Gli Assiomi Della Comunicazione Della Scuola Di Palo Alto
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Gli assiomi della comunicazione della Scuola di Palo Alto
Gli assiomi della comunicazione della Scuola di Palo Alto
La scuola di Palo Alto, famoso gruppo del Mental Research Institute di Palo Alto in California, negli anni
’70, col testo di P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana del
1967, ampliando l’idea di comunicazione, sostiene che tutti i comportamenti hanno valenza
comunicativa poiché, come afferma Birdwhistell, l’individuo partecipa a un sistema globale di
interazione. L’opera ha posto le basi di un nuovo paradigma della comunicazione, evidenziandone
cinque assiomi che prestano attenzione agli effetti pragmatici dell’azione comunicazionale e danno
valore all’influenza reciproca di tutti i fattori coinvolti. L’approccio pragmatico esamina la
comunicazione interpersonale come un processo irreversibile, in continua evoluzione, in cui le persone
coinvolte si influenzano reciprocamente. L’approccio strategico considera, invece, la comunicazione
come un atto appreso, che va guidato ed educato. La conoscenza delle tecniche di comunicazione
interpersonale fa divenire più consapevoli dei numerosi fattori che influenzano l’interazione. La sintassi
si occupa dei rapporti formali dei segni tra loro, dell’ordinamento delle parole, del loro accordo e
collegamento nella proposizione e nel periodo, senza riferimento al contenuto significativo. La
semantica studia i significati delle parole nella loro evoluzione storica e si occupa delle relazioni dei
segni con ciò che designano. Il primo dei cinque assiomi, o proprietà della comunicazione, è infatti
l’impossibilità di non comunicare. Tutte le diverse situazioni interpersonali diventano automaticamente
comunicative, ogni forma di comportamento è un messaggio e, siccome è impossibile non comunicare,
i due processi sono inscindibili; anche se in modo inconscio, non intenzionale, non verbale, si
comunica. Lo si fa attraverso il silenzio, i gesti, i vestiti, ma l’effetto è lo stesso. La comunicazione
all’interno della società rappresenta un processo molto articolato e complesso, che va inserito
nell’ampia visuale psicosociale e filogenetica delle diverse comunità. E’ impossibile parlarne e
analizzarlo senza correlarlo a un gran numero di variabili della realtà individuale cui si riferisce
(evolutive, culturali, ideologiche, sociologiche, antropologiche, economiche, psicologiche). Soggetti che
hanno vissuto simili esperienze sociali e culturali riescono a comunicare più compiutamente e
agevolmente. Scrive a questo proposito Masserman :
“simboli dal contenuto motivazionale più complesso e contingente, come casa, famiglia, lavoro e così
via presentano necessariamente significati ancor più variabili per persone che necessariamente
differiscono quanto a esperienze individuali e ambienti sociali”.
La diversità degli aspetti connotativi aumenta quanto più numerose sono le divisioni sociali e culturali
fra individui e gruppi: si può dire che queste difficoltà hanno sempre costituito, per la comprensione e
la fratellanza fra gli uomini, ostacoli di gravissima e talora tragica portata.
Primo assioma
Secondo assioma
Terzo assioma
Quarto assioma
Quinto assioma
Ritorna a Capitolo 1 La comunicazione: fondamenti
Primo assioma: E’ impossibile non comunicare. Ogni comportamento e’ comunicazione.
Non esiste qualcosa che sia un non-comportamento e, in una interazione, qualsiasi comportamento ha
valore di messaggio. La comunicazione non è volontaria: anche non rispondendo o non reagendo si
comunica qualcosa. Ogni comunicazione può essere scomposta in:
1. messaggio, ogni singola unità di comunicazione;
2. interazione, una serie di messaggi.
C’è una proprietà del comportamento che difficilmente potrebbe essere più fondamentale e proprio
perché è troppo ovvia spesso viene trascurata: il comportamento non ha un suo opposto. Non esiste
un qualcosa che sia un non-comportamento, non è possibile non avere un comportamento. Ora, se si
accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire
è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività, le
parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non
possono non rispondere a queste comunicazioni, e in tal modo comunicano anche loro. Come afferma
il primo assioma, ogni comportamento è comunicazione: nell’uomo, ogni comportamento è una
trasformazione di processi neurologici interni, sui quali pertanto reca delle informazioni. Ogni
comportamento è quindi, in qualche modo, comunicazione sull’organizzazione neurologica di un
individuo: non si può non comunicare. Pertanto, la comunicazione non è sempre intenzionale, conscia
ed efficace e molto spesso comunichiamo senza accorgercene. Lo stesso ritrarsi, come l’immobilità o il
silenzio, rappresentano anch’essi una forma di comunicazione. Tuttavia, questi segnali possono essere
facilmente fraintesi e queste ambiguità non sono le sole complicazioni che possono sorgere dalla
struttura di livello di ogni comunicazione. Ne consegue una possibile applicazione pratica: non pensare
più che una persona non stia comunicando, ma chiedersi sempre cosa sta comunicando una persona
con il suo silenzio o la sua assenza.
Secondo assioma: Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione in modo che il
secondo qualifica il primo ed è quindi metacomunicazione.
Una comunicazione trasmette informazioni, ovvero un aspetto comunicativo di contenuto (notizia,
report), e un certo comportamento da seguire, ovvero un aspetto comunicativo di elezione (comando,
command). Ogni comunicazione implica, inoltre, un impegno e quindi definisce il modo in cui il
trasmettitore considera la sua relazione con il ricevitore. È dunque possibile teorizzare un secondo
assioma della comunicazione, basato sul fatto che una comunicazione non soltanto trasmette
informazione ma, al tempo stesso, impone un comportamento. Nella comunicazione possiamo
distinguere due aspetti fondamentali:
1. l’aspetto di notizia, che trasmette un’informazione e rappresenta, quindi, il contenuto del
messaggio;
2. l’aspetto di comando, che si riferisce al modo in cui il messaggio è comunicato e definisce, pertanto,
la relazione tra i comunicanti; si riferisce al messaggio che deve essere assunto e, perciò, alla
relazione tra i comunicanti (Ecco come mi vedo ... Ecco come ti vedo ... ecco come ti vedo che mi
vedi). Di qui la centralità della meta-comunicazione, cioè della comunicazione sulla comunicazione: la
capacità di meta-comunicare in modo adeguato non so lo è la conditio sine qua non della
comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata con il problema della consapevolezza del
sè e degli altri.
E’ importante considerare il rapporto esistente tra l’aspetto di contenuto (notizia) e l’aspetto di
relazione (comando) della comunicazione. Gli aspetti di relazione sono di un tipo logico più elevato dei
contenuti: sono meta-informazione poiché sono informazione sull’informazione. La relazione, infatti,
può essere espressa anche in modo non verbale (gridando e/o sorridendo) ed anche il contesto in cui
ha luogo la comunicazione influisce ulteriormente a chiarire la relazione. Rispetto al rapporto
contenuto – relazione, la relazione è un’informazione sul contenuto, ovvero su come esso deve essere
assunto, ed è perciò ancora meta-comunicazione. Una confusione tra i due livelli può creare paradossi.
Ogni comunicazione implica un impegno e quindi definisce il modo in cui il trasmettitore considera la
sua relazione con il ricevente. Una comunicazione non solo trasmette informazione, ma al tempo
stesso impone un comportamento. Ne deriva, anche in questo caso, una possibile applicazione pratica:
se do un’informazione in modo arrogante,scostante, critico ciò che arriva al ricevente è il livello di
disconferma e rifiuto e posso suscitare una reazione aggressiva o passiva; comunque il ricevente
risponderà a questo livello.
Terzo assioma: La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di
comunicazione tra i comunicanti.
I comunicanti segmentano il loro scambio in unità di comunicazione dotate di senso e chiusura
attraverso l’uso della punteggiatura; essa organizza gli eventi comportamentali dell’interazione in
corso. Realtà diverse dovute ai modi diversi di punteggiare la sequenza sono alla radice di
innumerevoli conflitti di relazione. Un’altra caratteristica fondamentale della comunicazione riguarda
l’interazione tra i comunicanti. La comunicazione può essere considerata come una sequenza
ininterrotta di scambi che alcuni teorici hanno definito come punteggiatura della sequenza di eventi.
Possiamo, perciò, aggiungere un terzo assioma della comunicazione: la natura di una relazione
dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti. In quest’ottica, la
comunicazione si configura come un processo circolare in cui gli organismi coinvolti punteggiano la
sequenza in modo che sembri che l’uno o l’altro abbia iniziativa o che si trovi in posizione di
dipendenza, stabilendo tra di loro ben precisi modelli di scambio. Diventa, dunque, evidente che la
punteggiatura organizza gli eventi comportamentali, diventando vitale per le interazioni in corso. Ne
consegue un’indicazione di possibile applicazione pratica: per risolvere una disfunzionalità, occorre
saper ascoltare il punto di vista dell’altro e ricercare un’integrazione delle diverse punteggiature.
Quarto assioma
Quarto assioma: Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico.Il
linguaggio numerico ha una sintassi logica assai piu’ complessa e di estrema efficacia, ma manca di
una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma
non ha alcuna sintassi adeguata per definire la natura della relazione.
La comunicazione verbale (numerica) necessita del supporto del messaggio non verbale per evitare
possibili fraintendimenti. Il linguaggio non verbale contiene elementi analogici che si trasmettono
attraverso la postura, la gestualità, il tono della voce, la mimica e che corrispondono, in parte, a
universali del comportamento umano, in parte a codici culturalmente definiti. Ne consegue
un’indicazione di possibili applicazione pratica: è utile ascoltare il livello non verbale e riconoscere se
trasmettiamo messaggi rispettosi della cultura del ricevente in una posizione paritaria.
Quinto assioma: Tutti gli scambi di comunicazione possono essere definiti simmetrici o complementari,
a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza tra i due comunicanti.
