Entroterra Di Ponente. Modi Di Vivere, Modi Di Abitare

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Entroterra di Ponente,modi di vivere, modi di abitare.

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Un percorso tra i paesi dell’entroterra di PonenteGuardando da lontano, nel lungo orizzonte, lo sguardo prende subito di mira ciò che è diverso dalla natura. Infatti è

attirato dalle costruzioni umane, apparizioni sempre straordinarie, nel senso che non appartengono alla successione

ordinaria del paesaggio (morfologia, vegetazione, coltivi, ecc...). Mentre accade questo fenomeno dello sguardo, in-

terpretabile come un buon segno verso l’umanità, ci sono posti nei quali i paesi che tanto hanno attirato l’attenzione

sembrano mimetizzarsi e rientrare nella natura da cui si erano separati. Questo accade nel Ponente ligure. L’arte di

mostrarsi e l’arte di mimetizzarsi appartengono ai principi fondamentali dell’architettura, i quali principi, quando ven-

gono infranti, producono la brutta arte di rimanere troppo esposti e sempre in bella vista, come succede alle brutte

costruzioni, incapaci di nascondersi. Il brutto, infatti, non viene accettato né dalla natura né dal nostro sguardo e

rimane senza riparo e remissione come chi non appartiene a nessuno. Nel corso di questo piccolo viaggio di studio,

diffidando del concetto di spontaneità in architettura e dubbiosi sull’esistenza di antichi piani regolatori, abbiamo cer-

cato di capire la formazione di architetture meravigliose, capaci di avere un senso per sempre. E’ successo che le

ricchissime cronache locali, compattate attraverso lunghi secoli, ci hanno sommerso di notizie le quali, per così dire,

sono passate sopra la nostra testa e sopra il territorio, lasciando nell’ombra ciò davvero volevamo sapere: chi ha

pensato questi modi del costruire? da dove proviene uno stile così unitario e inconfondibile? chi ha fatto scuola?

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Detto in modo ancora più esplicito: i costruttori non sono entrati nelle

cronache, grande è il silenzio intorno al loro lavoro, grandissimo è il mi-

stero che circonda i progettisti e i pianificatori dell’urbanistica. Le costru-

zioni tuttavia sono lì, innalzate con grande complessità e maestria e,

quando umili, vestite di grazia, memori di insegnamenti antichi, non tutti

di origine locale. Una speciale consolazione emerge da tutto ciò, con

attualità: ci è giunto, nella sua magnificenza, ciò che non è stato detto,

come se pensieri e vite avessero avuto un percorso sotterraneo, al co-

perto delle stesse costruzioni dove si sono rifugiati. Le architetture sono

rimaste in primo piano a testimoniare i gesti silenziosi degli uomini, le

fantasie, le necessità e le ideazioni del loro abitare il mondo. Le archi-

tetture dei paesi sono il risultato finale che induce a risalire alla cronaca

vera e quotidiana, a uomini che sono stati umili cercatori di protezione

e di bellezza, ideatori di continui rapporti con il mondo materiale e con

le aspirazioni del vivere. Per questo a guardare il modo con cui sono le-

gate le pietre di un muro vengono sentimenti di fiducia, un risarcimento

che la materia innocente continua a offrirci attraverso l’intelligenza di

mani abili e positive. L’intelligenza delle mani e l’innocenza della materia

sono le due componenti che fanno apparire la grande scena degli antichi

paesi e che subito la rendono parte della natura, come fosse una natu-

rale condensazione geologica, una sua specifica emozione che segnala

la presenza umana. La grande vistosità non è a detrimento dell’armonia

paesistica, ma risulta una sua esaltazione, come se un campanile fosse

l’ultima e definitiva espressione di una cima. La naturalizzazione del co-

struito è merito dei materiali di costruzione e del profilo architettonico, i

quali si esprimono attraverso forme elementari che il paesaggio ricono-

sce e che gli uomini hanno semplicemente tradotto in linguaggio geo-

metrico. I colori dei materiali si distinguono senza opporsi e le forme del

costruito sembrano il coronamento di una aspettativa naturale, luoghi

privilegiati dagli uomini, un segno distintivo che fa pensare, con emo-

zione, che è possibile dialogare con lo spirito dei luoghi.

