiche e dei contenuti delle istituzioni volte alle relazioni industriali, indipendentemente dall’insieme di classificazione di partenza? 4 Il cambiamento delle relazioni industriali nel capitalismo avanzato: una traiettoria comune – L. Baccaro, C. Howell

in Quaderni di Rassegna Sindacale 2012, n.1. 9

Ovviamente ciò non significherebbe che le istituzioni preposte alle relazioni industriali in ogni singolo Paese capitalistico avanzato stiano tutte venendo ad assomigliare a quelle caratteristiche di un’economia non coordinata di mercato, anche se senza dubbio si registra un movimento in tale direzione. La forma precisa e i processi specifici delle trasformazioni istituzionali vengono definiti dai differenti panorami istituzionali che ciascun Paese eredita dalle diverse capacità di mobilitazione degli attori di classe. Mentre fino ad un decennio fa erano chiare le distinzioni tra i vari Paesi e tra i vari sistemi di capitalismo presenti in dette nazioni, è indubbio che la crisi economica del 2008 ha indotto i vari sistemi ad adattamenti di carattere univoco che stanno portando gli stessi verso una convergenza caratterizzata dall’esplicito richiamo alla matrice neo-liberista, alla base delle scelte macroeconomiche egemoni oggi in tutto l’Occidente industrializzato. Per convergenza neoliberista si intende un processo generale di liberalizzazione dei mercati o la disorganizzazione di economie politiche un tempo organizzate, con una tendenza al declino del controllo centralizzato e del coordinamento dell’autorità a favore di una competizione dispersa e spontanea, del privilegio dell’azione individuale rispetto a quella collettiva, di un’aggregazione di mercato di preferenze competitive e decisioni. Il neoliberismo è in primo luogo una strategia di riforma macroeconomica che coinvolge la liberalizzazione del commercio e della finanza, il rigore di bilancio (da realizzare tramite tagli alle spese piuttosto che tramite aumenti delle tasse) e la disinflazione, per garantire che i governi siano disponibili a rinunciare all’obiettivo di piena occupazione5. Con riferimento specifico alle relazioni industriali, il neoliberismo è visibile in due movimenti, di cui uno ha a che fare con i processi istituzionali e l’altro con gli esiti istituzionali. Il primo movimento coinvolge, in primo luogo, la deregolamentazione: l’eliminazione o l’allentamento delle barriere istituzionali. La deregolamentazione elimina i vincoli sulla discrezionalità del capitale, tramite la rimozione delle limitazioni di legge o contrattuali nei luoghi di lavoro, nel mercato del lavoro a livello più generale, e nella società. In molti casi, l’abolizione dei vincoli istituzionali è un ritorno ad un’epoca precedente di deregolamentazione, di qui la definizione di “neoliberismo”. La deregolamentazione delle istituzioni coinvolge uno o più dei seguenti processi: un passaggio da livelli di contrattazione collettiva più alti a livelli più bassi, maggiormente vicini all’azienda o al luogo di lavoro; un maggior ricorso alla contrattazione individuale tra il datore di lavoro e il lavoratore, o alla decisionalità unilaterale del datore di lavoro; un indebolimento del livello di organizzazione e di capacità di azione collettiva degli attori di classe; una ristrutturazione delle istituzioni del mercato del lavoro per ridurre il livello e la durata dell’indennità di disoccupazione e in generale eliminare tutti i meccanismi che interferiscono con il libero incontro tra la domanda e l’offerta. La seconda forma di liberalizzazione istituzionale coinvolge una trasformazione del ruolo svolto da istituzioni che formalmente restano immutate, il quale passa dalla limitazione alla promozione della discrezionalità. Al contrario del processo di deregolamentazione istituzionale, quest’ultimo coinvolge la conversione istituzionale, giacché le istituzioni vengono a svolgere funzioni differenti e vengono a generare esiti differenti.

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5 ibidem.

Un esempio può essere la contrattazione centralizzata, un tempo il fulcro del sistema alternativo al capitalismo di impronta liberista, basato su un settore pubblico vasto e interventista e sulla correzione politica delle diseguaglianze prodotte dal mercato. Tuttavia, con il processo di conversione industriale, la contrattazione centralizzata può divenire un espediente istituzionale per produrre alcuni risultati, ad esempio una crescita dei salari reali che arranca sistematicamente dietro agli incrementi di produttività, che il mercato da solo sarebbe incapace di produrre. Un altro esempio di conversione industriale può essere un cambiamento nelle modalità di funzionamento dei consigli d’azienda, che in condizioni nuove possono giungere ad incoraggiare la cooperazione con il datore di lavoro e l’identificazione con l’azienda, invece di essere gli agenti dei sindacati industriali nei luoghi di lavoro. In entrambi i casi l’istituzione formale resta immutata, ma in condizioni differenti la sua intrinseca plasticità consente una conversione delle funzioni e dei comportamenti, generando facilmente esiti differenti. Vedremo meglio gli effetti di questi due movimenti quando andremo ad analizzare nello specifico i sistemi di relazioni industriali nazionali, soprattutto quello americano. E' chiaro che, nell'ottica dei sostenitori della teoria della convergenza neo-liberista delle relazioni industriali i cambiamenti sopra descritti, sia per quanto riguarda le forme che per quanto riguarda le funzioni delle istituzioni, sono volti all'allargamento del potere di discrezionalità del datore di lavoro, al fine di comprimere i vincoli decisionali nella gestione della propria forza lavoro. Questa versione non convince fino in fondo però perchè non tiene conto a sufficienza delle diversità che intercorrono tra i modelli, anche in un momento di forte sollecitazione come quello attuale. E' possibile dire che il sistema di relazioni industriali americano, oggi sottoposto ad una legislazione del lavoro chiaramente ostativa rispetto alla libertà di organizzazione sindacale abbia reagito come il sistema di relazioni industriali tedesco, che è riuscito ad adattarsi efficacemente prima alle sfide della riunificazione, alla globalizzazione dei mercati ed infine al manifestarsi sull'economia reale degli effetti della crisi finanziaria del 2007-2008 o possiamo in alternativa sostenere che il sistema di cogestione scandinavo stia perdendo i suoi tratti caratteristici e si stia avvicinando ai sistemi di pluralismo liberale dei nuovi Stati membri dell’UE? Io credo che invece è proprio dalle diversità che permangono tra i vari sistemi, quelle peculiarità che la crisi non è riuscita ancora ad appianare, che bisogna partire per una buona analisi comparata dei sistemi di relazioni industriali: dalle differenze intrinseche di funzionamento e di capacità di adattamento, partendo dai modelli ideali più distanti per assunti di base e per elaborazione fattuale, così da verificare a pieno i processi che li hanno attraversati e che li stanno tutt'ora attraversando. Una visione delle azioni messe in campo dal sindacato per far fronte alla partita della modernità ci porta invece a sostenere che è in atto invece una vera e propria “fase costituente” dei sistemi di relazioni industriale nei Paesi Occidentali, ma che essa non è indirizzata univocamente verso la strada obbligata del “neo-liberismo” e che, anzi, si stanno semplificando le classificazioni sopra ricordate e se ne stanno creando delle altre, dalle caratteristiche sempre più opposte e forse inconciliabili. E' per questo motivo che prenderò come casi di studio per questo lavoro il sistema tedesco-renano e quello anglosassone - americano, modelli di per sè antagonisti, ed intorno ai quali