Il linguaggio può configurarsi come modulo numerico o come modulo analogico. Si parla di modulo
numerico con riferimento alla comunicazione verbale e ogniqualvolta il linguaggio genera un rapporto
tra nome e cosa nominata arbitrario, trasmette l’aspetto di contenuto, ha una sintassi logica completa
ed efficace e manca di una semantica adeguata (relazione). Si parla, invece, di modulo analogico con
riferimento alla comunicazione non-verbale (ivi compresi gesti, posizioni del corpo, espressioni, ritmi
della voce) e ogniqualvolta il linguaggio genera un rapporto tra rappresentazione e cosa rappresentata
basato su analogia, trasmette l’aspetto di relazione, ha una semantica completa e manca di una
sintassi adeguata (relazione). L’uomo ha la necessità di combinare questi due linguaggi tra loro e di
tradurre dall’uno all’altro. Uno scambio di comunicazione è:
1. simmetrico, quando è basato sull’uguaglianza ed è, dunque, paritario e democratico. Uno scambio
comunicativo è detto simmetrico quando ciascuno dei due dialoganti tende a rispecchiare il
comportamento dell’altro e a minimizzare la differenza, tendendo all’uguaglianza. I due comunicanti
sono sullo stesso piano e, quindi, in equilibrio tra loro;
2. complementare, quando è basato sulla differenza e sul rapporto autorità/subordinazione. Uno
scambio comunicativo è complementare, quando il comportamento di uno completa quello dell’altro e
si mantiene la differenza. I due comunicanti hanno due diverse posizioni per cui uno prevale sull’altro.
La relazione tra due individui non è comunque mai definitiva, ma tende al contrario a mutare, anche
senza l’intervento di fattori esterni. All’interno delle relazioni simmetriche possiamo, poi, distinguere
altri due tipi di interazione:
1. relazioni simmetriche-simmetriche, in cui i due comunicanti sono in costante competizione per la
conquista della posizione dominante;
2. relazioni simmetriche-reciproche, in cui i due comunicanti assumono alternativamente la posizione
dominante, a seconda delle situazioni.
Ne consegue un’indicazione di possibile applicazione pratica: essere consapevoli del tipo di relazione
che si vuole instaurare permette di essere chiari nel messaggio che si invia e di evitare sgradevoli
conflitti di ruolo o lotte di potere.
Gli assiomi della pragmatica della comunicazione conducono al fenomeno dell’irreversibilità dell’atto
comunicazionale: una volta che il messaggio è stato inviato e che ha prodotto i suoi effetti, non lo si
può più cancellare. L’esperto di comunicazione si addestra a prestare attenzione, durante ogni fase
della comunicazione in corso, al feedback, ovvero all’insieme delle risposte, verbali e analogiche,
fornite dall’interlocutore durante la relazione comunicazionale. I fattori che influenzano il grado di
efficacia di una comunicazione sono:
1. l’identità dei comunicanti, che a sua volta comprende l’identità personale (età, sesso, genere, etnia,
caratteristiche fisiche), sociale (ruoli sociali svolti all’interno della famiglia, di una classe sociale o di un
ceto), professionale (aspetti legati alla professione esercitata, allo status raggiunto e all’autorità
riconosciuta) e spirituale (aspetti relativi alla fede professata, ai valori etici, al credo o sentimento
religioso);
2. la relazione tra gli attori comunicanti, che contribuisce a qualificare alcuni aspetti dell’identità.
Quando viene esercitato un ruolo, gli attori della comunicazione recitano delle parti (Goffman);
3. il contenuto della comunicazione, che richiede trattazioni diverse a seconda del livello culturale degli
interlocutori e delle loro implicazioni psicologiche ed emotive;
4. il linguaggio, canale dell’espressione soggettiva utile a rappresentare quella realtà che si vuole
condividere. La scelta del lessico congiunge le modalità espressive con contenuti cognitivi e processi
emotivi;
5. la congruenza tra linguaggio verbale e linguaggio analogico, tra quello che si dice e come lo si
esprime, tra le parole pronunciate e i toni e i gesti che lo accompagnano;
6. il canale di trasmissione, che ha il potere di influenzare il messaggio (per Marshall Mc Luhan il
mezzo è il messaggio): così, una comunicazione vis a vis è diversa da una telefonica, via Internet o
scritta;
7. il contesto, dimensione spazio-temporale condivisa dai partecipanti allo scambio comunicativo nella
comunicazione interpersonale. Ogni processo di comunicazione va inserito nella matrice contestuale in
cui si svolge;
8. gli obiettivi, ovvero lo scopo della comunicazione, inteso in senso lato, è quello di aumentare la
condivisione, lo scambio, la reciprocità di cognizioni ed emozioni;
9. la flessibilità delle strategie utilizzate, da adottare in relazione agli obiettivi posti.
La comunicazione analogica non può essere isolata dalla comunicazione verbale: le due forme di
comunicazione, verbale e non verbale, costituiscono un insieme non separabile, se non artificialmente,
per fini didattici. La comunicazione non verbale comprende:
1. la postura, ovvero il modo di disporre nello spazio le parti del corpo, che consente di distinguere la
funzione comunicativa da quella espressiva;
2. la prossemica, che indica due aspetti del modo di collocarsi e di presentarsi socialmente e di
relazionarsi fisicamente con le altre persone: l’uso dello spazio, la prossimità in termini di
vicinanza/distanza e la posizione del corpo, di fianco o di fronte;
3. le espressioni del viso, un insieme di segnalazioni involontarie che indicano le principali reazioni
emotive (gli occhi non sono bugiardi);
4. i movimenti e i gesti delle braccia e delle mani, che accompagnano il linguaggio enfatizzando e
punteggiando il messaggio parlato;
5. le comunicazioni mimiche o cinesiche, che determinano atti linguistici in quanto gesti emblematici
(ad es. alzare la mano per chiedere parola), descrittivi (gesti che scandiscono le parti salienti del
discorso illustrando in modo più forte concetti espressi verbalmente), di regolazione (ad es.
ondeggiare la mano per attenuare la forza di un concetto), di adattamento (posizionamento del corpo
per dominare stati d’animo o adeguare la propria espressione al contesto), di manifestazione affettiva
(ad es. una carezza);
6. la comunicazione paraverbale, che riguarda la prosodia, i toni, il tempo, il timbro e il volume della
voce. La paralinguistica studia i fenomeni collaterali (para), concomitanti all’enunciazione verbale. Le
modalità secondo cui ogni proposizione può essere enunciata sono:
• il tono, indicatore dell’intenzione e del senso che si da a quello che si dice, mediante il quale si può
esprimere entusiasmo, disappunto, interesse, noia, coinvolgimento, apatia, apprezzamento, disgusto;
• il volume, che riguarda prevalentemente l’intensità sonora, il modo di calibrare la voce in base alla
distanza dall’interlocutore;
• il tempo, ovvero le pause, la lentezza o la velocità assoluta, che possono servire come fattori che
sottolineano, accentuano o sfumano il significato verbale;
• il timbro, ovvero l’insieme delle caratteristiche individuali della voce (gutturale, nasale, soffocata): è
il colore della voce;
• la comunicazione verbale, costituita dal linguaggio, strumento di cui ci si serve per tradurre
l’esperienza interna in concetti e per esprimere i propri pensieri e trasformarli in processo
interpersonale e sociale.
Il processo di percezione degli stimoli esterni subiscono interferenze causate da:
1. filtri neuro-fisiologici, di natura genetica, che limitano la mera capacità percettiva;
2. socio-culturali, che condizionano la capacità cognitiva e derivano dall’appartenere a una data
comunità, cultura, gruppo etnico, religione, zona geografica;
3. psicologici personali, che possono condizionare il potenziale cognitivo, emotivo ed esperienziale
dell’individuo.
La linguistica distingue il piano denotativo, che indica la relazione tra una parola e l’oggetto a cui fa
riferimento in termini meramente referenziali, e il piano connotativo, che incorpora un giudizio di
valore sulla forza evocativa che la parola contiene in sé. Le parole rappresentano la più piccola unità
dell’aspetto esecutivo del processo linguistico (Vygotsky). Ciascuna parola contiene caratteristiche
distintive che possono essere utilizzate in modo diverso a seconda della forza con cui si ha intenzione
di esprimere le proprie intenzioni. Le parole possono essere descrittive (descrivono fenomeni
osservabili), valoriali (assegnano valore ad oggetti, persone, stati d’animo e sono generalmente
astratte), interpretative (sono meramente soggettive e si basano sui processi di attribuzione e
categorizzazione). La scelta delle parole forma il registro linguistico. L’atto linguistico riguarda i mezzi
linguistici, che le persone usano per compiere le più comuni azioni sociali, ed evidenzia il carattere
d’azione del linguaggio, che ha la capacità di provocare effetti sul ricevente.
Capitolo 1 La comunicazione: fondamenti
Teorie dei segni, dell’informazione e della comunicazione
Il linguaggio è contemporaneamente lo strumento e il modo fondamentale di comunicazione, utilizzato
da ogni uomo per la costruzione di rapporti di interazione con gli altri uomini e con il mondo in
generale. L’unità di base di ogni tipo di linguaggio è il segno: si definisce “segno” ogni cosa che sta per
qualcos’altro e serve a comunicare questo qualcos’altro a qualcuno. In base ai criteri dell’intenzionalità
e della motivazione relativa, distinguiamo almeno cinque diverse tipologie di segni:
1. indici (o sintomi), motivati naturalmente/non intenzionali, basati sul rapporto causa-effetto (ad es.
starnuto per avere raffreddore);
2. segnali, motivati naturalmente/usati intenzionalmente (ad es. sbadiglio involontario per noia);
3. icone (dal gr. eikón, immagine), motivati analogicamente/intenzionali, basati sulla similarità di
forma e struttura, riproducono le proprietà dell’oggetto designato (ad es. le simbologie presenti sulle
guide turistiche);
4. simboli, motivati culturalmente/intenzionali (ad es. colore nero per lutto);
5. segni propriamente detti, non motivati/intenzionali (ad es. comunicazione gestuale).