Queste preliminari impressioni ci accompagnano mentre andiamo a ve-

dere da vicino, lungo un percorso che cerchiamo di tematizzare nel

modo seguente:

I paesi di fiume e le invenzioni dell’acqua;

I paesi di altura e l’architettura della chiocciola;

Il percorso dell’arte “dialettale” e delle sacre rappresentazioni.

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Il fiume ha scavato la strada primordiale e gli uomini ci sono andati die-

tro. Se molte ragioni li hanno portati sulle alture, altrettante buone ragioni

li hanno convinti ad insediarsi vicino ai corsi d’acqua. Tra le buone ra-

gioni c’è una specie di ordine cartografico, secondo il quale il fiume in-

dica il cammino sicuro per uscire dal labirinto delle valli. Anche le grandi

strade hanno seguito i suggerimenti dei fiumi e ricalcano il loro cammino.

I paesi di fondovalle del Ponente ligure hanno pertanto un fiume e una

strada. Ci sono casi in cui il paese ha le facciate rivolte alla strada e il

retro sul fiume, come succede a Ranzo, a Pontedassio, a Chiusavecchia

e a Pieve di Teco prima della moderna viabilità. I questi casi di paesi li-

neari, costruiti lungo la strada, il fiume bisogna scoprirlo attraverso gli

stretti vicoli perpendicolari, in genere ripidi e brevi, che portano sull’orlo

delle scarpate, dalle quali il fiume mette subito in chiaro che all’origine

di tutto c’è lui, ancora adesso pieno di energia, che scava ancora rocce

e produce il suo particolarissimo giardino di acqua e pietra.

Uno vorrebbe che il paese si voltasse a guardarlo, ma il paese ha fatto

i suoi conti e apre i negozi per i passanti dalla parte opposta, con ante

di botteghe in fila, posti di sosta, osterie. Sul fiume ci stanno orti molto

riservati, mulini e frantoi ad acqua.

Ci sono casi invece nei quali il paese guarda il fiume, non per ragioni

estetiche ma utilitaristiche: è sempre la strada che detta legge. Sono i

paesi dove la strada è direttamente sul fiume e il paese si fa bello per

lei e la guarda, come accade in tutta evidenza a Dolceacqua, a Bada-

lucco e a Dolcedo.

I paesi di fiume hanno, nel loro carattere, una storia discorsiva, nel

senso che, per mestiere, hanno dialogato con molti e hanno accolto,

nel tempo, i suggerimenti che arrivavano da fuori. Per questo sono paesi

che, in seguito agli sviluppi dei trasporti e delle relazioni, mostrano nuclei

antichissimi e architetture evolute lungo i secoli, almeno fino al secolo

scorso, dopo di che c’è poco da imparare e molto da riparare.

La concentrazione dell’abitato in nuclei compatti di fianco o intorno alla

strada ha lasciato, per così dire, scoperto il territorio circostante, il quale

è stato occupato da nuclei minori, borgate che sono al centro dei rispet-

tivi territori agricoli e che riproducono, in piccolo, i simboli della comunità:

chiese, oratori, botteghe.

Un bell’esempio è rappresentato dal territorio di Ranzo e dalle medie

valli imperiesi, segnato da una costellazione di piccoli borghi di collina,

ognuno con un campanile. La moltiplicazione degli insediamenti è pro-

pria del territorio mediano, accessibile e articolato nelle attività produttive

agricole, le quali consentono la pluralità delle colture, una agricoltura in-

tensiva e differenziata (olivi, frutteti, orti, seminativi). I paesi della mon-

tagna mostrano, al contrario, una compattezza che diventa

inconfondibile stile. Il paese compatto lascia immaginare una economia

primaria di tipo pastorale, su grandi estensioni, dove si seguono greggi

e mandrie usando ricoveri temporanei, come documentato dagli stazzi

per il bestiame e dalle primordiali caselle, modello remoto di ciò che

sarà la volta e l’arco.