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sembrano convergere (rispetto all'uno o all'altro) le relazioni industriali dei principali Paesi industriali Occidentali. Fondamentalmente i due sistemi si distinguono rispetto agli assunti di base propri dei diversi modelli di capitalismo: il sistema di relazioni industriali tedesco mette al centro della propria visione il prodotto e quindi rispetto al rapporto con l'azienda il sindacato assume inevitabilmente il ruolo di interlocutore necessario, attore fondamentale (partner, da qui partenariato sociale) in quanto solo tra la convergenza di tutti gli stakeholders e le loro esigenze individuali e collettive si può arrivare all'intreccio degli interessi necessario alla creazione delle condizioni migliori per lo sviluppo del prodotto. Condizioni che possono quindi anche trovare realizzazione dopo diversi anni perchè frutto di importanti investimenti programmati e mantenuti con il sindacato stesso. Dall'altro lato il sistema americano mette l'azienda (e i suoi azionisti ) saldamente al centro della rete degli interessi cercando di costruire intorno ad essa ed ai suoi shareholders (azionisti) un'alleanza strategica degli interessi per competere nel mercato. La competizione avviene in larga parte nel breve periodo e questo condiziona inevitabilmente le scelte strategiche dell'impresa. Il nemico comune dell'impresa e dei lavoratori diventa in questo sistema l'azienda concorrente e pertanto il sindacato è visto come un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi di competitività e di realizzazione del massimo profitto nel breve termine. L'obiettivo che mi prefiggo non è tanto quello di stabilire quale tra i due sistemi considerati sia migliore dell'altro perchè sarebbe a mio avviso un tragico errore rimanere incastrati in una logica meramente valutativa. L'obiettivo è invece quello di cercare di comprendere gli assunti che stanno alla base delle evoluzioni intercorse in quei modelli nel corso degli ultimi anni, capire se la strada sia ormai obbligata e quali sono i frutti e le conseguenze che dovremo aspettarci da qui ai prossimi anni, anche valutando le possibili implicazioni per il sistema di relazioni industriali del nostro Paese. Per questo motivo mi soffermerò anche sul sistema di relazioni industriali svedese, un modello che è stato considerato per anni uno dei modelli di relazioni industriali tra i più efficienti del mondo e che ha reagito in maniera interessante agli stimoli provenienti dalle sfide del nuovo millennio, mostrando una capacità adattiva per certi aspetti inaspettata per un modello già in passato considerato “vincente”. Solo ponendoci in un'ottica di questo tipo e ragionando sulle dinamiche attraverso una lente diversa rispetto al passato, scevra dalla volontà di dare giudizi aprioristici e condizionati dagli assunti maturati nei nostri contesti di riferimento, potremo riuscire a leggere i cambiamenti del mondo e ad elaborare nuove risposte, adatte ai tempi che corrono. Il sistema di relazioni industriali in Germania: Obiettivo nessun licenziamento. Dopo quanto descritto in precedenza non possiamo stupirci se c’è chi sostiene che oggi siamo nel mezzo di una “fase costituente” delle relazioni industriali e la Germania ne è la prova assoluta, in quanto la revisione più profonda avvenuta in un sistema di relazioni industriali europeo occidentale ha visto protagonista proprio questo Paese. La Germania ha infatti caratterizzato il proprio sistema industriale fin dagli albori dello sviluppo capitalistico su dei caratteri comunitari, nei quali l’impresa è costituita da diversi soggetti

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economici che lavorano ognuno secondi i propri ruoli per il conseguimento di uno scopo comune: lo sviluppo di lungo periodo. Il profitto immediato richiesto dagli azionisti americani viene sostituito da un incremento valoriale aziendale di lungo periodo, nel quale il profitto immediato è minore ma più forte è la preoccupazione di una vita aziendale di lunga durata. Si distingue il cosiddetto “nocciolo duro” costituito dagli azionisti stabili (banche, investitori finanziari, portatori di interessi forti), i quali possiedono la maggiore quota di capitale, e da una moltitudine di azionisti minori che possiedono la parte di capitale effettivamente trattabile sul mercato. Però non vi è la possibilità per nessun azionista di raggiungere posizioni di maggioranza assoluta. Di conseguenza, nell’interesse dello sviluppo e della crescita dell’azienda stessa, assume un’importanza fondamentale la figura del manager, che ha come obiettivo prioritario la massimizzazione del valore d’impresa nell’ottica dell’espansione, tentando di realizzare un mix ottimale tra crescita aziendale, redditività del capitale investito e dinamiche dello sviluppo complessivo. In questo modello, fanno parte dei stakeholders anche i lavoratori, attraverso i loro rappresentanti sindacali presenti negli organismi di cogestione (Mitbestimmung). Si determina, in tal modo, una compressione forzata dei conflitti sociali ed una forte riduzione dei conflitti interni d’azienda e si raggiunge anche l’importante obiettivo della fidelizzazione dei propri lavoratori che diventano a tutti gli effetti patrimonio da salvaguardare per l’azienda. Nonostante gli indubbi benefici relativi al tasso di cambio stabilito con cui la Germania è entrata nella moneta unica, la Germania si è approcciata all’ingresso nell’Euro sulla scia dei poderosi sforzi economici che hanno seguito il processo di riunificazione iniziato con la caduta del Muro. Negli anni seguenti la riunificazione il sistema di relazioni industriali tedesco subì la prima grande pressione, nel mezzo di una grave crisi economica causata appunto dalle enormi problematiche della riunificazione, culminata nell’adozione delle c.d. “clausole d’uscita”. Il sindacato tedesco si rese conto subito, infatti, dell’impossibilità reale per le aziende dell’Est di applicare le stesse condizioni in materia di diritti e di salario rispetto alle imprese dell’Ovest, che si trovavano in condizioni di partenza completamente differenti. Fu in quel momento che vennero quindi adottati per la prima volta dei contratti nazionali che, tramite accordo tra le parti, esentavano dall’applicazione quei territori ritenuti non in grado di adottare l’esito della contrattazione, autorizzando una specifica trattativa a livello territoriale di adattamento. Questa flessibilità nell’esito della contrattazione nazionale produsse, come facilmente preventivabile, un effetto molto chiaro: se prima dell’unificazione la copertura della contrattazione nazionale tedesca era del 92%, nel 2005 essa era scesa al 74%6. Ma le problematiche relative alla riunificazione altro non erano che le prime avvisaglie di una profonda rivisitazione che il sistema di relazioni industriali tedesco stava per essere chiamato a compiere a seguito dell’affermazione definitiva della globalizzazione. Per un’industria come quella tedesca, principalmente rivolta all’export (che rappresenta il 41% del proprio PIL, principale Paese esportatore d’Europa), la globalizzazione selvaggia come quella che si stava affermando a cavallo degli anni 2000 rappresentava sicuramente una prova del fuoco molto dura, soprattutto per la tenuta della competitività del proprio sistema.

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6 I contratti e la crisi in Europa – W. Cerfeda in Quaderni di Rassegna Sindacale 2012, n.1

Anticipando questo periodo, la Gesamtmetall (associazione dei datori di lavoro metalmeccanici tedeschi), con la “Dichiarazione di Francoforte” del Novembre 1997, fissò i capisaldi che avrebbero dovuto (dal proprio punto di vista) rappresentare la trasformazione del sistema contrattuale tedesco:

una “clausola di apertura” per consentire la deroga a livello aziendale delle normative definite a livello di settore, allo scopo di mantenere i posti di lavoro;

un orario di lavoro elastico, con un corridoio per definire l’orario di lavoro settimanale dalle 30 alle 40 ore;

una parte della retribuzione legata al risultato economico dell’azienda; nuovi strumenti per la risoluzione dei conflitti durante la contrattazione7.

Non bisogna però pensare che queste richiesta partivano dall’esigenza di mettere in discussione il sistema contrattuale o addirittura lo stesso ruolo del sindacato, come avvenuto per situazioni analoghe ad esempio nel nostro Paese. L’obiettivo delle imprese tedesche (desumibile anche attraverso una valutazione ex post basata sui dati empirici) era quello di una migliore riorganizzazione dei fattori al fine di innalzare il tasso di produttività, nella logica propria del sistema renano e del concetto di produttività tripartita (di sistema, di capitale, di lavoro). L’incrocio di queste esigenze e la loro declinazione può essere considerato uno di quei fattori che hanno preservato il tessuto industriale, creando le condizioni per la minor sofferenza della Germania rispetto al resto d’Europa (Francia, Italia, Inghilterra) in termini di delocalizzazione e desertificazione industriale. Nel settore metalmeccanico ad esempio, durante gli anni novanta, le deroghe dagli accordi nazionali si diffusero sempre di più. Mentre nella Germania Est però la presenza delle clausole d'uscita forniva una procedura definita per regolare poi le deroghe e le aperture a livello aziendale, nella Germania Ovest la situazione era molto più indefinita. Il risultato di questo mix fu quello della nascita di una sorta di “zona grigia” di deroghe a livello aziendale, all’interno della quale cui settori e i territori sembravano incapaci di governare efficacemente questi scostamenti. La situazione è cambiata con la stipula di quello che è passato alla storia come “Accordo di Pforzheim”, che nel 2004 ha portato alla definizione di regole e procedure comuni per l'adozione delle deroghe a livello aziendale. L’ accordo di Pforzheim ha - come sottoscritto nel preambolo – “l’obiettivo è di mantenere l’occupazione esistente e di creare nuovi posti di lavoro in Germania. Ciò richiede il mantenimento e il miglioramento della competitività, della capacità di innovazione e un ambiente favorevole agli investimenti. I titolari della contrattazione collettiva si impegnano a tali obiettivi e al compito di modellare il contesto per una maggiore occupazione in Germania. I titolari della contrattazione collettiva possono, previa consultazione delle parti sul posto di lavoro, concordare misure supplementari o deroghe limitate nel tempo dagli standard minimi contrattati per conseguire un miglioramento duraturo nello sviluppo dell’occupazione: ciò può includere riduzioni dei pagamenti annuali aggiuntivi, il rinvio del godimento di diritti concordati, aumento o riduzione dell’orario di lavoro, con o senza perdite di retribuzione”.