Procedendo dagli indici ai segni propriamente detti, la motivazione che lega il qualcosa al qualcos’altro
del segno è sempre più convenzionale e meno diretta, con conseguente aumento della specificità
culturale del segno. Su un primo versante gli indici, essendo fatti di natura, hanno per definizione un
valore universale e rimangono uguali per tutte le culture in ogni tempo; sul versante opposto, i segni
propriamente detti dipendono da ogni singola tradizione culturale (ad es. il termine gatto è un segno
linguistico propriamente detto, prodotto intenzionalmente per riferirsi ad un animale nella specifica
cultura linguistica italiana). Il segno è, dunque, l’unità fondamentale della comunicazione (dal latino
communis, mettere in comune, rendere comune, trasmette informazioni). Si può parlare di
comunicazione utilizzando un’accezione molto larga o più ristretta del termine. Secondo una prima ed
ampia accezione, ogni fatto culturale, compresi i fatti di natura filtrati dell’esperienza umana, veicola
informazioni che possono essere interpretate da qualcuno. Secondo un’accezione più ristretta, si ha
comunicazione quando c’è un comportamento prodotto da un’emittente al fine di far passare
dell’informazione, percepito da un ricevente come tale. Il coinvolgimento del concetto di intenzionalità
differenzia la comunicazione dal semplice passaggio di informazione. In maniera ancor più rigorosa, è
verosimile individuare tre possibili categorie nel fenomeno generale della comunicazione:
a) Comunicazione in senso stretto:
forte emittente intenzionale es. linguaggio verbale umano, sistemi
ricevente intenzionale di comunicazione artificiali
b) Passaggio di informazioni:
“codice”: emittente non intenzionale es. parte della comunicazione non
ricevente intenzionale verbale umana (postura)
c) Formulazione di inferenze:
debole nessun emittente
(è solo presente un “oggetto culturale”) es. modi di vestire
interpretante
Teorie dei segni
- Tommaso D´Aquino
- Immanuel Kant
- Umberto Eco
- Ferdinand de Saussure
- Charles Sanders Peirce
- Thomas Albert Sebeok
- Gottlob Frege
- Teorie culturologiche
La teoria dell´informazione
- Misura dell´informazione
- Comunicazione e informazione
Teorie della comunicazione
- Karl Bűhler
- Roman Jacobson
- Claude Shannon e Warren Weaver
- Ferdinand de Saussure
- John L. Austin
- John Searle
- Paul Grice
- Schema di un sistema interattivo della comunicazione
L´ambiente o contesto
I modelli comunicativi
- Il modello matematico dell´informazione
- Il modello semiotico-informazionale
- Il modello semiotico-testuale
- Il modello semiotico-enunciazionale
Gli assiomi della comunicazione della Scuola di Palo Alto
- Primo assioma
- Secondo assioma
- Terzo assioma
- Quarto assioma
- Quinto assioma
Stili di comunicazione e comunicazione indiretta
Comunicazione persuasiva e negoziazione del conflitto
- Comportamento relazionale positivo
- Il conflitto
Paul Grice
Ultimo contributo fondamentale da considerare è quello offerto da Paul Grice (1913-1988), filosofo
che, con la sua opera, ha permesso un ulteriore evoluzione della teoria del significato e della
comunicazione. Il cuore della riflessione di Grice è rappresentato dall’individuazione di alcune regole di
base che governano la conversazione tra individui e che sottostanno all’unico e imprescindibile
principio della cooperazione, espresso in questi termini:
“Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene,
dall’intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato.”
Le regole della conversazione sono state riunite da Grice in quattro massime fondamentali:
1. massima della quantità, che recita espressamente:
“fornisci l’informazione necessaria, né più, nè meno.”
Secondo tale massima, il contributo che viene dato da ciascun partecipante alla conversazione deve
essere informativo quanto richiesto. Non ci si aspetta che uno o tutti i partecipanti diano
un’informazione sovrabbondante o inferiore alle aspettative;
2. massima della qualità, che recita espressamente:
“sii sincero, fornisci informazione veritiera, secondo quanto sai.”
Secondo tale massima in genere non si dovrebbe dire ciò che si ritiene falso, o ciò di cui non si hanno
prove sufficienti, o lo scopo della comunicazione fallirebbe;
3. massima di relazione, che recita espressamente:
“sii pertinente.”
Secondo questa massima il contributo informativo di un enunciato dovrebbe essere pertinente con la
conversazione;
4. massima di modalità, che recita espressamente:
“sii chiaro.”
L’enunciato dovrebbe essere chiaro, poco ambiguo, breve e ordinato. Infatti questa massima,
contrariamente alle altre tre, non si riferisce a quanto detto bensì al modo in cui questo viene esposto.
Le massime costituiscono delle norme comportamentali che il parlante generalmente segue, ma che
possono anche essere sistematicamente violate, in casi particolari, per ottenere effetti di ironia o
sarcasmo o per realizzare significati diversi dal semplice significato composizionale di un enunciato.
Nel caso in cui tali massime siano violate entrano in gioco le implicature conversazionali (ad es. se
Luigi dice Monica è stata proprio carina con me e in realtà Monica non si è comportata in modo gentile,
Luigi sta deliberatamente violando la massima di qualità per realizzare un effetto di sarcasmo). Tutti i
comportamenti derivanti dall’osservanza delle massime o dalle loro violazioni o sfruttamenti danno
luogo a delle implicature conversazionali, che consistono in informazione supplementare derivante dal
confronto di ciò che il parlante ha detto con la sua supposta aderenza al principio di cooperazione e
alle massime. Se, ad esempio, dico al mio interlocutore Quella signora è una vecchia ciabatta e il mio
interlocutore mi risponde dicendo Che bella giornata oggi, non è vero?, dal fatto che egli non sta
rispettando la massima di relazione (la sua risposta infatti non è pertinente) e dall’assunto che
comunque stia rispettando il principio di cooperazione (non ho motivo per ritenere che non lo stia
facendo), inferisco che la sua violazione della massima è deliberata, non accidentale, e quindi egli sta
implicando conversazionalmente di non voler pronunciarsi sulla signora in questione. Le implicature
conversazionali sono tali in quanto essenzialmente collegate a certe caratteristiche generali del
discorso e si distinguono infatti da altri tipi di implicature, principalmente dalle implicature
convenzionali, che invece sono legate al significato convenzionale delle parole usate nel discorso (ad
esempio l’uso del ma ci suggerisce che le informazioni che si trovano alla sua sinistra e alla sua destra
sono in contrasto tra di loro). Il concetto di implicatura conversazionale è fondamentale in pragmatica
per calcolare l’informazione proveniente dal rapporto tra il linguaggio e il contesto in cui viene usato.
Stili di comunicazione e comunicazione indiretta
Per scelta stile si intende la tendenza a privilegiare un modo di esprimersi e di relazionarsi piuttosto
che un altro, che può essere utile in alcune circostanze e disfunzionale in altre. Esistono diversi stili di
comunicazione:
1. stile passivo, caratterizzato da un atteggiamento di minimizzazione delle proprie posizioni e dalla
rinuncia a esprimere le proprie idee. Lo stile passivo può essere utile quando non abbiamo intenzione
di dedicare energie e ci fidiamo dell’interlocutore;
2. stile aggressivo, caratterizzato da atteggiamenti tesi a mostrare la superiorità di chi parla nei
confronti del suo interlocutore. Nello stile aggressivo c’è la tendenza a ipervalutare se stessi e a
sottovalutare gli altri. Lo stile aggressivo può essere utile quando vogliamo far valere i nostri diritti;
3. stile manipolativo, caratterizzato da atteggiamenti tesi a raggirare l’altra persona con l’intenzione di
ottenere una risposta a proprio vantaggio. La manipolazione porta ad alterare le informazioni, a
trasmetterle in modo parziale, non pertinente o congruente, a privilegiare ambiguità espositive. La
manipolazione delle emozioni riguarda l’adozione di comportamenti di seduzione, di dissimulazione dei
propri sentimenti, emozioni e pensieri tesi a ottenere qualcosa dall’interlocutore, che crede invece alla
veridicità di quanto dichiarato. Lo stile manipolativo può essere utile quando abbiamo qualcosa da
nascondere o da proteggere;
4. stile assertivo, caratterizzato da atteggiamenti tesi a far valere le proprie opinioni, meriti,
sensazioni, diritti, nel pieno riconoscimento e rispetto di quelli degli altri. E’ utile usare lo stile
assertivo quando vale la pena instaurare un rapporto basato sul riconoscimento dei propri e altrui
diritti.
A volte chi parla può voler dire ciò che esprime letteralmente; altre volte può voler sottintendere un
contenuto opposto, come nel caso dell’ironia; altre volte ancora desidera inviare richieste implicite che
spera l’interlocutore intuisca. In quest’ultimo caso, chi parla si avvale di atti linguistici indiretti, che
consentono di ottenere la risposta desiderata senza esprimerla apertamente. Negli atti linguistici
indiretti, chi parla comunica all’ascoltatore diversi messaggi contemporaneamente, fidandosi del
bagaglio di conoscenze linguistiche e relazionali dell’ascoltatore, del suo intuito, della sua capacità di
rispondere in modo empatico. Alcuni tipi di messaggi indiretti studiati dai linguisti pragmatici sono:
1. i postulati conversazionali, ovvero modi convenzionali, espressioni idiomatiche di porgere richieste
che mascherano l’intenzione imperativa o di porre domande senza sembrare intrusivi;
2. i presupposti linguistici, che sono la parte sommersa del discorso, in quanto stanno prima e sotto
ciò che viene pronunciato, e fungono da fondamenta, in quanto sorreggono il sovrastante discorso
manifesto;
3. l’ambiguità, un elemento strutturale del linguaggio, ovvero la tecnica di esprimere più significati
contemporaneamente;
4. luoghi comuni e truismi, ovvero un complesso di affermazioni ovvie con cui si può intendere altro
rispetto al detto.
Nell’ambito retorico, la metafora è una figura che esprime una similitudine consistente nel
trasferimento a un oggetto del nome proprio di un altro, stabilendo un rapporto di analogia. La
metafora opera uno spostamento di significato attraverso una parentela di somiglianze.
