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il giornale dei COMUNISTA lavoratori N° 4/2011 Agosto 2011 www.pclavoratori.it € 2 EDITORIALE di Marco Ferrando C’è un vento nuovo che soffia nella società italiana. Non soffia (ancora) nelle piazze come in Nord Africa. Ma certo ha soffiato nelle urne. Ventisette milioni di voti contro il governo Berlusconi-Bossi non sono un fatto ordinario. Tanto più se contestano la dittatura del profitto e l’arroganza del privilegio. Riflettono non solo la crisi del blocco sociale tradizionale di PDL e Lega, ma anche l’irruzione sulla scena di una giovane generazione di uomini e di donne che domanda una svolta reale nella condizione della propria vita. Come impedire che questo vento nuovo venga tradito; come investirlo in una vera alternativa anticapitalista, rappresenta il tema centrale di una sinistra rivoluzionaria. PRIMACOMPITO: VIA BERLUSCONI La prima necessità è cacciare Berlusconi. E’ intollerabile la sua pretesa di restare al governo, dopo la sfiducia del voto popolare, grazie al voto di Scilipoti e di altri deputati corrotti (o in attesa del vitalizio pensionistico). Ancor più intollerabile è la pretesa di un governo delegittimato di varare altri 40 miliardi di tagli sociali per pagare i banchieri europei; di insultare e licenziare decine di migliaia di precari; di spalleggiare Fiat e Confindustria nello smantellamento del contratto nazionale di lavoro; di continuare le missioni di guerra in Libia e in Afghanistan, al servizio degli interessi dell’Eni e della Nato. Ora basta. Travasare nelle piazze la forza delle urne è la condizione decisiva per liberare l’Italia da Berlusconi e Bossi. Qui e ora. Mubarak era ben più forte di Berlusconi. IL CENTROSINISTRA “RISPARMIA” BERLUSCONI, NEL NOME DELLA “CRISI” Eppure siamo di fronte a un fatto clamoroso: il centrosinistra evita ogni affondo contro Berlusconi, proprio nel momento della sua massima crisi. Le richieste platoniche di “dimissioni” sono del tutto innocue. In realtà regna la paralisi delle “opposizioni” liberali, sia sul terreno parlamentare, sia soprattutto sul piano sociale. Del resto l’avevano detto - in particolare Di Pietro - durante la stessa campagna referendaria:” Non useremo contro il governo l’esito del referendum”. Per una volta hanno mantenuto la promessa. Perchè? Per una ragione semplice. I vertici del PD e della IDV (già tornata in abiti ministeriali), condividono la missione di “lacrime e sangue” che la finanza di Bruxelles ha dettato. E per questo condividono l’appello alla governabilità e alla solidarietà nazionale che Marcegaglia, Draghi e Napolitano hanno levato all’unisono nel nome dell’emergenza. Non sono forse PD e UDC a chiedere al governo di “realizzare la manovra dei 40 miliardi”, sino a solidarizzare con il rigore di Tremonti contro le “tentazioni populiste”? Meglio dunque lasciar fare il governo. E sperare che così, logorandosi, possa favorire un futuro ricambio nel 2013. Nel frattempo, lavoratori, giovani, donne si rassegnino ad altri due anni di Berlusconi. Un “cambio” di governo, si dice, “val bene un’attesa”. IL PROGRAMMA DI GOVERNO DEL PD DETTATO DA BANKITALIA Ma quale “cambio”? Questo è il punto decisivo. L’attuale paralisi delle opposizioni di fronte alla manovra Tremonti è la chiave di lettura del loro reale programma di governo. Che del resto è sempre più esplicito. In primo luogo la continuità delle politiche commissionate dagli industriali e dai banchieri: a partire dall’abbattimento progressivo del debito pubblico sino al 60% del Pil, con riduzioni vincolanti del 5% annuo (50 miliardi di tagli ogni anno sino al 2020). In secondo luogo l’apertura