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7 Contrattazione collettiva, decentramento e gestione della crisi. L’industria tedesca dopo il 1990 – R. Bispinck, H.

Dribbusch in Quaderni di Rassegna Sindacale 2012, n.1

I chimici addirittura iniziarono ad adottare procedimenti derogatori di questo tipo già a partire dal 2002. La differenza tra le deroghe adottate dai chimici e quelle dei metalmeccanici riguardano più che altro la scelta di adottare o meno griglie prestabilite di deroghe, o in alternativa basarsi semplicemente sull'individuazione di principi generali e ampi per poi lasciare discrezionalità alla contrattazione aziendale. Mentre per l'industria chimica si convenne che il salario e gli orari di lavoro potevano essere derogati massimo del 10% sugli indicatori stabiliti nel contratto nazionale, in modo da renderli più funzionali ed adatti alla situazione specifica di impresa, nell'industria metalmeccanica si stabilì che, riguardo a salario ed orari di lavoro si sarebbe potuto derogare a livello aziendale senza imporre limiti o griglie standard e prestabiliti a monte. L'unica condizione fissata fu quella che dette deroghe potevano essere adottate solo a patto del mantenimento compensativo dei livelli occupazionali e di un contemporaneo volume di investimenti in innovazione e sviluppo volto a rendere l'impresa maggiormente competitiva. Interessante però notare come rispetto alla zona grigia descritta sopra, qui si cerca di fare un salto in avanti nell'assestamento dell’intero sistema di relazioni industriali, attraverso un accordo di auto-riforma tra le parti. Nello stesso accordo di adozione delle deroghe si è infatti stabilita anche una dettagliata procedura per la definizione di dette deroghe. La composizione della delegazione trattante prevede quindi la presenza oltre che dei rappresentanti dell'impresa e del consiglio di fabbrica anche un rappresentante territoriale dell'associazione datoriale ed un rappresentante territoriale dell'organizzazione sindacale del territorio in cui si è aperto il negoziato, con lo scopo palese di evitare una disorganicità nell'adozione delle deroghe contrattuali, cercando di mantenere un quadro comune di riferimento in coerenza con quanto stabilito dal contratto nazionale. Con l'adozione di questi accordi nei settori chimico e metalmeccanico si è aperta quella che è stata successivamente chiamata stagione dei concession bargaining. La contrattazione aziendale è diventata sempre più preminente quindi rispetto alla contrattazione nazionale ed ha assunto un ruolo sempre più centrale nel sistema di relazioni industriali tedesco. Secondo uno studio condotto dall' Ig Metall (sindacato tedesco metalmeccanico) tra il 2004 e il 2010 nell'industria metalmeccanica tedesca le parti hanno concluso 3408 accordi di deroga contrattuale. I temi chiave affrontati dagli accordi di deroga erano per lo più riguardanti le retribuzioni e l'orario di lavoro; tra il 2004 e il 2006 circa due terzi di tutti gli accordi definivano deroghe a livello aziendale su questi due temi8 In cambio delle concessioni dei dipendenti su questi temi, i datori di lavoro si impegnavano a tutelare l'occupazione, garantendo di non effettuare nessun licenziamento per motivi economici per tutta la durata dell'accordo. Oltre a ciò gli accordi definivano precisi e dettagliati piani di investimento delle stesse imprese, con una commissione congiunta che monitorava per tutta la durata dell'accordo la corretta applicazione di quanto convenuto in sede di concession bargaining.

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8 Contrattazione collettiva, decentramento e gestione della crisi. L’industria tedesca dopo il 1990 – R. Bispinck, H.

Dribbusch in Quaderni di Rassegna Sindacale 2012, n.1

Si evitava quindi il rischio di effettuare sacrifici vani, in quanto lo scambio degli impegni assumeva caratteristica fondante sul quale cementificare la firma dell'accordo. E' poi utile ricordare che, nello spirito già ricordato nella Dichiarazione di Francoforte del 1997, come nessun accordo di concession bargaining abbia mai riguardato diritti fondamentali dei lavoratori come assenze per malattia, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, diritto alla formazione o, soprattutto il diritto di sciopero. Gli accordi derogatori si sono, al contrario, sempre e solo incentrati sulle modalità di erogazione della prestazione lavorativa e intorno alla sua organizzazione. Il terzo motivo di pressione verso il modello di relazioni industriali tedesco prima della crisi del 2008 è stato rappresentato dalla trasformazione radicale che ha riguardato il diritto del lavoro, profondamente rivisitato da scelte legislative dal punto di vista sindacale quantomeno discutibili. Già dalla fine degli anni ’90 il Governo socialdemocratico di Schrӧeder (sulla scia delle scelte compiute nella maggior parte dei Paesi europei in quegli anni) iniziò un ciclo di riforme del mercato del lavoro, ritenuto troppo rigido, che introdusse una serie di radicali cambiamenti soprattutto per quanto riguarda la riduzione degli ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione e immettendo nell’ordinamento tedesco una pluralità di forme di lavoro a tempo ridotto, fino ad arrivare ai famosi “mini-jobs” (ovvero lavori part- time, anche per pochissime ore mensili, esentati da contributi per il lavoratore), che hanno creato nel tempo una sorta di “dualismo” del mercato del lavoro tedesco, in cui da una parte possiamo trovare l’industria e i suoi lavoratori assunti con forme contrattuali “classiche”, e dall’altra il commercio e i servizi dove i contratti atipici e i mini-jobs hanno attecchito di più. Queste modifiche hanno portato, per la prima volta nella storia tedesca, a risaltare la casistica del “lavoratore povero”, ovvero persone che, nonostante un rapporto di lavoro in corso, percepiscono redditi inferiori alla soglia di povertà, ossia al 60% in meno rispetto alla media delle retribuzioni. E’ ovvio che, come in ogni Paese, l’introduzione di forme di flessibilità così marcate nel mercato del lavoro produce sfide per le organizzazioni sindacali mai conosciute prima. La difficoltà di rappresentare i lavoratori atipici è un grande problema ancora aperto per il sindacato tedesco e, come vedremo in seguito, durante gli anni del “corporativismo di crisi” nelle industrie chi ha pagato il prezzo maggiore in termini di perdita di occupazione sono stati proprio i lavoratori assunti con contratti atipici. Ma un altro intervento legislativo ha portato scompiglio nel sistema di relazioni industriali tedesco: durante il Governo di Große Koalition della Cancelliera Merkel si è infatti introdotta una modifica alle competenze del Ministero del Lavoro tedesco. Fino a quel momento l’efficacia erga omnes del contratto nazionale in Germania veniva affermata grazie ad un processo deduttivo: il contratto veniva firmato in un Lander e poi esteso automaticamente a tutti gli altri Lander, assumendo carattere propriamente nazionale. A quel punto il Ministero del Lavoro certificava il risultato della contrattazione, estendendo quindi la validità di tale contratto appunto erga omnes. La modifica introdotta dalla Merkel non ha fatto altro che togliere questo potere certificatorio al Ministero del Lavoro, rendendo quindi il risultato della contrattazione valido ed esigibile solamente per le parti aderenti ai firmatari dell’accordo.

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E’ ovvio che questo ha indotto immediatamente ad un ampio processo di disaffiliazione dalle associazioni dei datori di lavoro (che, per fermare emorragie di iscrizioni, si sono inventate un opinabile doppio piano di iscrizione, rendendo possibile per le aziende continuare ad usufruire dei servizi dell’associazione senza necessariamente dover applicare i contratti siglati), mettendo in