Comunicazione persuasiva e negoziazione del conflitto
La comunicazione persuasiva è quel tipo di comunicazione che ha come obiettivo quello di stimolare
nell’ascoltatore l’adesione alla tesi contenuta nel messaggio, usando la forza della parola che fa
accedere senza costringere, che obbliga senza creare un vincolo di necessità. Il linguaggio persuasivo
è prevalentemente indiretto, sensorialmente specificato, suggestivo, evocativo, analogico, metaforico.
La forza persuasiva si fonda sulla conoscenza dell’interlocutore, delle sue aspirazioni, delle sue
debolezze, sull’utilizzo delle regole retoriche. I fattori di cui si avvale un messaggio persuasivo sono:
1. fattori strutturali, che riguardano l’organizzazione del discorso, la scelta dei contenuti e delle
argomentazioni;
2. fattori valoriali, che si riferiscono ai valori universali condivisi dall’ascoltatore e dal parlante;
3. fattori affettivi, che si riferiscono alle emozioni come leva per l’azione.
La persuasione può essere centrata:
1. sul persuasore, quando chi parla utilizza se stesso come strumento persuasivo, quando crede che
basta la sua presenza per persuadere (attrattiva, forza espressiva, potere);
2. sul contenuto, quando chi intende persuadere si affida a un’esposizione sicura, con riferimenti
precisi, affidabili, con collegamenti pertinenti, seguendo più la logica dei fatti che quella delle idee e
delle ideologie (metodo, dimostrazione, evidenza);
3. sul persuadendo, quando il relatore bada alle eventuali relazioni degli interlocutori e tenta di
persuaderli in diversi modi (coinvolgimento, manipolazione).
La negoziazione è un processo in cui due o più interlocutori si impegnano per risolvere uno stesso
problema, partendo da interessi opposti rispetto alle soluzioni, da posizioni di potere reciprocamente
relative. Il processo negoziale stimola un continuo e mutevole confronto non solo sugli obiettivi della
trattativa, ma anche sulla volontà di perseguirli, sull’atteggiamento negoziale che gli interlocutori
assumono, sulle abilità personali, sull’equilibrio di potere percepito e attribuito, legittimato e
riconosciuto e sulla gestione del conflitto. Si può gestire il conflitto con diversi approcci:
1. approccio collaborativo, che richiede un confronto aperto, un processo di negoziazione basato sul
principio Io vinco/Tu vinci;
2. approccio di tipo competitivo, che si avvale di tecniche di persuasione e di manipolazione;
3. approccio compromissorio, che opera espliciti richiami ad obiettivi di ordine superiore o ricorre a
terzi elementi in gioco;
4. approccio di tipo accomodante, che è un approccio passivo in cui si è pronti a concedere o a cedere
posizioni;
5. approccio di tipo confronto o collaborazione, in cui attraverso il confronto face-to-face, deponendo
le armi, si può trovare insieme la giusta soluzione che consente ad entrambi di vincere (win-win). In
questo caso, entrambi i contendenti hanno interesse a rafforzarsi, eliminando al più presto il conflitto,
perché sono di pari livello ed in fondo si stimano reciprocamente;
6. approccio di tipo compromesso, adottando il quale entrambi portano a casa qualcosa, cedendo su
altri punti. E’ un particolare risultato del confronto, dove si pratica il concetto del “dout des”. E’ quella
particolare situazione in cui in qualche modo entrambi i contendenti perdono (lose-lose);
7. approccio di tipo accomodante, in cui si cerca di contenere l’emotività puntando sulle opinioni
comuni e accantonando le divergenze. Tale approccio non risolve necessariamente il conflitto, ma
comporta un abbandono delle ostilità in quanto si intravede una soluzione possibile. Di solito, questo
approccio si sceglie quando il gioco non vale la candela e risulta più conveniente ristabilire l’armonia;
8. approccio di tipo forzato, che si realizza quando una parte cerca di imporre una soluzione ad un
altra, magari ad un livello molto basso. Se il conflitto viene portato ai livelli gerarchici superiori,
automaticamente si crea un vinto ed un vincitore (win-lose). Si utilizza questo approccio quando si è
veramente sicuri di essere nel giusto, si vuole trarre un vantaggio, la posta è alta, si agisce per
principio, la decisione è urgente e, comunque, non si teme per la compromissione dei rapporti
interpersonali;
9. approccio del tipo abbandono, che è un modo per rinviare un problema. Questa scelta è utile
quando si sa di non poter vincere, la posta è bassa, serve prendere tempo, si vuole innervosire il
contendente, si vuole restare neutrali o lasciar decantare il problema, vincendo semplicemente
aspettando (Confucio).
Comportamento relazionale positivo
Il conflitto
John Searle
John Searle (1932), anche lui filosofo analitico del linguaggio, elabora la sua teoria a partire dalla
critica alla tassonomia di Austin appena analizzata, non costruita, a suo dire, in base a principi chiari,
tanto che si fa confusione tra verbi illocutori e atti illocutori, vi sono sovrapposizione tra le classi
verbali e troppa eterogeneità al loro interno. Searle pone come criterio centrale della sua
classificazione il concetto di scopo illocutorio. Lo scopo illocutorio è parte integrante della forza
illocutoria, ma ne è distinto. Per esempio, richiesta e comando hanno lo stesso scopo illocutorio, cioè il
far fare qualcosa al destinatario, ma la loro forza è diversa. Searle propone cinque categorie di atti
illocutori:
1. gli atti rappresentativi hanno come scopo quello di impegnare chi enuncia alla verità della
proposizione espressa. Verbi che denotano atti di questa classe sono, per esempio, suggerire,
ipotizzare, asserire;
2. gli atti direttivi hanno come scopo illocutorio quello di costituire dei tentativi di indurre il
destinatario a fare qualcosa. Verbi che denotano questa classe sono, per esempio, ordinare,
comandare, invitare, sfidare, provocare;
3. gli atti commissivi hanno come scopo quello di impegnare chi enuncia ad assumere una condotta
futura. Un verbo che denota un atto di questa classe è, per esempio, promettere;
4. gli atti espressivi hanno come scopo quello di esprimere lo stato psicologico a proposito di una
proposizione la cui verità è data per scontata. Verbi che denotano questa classe sono, per esempio,
chiedere scusa e congratularsi;
5. gli atti dichiarativi, se eseguiti felicemente, fanno corrispondere contenuto proposizionale e realtà.
Essi provocano dei cambiamenti di status nelle persone o negli oggetti a cui si riferiscono, grazie agli
indicatori di forza illocutoria in essi contenuti. Verbi che denotano questa classe sono, per esempio,
scomunicare, battezzare.
Searle introduce, inoltre,il concetto di atto linguistico indiretto, ovvero quell’atto che, pur
appartenendo ad una data classe, ha lo scopo illocutorio tipico di un’altra. Per esempio, se un parlante
dice Sono stanco di sentire menzogne, non sta facendo solo un’affermazione, ma sta anche invitando
o ammonendo il destinatario a cambiare comportamento, cioè sta proferendo un atto direttivo
indiretto. In casi come questo, il parlante comunica più del contenuto semantico della proposizione,
facendo appello ad un bagaglio di conoscenze condivise con il destinatario ed alla sua capacità di
trarre delle inferenze. Sinora abbiamo considerato gli atti linguistici presi singolarmente come unità.
Nei discorsi, però, gli atti linguistici sono organizzati in sequenze e per essere compresi devono essere
interpretati come un solo atto linguistico complessivo, una sorta di atto linguistico globale o macro-
atto linguistico. La sua comprensione e interpretazione richiede all’ascoltatore, o lettore, capacità di
riduzione, integrazione e riorganizzazione dell’informazione ricevuta attraverso operazioni non solo
semantiche, ma anche pragmatiche. Individuare l’atto linguistico globale contribuisce a comprendere
la coerenza di un discorso, che dipende non solo dalle connessione semantiche o proposizionali, ma
anche da quelle relative proprio agli atti linguistici tra loro. Come semanticamente ogni discorso ha un
suo argomento o tema, così pragmaticamente è individuabile uno scopo del macro-atto linguistico.
Considerando il discorso nella sua globalità, è possibile anche interrogarsi sul sistema di valori e sul
modello interpretativo che l’autore usa e che, per questa via, fa implicitamente accettare anche a chi
legge. Attraverso lo studio degli atti linguistici possiamo capire come un discorso funziona, con quali
strategie è organizzato, qual è il rapporto instaurato tra l’enunciatore ed il destinatario. Per esempio,
un discorso costruito su atti verdittivi costruisce un modello dotato di una certa competenza e autorità
per esprimere giudizi di valore. Se un discorso, è basato su atti esercitivi, all’enunciatore è attribuita
una competenza modale di potere e al destinatario quella di dovere. Se un discorso è, invece,
caratterizzato da atti comportativi che esprimono lo stato d’animo dell’enunciatore, questo discorso è
fortemente emotivo e tende a suscitare l’adesione e la partecipazione dei destinatari ai sentimenti
dell’enunciatore stesso.