I paesi di fiume e le invenzioni dell’acqua.

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Per tornare al fiume è lì che troviamo i monumenti nascosti della cultura

materiale: i mulini e i frantoi. Ma prima ancora dei mulini e dei frantoi

c’è una realizzazione da sempre sottovalutata e andata, in gran parte,

distrutta o trascurata: si tratta del sistema di adduzione della forza mo-

trice, le bealere o beudi o beodi.

Bisogna immaginare un fiume che scende con pendenze sensibili, sul

quale in un punto calcolato viene operata una derivazione d’acqua. La

derivazione comincia ad allontanarsi dal fiume, diventa autonoma e at-

traversa zone di mezza costa, scendendo con tranquillità, mentre il

fiume precipita, in genere impetuoso, lungo il suo corso naturale. La

bealera, nel frattempo, ha portato l’acqua in alto sul fiume, al punto che

l’acqua sembra essere andata in salita. Nel suo corso può essere usata

per irrigare gli orti e, soprattutto, sarà usata come forza motrice per i

mulini. Una stessa bealera, teoricamente, può fornire energia per un

gran numero di ruote motrici, come oggi si può immaginare con le bat-

terie lineari delle microcentraline idroelettriche. Esempi archeologici di

mulini in sequenza sono stati trovati ad Arles, ma anche nel ponente li-

gure abbiamo mulini e frantoi combinati, centri integrati di produzione

oltre che modelli di risparmio energetico.

La bealera comporta precise capacità di misura, una valutazione impec-

cabile delle pendenze oltre che una gestione sociale degli usi, assom-

mando con ciò una lunga pratica di virtù tecniche, di calcolo economico

e di patto sociale.

Quando l’acqua arriva sulla ruota del mulino si può assistere a uno

splendido teatro della meccanica. Ciò che da solo dovrebbe indurre alla

conservazione attiva dei mulini è la forza didattica dei meccanismi a

vista. Noi conviviamo con congegni nascosti, racchiusi in scatole sem-

plici, dove nessuno sa più cosa c’è dentro. L’industria e ancor più la sua

promozione commerciale ha preso in mano ogni sapere e, con la scusa

di non disturbare i consumatori, ha nascosto ogni funzionamento, quasi

ripristinando l’idea del miracolo, come deve confessare chiunque apra

il cofano di una automobile moderna.

Il fragore del mulino che si mette in moto, partendo da una canaletta

d’acqua sulla grande ruota, è la più esplicita e geniale dimostrazione di

come un movimento, lento e possente, possa produrre, attraverso cin-

ghie e ingranaggi, i movimenti più svariati, dal velocissimo prillare delle

ventole al ritmato moto orizzontale dei setacci, per cui alla vista dei con-

gegni si unisce una musica spettacolare, orchestrata senza perdere un

colpo, dal basso continuo della ruota e dal suo accompagnamento

d’acqua, ai timbri acuti delle pulegge, al fruscio delle cinghie.

Un mulino ha bisogno di ciò che oggi si chiamerebbe un distretto indu-

striale: costruttori in ferro, artigiani del legno, esperti cavatori di mole.

Tutto ciò era presente e l’architettura, più che conservarne la memoria

visibile, conserva le impronte della scomparsa. Può darsi che nuove

sensibilità culturali possano trovare una economia di sostegno affinché

tali capolavori si rimettano in moto, almeno alcuni, andando a ricucire

un tessuto originale che può solo riscuotere la più alta attenzione.

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I paesi di alturae l’architettura della chiocciola.Dalle Valle Arroscia fino alla Val Nervia, la geologia tenta

di far convergere le valli verso un punto: il vasto massiccio

che dal gruppo del Torraggio-Pietravecchia arriva al Mar-

guareis-Saccarello. Le valli che si allargano a ventaglio sfo-

ciando sulla Riviera, da Ventimiglia ad Albenga, vengono

chiamate lassù, come ad un appuntamento originario, da

dove sono partite. Come succede nella severissima natura

non è che là diventino una cosa sola, ma ognuna, prima di

andare per la sua strada, può sentire la presenza delle so-

relle su versanti opposti.