seria discussione il ruolo del sindacato come titolare della firma dei contratti nazionali e garante dell’universalità di applicazione degli stessi. Il crollo del tasso di copertura contrattuale, che oggi copre poco più del 50% dei lavoratori9, ha quindi imposto al sindacato di ripensare ai propri contenuti rivendicativi al fine di trovare un nuovo metodo universale di difesa dei lavoratori. Da qui la richiesta incessante di adottare una forma di salario minimo (oggi le 8,50€ all’ora al centro delle trattative per la formazione del nuovo Governo di Große Koalition), che trova però forti resistenze dell’imprese, restie all’introduzione di un nuovo strumento di tutela universalistica nell’ordinamento tedesco subito dopo essersi liberate dell’efficacia erga omnes del contratto nazionale. E’ quindi ovvio che la perdita di universalità del contratto nazionale sta provocando un nuovo sconquasso nel sistema di relazioni industriali tedesco che, come abbiamo visto ha attraversato diverse modifiche nella propria struttura dal processo di riunificazione ad oggi. Questa modifica rischia di ribaltare definitivamente la gerarchia delle fonti, spostando la centralità della contrattazione dal livello nazionale al livello aziendale ribaltando decenni di storia sindacale. Come se ciò non bastasse nel 2008 è arrivata la grande crisi, con tutte le conseguenze sul tessuto produttivo industriale e sui modelli di relazioni industriale cui abbiamo già fatto riferimento sopra. Le pesanti scelte compiute nel corso degli anni precedenti hanno permesso di affrontare la crisi in maniera meno traumatica rispetto al resto d’Europa ma, nonostante ciò, il sindacato tedesco conscio della gravità di una crisi economica senza precedenti reagì con un puntuale programma d’azione intitolato “Nessun licenziamento”. Consci dell’impossibilità di affrontare adeguatamente a livello aziendale i grandi rischi per l’occupazione che la crisi inevitabilmente portava in dote, i più grandi sindacati tedeschi come l’ Ig Metall favorirono un approccio tripartito a livello nazionale, poco diffuso per le caratteristiche classiche di questo sistema di relazioni industriali, che viene da taluni definito come “corporativismo di crisi”, ossia richieste portate avanti in modo congiunto al Governo insieme ai rappresentanti delle associazioni datoriali. Il risultato più importante di questa azione di “corporativismo di crisi” fu l’adozione e l’estensione di agevolazioni al fine di incentivare l’utilizzo dell’orario ridotto, ossia i famosi Kurzarbeit (simili ai nostri contratti di solidarietà). La possibilità per le aziende di ridurre l’orario di lavoro dei loro dipendenti con oneri ridotti (e quindi di conseguenza scongiurare la perdita della forza-lavoro qualificata e fidelizzata, sempre nell’ottica propria del capitalismo renano), senza dover mettere in discussione il montante occupazionale, ha rappresentato un’arma tra le più efficaci per la forza della Germania, unico Paese a non aver risentito in termini di aumento della disoccupazione del protrarsi della crisi economica in corso. Alla luce di quanto abbiamo visto possiamo quindi assumere qualche considerazione e tracciare una sorta di “bilancio” rispetto al sistema di relazioni industriali tedesco-renano e alle capacità di questo sistema di adattarsi ai cambiamenti imposti dalle condizioni contingenti. Intanto il primo aspetto, forse banale, che dobbiamo necessariamente cogliere da quanto descritto è la straordinaria capacità di questo modello di trasformarsi rispetto ai mutamenti di contesto: dalla riunificazione ad oggi infatti il modello contrattuale e l’intero sistema di relazioni

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9 Il cambiamento delle relazioni industriali nel capitalismo avanzato: una traiettoria comune – L. Baccaro, C. Howell

in Quaderni di Rassegna Sindacale 2012, n.1.

industriali è riuscito a modificare svariate volte le proprie caratteristiche e ritarare le proprie azioni sulla base degli stimoli esogeni ed endogeni ai quali è stato sottoposto. In un’ottica di questo tipo, rimandando valutazioni su tali cambiamenti, possiamo quindi rappresentare l’alto grado di adattabilità e recettività di questo modello di relazioni industriali. Addentrandosi in un giudizio di carattere valutativo possiamo altresì considerare come, da un punto di vista sindacale, l’obiettivo principale è stato nel corso degli ultimi anni quello della garanzia occupazionale. Da questo punto di vista è evidente come il risultato sia stato in effetti raggiunto. E’ altrettanto palese che il prezzo pagato per raggiungere tale risultato è stato alto. Le deroghe alla contrattazione nazionale sono state perpetuate su scala talmente larga che, nonostante siano state governate nella loro applicazione dal sindacato, hanno finito per creare un forte spostamento del baricentro della gerarchia delle fonti contrattuali, relegando la contrattazione nazionale da norma che definisce gli standard a mero punto di riferimento, con il rischio che i massimi di settore vengano contrattati a livello nazionale per poi essere disattesi a livello di contrattazione aziendale. Non bisogna però dimenticarsi mai di valutare come gli indicatori positivi dell’economia tedesca, tornata ad essere dopo anni di difficoltà la locomotiva d’Europa, possano essere stati influenzati dalla capacità del sistema di relazioni industriale tedesco di auto-riformarsi, anticipando i tempi in maniera netta, riuscendo a cogliere l’andamento del ciclo economico e oggi dopo 20 anni il sindacato tedesco torna a conquistare importanti aumenti retributivi, come accaduto nella tornata contrattuale nel 2012. E’ forse presto per sostenere se questo sia indice di un reale e definitivo cambio nella definizione delle relazioni industriali, ma sicuramente il sistema tedesco ha forse affrontato e superato la fase più difficile della sua storia e, cosa più importante di tutti, l’ha superato grazie al coraggio di auto-riformarsi, senza aspettare stimoli esogeni ed input esterni che possono poi creare più problematiche che vantaggi, come vedremo più avanti. Il modello di relazioni industriali scandinavo nel nuovo millennio: il caso svedese. Questo squilibrio tra i due livelli di contrattazione ed il rischio di un loro ribaltamento gerarchico è però in atto anche nel modello scandinavo, che per storia e tradizione è stato fin qui un riferimento generale per la solidità e la qualità delle relazioni sindacali, senza pari nel mondo. Un modello che ha certamente caratteristiche diverse da quello tedesco, proveniente da una diversa idea di capitalismo ma che, alla luce dei fatti, è anche quello che ha retto meglio alle grandi questioni degli ultimi anni e cioè ai cambiamenti indotti dai processi di globalizzazione prima e dalla crisi economica poi. Ciò è avvenuto non tanto perché non avendo (ad eccezione della Finlandia) adottato l’euro, è ricorso alle svalutazioni come scorciatoia competitiva, quanto per il forte radicamento storico che le parti sociali hanno sempre avuto nel tessuto politico ed economico, oltre che per la loro capacità di adattamento ai cambiamenti che hanno consentito di assorbirne i possibili stravolgimenti, riuscendo a ridurne il pericoloso impatto. Storicamente il successo del sindacalismo scandinavo è associato in maniera indissolubile all’adozione di un sistema particolare di gestione dell’assicurazione contro la disoccupazione, il cosiddetto “sistema Ghent” (dal nome della cittadina fiamminga in cui nel 1901 vide la luce per la

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prima volta) che si regge su una partecipazione sindacale al governo di questo fondamentale istituto di welfare, sconosciuta da tutti i paesi più industrializzati. Vale la pena soffermarsi un attimo su questa peculiarità, in modo da chiarire alcuni tratti caratteristici del sistema scandinavo di relazioni industriali ed inquadrare al meglio le peculiarità del famoso modello di sindacalismo nordico. Originariamente ispirati a Beveridge più che a Bismarck (al contrario dell’Europa continentale), tali Paesi hanno mirato a fondare uno Stato sociale di tipo universalistico e redistributivo, svincolato dall’occupazione, dalla famiglia e dal mercato, e retto sul principio del bisogno e del benessere popolare. Tutti i paesi scandinavi, eccetto la Finlandia, si collocano compattamente in testa alle classifiche internazionali relative alla spesa sociale, le cui quote sul PIL oscillano fra il 29,8% della Danimarca e il 31,3% della Svezia. La Finlandia si colloca invece sotto la media UE, con una percentuale quasi identica a quella italiana: 25,8%10. Di questa spesa le prestazioni per i disoccupati oscillano fra il 10% circa della Svezia e il 14% della Finlandia. La notoria generosità dei sistemi scandinavi di welfare si regge in massima parte sul prelievo fiscale generale, tra i più alti del mondo, completato da oneri sociali ripartiti fra lavoratori dipendenti e, in misura maggiore, imprese. In questo quadro il sistema Ghent configura un programma volontario di adesione, alimentato finanziariamente dallo Stato e solo in minima parte dagli associati e gestito tramite fondi dalle organizzazioni sindacali. Nel corso della prima metà del Novecento, la tendenza era stata ovunque quella di trasformare gli assetti mutualistici delle prime esperienze di welfare sociali in schemi obbligatori il cui controllo veniva rilevato direttamente dallo Stato e dalle sue agenzie specializzate. Dove esso si mantenne più a lungo fu in Scandinavia da un lato e in Belgio e Olanda, dall’altro. In ciascuno di questi due blocchi vi saranno defezioni, cosicché la Norvegia opterà per il sistema obbligatorio nel 1938 e l’Olanda nel 1952. Rimasero dunque il Belgio e i quattro Stati nordici gli unici al mondo ad adottare questo sistema (con l’Islanda e senza la Norvegia). Coloro che decidono di prendere la tessera sindacale vengono automaticamente iscritti a uno dei fondi assicurativi contro la disoccupazione. La normale quota sindacale contempla già il versamento contributivo, la cui entità rimane piuttosto contenuta. Non è invece automatico il contrario, poiché è possibile iscriversi a un fondo senza prendere alcuna tessera sindacale. In questo caso il versamento sarà inferiore alla quota sindacale complessiva nell’ordine medio di un terzo. Negli ultimi anni sembrerebbe cresciuta la quota di quanti chiedono l’iscrizione a un fondo senza prendere la tessera del sindacato e ad esempio in Svezia si calcola che non meno del 10% della forza lavoro non sia iscritta ad alcun fondo assicurativo. Malgrado la copertura assicurativa sia nel tempo divenuta relativamente meno cospicua, e le verifiche sull’impegno individuale più stringenti, il sistema assicurativo dei tre paesi scandinavi col Ghent rimane, in caso di disoccupazione, il più inclusivo e generoso del mondo.