Ferdinand de Saussure
Per Ferdinand de Saussure (1957 – 1913), il segno è un’entità unitaria ma comprendente al suo
interno due componenti: il significato, ovvero il concetto a cui il segno fa riferimento, e il significante,
veicolo per il precedente. Significato e significante sono entità psichiche, che esistono nella coscienza
degli interagenti per suo tramite, ma non hanno una consistenza oggettiva e materiale. All’interno del
segno, il rapporto tra significato e significante è arbitrario, definito attraverso una convenzione: ogni
segno è tale e specifico in quanto diverso da ogni altro, sia sul versante del significante che su quello
del significato. Il concetto di arbitrarietà è presupposto imprescindibile sia per la definizione del
significante che del significato. Ad un primo livello, quello del significante, ogni specifica lingua
costruisce arbitrariamente una relazione di significazione tra una combinazione di suoni e una certa
porzione di realtà. Ad un secondo livello, ogni lingua fissa i significati in maniera arbitraria. Così, la
lingua italiana attribuisce una diversa cadenza semantica ai termini legna, legname e bosco; la lingua
francese racchiude nel solo termine bois l’intera valenza semantica dei precedenti di lingua italiana. In
definitiva, ogni lingua storico-naturale categorizza in modo differente la realtà, sia sul versante del
significato che su quello del significante. L’arbitrarietà come regola di ogni lingua nella fissazione di
suoni e concetti dipende anche e soprattutto da tutta una serie di priorità, imposte dalla realtà
contestuale: vi sono delle necessità pratiche che inducono le culture a organizzare una specifica
libreria di concetti, un vero e proprio apparato espressivo, che permette la comunicazione tra gli
appartenenti alla comunità di turno. Ad esempio, le necessità contestuali hanno reso necessario alla
comunità eschimese la codificazione di significanti diversi per distinguere diverse tipologie del
fenomeno che in lingua italiana è individuato sempre e solo dal termine neve. Ad un livello più elevato
rispetto a quello del segno, parlando delle unità fondamentali del linguaggio, un’altra distinzione
importante fatta da de Saussure è quella relativa ai concetti di langue e parole. Il concetto di langue
può essere assimilato a quello di codice. E’ un’istituzione sociale, perché, per dirla alla Durkheim, è
coercitiva e trascendente l’individuo. Una lingua non può essere controllata da singole persone perché
presuppone un patto stipulato tra tutti i membri di una società intera: non a caso sono in molti a
pensare che il linguaggio sia l’istituzione sociale più democratica che esiste, basandosi
sull’osservazione ovvia che nessuna lingua naturale è mai nata per contratto. La langue è una sorta di
grammatica presente a tutti i livelli linguistici (suoni, sillabe, frasi) a cui tutti i parlanti di una lingua
fanno riferimento, molto spesso inconsapevolmente. E’ un insieme di regole socialmente condivise,
che costituiscono le forme della lingua. E’ esterna all’individuo e si acquisisce passivamente. La parole,
invece, può essere intesa come il momento della parlata, l’atto fonatorio in sé e per sé. Attraverso il
parlare, il singolo individuo fa sua la langue. L’atto della parlata è prettamente individuale, creativo,
attivo e vario, ma pur sempre prodotto in funzione di un codice (langue). Ogni lingua è come una
macchina che permette al suo guidatore di andare dove desidera: il cofano, il telaio, l’apparato esterno
è la langue, mentre l’individuo alla guida rappresenta la parole, a cui spetta decidere dove andare con
il mezzo a disposizione. Un aspetto davvero interessante è che la langue è composta da pochi
elementi mentre la parole da molti. In italiano, ad esempio, ci sono meno di trenta suoni, vocali e
consonanti, utilizzati in combinazioni differenti e potenzialmente infinite: la langue è pertanto formale
e invariante, la parole sostanziale e variabile. Al di là degli aspetti appena citati, sono diverse le
caratteristiche specifiche che permettono di distinguere tra langue e parole:
Caratteristiche distintive di langue e parole
LANGUE PAROLE
sociale VS individuale
passiva attiva
esterna interna
formale sostanziale
pochi elementi molti elementi
invariante variabile
John L. Austin
Soffermandoci in modo particolare sulla comunicazione verbale, ogni enunciato prodotto costituisce un
atto linguistico. La più importante teoria degli atti linguistici è stata elaborata da John L. Austin (1911
– 1960), filosofo analitico del linguaggio. Il concetto centrale della filosofia analitica del linguaggio è
che parlare è agire. Sulla base di tale assunto, il fenomeno linguistico viene considerato dal punto di
vista pragmatico, cioè si considerano gli enunciati
“in quanto prodotti da proferimenti del parlante in situazioni determinate. Proferimenti che
equivalgono ad atti di dire qualcosa, ma anche, e in vari sensi, a delle azioni “.
Austin intuì che produrre un enunciato vuol dire fare contemporaneamente tre cose distinte, compiere
tre atti: di qui la possibilità di descrivere l’atto linguistico su tre livelli differenti, a partire dalla sua
formulazione sino ai suoi effetti nel contesto extralinguistico.
1. Ad un primo livello individuiamo l’atto locutivo, o locutorio, che consiste nel formare una frase in
una data lingua, una proposizione con la sua struttura fonetica, grammaticale e lessicale (ad es.
Francesco mangia come struttura SN + SV, costituita da due parole a loro volta create a partire da
specifici fonemi, con un certo significato denotativo,…). Detto altrimenti, l’atto locutorio è l’atto di dire
qualcosa, sia come attività fisica necessaria a produrre l’enunciato, sia come conoscenza della
grammatica della lingua usata, sia come conoscenza del senso e del riferimento dei vocaboli usati.
2. Ad un secondo livello, l’atto illocutivo, o illocutorio, è l’atto che consiste nel dire qualcosa,
nell’intenzione con la quale e per la quale si produce la frase, nell’azione che si intende
convenzionalmente compiere dicendo quell’enunciato (ad es. Francesco mangia nel suo valore di dare
un’informazione, descrivere, fare un’affermazione). Ogni enunciato possiede una propria e specifica
forza illocutiva. Per esempio, una frase proferita da un parlante o scritta da un autore può avere la
forza illocutoria di una promessa, di una minaccia o di una semplice affermazione. Il destinatario
riconosce la forza illocutoria di un atto linguistico per mezzo di indicatori contenuti nei discorsi orali o
scritti. È questo il livello che la filosofia analitica del linguaggio ha maggiormente approfondito e che è
più interessante, se si vuole affrontare un’analisi del discorso.
3. Ad un terzo livello, infine, l’atto perlocutivo, o perlocutorio, è l’atto che consiste nel fare qualcosa,
che produce sempre effetti e conseguenze. Il perlocutivo può essere definito anche come l’atto che
consiste nell’effetto che si provoca, e si ha intenzione di provocare, nel destinatario del messaggio,
nella funzione concreta effettivamente svolta da un enunciato prodotto in una determinata situazione
(ad es. Francesco mangia può valere, da questo punto di vista, come sollievo per gli amici di
Francesco che temono per la sua salute).
La frase Chiuderesti la porta? ha la struttura grammaticale di una frase interrogativa (atto locutivo), il
valore di una richiesta o un ordine (atto illocutivo), l’effetto di ottenere che venga chiusa la porta (atto
perlocutivo), sempre che la sua forza illocutiva riesca a raggiungere l’obiettivo voluto. Perché un atto
linguistico sia appropriato, esso deve rispondere ad alcune condizioni. Per prima cosa, devono essere
soddisfatte alcune condizioni preparatorie che riguardano le conoscenze, i desideri e le credenze del
parlante e del destinatario. Per esempio, una promessa ha come condizione che l’atto riguardi
qualcosa di piacevole per il destinatario, un’asserzione che l’atto riguardi qualcosa che il destinatario
non sa e si presume che voglia sapere. Esistono, poi, vere e proprie condizioni di sincerità, necessarie
in quanto l’atto linguistico è legato convenzionalmente al significato ed alle intenzioni del parlante. Per
esempio, una richiesta è sincera se il parlante vuole effettivamente che il destinatario faccia quanto
richiesto. Vi sono, poi, condizioni essenziali che caratterizzano ogni singolo atto linguistico in modo
specifico. Per esempio, una promessa ha come essenziale che il parlante si assuma un obbligo, un
ordine presuppone come essenziale un voler far fare qualcosa a qualcuno. Infine, vi sono condizioni
sociali che riguardano la posizione sociale di chi compie l’atto e del destinatario. Per esempio, è un
giudice in un processo ad assolvere o a condannare, un superiore in un esercito a dare ordini. Queste
condizioni di felicità di un atto linguistico sono necessarie per un suo successo, il che avviene quando il
destinatario riconosce esattamente il significato voluto dal parlante. Sia nei discorsi orali che in quelli
scritti, possono essere riconosciuti indicatori di forza illocutoria che aiutano a disambiguare un atto
linguistico. Per esempio, in un discorso orale è importante l’intonazione della voce, in un discorso
scritto sono importanti i segni di interpunzione e l’ordine delle parole e, in entrambi i casi, sono
importanti indicatori di forza illocutoria i modi verbali. Tuttavia, non è possibile stabilire la forza
illocutoria di un atto linguistico considerandone solo il contenuto semantico, indipendentemente dal
contesto in cui si trova. Gli indicatori di forza puramente linguistici possono anche essere in contrasto
con le circostanze di proferimento. Il valore illocutorio di un atto è indecidibile a prescindere dal
particolare contesto in cui viene pronunciato, dalle relazioni intercorrenti fra i suoi partecipanti, dai
rapporti gerarchici e di potere che li legano, dalle rispettive credenze, aspettative, desideri e volontà.