alle pressioni di Confindustria sulle relazioni sindacali, in direzione di futuri “contratti di sacrificio” (come li ha definiti Fassina, responsabile nazionale lavoro del PD). In terzo luogo un rilancio delle liberalizzazioni nei servizi, in nome del primato della concorrenza, e in contrasto frontale con l’esito del referendum: come si evince dalla stessa proposta di legge presentata dal PD in fatto di servizio idrico. In quarto luogo, la continuità delle guerre: dove già oggi è il PD a sfidare il governo sulla lealtà atlantista, contro le defezioni “irresponsabili” della Lega. Una Lega razzista che Bersani peraltro continua a corteggiare, in vista di possibili collaborazioni future, e in nome della “mediazione”, già raggiunta, sulla truffa federalista per le Regioni. VENDOLA E FERRERO SUL CARRO DEL CENTROSINISTRA: A PAROLE CON GLI OPERAI, NEI FATTI ALLA CODA DEI PADRONI Domanda: è questa la risposta alla domanda di svolta che sale nella società italiana?. No, è l’opposto. Eppure le sinistre italiane restano legate al patto inossidabile col PD e il centrosinistra. Il loro appello a “Far pesare il vento nuovo del referendum nel futuro programma del centrosinistra” è francamente patetico. E’ la stanca, eterna riproposizione di quella illusione truffaldina che viene propagata ad ogni cambio politico per subordinare i movimenti al centrosinistra: cioè alla scambio tra poltrone di governo e accettazione della politica borghese. E’ tanto vero che il candidato premier Nichi Vendola, per legittimarsi presso i poteri forti, deve già oggi assicurare che “Non si può difendere il vecchio Welfare”,” che “non va posto alcun steccato verso l’ UDC” che va “salvaguardata la collocazione internazionale dell’Italia”. Sino a rivendicare una fusione di SEL col PD entro un comune partito borghese. Quanto alla FDS l’ex ministro Paolo Ferrero ha chiarito su Il Manifesto, che se non si candida al governo non è certo per questioni di principio (non dubitavamo), ma è solo perchè “sembra vogliano escluderci”. Di conseguenza Ferrero si rassegnerebbe .. ad appoggiare il governo di centrosinistra dall’esterno: in cambio di un patto elettorale col PD che consenta alla Fds di eleggere, con l’auspicata soglia del 2%, un gruppo di deputati.. subalterni al centrosinistra confindustriale. E questa sarebbe la sinistra.. “ radicale”? UNA SINISTRA RIVOLUZIONARIA PER LA NUOVA GENERAZIONE Tutto lo scenario politico pone la necessità e l’urgenza di un indirizzo opposto. La rottura col PD e il centrosinistra è la condizione decisiva per offrire alla domanda di svolta una risposta coerente. Per liberare oggi una mobilitazione di massa straordinaria che persegua il rovesciamento del governo Berlusconi- Bossi. Per aprire dal basso la prospettiva di una alternativa vera alle classi dirigenti del Paese e al loro Stato. Perchè questo è il punto di fondo: dentro una società dominata dagli industriali, dai banchieri, dalla dittatura del profitto, non sarà possibile soddisfare la domanda di beni comuni sollevata da tanta parte della giovane generazione; così, dentro uno Stato retto e gestito dal sottobosco bipartisan dei Bisignani, in perfetta continuità tra prima e seconda Repubblica, non sarà possibile soddisfare la domanda reale di “pulizia” e di “democrazia” che oggi si leva contro il berlusconismo e il malaffare. Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può dare al nuovo vento una prospettiva reale di liberazione. Ogni altra soluzione di governo sarebbe la continuità del presente e del passato. Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% - aut. N° 080028 - del 21/05/2008 - DCB BO DALLE URNE ALLE PIAZZE