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10 Sindacati e welfare state: il sistema Ghent, - Fondazione Italianieuropei.

Negli ultimi 15 anni la percentuale di coloro che hanno in media percepito l’indennità di disoccupazione si è attestata fra il 50% e il 60% del totale dei disoccupati (registrati) in Finlandia, fra il 53% e il 73% in Norvegia, fra il 68% e il 78% in Danimarca, fra il 71% e l’80% in Svezia.11 Il coinvolgimento del sindacato nella gestione di un istituto fondamentale di welfare, come l’assicurazione contro la disoccupazione conferisce ai sindacati di quei Paesi sicuramente delle rendite di posizione, esponendoli al contempo a qualche rischio di ordine sia politico che associativo. I benefici sono abbastanza intuitivi e sostanziali: i sindacati si pongono infatti nella condizione di rivoltare a proprio vantaggio una delle più devastanti minacce che possono incombere su un lavoratore dipendente e sul sindacato che lo affilia in quanto forza produttiva: la perdita dell’occupazione. Affinché si decida volontariamente di assicurarsi non è necessario che l’incresciosa eventualità si verifichi concretamente, poiché è già sufficiente il rischio di essa per sciogliere ogni residua titubanza. Ovviamente, quanto più alto è il rischio per la propria occupazione, tanto maggiore diviene la propensione a rivolgersi al sindacato e ai suoi fondi assicurativi. Emblematico il caso finlandese, dove negli anni Novanta la disoccupazione ha colpito più duramente che nel resto dell’area scandinava. In soli tre anni, fra il 1990 e il 1993, la disoccupazione crebbe dal 3,6% al 18%. Gli effetti sulla sindacalizzazione si tradussero immediatamente in un sensibile aumento di iscritti: dal 72% all’80%. Anche in Svezia vi fu, nello stesso periodo, una grave crisi occupazionale (dall’1,6% di disoccupazione del 1990 all’8,2% del 1993); ne seguì un aumento dell’iscrizione ai fondi e il tasso di sindacalizzazione ne beneficiò con un incremento che, in quel periodo, è stato stimato fra il 3% e il 6%. Sono dati impensabili da raggiungere nei Paesi in cui non vige il sistema Ghent. L’incentivo selettivo rappresentato dall’assicurazione contro la disoccupazione si riverbera anche sui lavoratori temporanei o a tempo determinato. L’interruzione del rapporto di lavoro è qui iscritto sin dalla genesi del rapporto, cosicché ancora più evidente apparirà il vantaggio di assicurarsi per i periodi di non lavoro. Nell’attuale regime economico della flessibilità e del lavoro atipico, costoro sono probabilmente i principali beneficiari del sistema. Dal canto suo, il sindacato rimane, caso raro rispetto agli altri Paesi Occidentali, in grado di rintracciare e affiliare una tipologia di lavoratori ovunque poco o per niente sindacalizzata, fatta soprattutto di giovani e di donne con contratti di lavoro precari. Gli elementi di forza che abbiamo fin qui descritto nell’applicazione del sistema Ghent non sono ovviamente immuni da fragilità latenti e controindicazioni. La prima potrebbe dipendere proprio dall’elevato grado di istituzionalizzazione conseguito da questi sindacati. Ciò può infatti esporli a rischi di varia natura. Innanzitutto essi potrebbero poggiarsi su una comoda rendita di posizioni che alla lunga ne atrofizza le attitudini più vitali. La sinistra radicale di quei Paesi ha periodicamente denunciato l’appannamento dell’autonomia sindacale nei riguardi sia del potere politico dei governi amici sia di quello padronale nei luoghi di lavoro. Vi è poi un’altra considerazione da fare: l’intero sistema si regge su una precisa volontà politica di salvaguardare quote rilevanti di potere sociale in favore delle organizzazioni sindacali.

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11 ibidem

Lo Stato si è fatto garante di questo potere ma in linea di principio non può essere sottovalutato il rischio di un ripensamento e dunque di un ritiro delle prerogative para-pubbliche fin qui riconosciute all’attore sindacale. I governi di centro-destra al potere in Svezia hanno già dato prova come questo rischio non sia assolutamente infondato. Il sistema Ghent ha certamente inciso in modo molto rilevante, ma non esclusivo, sulla straordinaria forza associativa del sindacalismo nordico. Un valore aggiunto di cui è difficile stimare le proporzioni esatte. Studi finlandesi hanno stimano in non meno del 10% l’effetto di perdita che si verificherebbe sul terreno della sindacalizzazione qualora il sindacato perdesse ogni controllo sull’assicurazione di disoccupazione. Analoghi studi svedesi nella prima metà degli anni Novanta valutavano la differenza nell’ordine del 25%. Sarebbe tuttavia ingeneroso ritenere che la forza associativa del sindacalismo scandinavo dipenda esclusivamente dall’artificio un po’ burocratico e parastatale del sistema Ghent. A ciò hanno concorso prassi concertative e interconfederali fra le più collaudate del mondo. Una certa cultura di approccio alle relazioni industriali ha indubbiamente agevolato l’esistenza di forti corpi sociali intermedi e attitudini civiche di tipo altamente solidaristico. Per quanto riguarda il movimento sindacale esso è organizzato in questi Paesi per status professionale, con una ormai peculiare distinzione fra sindacati blue collars e white collars. I primi, le famose LO, hanno a lungo rappresentato il perno della rappresentanza associativa, malgrado la loro posizione si sia ultimamente ridotta in favore dei sindacati degli impiegati e dei più professionalizzati. Oggi, ad esempio, in Svezia la federazione del settore pubblico, Kommunal, ha sorpassato quella metalmeccanica del Metall. In tutta la regione il cardine del sistema contrattuale continua ad essere il settore produttivo, ma un importante fattore di cambiamento, in questi anni, è stato il progressivo decentramento del sistema contrattuale. Ciò, come ora approfondiremo per capire le dinamiche di trasformazione delle relazioni industriali in quel Paese, ha riguardato in special modo la Svezia (oltre che la Danimarca) dove più forte era stata la caratteristica centralizzazione delle relazioni collettive di lavoro mentre invece in Finlandia e in Norvegia il sistema è rimasto complessivamente più centralizzato. Un secondo fattore importante di successo del sindacalismo scandinavo, oltre al sistema Ghent, è da ricercarsi nella combinazione tra un forte livello di organizzazione centrale e il livello locale. Se da un lato infatti la centralizzazione previene la frammentazione della copertura sindacale, promuove il potere contrattuale e facilita il perseguimento di politiche salariali “solidaristiche”, dall’altro lato il decentramento avvicina il sindacato alla base più compatta e attiva dei suoi membri. In Svezia (come per certi aspetti in Italia) non è il Consiglio di fabbrica che si occupa della contrattazione aziendale ma è l’organizzazione sindacale territorialmente competente. Interessante notare come vi sia una peculiarità nella negoziazione a livello aziendale in quanto è proprio in questo caso che il sistema contrattuale svedese mostra tutta la sua forza, almeno dal punto di vista dei lavoratori. Se l’azienda è affiliata ad un’associazione datoriale allora il sindacato può forzare l’azienda a stipulare un accordo aziendale in linea con quello di settoriale di categoria.