E’ là che ci sono i paesi delle alture.

Quando vediamo le logge sotto gronda, vuole dire che

siamo arrivati negli ultimi avamposti. Potremmo essere a

Montegrosso, a Mendatica, a Piaggia, forse a Realdo,

a Verdeggia, a Buggio.

La veranda la troviamo, alle stesse altezze, in Piemonte, a

Briga Alta, a Carnino, a Viozene.

La troviamo anche a La Brigue in Francia, a Tenda. Tutto

ciò lascia intendere che ci troviamo in una zona assai par-

ticolare che viene chiamata “Terra brigasca”.

La loggia tradizionale è di legno, coperta dalla gronda ag-

gettante del tetto. E’ il luogo dove la casa , in genere con

piccole finestre, si affaccia all’aperto, un posto dove godere

il sole, appendere pannocchie di granoturco, mettere i vasi

dei fiori. Più in basso la funzione della loggia sottogronda

è svolta dalle altane con le aperture ad arco, a volte torrette

graziose, simili a ciò che oggi potremmo chiamare attico.

Molte soluzioni adottate dall’architettura dei paesi alti

sembrano determinate dalla estrema concentrazione del

costruito, non tanto per mancanza di spazi e per lottizza-

zioni feudali delle quali non ci sarebbe da stupirsi, quanto

per esigenze di vita comunitaria, determinate sia da qual-

che ragione difensiva sia, ancor più, da ragioni di prote-

zione reciproca, casa contro casa, condividendo muri e gli

essenziali servizi. I paesi appaiono spesso come fortezze

o alveari, con camminamenti che sembrano scavati o scol-

piti dentro un grande e movimentato castello di pietra.

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Apporti esterni si riscontrano nelle architetture delle chiese, che vedono all’opera maestranze piemontesi e

lombarde, con ciò documentando la partecipazione del ponente ligure a una cultura allargata, a transiti e a

scambi di conoscenze.La stessa grande tecnica dei ponti non può esser immaginata al di fuori di capacità pro-

gettuali specialistiche, tanto che i ponti sono ancora lì, a rinfacciare, con la loro bellezza, la mediocrità che è

subentrata quando è finito l’amore o, più banalmente, quando la tecnica ha fatto passare i principi di autosuf-

ficienza, incuranti di ciò che lo spazio naturale ha suggerito o invocato da sempre.

A proposito di scuole una importanza particolare è attribuita ai lapicidi (scultori, scalpellini) di Cenova, famiglie

di artigiani con finezze e ambizioni artistiche, delle quali conosciamo alcuni nomi (Henrico, Varenzi), attive nelle

valli del ponente, ma anche a Tenda dove hanno scolpito i portali della cattedrale. La presenza dei portali, dai

semplici e imponenti architravi monoblocco, alle realizzazioni che sviluppano temi rinascimentali, testimonia

una particolare concezione della casa, in quanto luogo solenne della famiglia, meritevole di una segnalazione

definitiva tra spazio interno e spazio esterno, segno di distinzione e di cura.

La costruzione sulle cime o sulle coste induce alle forme urbanistiche della spirale, dove il piano superiore

viene raggiunto da passaggi in salita, spesso coperti , i volti o scuri. I ”volti” esprimono uno straordinario “in-

terno” collettivo, forma estrema del portico, il quale si sviluppa dove c’è spazio maggiore, come a Pieve di Teco

o a Pigna. Le stesse scale esterne, interpretabili come segno di povertà architettonica e di uso parsimonioso

degli spazi abitabili, diventano un segno affascinante di vita comunitaria, un vivere di fronte agli altri, stile nobile

e difficile. Gli stretti passaggi sono ornati da frequenti archetti di controspinta, i quali oltre che una funzione

statica svolgono una caratteristica funzione estetica, ancora una volta un segno di copertura, perfino verso il

cielo, come una definitivo sigillo dello spazio abitato.