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Giornale comunista dei lavoratori

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il giornale dei

COMUNISTA lavoratori

N° 4/2011 Agosto 2011 www.pclavoratori.it € 2

EDITORIALE

di Marco Ferrando

C’è un vento nuovo che soffia nella società italiana. Non soffia (ancora) nelle piazze come in Nord Africa. Ma certo ha soffiato nelle urne. Ventisette milioni di voti contro il governo Berlusconi-Bossi non sono un fatto ordinario. Tanto più se contestano la dittatura del profitto e l’arroganza del privilegio. Riflettono non solo la crisi del blocco sociale tradizionale di PDL e Lega, ma anche l’irruzione sulla scena di una giovane generazione di uomini e di donne che domanda una svolta reale nella condizione della propria vita.Come impedire che questo vento nuovo venga tradito; come investirlo in una vera alternativa anticapitalista, rappresenta il tema centrale di una sinistra rivoluzionaria.

PRIMA COMPITO: VIA BERLUSCONI

La prima necessità è cacciare Berlusconi. E’ intollerabile la sua pretesa di restare al governo, dopo la sfiducia del voto popolare, grazie al voto di Scilipoti e di altri deputati corrotti (o in attesa del vitalizio pensionistico). Ancor più intollerabile è la pretesa di un governo delegittimato di varare altri 40 miliardi di tagli sociali per pagare i banchieri europei; di insultare e licenziare decine di migliaia di precari; di spalleggiare Fiat e Confindustria nello smantellamento del contratto nazionale di lavoro; di continuare le missioni di guerra in Libia e in Afghanistan, al servizio degli interessi dell’Eni e della Nato. Ora basta. Travasare nelle piazze la forza delle urne è la condizione decisiva per liberare l’Italia da Berlusconi e Bossi. Qui e ora. Mubarak era ben più forte di Berlusconi.

IL CENTROSINISTRA “RISPARMIA” BERLUSCONI, NEL NOME DELLA “CRISI”

Eppure siamo di fronte a un fatto clamoroso: il centrosinistra evita ogni affondo contro Berlusconi, proprio nel momento della sua massima crisi. Le richieste platoniche di “dimissioni” sono del tutto innocue. In realtà regna la paralisi delle “opposizioni” liberali, sia sul terreno parlamentare, sia soprattutto sul piano sociale. Del resto l’avevano detto - in particolare Di Pietro - durante la stessa campagna referendaria:” Non useremo contro il governo l’esito del referendum”. Per una volta hanno mantenuto la promessa. Perchè? Per una ragione semplice. I vertici del PD e della IDV (già tornata in abiti ministeriali), condividono la missione di “lacrime e sangue” che la finanza di Bruxelles ha dettato. E per questo condividono l’appello alla governabilità e alla solidarietà nazionale che Marcegaglia,

Draghi e Napolitano hanno levato all’unisono nel nome dell’emergenza. Non sono forse PD e UDC a chiedere al governo di “realizzare la manovra dei 40 miliardi”, sino a solidarizzare con il rigore di Tremonti contro le “tentazioni populiste”? Meglio dunque lasciar fare il governo. E sperare che così, logorandosi, possa favorire un futuro ricambio nel 2013. Nel frattempo, lavoratori, giovani, donne si rassegnino ad altri due anni di Berlusconi. Un “cambio” di governo, si dice, “val bene un’attesa”.

IL PROGRAMMA DI GOVERNO DEL PD DETTATO DA BANKITALIA

Ma quale “cambio”? Questo è il punto decisivo. L’attuale paralisi delle opposizioni di fronte alla manovra Tremonti è la chiave di lettura del loro reale programma di governo. Che del resto è sempre più esplicito. In primo luogo la continuità delle politiche commissionate dagli industriali e dai banchieri: a partire dall’abbattimento progressivo del debito pubblico sino al 60% del Pil, con riduzioni vincolanti del 5% annuo (50 miliardi di tagli ogni anno sino al 2020). In secondo luogo l’apertura alle

pressioni di Confindustria sulle relazioni sindacali, in direzione di futuri “contratti di sacrificio” (come li ha definiti Fassina, responsabile nazionale lavoro del PD). In terzo luogo un rilancio delle liberalizzazioni nei servizi, in nome del primato della concorrenza, e in contrasto frontale con l’esito del referendum: come si evince dalla stessa proposta di legge presentata dal PD in fatto di servizio idrico. In quarto luogo, la continuità delle guerre: dove già oggi è il PD a sfidare il governo sulla lealtà atlantista, contro le defezioni “irresponsabili” della Lega. Una Lega razzista che Bersani peraltro continua a corteggiare, in vista di possibili collaborazioni future, e in nome della “mediazione”, già raggiunta, sulla truffa federalista per le Regioni.

VENDOLA E FERRERO SUL CARRO DEL CENTROSINISTRA: A PAROLE CON GLI OPERAI, NEI FATTI ALLA CODA DEI PADRONI Domanda: è questa la risposta alla domanda

di svolta che sale nella società italiana?. No, è l’opposto. Eppure le sinistre italiane restano legate al patto inossidabile col PD e il centrosinistra. Il loro appello a “Far pesare il vento nuovo del referendum nel futuro programma del centrosinistra” è francamente patetico. E’ la stanca, eterna riproposizione di quella illusione truffaldina che viene propagata ad ogni cambio politico per subordinare i movimenti al centrosinistra: cioè alla scambio tra poltrone di governo e accettazione della politica borghese. E’ tanto vero che il candidato premier Nichi Vendola, per legittimarsi presso i poteri forti, deve già oggi assicurare che “Non si può difendere il vecchio Welfare”,” che “non va posto alcun steccato verso l’ UDC” che va “salvaguardata la collocazione internazionale dell’Italia”. Sino a rivendicare una fusione di SEL col PD entro un comune partito borghese. Quanto alla FDS l’ex ministro Paolo Ferrero ha chiarito su Il Manifesto, che se non si candida al governo non è certo per questioni di principio (non dubitavamo), ma è solo perchè “sembra vogliano escluderci”. Di conseguenza Ferrero si rassegnerebbe .. ad appoggiare il governo di centrosinistra dall’esterno: in cambio di un patto elettorale col PD che consenta alla Fds di eleggere, con l’auspicata soglia del 2%, un gruppo di deputati.. subalterni al centrosinistra confindustriale.E questa sarebbe la sinistra.. “ radicale”?