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Se invece l’azienda non è affiliata ad alcuna associazione datoriale comunque il sindacato dispone del diritto di intraprendere un’azione industriale per forzare il datore di lavoro a richiedere l’affiliazione ad un’associazione datoriale rappresentativa o quanto meno ad accettare di sottoscrivere l’accordo vigente più significativo. Se non esiste un accordo locale/aziendale vigente allora il sindacato e il singolo datore di lavoro (e parliamo anche di piccole e piccolissime imprese, in quanto in Svezia non esistono differenziazioni basate sul numero dei dipendenti occupati negli stabilimenti), possono stipulare un accordo cosiddetto “derivato”, che per la maggior parte dei contenuti si basa sulla piattaforma dell’accordo settoriale. Questo tipo di accordi denominati hangvtal hanno come principale obiettivo quello di evitare il dumping salariale, ossia che si crei una grande differenziazione tra lavoratori sindacalizzati e non sindacalizzati, che andrebbero a percepire retribuzioni molto inferiori a quelle dei loro colleghi. Oggi il sindacato svedese si trova, come abbiamo già visto per quello tedesco, di fronte alle poderose sfide della contemporaneità. La Svezia, nonostante non soffra delle questioni riguardanti l’adozione dell’Euro, si trova a fare i conti con le problematiche relative all’internazionalizzazione (con conseguente rischio di delocalizzazione) e schiacciata nella morsa dell’incognita dumping, soprattutto dopo la sentenza Laval che, recepita dall’ordinamento nazionale, rischia di incrinare i cardini delle relazioni industriali di quel Paese. Non importa quanto forte sia il sistema contrattuale svedese: esso ha ancorato le sue radici in un’epoca in cui l’oggetto del conflitto industriale era diverso da oggi. Il contratto collettivo forte e esteso a tutti, unito a ottime relazioni concertative ed interconfederali, hanno molto spesso salvato i lavoratori dal ricorso a massicci licenziamenti, crumiraggi, serrate e altri strumenti del conflitto industriale ad opera dei datori di lavoro, ma la chiusura di un intero stabilimento produttivo e lo spostamento in un altro Paese non era mai stato concepito come misura del conflitto industriale, pertanto in una situazione del genere i sindacati si trovavano paradossalmente senza armi, in quanto legati all’obbligo di pace industriale12, elemento proprio di quel Paese. Ma il pericolo di dumping più che dalle delocalizzazioni viene rappresentato dai movimenti di imprese straniere verso la Svezia, come nell’ormai celebre sentenza della Corte di Giustizia Europea a proposito del caso Laval, che hanno rischiato di sottoporre il sistema Paese ad un pericolo enorme di perdita di competitività nei confronti delle aziende dei Paesi confinanti, possessori di manodopera non contrattualizzata o comunque non alle forti condizioni dei loro competitors svedesi. Anche i Paesi scandinavi tra l’altro, come la Germania, stanno reagendo a questi pericoli attraverso un forte decentramento della contrattazione collettiva, e la Svezia non fa di certo eccezione da questo punto di vista. Negli ultimi anni infatti i contratti collettivi sono sempre più snelli e minimalisti, stabilendo un insieme di principi e procedure finalizzati ad una contrattazione prevalentemente locale, consentendo ampia discrezionalità a livello aziendale e questo (nonostante resti sempre la tutela di cui sopra rispetto all’esigibilità della contrattazione aziendale) si ripercuote sicuramente sull’entità degli aumenti salariali degli ultimi anni.

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12 Hannibal ad portas! Il sistema contrattuale svedese davanti alla sfida dell’internazionalizzazione, C. Thӧrnquist, in

Quaderni di Rassegna Sindacale 2006 n.4

La vittoria del centrodestra alle elezioni politiche del 2006, (riconfermata nel 2010) ha poi comportato l’adozione di una serie di peggioramenti alle condizioni del sistema Ghent, tale da mettere in discussioni alcuni principi sopra esposti e creare non poche preoccupazioni per il sindacato, in vista delle future prospettive. La forza organizzativa dei sindacati è riuscita tuttavia ad ammortizzare l’esito di questi processi, forse più che in Germania, eppure anche nella misura in cui l’organizzazione di classe può controbilanciare le trasformazioni istituzionali, è ovvio che alcuni effetti si percepiscono lo stesso. Come primo effetto possiamo segnalare il decremento generale del tasso di sindacalizzazione che ha colpito anche i Paesi scandinavi e la Svezia in particolare: dall’85% di sindacalizzazione a metà degli anni ’80 si è passati al 73% del 200713. Nonostante ciò però il sistema contrattuale scandinavo appare oggi quello che sta reggendo meglio, anche più del sistema tedesco, i cambiamenti indotti dalla globalizzazione prima e dalla crisi economica poi. La straordinaria capacità di adattamento e di reazione del sindacato scandinavo si è avuta proprio successivamente alla già citata sentenza Laval in Svezia e a quella simile denominata Viking in Finlandia, rispetto ai rischi di una diffusione del dumping sociale. Nei fatti, invece, i sindacati scandinavi sono riusciti ad isolare quelle sentenze come avvenimenti negativi ma straordinari, azzerandone la possibilità di contaminazione14. Le ragioni di questa forza straordinaria stanno nelle caratteristiche insite a questo modello di relazioni industriali, che abbiamo descritto sopra: il ruolo acquisito da questi sindacati nel tempo non nasce né da un compromesso esplicito tra capitale e lavoro (come invece abbiamo visto nel modello renano), né dalla capacità di organizzazione e di rappresentanza diffusa come nel nostro modello mediterraneo. Il sindacalismo scandinavo affonda invece le proprie radici in un disegno politico-istituzionale ben preciso, in cui i corpi intermedi della società hanno assunto funzioni e strumenti volti a produrre stabilità e coesione sociale. In questo quadro si inserisce l’adozione del sistema Ghent e il grande peso assunto dai sindacati nella società, che ha permesso di rafforzare la struttura organizzativa del movimento sindacale fino a farla diventare quasi imponente. Nonostante questa imponenza, come abbiamo visto anche i sindacati nordici, come già quello tedesco, sono stati in grado di ritarare la propria azione e il proprio modello di relazioni industriali, con lo stesso obiettivo di adattarsi ai mutamenti indotti dalle sfide del nuovo millennio, con capacità di anticipo sullo scorrere dei tempi e senza avere paura di rimescolare un modello considerato vincente da tutti gli addetti ai lavori. Proprio scongiurando il “rischio del successo”, ossia quel comportamento che porta a non addentrarsi in cambiamenti finché un modello si dimostra vincente, il sindacalismo scandinavo ha dato una lezione importante a tutto il movimento sindacale occidentale. Una lezione che ci racconta come è possibile coniugare, anche nell’Europa contemporanea, salvaguardia dell’occupazione e tutela dei livelli di contrattazione, intervento pubblico e un sistema di welfare garantito.

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13 Il cambiamento delle relazioni industriali nel capitalismo avanzato: una traiettoria comune – L. Baccaro, C. Howell

in Quaderni di Rassegna Sindacale 2012, n.1 14 I contratti e la crisi in Europa, W. Cerfeda in Quaderni di Rassegna Sindacale 2012 n.1

Una lezione che ci racconta come la strada indicata dall’establishment europeo per l’uscita dalla crisi, fatta di meno sindacato e meno welfare, non è l’unica strada possibile. Il modello di relazioni industriali americano: quando vince il neo-liberismo. Come abbiamo fatto a proposito del sistema di relazioni industriali tedesco-renano dobbiamo anche qui segnalare subito la stretta connessione che intercorre tra i caratteri del sistema contrattuale americano e la forma di capitalismo particolare che si è affermata negli anni. In questo sistema vi è stata l’ascesa e l’affermazione delle figure manageriali sugli stessi proprietari d’impresa, determinata dalla naturale tendenza evolutiva del capitalismo nazionale dominato in misura sempre più ampia delle grandi imprese dalla grande diffusione dell’azionariato. Infatti, l’introduzione di nuove e costose tecnologie ed i regimi di concorrenza sempre più spietati avevano prodotto processi aggregativi e selettivi che consentivano la sopravvivenza ed il successo solo a organismi in grado di affrontare in maniera ottimale le economie di scala. Poi, il capitale suddiviso in una miriade di piccoli azionisti ha reso impossibile stabilire delle linee di comportamento da parte dei Consigli di Amministrazione facendo emerger la figura del manager cercando di garantire la separazione dell’interesse del privato dall’interesse dell’azienda. Gli obiettivi del top management tendono alla realizzazione di profitti immediati per meglio soddisfare le esigenze di redditività degli azionisti (shareholders), i quali sono chiamati a fine esercizio a valutare l’operato del manager, confermandolo o meno alla guida dell’azienda. La conseguenza di tale impostazione è quindi volta alla ricerca di profitti nel breve periodo e di riflesso il sistema è contraddistinto da esigui investimenti destinati allo sviluppo futuro e all’espansione e si caratterizzano queste imprese per un certo grado di immobilità e rigidità. Il carattere prevalentemente speculativo dell’investimento volto ad ottenere risultati nel breve periodo fa sì che gli investimenti che non producono rendimenti immediati siano comunque poco apprezzati dalla proprietà. In questa logica il capitale viene spostato dove rende di più: profitto ad ogni costo e condizione. Si viene così a creare una realtà in cui sempre più alta è la divaricazione e lo sdoppiamento tra economia reale e finanza, anzi una realtà nella quale la finanza premia gli andamenti negativi dell’economia reali (quali ad esempio la flessibilità dei salari e la riduzione dell’occupazione). In tale sistema, globalizzazione significa dominazione attraverso l’uso del capitale speculativo, l’espulsione dal mercato delle imprese deboli in termini di esclusiva corsa al profitto, la crescita della disoccupazione e l’utilizzo di lavoro alla quale vengono chiesti sempre più sacrifici, sotto l’egida della lotta per la sopravvivenza nel mercato. E’ facilmente comprensibile come queste caratteristiche, quasi antitetiche a quelle proprie del sistema capitalista renano, ci portino a considerare un sistema di relazioni industriali totalmente diverso, in cui i rapporti tra le parti sociali non si pongono né obiettivi di fidelizzazione dei lavoratori e salvaguardia degli investimenti (modello tedesco), né tantomeno obiettivi di protezione sociale e prevenzione dei conflitti (modello scandinavo). E’ bene però anche fare un breve excursus sulla storia recente del sindacato americano, a partire dagli anni ‘80 al fine di contestualizzare al meglio il momento che questo modello sta attraversando e come i rapporti di forza tra le parti, a seguito delle trasformazioni per lo più indirizzate dalla volontà politico-istituzionale, si stiano sempre di più sbilanciandosi fino a creare una totale subalternità del sindacato rispetto alle scelte ed alle strategie aziendali.