Nella sua riflessione teorica, Austin procede ulteriormente, tentando una propria classificazione degli
atti linguistici in :
1. atti verdittivi, che esprimono, in base a prove o ragioni, un giudizio di valore o di fatto. Verbi di
questa categoria sono, per esempio, valutare, giudicare, descrivere, analizzare;
2. atti esercitivi, che esprimono una decisione pro o contro una linea d’azione e tendono a dirigere il
comportamento del destinatario. È il caso di verbi come ordinare, comandare, dare istruzioni, vietare;
3. atti commissivi, che impegnano il parlante ad una certa linea d’azione. È il caso di verbi come
promettere, giurare, garantire;
4. atti espositivi, che servono ad esprimere i propri punti di vista, le proprie argomentazioni e a
chiarificare l’uso o il riferimento delle parole. È il caso di verbi come affermare, negare, accettare,
classificare;
5. atti comportativi, che esprimono le reazioni del parlante a comportamenti od atteggiamenti appena
passati o immediatamente futuri degli altri. È il caso di verbi come chiedere scusa, ringraziare,
maledire
Teorie della comunicazione
Il termine comunicazione deriva dalle parole latine communis e actio. Il termine communis deriva, a
sua volta, da cum + munio ed indica il sentirsi o l’essere obbligati nei confronti di qualcuno; il termine
actio vuol dire, invece, azione. Comunicare, dunque, non vuol dire null’altro che creare un rapporto di
collegamento a ciò che è altro e diverso da sé, sentirsi obbligati in un rapporto comune: espressioni
che trovano la loro principale valenza nel termine relazione. Comunicare significa relazionarsi con
qualcuno, istituire un rapporto dialettico, un incontro con qualcuno che non sia il sé, ma l’altro da sé, e
che in tale rapporto sia attivo e non passivo. Anche il semplice stare al mondo può essere definito
comunicazione, in quanto in ciò è individuabile sempre una posizione di confronto, uno scambio, un
dialogo, non necessariamente verbale e non necessariamente rivolto all’altro uomo. Tra i termini
comunicazione ed informazione la differenza è molto sottile. Possiamo comprendere cosa si intende
per comunicazione e cosa per informazione, introducendo due classi di differenze fondamentali. La
differenza tra le due attività è, prima d’ogni altra cosa, una differenza di mezzi. Seguendo la più
importante teoria sviluppata sul tema, l’informazione è una specie, nel senso che è compresa, nel
genere di attività che chiamiamo comunicazione. Generalmente, trasmettendo un messaggio
informativo si trasmette una notizia. La trasmissione di una comunicazione comprende, invece, varie
modalità specifiche. Una comunicazione può consistere nella modalità sponsorizzazione, promozione,
manifestazione ed altro ancora. Possiamo, poi, cogliere una distinzione relativa al feedback, ovvero
alla retroazione del dato trasmesso. Nell’attività di informazione, il fine che attraverso la trasmissione
di una notizia si vuole raggiungere, è di far conoscere qualcosa a qualcuno. Il feedback, in questo
caso, è utile per poter ottenere quelle informazioni che permettono di valutare e verificare se l’attività
ha raggiunto l’obiettivo e, eventualmente, quale ne è stata l’efficacia. L’attività di comunicazione,
invece, ha l’obiettivo di creare un rapporto tra due referenti, di reciproca crescita ed influenza.
All’attività comunicativa, il feedback è utile per poter valutare quantitativamente e qualitativamente il
cambiamento, ovviamente in senso positivo, che nella relazione i due interagenti hanno maturato. Più
volgarmente, la differenza tra comunicazione ed informazione può essere individuata nel fatto che la
comunicazione consiste in informazione significata, dotata di senso. Per una riflessione più puntuale
sul tema della comunicazione passiamo in rassegna le varie teorie che al riguardo sono state
elaborate.
Karl Bűhler
Roman Jacobson
Claude Shannon e Warren Weaver
Ferdinand de Saussure
John L. Austin
John Searle
Paul Grice
Schema di un sistema interattivo della comunicazione
Karl Bűhler
Karl Bűhler (1879-1963), psicologo e filosofo tedesco, ha teorizzato il modello strumentale del
linguaggio e, in esso, ha individuato l’esistenza di tre elementi posti in relazione tra loro nei processi
comunicativi: un mittente, un destinatario e ciò su cui si comunica (oggetti e fatti). In una situazione
comunicativa e con riferimento ai soggetti che ne sono coinvolti, il segno linguistico assume tre
funzioni di senso, in relazione alle tre componenti fondamentali della comunicazione. Il segno è
simbolo, in virtù della sua corrispondenza a oggetti e fatti; è sintomo (indice, indicium) in rapporto alla
sua dipendenza dall’emittente, della cui interiorità è espressione; è segnale in forza del suo appello
all’ascoltatore, di cui dirige il comportamento esterno o interno. In un processo comunicativo:
1. il mittente esprime con i suoi messaggi il suo stato d’animo, le sue idee, la visione che ha del
mondo e della realtà in generale;
2. il messaggio viaggia dal mittente al destinatario e deve parlare di qualcosa, riguardare la realtà;
3. il destinatario riceve il messaggio, cogliendolo come se fosse un appello.
Il segno può essere sbilanciato verso uno dei tre vertici del triangolo. La funzione appellativa, però, in
forma esplicita o implicita, è sempre presente.
Oggetti e fatti
Rappresentazione
Espressione Appello
Emittente Ricevente
Modello strumentale del linguaggio
Roman Jacobson
Roman Jakobson (1896 – 1982), linguista, riprendendo e ampliando il modello di Bűhler, scompone il
processo della comunicazione in sei elementi principali, a ciascuno dei quali associa una particolare
funzione:
Modello di Jakobson
1. Il contesto è l’universo nel quale avviene la comunicazione, il suo intorno, la situazione nella quale
di fatto si situa la dinamica comunicativa. E’ l’oggetto, l’argomento, il problema a cui ci si riferisce nel
messaggio. Cambiando il contesto, il messaggio può assumere un diverso significato. Al contesto
Jakobson associa la funzione referenziale, mediante la quale è possibile fare riferimento o informare su
un determinato contesto, un oggetto, un argomento o un problema (ad es. l’acqua è limpida, ha una
temperatura di 15°). Da sottolineare la differenza esistente tra il concetto di contesto e quello di
cotesto. Il cotesto, ovvero il testo contiguo alla comunicazione, precedente o successivo, può essere
considerato un particolare caso di contesto.
2. Il messaggio è ciò che il testo, o l’insieme di testi, comunicano o, in senso più largo, l’oggetto
materiale scambiato (suoni, scritti, modi di vestire). La funzione ad esso associata è quella poetica,
ovvero la possibilità di esprimere in modo formalmente raffinato il messaggio (ad es. Chiare, fresche e
dolci acque); è l’attenzione alla forma stessa del messaggio, l’orientamento del messaggio al
messaggio stesso. Jakobson, richiamando lo slogan riferito al presidente americano Eisenhower I like
Ike, fornisce un esempio molto efficace di funzione poetica del messaggio: tale espressione risulta
gradevole all’udito, contiene una rima interna, è efficace e semplice da ricordare.
3. Il mittente (o emittente), è chi produce o origina la comunicazione. La funzione ad esso associata è
quella emotiva, che permette di esprimere pensieri, opinioni, sentimenti (ad es. Che bell’acqua
trasparente, viene voglia di berla).
4. Il destinatario (o ricevente), è colui che riceve e a cui è rivolto il messaggio. La funzione ad esso
associata è quella conativa o persuasiva, quella per cui il mittente si sforza di produrre un effetto sul
destinatario, del tipo convincere, indurre, persuadere a fare, dire, credere qualcosa. (ad es. Bevi
quest’acqua! Sentirai com’è buona e Fresca).
5. Il canale o contatto è il mezzo attraverso il quale il messaggio passa dal mittente al destinatario. Il
canale può essere sia di tipo fisico (ad es. l’aria per la voce), che tecnico (ad es. un cavo). Il canale è
spesso responsabile di problemi di rumore, ovvero di disturbo alla comunicazione, che per lo più
dipendono dalla sua stessa natura (ad es. le interferenze nella radio). Ogni comunicazione può essere
disturbata o addirittura impedita, nel caso del rumore, oppure può essere facilitata e rafforzata, nel
caso della ridondanza. Rumore è un termine tecnico, che fa riferimento a inconvenienti di tipo fisico,
per es. una voce rauca o balbettante da parte dell’emittente, oppure la distrazione o la sordità da
parte del ricevente. Anche quando il termine intende riferirsi, in maniera più traslata, a un codice
troppo difficile o troppo oscuro, o alla mutevolezza eccessiva del referente, si tratta sempre
d’inconvenienti di tipo tecnico. Di fatto, l’esistenza del rumore è una caratteristica da considerare non
solo come un disturbo, ma anche come una qualità che caratterizza la costruzione di un messaggio
secondo un linguaggio specifico anziché un altro. Dunque, è dagli accidenti della comunicazione, dagli
errori e non solo dalle differenze che talvolta un linguaggio ha la possibilità di evolvere e trarre le
caratteristiche più utili per la cultura che ne fa uso. I principali tipi di canale sono:
• canale fisico sonoro, ovvero qualsiasi ambiente in cui è presente l’aria portatrice di vibrazioni
acustiche;
• canale fisico visivo, ovvero qualsiasi ambiente in cui è presente o può passare la luce (ad es. una
sala buia per proiezione cinematografica);
• canale fisico olfattivo, ovvero qualsiasi ambiente caratterizzato dalla trasmissione di odori;
• canale fisico tattile, ovvero qualsiasi materia che trasmette vibrazioni o sensazioni tattili (ad es. il
rilievo nella scrittura braille);
• canale tecnico sonoro, ovvero tutti gli strumenti che trasmettono suono (ad es. telefono, microfono,
radio, cinema);
• canale tecnico visivo, ovvero strumenti come la fotografia e il cinema;
• canale visivo-sonoro-tattile e olfattivo, ovvero le tecnologie di realtà virtuale.
La funzione che Jakobson attribuisce al canale è quella fatica, che permette di verificarne il
funzionamento, di assicurarsi che il canale sia funzionale al trasferimento del messaggio (ad es. Prova
microfono: uno, due, tre…). La funzione fatica della lingua svolge principalmente il compito di
garantirsi che esista una connessione tra emittente e destinatario. Dunque, qualsiasi strategia
pubblicitaria che porti l’attenzione del pubblico sul messaggio, qualsiasi comportamento che creando
una relazione, o rafforzandola, attraverso comportamenti abitudinari ad essa relativi, convalidi la
possibilità di poter avere scambi tra i partecipanti alla relazione, rientra nell’area coperta dalla
cosiddetta funzione fatica. Buona parte di quei comportamenti che, pur esprimendo dei contenuti
specifici, non sono minimamente interessati al comunicarli quanto all’attivare o rafforzare una
determinata rete di rapporti (ad es. il farsi notare dal datore di lavoro o l’intrattenervi colloqui), può
non avere per forza la finalità di scambiarsi dei contenuti, ma anche semplicemente la necessità
formale di mantenere attiva la relazione. La componente fatica è particolarmente presente in tutte le
forme di comunicazione costruite da una società non tanto per trasmettere determinati contenuti,
quanto per garantire il rafforzamento di determinati valori sociali, che fungono da collante tra i
cittadini. Far condividere la partecipazione a rituali e scambi di tipo simbolico è una tradizionale forma
di governo dalle civiltà basate sull’esistenza di miti. Se talvolta può sembrare che l’esistenza in una
società di determinate figure simboliche possa essere un modo per determinare conseguenti gerarchie
nei rapporti sociali, altre volte l’apparente opposizione e conflitto tra bene e male, buono e cattivo,
schiavo e padrone si risolve in un canovaccio in cui le parti si scambiano, mentre ciò che rimane
stabile è la struttura sociale: ed è proprio su tale stabilità che traggono vantaggio determinate figure
sociali anziché altre, più che dal ruolo sociale che apparentemente vi svolgono.