UNA SINISTRA RIVOLUZIONARIA PER LA NUOVA GENERAZIONE

Tutto lo scenario politico pone la necessità e l’urgenza di un indirizzo opposto. La rottura col PD e il centrosinistra è la condizione decisiva per offrire alla domanda di svolta una risposta coerente. Per liberare oggi una mobilitazione di massa straordinaria che persegua il rovesciamento del governo Berlusconi- Bossi. Per aprire dal basso la prospettiva di una alternativa vera alle classi dirigenti del Paese e al loro Stato.Perchè questo è il punto di fondo: dentro una società dominata dagli industriali, dai banchieri, dalla dittatura del profitto, non sarà possibile soddisfare la domanda di beni comuni sollevata da tanta parte della giovane generazione; così, dentro uno Stato retto e gestito dal sottobosco bipartisan dei Bisignani, in perfetta continuità tra prima e seconda Repubblica, non sarà possibile soddisfare la domanda reale di “pulizia” e di “democrazia” che oggi si leva contro il berlusconismo e il malaffare. Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può dare al nuovo vento una prospettiva reale di liberazione. Ogni altra soluzione di governo sarebbe la continuità del presente e del passato.Po

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dalle urne alle piazze

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011 / Pagina 2

di Franco Grisolia

Alla fine del maggio 1940, mentre ancora le truppe francesi, inglesi e belghe tentavano di resistere alla travolgente offensiva tedesca il re del Belgio, Leopoldo, firmò improvvisamente la resa del suo paese a Hitler. Salvò così se stesso (che visse onorato gli anni di guerra in un castello avito, mantenendo il suo titolo formale) e la sua corte, ma condannò il Belgio e il suo popolo.Come il re del Belgio e di fronte ad un nemico meno potente, Susanna Camusso, firmando l’accordo interconfederale sulle regole contrattuali ha salvato sé stessa e la burocrazia della CGIL, ma ha tradito e svenduto il suo popolo, cioè gli iscritti della CGIL e i/le lavoratori/trici tutt*.

Le difficoltà della concertazione ai tempi di Berlusconi

In realtà , per quanto limitata, ultramoderata e inefficace, la linea di “non accordo” con il padronato e in primo luogo con la Confindustria stava da sempre stretta alla burocrazia della CGIL. Essa era prodotto esclusivamente del successo elettorale Berlusconiano del 2008. Questo successo faceva saltare la tradizionale politica di concertazione triangolare (burocrazie, padronato, governo) a perdere della burocrazia dirigente della CGIL da due versanti diversi, ma collegati. Da un lato le esigenze politiche dei partiti della “sinistra” borghese, in primo luogo il PD, implicavano che la CGIL si tenesse distante da accordi troppo espliciti col governo. Dall’altro, da parte del governo Berlusconi non vi era nessuna volontà di apertura, al contrario; in particolare da alcuni ministri come Sacconi e Brunetta, vi era l’esplicita volontà di realizzare, se non la distruzione della CGIL, perlomeno la sua marginalizzazione e minoritarizzazione, creando un asse “totalitario” nelle relazioni sindacali con CISL e UIL, del tutto vendute al fiancheggiamento a governo e padronato.In questo quadro la CGIL, riflettendo anche la linea politica del PD, aveva come centro del sua strategia politica quello di ricostruire un asse concertativo con il padronato, a prescindere e se possibile contro il governo e la sua politica, in nome dei comuni interessi dei “ceti produttivi” contro il populismo berlusconian-leghista. In particolare la pressione si esercitava nei confronti della “democratica” presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, con la speranza, in questo quadro a-governativo, se non antigovernativo, di ritrovare forme di unità con CISL e UIL. L’asse della posizione maggioritaria nel congresso della CGIL dello scorso anno era questo. Purtroppo per Epifani e Camusso, al di là delle opzioni personali, la Marcegaglia non poteva non tenere conto del quadro politico dominante, della logicità, dal punto di vista capitalistico della politica di rigore di Tremonti, della volontà delle burocrazie ultravendute di CISL e UIL di mettere nell’angolo la CGIL La formale linea di “opposizione” della CGIL nello scenario sindacale italiano, del tutto astratta e inconcludente, si spiega solo con questa situazione.La crisi del berlusconismo riapre i giochi per la burocrazia CGIL E’ stato solo lo sviluppo della crisi del berlusconismo che ha permesso di superare questa situazione.