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A partire dagli anni di presidenza Reagan, l’America è divenuta in tutti i campi (e quindi anche in merito alle relazioni industriali) il paese guida dell’ideologia neo-liberista della deregulation, ossessivamente perseguita come la soluzione migliore “di mercato” rispetto alle problematiche in campo economico. Seguendo questa linea di pensiero tutto il mondo politico americano, sia esso federale, statale o municipale, si è approcciato al tema del lavoro e delle relazioni industriali con il chiaro obiettivo di neutralizzare qualsiasi legge che in qualche modo offrisse sostegno al lavoro subordinato e ne regolasse vantaggiosamente condizioni minime e in qualche modo uniformi15. I temi riguardanti la “democrazia industriale” o “democrazia economica” scomparvero rapidamente dal dibattito pubblico americano, visti come spettri di un passato da superare il più rapidamente possibile. In economia si affermarono invece piuttosto rapidamente i dogmi propri del monetarismo e del neoliberismo di Hayek e Friedman. Il paradigma dominante diventò quindi il drastico ridimensionamento del ruolo dello Stato e la sovranità del mercato insieme con la deregolamentazione delle norme che presiedono al rapporto fra capitale e lavoro. Il sindacato diventa unicamente un elemento di intrusione e distorsione nel libero ed efficiente funzionamento del mercato. Negli USA il "walmartismo" (dalla catena di negozi WalMart) ha finito per prendere il posto del fordismo e di conseguenza il sindacato appare condannato a una progressiva irrilevanza, come quella nella quale si trova all’interno della catene WalMart, ma bisogno dire che le istituzioni e le politiche giocano un ruolo essenziale nelle diverse tappe che portano a quest’irrilevanza. Reagan, che in gioventù era stato capo del sindacato degli attori di Hollywood, da Presidente ha impresso un’impronta indelebile al cambiamento delle relazioni industriali negli Stati Uniti. Dal “Patto di Detroit” (come si definì il modello di rapporti fra l’United Auto Workers (UAW), il sindacato dell’auto, e le grandi imprese automobilistiche, fondato su un’equa distribuzione dei guadagni di produttività fra salari e profitti, diventato l’emblema del sindacalismo americano nei primi decenni del dopo-guerra), si passa gradatamente a quello che può essere definito il “walmartismo”, fondato sul principio dell’esclusione del sindacato o sull’abbattimento del suo potere di contrattazione. Riassumendo l’esperienza degli anni ’80, l’economista Robert Kuttner editore di American Prospect, scrive: “I sindacati sempre più durante i periodi di elevata disoccupazione, erano posti sulla difensiva; era il management che ora poneva le rivendicazioni, reclamando concessioni, al tavolo delle trattative. E la Commissione nazionale per le relazioni sindacali (composta da membri nominati dal Presidente Reagan) consentiva al padronato di adottare tattiche che nelle epoche precedenti sarebbero state giudicate illegali. Molte fabbriche chiudevano e i lavoratori erano posti in competizioni fra i diversi stabilimenti della stessa impresa con una rottura della solidarietà sindacale. Per conservare i posti di lavoro ai lavoratori più anziani fu necessario ridurre il salario dei nuovi assunti. Ciò distruggeva la rete di solidarietà che i contratti-pilota avevano in passato realizzato a livello industriale sulla base del principio uguale salario per uguale lavoro ”16.

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15 Il sindacato americano a congresso: scissione e radicalizzazione tra speranze e contraddizioni, A. Gennari in

Quaderni di Rassegna Sindacale n.4, 2005 16 Politica e istituzioni nella crisi del sindacato, A. Lettieri – disponibile su www.insightweb.it

Negli Stati Uniti di oggi a seguito degli interventi della politica e dei mutamenti delle istituzioni, siano essi avvenuti direttamente da un punto di vista legislativo o indirettamente attraverso sentenze o l’affermarsi di prassi, non solo la legislazione sul lavoro non è per vocazione pro-labor e pro-union, ma non è neanche puramente neutrale. Presume invece, in partenza, che lo stato “naturale” di un posto di lavoro qualsiasi sia inevitabilmente senza sindacato. Libero o, meglio ancora, liberato dal sindacato: union free.17 Per questo motivo l’attacco politico al sindacato si è incentrato sulla restrizione delle proprie agibilità e della possibilità di organizzarsi sindacalmente e, cosa più importante, sul metodo di reperimento delle risorse. Sempre più Stati USA stanno adottando disposizioni normative chiamate beffardamente “right to work”, le quali prevedono la decadenza dell’obbligo per le aziende di versare le quote associative alle organizzazioni sindacali, per tutti i lavoratori occupati in quei luoghi di lavoro dove vige una rappresentanza sindacale attiva, che difende i propri diritti. Il Michigan a Dicembre 2012 è stato il 24° stato degli USA ad approvare una legge “right to work” e la maggioranza dei lavoratori statunitensi vive ora in stati in cui è in vigore una legge di questo tipo. Questa diffusione a macchia d’olio di una normativa chiaramente realizzata per impedire la presenza sindacale nei luoghi di lavoro sta causando un pericoloso fenomeno di dumping sociale tra i cosiddetti Stati “unions” dove il sindacato è presente e contratta condizioni migliorative e Stati “no unions”, ovvero dove il sindacato non è presente e i lavoratori vengono assunti tramite condizioni economiche peggiori e sono costretti a rinunciare in tutto o in parte alle prestazioni sociali integrative (pensioni, assistenza sanitaria, ecc.). E’ indicativo, da questo punto di vista, il settore dell’auto: se l’UAW ha visto cadere vertiginosamente la propria rappresentanza da un milione e mezzo di iscritti a meno di 400.000, la causa non può essere imputata al ridimensionamento dell’industria dell’auto ma alle misure antisindacali adottate dagli Stati del sud, che stanno incentivando pratiche di “delocalizzazione interna” dagli Stati “unions” a quelli “no unions”. In un contesto così descritto non può stupire che uno dei sindacati più forti e potenti del dopoguerra, sia ridotto a rappresentare una quota sempre minore di lavoratori, arrivando al 6% degli attivi nel settore privato18. Quello che può invece stupire è come il sindacato americano, dopo un primo tentativo di reazione a questo disegno neo-liberista, sembri oggi totalmente succube e parte integrante di questa deriva. Gli accordi siglati dallo scoppio della crisi economica del 2007 legata ai mutui subprime ad oggi (tra cui forse il più importante riguarda la Chrysler, parte integrante del processo di fusione con FIAT), parlano di subalternità totale alle scelte di impresa e del tentativo malcelato di spostare l’oggetto del conflitto al di fuori dei confini dell’impresa stessa. La controparte non è più quindi la singola azienda ma le aziende concorrenti e l’obiettivo della salvaguardia dell’occupazione viene perseguito “facilitando” le scelte aziendali rispetto alla concorrenza, al fine di far acquisire all’impresa quote di mercato aggiuntive.