6. Il codice è un sistema strutturato per produrre segni, come ad esempio la lingua italiana, con cui il
mittente formula il messaggio che invia al destinatario. E’ necessario che il mittente conosca il codice
con cui codificare il messaggio e che questo sia condiviso dal destinatario, affinché la decodifica
avvenga in maniera corretta. Vi sono situazioni che forzano l’uso di un codice anziché di un altro
proprio per la natura del mezzo usato o dell’ambiente (ad es. una telefonata obbliga all’uso del
linguaggio verbale). Come si è già avuto modo di notare, l’esistenza di media specifici può influenzare
la società e, dunque, gli individui che ne fanno parte trasformandone i comportamenti e gli
atteggiamenti. Secondo alcuni, una persona pensa così come parla. Se, dunque, un linguaggio
determinato ci abitua a esprimerci secondo modalità specifiche, la conseguenza sarà che la mente
muterà di conseguenza. Per alcuni, le tecnologie dei media sono anche tecnologie della mente. Di fatto
è vero anche il contrario: l’esistenza di linguaggi codificati della comunicazione influenza
pesantemente il modo in cui si sviluppano le nuove interfacce tecnologiche della comunicazione. E’
importante avere ben presente che la costruzione di determinati strumenti di comunicazione e dei
relativi linguaggi non sarà un semplice strumento per gli individui, ma diventerà parte della loro vita,
ne condizionerà i loro modelli cognitivi, sarà un mutamento, per alcuni un’evoluzione, nel loro modo di
relazionarsi con il mondo. La funzione che Jacobson lega al codice è quella metalinguistica, che
consiste nella possibilità che la lingua parli della lingua, rendendo possibile la descrizione del codice
stesso (ad es. Acqua è una parola che si scrive con il gruppo consonantico ‘cq’).
Nella teoria di Jakobson la comunicazione è unidirezionale. Tale modello risente fortemente
dell’influsso della teoria dell’informazione e da essa trae caratteristiche talvolta limitanti. Nel lavoro di
Julien Greimas, linguista, così come di Umberto Eco, semiologo, ed altri, al contrario la comunicazione
è vista come un processo cooperativo, in cui non si ha un unico soggetto o attore della comunicazione,
ma una molteplicità che attraverso una dinamica circolare partecipano alla costruzione cooperativa del
senso del discorso. I nuovi media, ed in particolare le reti telematiche, sono tecnologie in cui l’utente
potrebbe essere sia attore che spettatore della comunicazione. I testi sono aperti e l’utente stesso, le
sue azioni, sono una parte determinante del contenuto del testo. Sono strumenti potenzialmente
molto cooperativi, in cui la distinzione tra mittente e destinatario rischia di diventare obsoleta, o
almeno fortemente sfumata. Qualsiasi testo mediale, sia esso realizzato tramite la scrittura o
attraverso un film, un romanzo o, in particolare, attraverso la televisione, deve possedere una
molteplicità di livelli semantici, deve cioè essere polisemico, e quindi possedere la caratteristica di
essere aperto, ovvero offrirsi all’essere completato attraverso il suo uso da parte del pubblico.
Claude Shannon e Warren Weaver
Una diversa classificazione degli elementi coinvolti nella comunicazione, intesa però nel senso di
informazione, è stata proposta al tempo della seconda guerra mondiale da Claude Shannon (1916 –
2001) e Warren Weaver, ingegneri. Le differenze rilevabili tra la loro classificazione e quella di
Jakobson dipende dalla diversa formazione culturale dei rispettivi teorizzatori. Per Shannon e Weaver,
le componenti della comunicazione sono in tutto sette:
1. l’emittente;
2. il segnale, trasmesso dall’emittente;
3. il messaggio, veicolato dal segnale;
4. il ricevente, ovvero chi materialmente riceve il messaggio;
5. il destinatario, potenzialmente diverso dal ricevente, è colui a cui i messaggio è diretto;
6. la fonte, da cui l’emittente apprende il messaggio che trasmette;
7. il rumore, uno o più potenziali, che disturba, se presente, il segnale. Esso può essere di natura
tecnica, come un disturbo fisico vero e proprio, oppure semantico, ad esempio un flusso di pensieri
parallelo al principale che abbassa il livello di concentrazione.
Per informazione, Shannon e Weaver intendono non il contenuto del messaggio, ma la misura della
prevedibilità del segnale, che è ridondante quando è molto prevedibile, entropico in caso contrario. Più
il messaggio risulta ridondante, più si è al riparo da cattive interpretazioni. La formazione culturale di
Shannon e Weaver li portò a individuare nella cura della codifica del segnale e nell’efficienza del
sistema di trasmissione la sufficiente garanzia di una buona comunicazione. In realtà, ciò vale
sicuramente per il passaggio di informazione che avviene tra macchine. Il caso della comunicazione
umana è, invece, più complesso: la sue efficienza dipende da tutta una serie aggiunta di fattori, come,
ad esempio, la condivisione del contesto, che non possono essere tralasciati.
Teorie dei segni
L’uomo vive immerso in un mondo di segni: ciascuno, anche inconsciamente, in ogni istante della
propria esistenza produce, riceve e interpreta segni. Ogni cosa può essere segno, ma non è detto che
lo sia necessariamente: il segno, sia naturale che convenzionale, per essere tale ha bisogno di essere
segno per qualcuno, che sia in grado di riconoscerlo, coglierlo ed interpretarlo. Così, il fumo è segno di
fuoco solo ed esclusivamente se vi è qualcuno che lo coglie come tale; in caso contrario, il fumo è
semplicemente fumo, privo di qualsiasi valenza signica. La realtà parla solo all’uomo disposto ad
ascoltare e capire. La scienza che studia i segni è la semiotica. Più precisamente, la semiotica
individua nei sistemi linguistici le unità che li compongono (i segni), cerca di comprenderne le relazioni
reciproche e di spiegare i processi e gli atti di comunicazione che li coinvolgono. Nell’ambito delle
ricerche di tipo semiotico sono state formulate, dai tempi della filosofia classica ad ora, varie teorie
relative ai diversi possibili tipi di relazione esistenti tra un oggetto, un segno e il modo in cui tale
segno viene interpretato nella mente. Senza inoltrarci troppo in questo terreno molto delicato,
analizziamo i più importanti apporti avutisi in materia.
Tommaso D´Aquino
Immanuel Kant
Umberto Eco
Ferdinand de Saussure
Charles Sanders Peirce
Thomas Albert Sebeok
Gottlob Frege
Teorie culturologiche
Tommaso D’Aquino
Tra le prime riflessioni teoriche relative alla natura del segno, grande rilevanza assume il contributo di
Tommaso D’Aquino (1221 ca. – 1274), per cui il segno in sé comporta un qualcosa che ci sia
manifesto, dal quale siamo condotti per mano alla conoscenza di qualcosa di nascosto. Considerando
in modo specifico i segni convenzionali, non è centrale la maggiore rilevanza del segno o dell’oggetto
significato: è la convenzione di turno a stabilire, tra due oggetti, quale dei due sia segno e quale
l’oggetto significato. Generalmente, l’uomo tende a considerare segno l’oggetto che coglie per primo e
che costruisce l’altro nella mente. In una conversazione, il termine computer pronunciato da chi parla
è segno in quanto induce nella mente di chi ascolta l’immagine dell’oggetto che vi facciamo
corrispondere, senza che questo sia necessariamente presente nel contesto in cui ci si relaziona
Immanuel Kant
Per Immanuel Kant (1724 – 1804), filosofo, l’uomo non conosce il mondo attraverso le cose, ma
attraverso le rappresentazioni mentali che se ne costruisce. Esiste dunque una mediazione nel modo in
cui l’uomo conosce il mondo, che sottrae agli oggetti e alle cose un valore assoluto e di universalità.
“Tutto ha inizio con l’esperienza, ma non tutto deriva dall’esperienza”: con quest’affermazione Kant
accoglie la tesi empirista che nessun contenuto innato vi sia nel processo della conoscenza e che ogni
acquisizione abbia la sua origine nell’esperienza sensibile, ma sostiene anche che nella conoscenza
opera qualcosa che non proviene dall’esperienza sensibile e che è “a priori”.
La conoscenza dell’uomo è quindi una sintesi fra una materia del conoscere, che il soggetto
conoscente riceve dall’esterno, e una forma con cui questo la organizza, la unifica, generando le
rappresentazioni del mondo naturale. In altre parole, la conoscenza non è una ricezione passiva di dati
dell’esperienza, ma un’attività di organizzazione di questi dati: attività di classificazione, elaborazione
e unificazione attraverso funzioni dette “a priori”.
Tali funzioni sono proprie di tutti gli uomini, indipendenti dall’esperienza e precedenti a essa, in quanto
presupposto e condizione di possibilità dell’esperienza stessa.
Se, quindi, ognuno di noi ha percezioni molto diverse, perchè avverte le cose in modo personale e vive
occasioni del tutto individuali di percezione, ha però un modo di organizzarle che poggia su condizioni
comuni a tutti gli esseri umani.