Benché le conclusioni di questo processo siano ancora non certe, è evidente che si pone lo scenario di un nuovo governo del paese. Riacquistare un rapporto concertativo con la CGIL è diventato quindi possibile e utile Quanto a Cisl e Uil, dominate dal vecchio detto “de Franza o Spagna, purché se magna”, diventava opportuno consolidare una parte di quanto acquisito con un accordo di sostanziale svendita da parte della CGIL.E’, come conosciuto bene dai nostri lettori, quanto si è realizzato con l’intesa. In cambio di qualche concessione formale e confusa su regole di calcolo della rappresentanza Susanna Camusso ha accettato di aprire su questioni centrali, come l’assenza di verifica referendaria sugli accordi, la derogabilità dei contratti nazionali, il loro carattere di cornice con demandi, la “tregua” nelle lotte sindacali anche da parte di chi non firmi un accordo, a condizione che esso sia accolto dalla maggioranza delle RSU (con la regola antidemocratica del terzo riservato a CGIL, CISL e UIL) e altro.Un tradimento non solo dei lavoratori, degli iscritti CGIL e delle, sia pure limitate, battaglie compiute della FIOM in questo ultimo anno, ma anche delle posizioni formali della stessa maggioranza CGIL e dello statuto della confederazione, che impegna alla ricerca di regole condivise perché ogni contratto sia sottoposta alla validazione dei lavoratori. Le grida di gioia emanata da tutto lo schieramento

politico borghese e padronale sono la dimostrazione del vero carattere dell’accordo realizzato, anche se il governo e Sacconi, sono stati tenuti ai margini della trattativa e la Fiat non ha visto realizzate tutte le sue aspirazioni.Il vero vincitore politico della partita è in realtà il PD, che risolve così anche le sue contraddizioni interne tra settori filoCGIL e settori filoCISL.

I limiti della minoranza CGIL

La minoranza di sinistra della CGIL, “La CGIL che vogliamo” e il suo cuore operativo, la FIOM, hanno risposto in maniera positiva e netta al tradimento. Il problema che si pone per esse è quello di come rispondere nel futuro sia all’interno della CGIL che tra i lavoratori.Noi abbiamo più volte segnalato i limiti della minoranza CGIL e della FIOM. La FIOM ha costituito un argine importante all’offensiva padronale, ma nulla di più.Proprio la vicenda FIAT ha dimostrato tutti limiti strategici del gruppo Rinaldini-Landini.Un anno e mezzo fa, all’inizio dello scontro con la FIAT sarebbe stato necessario lanciare un piano di lotta generale, comprendente l’occupazione delle aziende. Ciò avrebbe