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17 Il sindacato americano a congresso: scissione e radicalizzazione tra speranze e contraddizioni, A. Gennari in

Quaderni di Rassegna Sindacale n.4, 2005 18 Le trasformazioni del sindacato negli Stati Uniti, G. Sivini – disponibile su www.inchiestaonline.it

Questo cambio di rotta, quasi ideologico, ha causato lo sfaldamento del potere contrattuale a livello aziendale e ha comportato che non solo negli Stati del sud, ma anche nelle fabbriche dell’auto di Detroit, i nuovi assunti percepiscano a parità di lavoro un salario orario dimezzato rispetto a quello mediamente percepito dai lavoratori coperti dai vecchi contratti, rompendo qualsiasi precedente solidarietà tra generazioni e creando un pesantissimo dualismo. La politica delle concessioni (ben diversa da quella messa in campo in Germania o Svezia) ha portato all’accettazione di misure come il congelamento dei salari, la rinuncia ad indennità aggiuntive, la riduzione dei servizi sanitari ed il blocco dei fondi pensione (con impatto sociale durissimo ed ancora non realisticamente quantificabile), in cambio di non meglio precisate garanzie di occupazione. Attraverso questa serie di concessioni successive siamo arrivati alla piena collaborazione tra imprese e sindacati, tanto che il Presidente dell’UAW Bob King può dichiarare: “Abbiamo il legittimo interesse che la nostra produttività sia elevata per aumentare il numero dei nostri iscritti e dare luogo sul lungo termine alla sicurezza del lavoro. Non sarà possibile se non siamo competitivi a livello mondiale, ecco il motivo della nostra partnership”. Il rischio concreto è che questa partnership, per quello che possiamo sostenere alla luce di quanto abbiamo analizzato in questo lavoro, possa finire per assumere chiaramente le sembianze di una enorme bandiera bianca sventolante, simbolo di una sconfitta troppo pesante da poter essere mascherata. Conclusioni L’analisi comparativa effettuata, rifuggendo un approccio statico e meramente descrittivo delle differenze tra i vari modelli di relazioni industriali occidentali ci permette di fissare qualche considerazione possibile rispetto agli interrogativi posti inizialmente e alle caratteristiche di questa nuova fase costituente delle relazioni industriali. Innanzitutto abbiamo verificato come effettivamente vi sia stato uno sconvolgimento delle catalogazioni classiche dei modelli di relazioni industriali, causato principalmente dall’affermazione definitiva della globalizzazione e dall’irruzione sulla scena mondiale della crisi derivata dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime. Questo sconvolgimento non è stato però assolutamente univoco ed ha avuto effetti diversi a seconda del contesto di riferimento, delle soggettività politico-istituzionali più o meno presenti in quel contesto e soprattutto a seconda del grado di reazione e di incisività della reazione che le organizzazioni sindacali di quei Paesi sono riuscite a mettere in campo. E’ confutata quindi la teoria secondo cui tutte le relazioni industriali occidentali stiano seguendo una traiettoria convergente verso forme più o meno marcate di neo-liberismo. Sono le sfide semmai ad essere comuni e ad imporre le stesse pressioni ai sistemi: l’apertura internazionale dei mercati, elemento nuovo che riguarda tutto il mondo, richiede nuove risposte e soluzioni che impongono un radicale ripensamento rispetto ai modelli ancorati con le proprie radici agli assunti del sistema industriale del secolo scorso. Il fatto che due modelli cardine delle relazioni industriali europee come quello tedesco e quello scandinavo, siano riusciti ad adattarsi ai cambiamenti spostando il baricentro contrattuale verso il basso senza per questo ledere compiti e funzioni generali del sindacato, ci porta a pensare come anche nella grande imprenditoria europea sia forte la richiesta di equilibrio nelle relazioni sindacali come condizione necessaria per il raggiungimento della competitività internazionale.

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Essendo appunto il nuovo mercato globale un enorme mercato aperto, le imprese non possono sommare all’incertezza delle condizioni macroeconomiche anche l’instabilità sociale, ed è per questo che anche dal loro punto di vista relazioni sindacali forti e stabili, come avvenuto in Germania o in Svezia, rappresentano una sorta di precondizione essenziale: per poter poi essere in grado affrontare al meglio la sfida del mercato hanno la primaria necessità di conoscere fino in fondo le possibilità organizzative da poter adottare. Questa impostazione, a prima vista preferibile rispetto a quella americana, richiede però un forte cambio culturale per tutti quei sindacati non abituati all’approccio proprio dei sistemi di cogestione: l’accettazione del principio della corresponsabilità come cardine delle relazioni industriali. Come scritto a proposito dei concession bargaining tutti gli accordi derogatori costruiti negli anni non hanno mai riguardato la sfera dei diritti dei lavoratori ma si sono limitati ad intervenire sulle modalità di erogazioni delle prestazioni. Allo stesso modo non sono state concessioni basate su improbabili impegni fumosi di investimenti, ma su progetti economici precisi, monitorati quotidianamente da una commissione composta da membri datoriali e sindacali. Richiede quindi sia ai datori di lavoro che al sindacato un ripensamento generale del proprio ruolo, al di là delle competenze classiche conosciute. Questo, anche alla luce della prova dei fatti, ha permesso alle industrie di quei Paesi di riposizionarsi sul mercato ed essere in grado di riuscire ad invertire la situazione di difficoltà. Al contrario, in America, l’attacco mosso in chiave neo-liberista dall’establishment politico ha prodotto risultati devastanti in quanto il sindacato è stato incapace di formulare risposte in qualche modo adeguate alle sollecitazioni mosse. La paura di continuare nell’emorragia di iscritti e di conseguenza di essere relegato nella totale irrilevanza, sulla scia del “walmartismo” coniugata con gli stravolgimenti di desertificazione industriale portati dalla crisi economica del 2008 ha di fatto messo all’angolo il sindacato, costretto a piegarsi di fronte ad una contrattazione totalmente derogatoria, incentrata sull’unico obiettivo dell’abbattimento dei costi e dei diritti e sulla centralità dell’impresa. La visione americana per cui il sindacato è visto come un ostacolo all’accumulazione del profitto nel breve periodo ha portato alla costruzione di una partnership del tutto nuova, fondata su un cambio di rotta ideologico-strategico del sindacato per cui oggi l’interlocutore non è più rappresentato dalla singola impresa, bensì dalle imprese concorrenti. Il compito primario del sindacato si traduce quindi nell’ ”agevolare” la propria azienda a conquistare quote di mercato, sostenendola negli sforzi, essendo questo (in un’ottica di questo tipo) l’unico modo per salvaguardare l’occupazione. L’affermazione dell’uno o dell’altro modello (quello americano o quello tedesco/scandinavo) sicuramente non avviene in maniera omogenea per aree geografiche: il rischio di un’ “americanizzazione” delle relazioni sindacali europee esiste ed è forte, in quanto sostenuto pesantemente da pezzi delle élite politiche ed economiche volte ad influenzare questa nuova fase costituente delle relazioni industriali. Quando Marchionne sostiene che in Italia il sindacato è un ostacolo sulla strada del progresso, mentre invece in USA facilita l’azione delle imprese intende proprio introdurre quel nuovo modello di relazioni industriali anche nel nostro Paese.

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Le ricette elaborate dalle istituzioni economiche mondiali ed imposte ai Paesi in difficoltà (Spagna, Grecia, Irlanda e Italia) mirano sicuramente, tra gli altri obiettivi, alla destrutturazione della relazioni industriali e la loro ricomposizione in chiave neo-liberista. Il rischio è che in un mondo che ragiona sempre più per “macro-aree” l’Europa si presenti divisa anche sul modello di relazioni industriali adottato al proprio interno, con il pericolo che sfide internazionali e globali vengano affrontate nuovamente con armi inefficaci, in quanto esclusivamente tarate sulle condizioni nazionali. In quest’ottica appare fondamentale per i prossimi anni l’adozione di un ruolo sempre maggiore della CES, che sia esso propulsivo o di mero coordinamento. La salvaguardia del “modello sociale europeo” passa anche dalla salvaguardia di un corretto sistema di relazioni industriali, di un modello contrattuale forte ed in grado di rispondere alle rinnovate esigenze di coniugazione tra gli interessi del capitale e quelli del lavoro. Solo in questo modo si potrà efficacemente confutare qualsiasi proiezione di convergenza liberale e dimostrare finalmente che il sindacato è in grado di anticipare i tempi, di affrontare efficacemente e senza sottrarsi la sfida della crescita e che l’essere ingoiati dalle fauci del neo-liberismo ed essere ridotti alla completa irrilevanza non debba necessariamente essere la destinazione finale della storia pluricentenaria del sindacalismo europeo ed internazionale.