Umberto Eco
Altro contributo rilevante, è quello prestato da Umberto Eco (1932), per cui la semiotica è la teoria
della menzogna, posizione che si regge sulla distinzione concettuale esistente tra i segni naturali e
quelli linguistici. I primi non possono che essere veritieri: il fumo, ad esempio, non può non indicare la
presenza di fuoco. I secondi, invece, possono anche essere menzogneri, come quando si riferiscono a
qualcos’altro che non esiste necessariamente. La frase Sei bellissima!, ad esempio, è una menzogna
se chi la pronuncia lo fa con sguardo sfuggente e incrociando le dita dietro la schiena. La scrittura
utilizza segni grafici che vengono trasmessi a distanza dall’emittente al destinatario. L’assenza di un
rapporto vis-a-vis o di atteggiamenti che possano tradire stati d’animo, agevola la menzogna. Se la
frase prima presa ad esempio, anziché pronunciata verbalmente, venisse comunicata in forma scritta,
l’assenza di contatto diretto non permetterebbe di cogliere possibili stati d’animo esplicativi, favorendo
la possibilità di menzogna
Charles Sanders Peirce
Per il filosofo Charles Sanders Peirce (1839 – 1914), il segno è la risultante del rapporto d’interazione
tra il veicolo segnico, l’interpretante (l’elemento di mediazione) e il referente (l’oggetto reale). I
rapporti tra il veicolo segnico e l’interpretante, e tra l’interpretante e il referente sono diretti; tra il
veicolo segnico e il referente, invece, il rapporto è sempre mediato da una chiave d’accesso alla realtà.
Interpretante
Veicolo SEGNO
segnico Referente
Triangolo semiotico di Peirce
Definito il segno, Peirce propone una tassonomia rappresentativa/referenziale in cui distingue i segni
in simboli, icone e indici in funzione del rapporto che essi hanno con il loro denotato:
1. negli indici la relazione tra segno e cosa denotata è di tipo contiguo, o in connessione fisica con
l’oggetto: l’indice intrattiene, cioè, un rapporto esistenziale con l’oggetto che significa. Esempi di indici
sono la banderuola, la stella polare, le lettere apposte alle figure geometriche. Venendo meno la
contiguità, anche l’indicalità del segno viene persa: un pronome contenuto in un dizionario, ed
esempio, non è più indice, perché persa la contiguità non è più in grado di indicare un oggetto
specifico nella realtà;
2. nelle icone il rapporto tra il segno e la cosa denotata è di analogia, somiglianza o metafora: è icona,
ed esempio, l’insegna WC accompagnata dall’immagine stilizzata di un uomo o di una donna. E’
importante notare come la scelta dell’analogia usata, e dunque delle qualità pertinenti del segno, sia di
per sé un forte punto di vista in base al quale è possibile caratterizzare l’interpretazione di una
funzionalità o di un contenuto;
3. nei simboli la correlazione significato/significante è arbitraria e convenzionale: la parola casa indica
in italiano una costruzione destinata ad uso abitativo solo perché così è stato deciso in modo
convenzionale.
Ulteriori distinzioni possono essere introdotte considerando il segno dal punto di vista del mittente,
dell’universo del discorso e del destinatario. Dal punto di vista del mittente, ovvero di colui che fa il
segno, questi possono essere distinti secondo criteri diversi.
1. I segni possono essere volontari o non volontari, a seconda che siano prodotti consapevolmente o
inconsapevolmente. Un esempio di segno volontario è l’espressione Mi passi il bicchiere?,
accompagnata da un gesto di indicazione; un esempio di segno involontario è, invece, un tic nervoso.
Oggi, tutta la sintomatologia medica si basa su segni involontari;
2. I segni possono essere intenzionali o non intenzionali, a seconda che li si producano per essere
interpretati o senza volerne un’interpretazione. La distinzione tra volontarietà e intenzionalità è molto
sottile. L’imbracatura utilizzata da chi pratica bungee jumping può essere considerata un segno che ne
permette il riconoscimento volontario ma non intenzionale, poiché utilizzarla non ha per costoro la
primaria finalità di farsi riconoscere. Il caso di un segno volontario e intenzionale è molto comune: si
verifica ogniqualvolta utilizziamo volontariamente un simbolo per evocarne il senso associato.
Utilizziamo un segno volontario e intenzionale, ad esempio, quando suoniamo il clacson nell’intento di
trasmettere all’automobilista davanti alla nostra vettura, ancora immobile nonostante sia già scattato
il verde, il messaggio Muoviti! Il semaforo è verde! I segni non volontari e non intenzionali più comuni
sono i tic nervosi. E’ invece impossibile pensare a segni non volontari e intenzionali;
3. Posso essere, ancora, espressivi o comunicativi, a seconda che esista o meno un destinatario che
interpreti i segni, trasformando la loro semplice trasmissione in comunicazione. Tutti i segni espressivi
sono potenzialmente comunicativi. Una donna vestita di nero produce un segno espressivo della sua
condizione di lutto, ma non comunicativo se non è presente nessuno che possa interpretare il
significato del colore indossato.
Rispetto alla relazione segno-universo del discorso, distinguiamo i segni in base:
1. alla forma: il segno può essere naturale, come l’impronta digitale, o culturale, come il colore
indossato indicante lutto per culture diverse;
2. alla relazione esistente tra il significante e il significato: il segno può, da questo punto di vista,
essere portatore di un contenuto stabile o circostanziato e dipendente dalla situazione di contesto;
3. alla relazione esistente tra significante e denotato: la distinzione è tra icone, indici e simboli di
matrice peirceiana;
4. all’organizzazione: i segni possono essere isolati, in serie, ovvero più veicoli per lo stesso referente,
o sistematici, ovvero un sistema chiuso e internamente consistente di segni.
Dal punto di vista del destinatario del segno, colui al quale si fa segno, distinguiamo:
1. segni felici, che sono quelli interpretati correttamente dal destinatario;
2. segni infelici, ovvero semplici oggetti per il mittente erroneamente interpretati come segni dal
destinatario. E’ il caso di abiti di colore nero, interpretati come segni espressivi di una condizione di
lutto ma, in realtà, semplice espressione di gusto personale;
3. segni concorrenti, che sono quei segni che vengono interpretati diversamente dall’emittente e dal
destinatario.
Thomas Albert Sebeok
Un punto di svolta nella storia della semiotica fu segnato nella prima metà degli anni Sessanta quando
Thomas A. Sebeok (1920 – 2001) estese i confini della scienza dei segni quale risultava fino ad allora
sotto il nome di “semiologia”. Quest’ultima si basava semplicemente sul paradigma verbale ed era
viziata dall’errore di scambiare la parte per il tutto. Sebeok definisce tale tendenza nello studio dei
segni “ la tradizione minore” contrapponendovi quella “maggiore” per ampiezza temporale ed
estensione tematica, rappresentata da Locke e Peirce e che risale ai primi studi sui segni e sui sintomi
(l’antica semeiotica medica) di Ippocrate e Galeno.
Nelle sue pubblicazioni Sebeok ha fatto valere una nuova visione della semiotica in cui il campo
coincide con quello delle scienze della vita, in base all’assunto che tutto ciò che è vita è segno.
In seguito all’opera di Sebeok, ampiamente ispirata a Peirce, ma anche a Charles Morris (1901-1979)
e a Roman Jacobson (1896-1982) diretti maestri di Sebeok – sia la concezione del campo semiotico,
sia la concezione della storia della semiotica sono mutate notevolmente.
La semiotica odierna deve a Sebeok la sua configurazione come “semiotica globale”. In virtù di questo
approccio “globale” o olistico” la ricerca semiotica sulla “vita dei segni” è direttamente interessata
anche ai segni della vita.
Teorie culturologiche
Per le teorie culturologiche, un’analisi sui media, e dunque sui segni che essi utilizzano, non può
essere separata da un’analisi sulla società che li impiega, sulla sua storia e la sua cultura, cioè su
come a determinati segni corrispondano determinati valori e implicazioni sociali. L’ attenzione è posta
su ciò che già gli epicureisti definivano il simulacro di una cosa, ovvero una sorta di pulviscolo
portatore dell’immagine dell’oggetto. Per Denzin Norman, sociologo, il simulacro si trasforma in
artefatto cognitivo, ovvero in una meta-rappresentazione del modo in cui noi ci rappresentiamo le
cose nella mente. L’artefatto cognitivo funge da mediatore tra noi e le cose, non rappresentate
semplicemente sulla base dell’esperienza percettiva avutane, ma anche considerando come tale
esperienza si organizza rispetto alle precedenti culturali che di tali cose se ne sono fatte. In tale
processo, diventa importante il modo in cui delle cose selezioniamo delle qualità pertinenti,
tralasciandone altre che pur gli appartengono; diviene, dunque, cruciale il punto di vista culturale che
guida tale selezione. Per Louis Hjelmslev, (1899 – 1965) semiotico, una semiotica è il rapporto che si
gioca all’interno di un segno tra il piano dell’espressione, ovvero il cosiddetto piano dei significanti, e
piano del contenuto, il cosiddetto piano dei significati. Hjelmlsev, parlando di semiotica connotativa,
ovvero una semiotica il cui pino espressivo è a sua volta una semiotica, riconosce l’esistenza di due
livelli di significazione insiti in un segno: la denotazione, l’oggetto cui il segno si riferisce, e la
connotazione, l’insieme di significati e valori aggiunti di cui un segno è simultaneamente portatore in
una determinata cultura. Per spiegare in modo semplice tale distinzione, analizziamo come segno
esemplificativo la parola ulivo e la valenza che essa assume nella nostra cultura: in questo caso la
denotazione consiste nell’oggetto ulivo cui la parola si riferisce, la connotazione nel significato di pace
che l’ulivo simboleggia nella cultura cattolica. Non esiste una formula unica per costruire il senso di un
discorso. Tanto meno, dunque, si può pensare che le semplici regole della sintassi siano sufficienti a
ricostruire il senso di un discorso. Sebbene il modo in cui un segno si colloca all’interno di un testo
sarà un elemento rilevante anche dal punto di vista semantico, la restituzione di un determinato senso
sarà il frutto di un insieme di fattori ben più complesso.