Lo spazio trionfa appena fuori, con il suo grande respiro sopra le valli, là dove gli abitanti escono a lavorare le

fasce o si assentano per mesi dietro mandrie e greggi. Nelle architetture dei paesi alti si riscontano i modi

evoluti e difficili del costruire: l’arco, la volta a crociera, l’uso delle colonne, i decori dei portali. Non si tratta per-

tanto di architettura incolta e ingenua. Tutto fa pensare a una pratica che ha ricevuto suggerimenti essenziali

da tecniche costruttive all’altezza dei tempi, patrimonio di categorie professionali attente e informate.

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Il Ponente è un territorio di chiese. Dal medioevo al tardo seicento e

oltre, le chiese, gli oratori e le cappelle hanno raggiunto una densità stra-

ordinaria, tanto da diventare un segno privilegiato per la lettura del pae-

saggio. Severamente misurate o perfino civettuole, vestite di intonaci

bianchi, le chiese racchiudono una particolare storia dell’arte, che vede

all’opera una squadra di pittori “di montagna”, provenienti in gran parte

dall’area piemontese e perfino lombarda, maestri di pittori locali, i quali

, da un paese all’altro, hanno dipinto grandi affreschi e pale di altare.

Sono pittori che potremmo definire “in ritardo”, nel senso che, a cavallo

del millecinquecento, si esprimono con uno stile medioevale, con pro-

spettive e forme ingenue, per cui sono stati chiamati “pittori dialettali”.

Li seguiamo partendo da Ranzo, patria di Pietro Guidi, il pittore locale

che ha maggiormente seguito le lezioni dei piemontesi: Giovanni Cana-

vesio, Antonio da Monteregale, Tommaso e Taddeo Biazaci da Busca,

Carlo Braccesco.

A Ranzo, lontano dall’abitato, lungo la strada dell’Arroscia, c’è la chiesa

di San Pantaleo. Ha il tetto più straordinario della Liguria, una cupoletta

che fa pensare allo stile bizantino e quattro alette che fanno pensare ai

cappelli larghi e ondeggianti delle suore. La chiesa, oltre a capitelli e

bassorilievi attribuiti alla scuola di Cenova, presenta affreschi di pittore

anonimo, nello stile della pittura ligure-piemontese. Pietro Guidi, che è

nato lì, ha lasciato, nella lunetta della chiesa parrocchiale, una bella Ma-

donna con Bambino, il quale tiene legato con uno spago un grazioso

passerotto, forse un cardellino. Pietro Guidi ha lavorato nella chiesa della

Madonna della Ripa a Pieve di Teco e nella chiesa di Santa Margherita

a Mendatica, ma i suoi grandi cicli pittorici dedicati alla Passione di Cristo

si trovano nella chiesa di Nostra Signora delle Vigne a Rezzo e nel san-

tuario di Montegrazie.

Nel santuario di Montegrazie troviamo inoltre le pitture di Tommaso Bia-

zaci da Busca e di Carlo Braccesco, per cui il santuario risulta essere

un piccolo museo tematico. La Passione di Cristo è l’argomento predi-

letto di tutti questi pittori.

Maestro di tutti fu Giovanni Canavesio, prete di Mondovì, che in Liguria

ha lasciato la grande Passione nella Chiesa di San Michele di Pigna.

La più imponente delle sue Passioni si trova tuttavia a Notre Dame des

Fontaines, a La Brigue, segno che si tratta di pittori itineranti, al seguito

di committenze che risultano numerose.

Questi minimi suggerimenti per un percorso tematico intendono se pli-

cemente accennare alla ritrovata modernità di queste pitture, che, come

grandi fumetti didattici oltre che devoti, mostrano straordinarie fantasie

di colori, folle di personaggi caratteristici, rappresentanti di vizi e di virtù,

ma che sono, nel loro realismo, una cronaca di volti locali e di atteggia-

menti paesani, una grande rappresentazione di vita.

I percorsi dell’arte “dialettale” e delle sacre rappresentazioni.

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