potuto partire dalla fabbrica la cui chiusura era prospettata a chiare lettere, cioè Termini Imerese, dove la FIOM è molto forte e dove esisteva la disponibilità dei lavoratori , così come il sostegno sociale della comunità. Invece la FIOM, in parte non cogliendo pienamente il significato dell’attacco FIAT, in parte perché chiusa in un orizzonte riformista, non lanciò alcuna offensiva ma si limitò a stare ferma, mentre la FIAT andava avanti. La linea Fiom era quella della richiesta di “una vera trattativa” Senza cogliere l’evidenza lampante della necessità di una prova di forza.Lo stesso discorso vale per la minoranza CGIL. Il suo quadro di riferimento resta quello di un impossibile scenario riformista, un ritorno agli “anni d’oro” dell’ascesa capitalistica dei trent’anni del dopoguerra e dell’esistenza dell’URSS, che rendevano possibile che una “normale” lotta di classe strappasse un quadro di conquiste parziali sia sul terreno del salario diretto che su quello del cosiddetto Welfare. Così, sul terreno più strettamente sindacale, quello che la “CGIL che vogliamo” propone è la “ripresa di una stagione di seria lotta rivendicativa attorno ai contratti”.Non c’è la comprensione che da lungo tempo siamo entrati in una nuova fase del capitalismo, una fase di crisi sociale, in cui il capitale attacca non a fucilate ma a colpi di cannone le conquiste operaie, a partire dalla necessità e volontà, di fronte ad una contrazione dello sviluppo, di salvaguardare i suoi tassi di profitto. Di fronte a ciò la vecchia politica riformista riproposta come alternativa alle svendite della burocrazia, non solo, come un tempo, blocca le potenzialità rivoluzionarie dello scontro di classe, ma è del tutto illusoria.Per una opposizione sindacale anticapitalista Solo una azione radicale, nelle forme di lotta e negli obbiettivi, può dare speranza di successi, anche parziali, ai lavoratori e agli oppressi.E’ necessario porre la prospettiva di una vertenza generale dei lavoratori con uno sciopero generale prolungato, intorno a rivendicazioni come l’abolizione dei contratti di precarietà e l’assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari, la riduzione drastica dell’orario di lavoro; un dignitoso salario minimo esteso a tutti i disoccupati e a chi è in cerca di lavoro; un significativo aumento di salari e pensioni e la democrazia sindacale. Le risorse per tutto ciò vanno cercate in quei centocinquanta miliardi di euro che, in questi vent’anni, governi di destra come di centrosinistra (inclusi quelli con la sinistra “radicale” dentro) hanno fatto sì che passassero da salari, stipendi e pensioni a profitti e rendite. Questo implica un programma generale che, anche per una corrente sindacale, si ponga su un terreno realmente anticapitalistico, rivendicando di fronte ai “pianti greci” dei padroni , l’esproprio senza indennizzo delle aziende “in crisi”, e di fronte alla crisi finanziaria invochi l’annullamento puro e semplice del debito estero e interno verso le banche e gli istituti finanziari .E’ solo con questo programma di alternativa anticapitalistica che una vera sinistra sindacale, all’altezza dei tempi e dei compiti che ne derivano, potrà contrapporsi ai tradimenti strategici di Susanna Camusso e degli altri burocrati “rappresentanti della borghesia in seno al movimento operaio” (Lenin). E’ quello per cui lottano in seno alla “CGIL che vogliamo” i militanti del PCL.

Il tradimento di Susanna Camusso

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011 / Pagina 3

A cura di Antonino Marceca

La Fincantieri è un’importante struttura industriale di cantieristica navale, soprattutto nei settori delle navi da crociera, delle navi militari, dei mega-yacht e delle riparazioni. E’ una delle poche aziende industriali a prevalenza statale controllata per il 98,8% dalla Fintecna, holding del ministero del tesoro, e per il 1,2% da Citibank. Il tentativo di quotare l’azienda in borsa nel 2008, prima dal governo Prodi (centrosinistra) e poi dal governo Berlusconi (destra), è stato bloccato dalla mobilitazione dei lavoratori. Se questo sconsiderato tentativo di privatizzazione, proposto dall’Ad Giuseppe Bono e sostenuto dalla Cisl di Bonanni, si fosse realizzato la speculazione finanziaria avrebbe spazzato via anche questa industria manifatturiera.

Puoi descrivere la struttura aziendale in Italia?Stefano Fontana: La direzione generale è a Trieste, a cui fanno capo gli stabilimenti di Monfalcone (Go), Marghera (Ve), Sestri Ponente (Ge) per le navi da crociera; Ancona, Palermo e Castellammare di Stabia (Na) per le navi da trasporto; Muggiano (Sp) e Sestri Levante (Ge) per le navi militari. La Fincantieri ha circa 8.500 mila dipendenti diretti, almeno il doppio sono i lavoratori delle ditte d’appalto. Questi ultimi sono in gran parte lavoratori immigrati che con il posto di lavoro, per effetto delle leggi razziste, rischiano di perdere anche il permesso di soggiorno.

Quale è lo stato della cantieristica mondiale?Stefano Fontana: La cantieristica navale da almeno tre anni attraversa una fase di grave crisi capitalistica di sovrapproduzione, a cui il capitale risponde con concentrazioni, centralizzazione e ristrutturazioni. Per le caratteristiche intrinseche internazionali del settore navale e per la stretta interdipendenza dei suoi segmenti la crisi ha un impatto mondiale. Basta considerate che nel 2008 il valore dei noli delle navi bulk (Baltic Dry index), contenitori di materie prime, ha subito un vero e proprio crollo. Nel settore delle nuove costruzioni nel marzo 2008 la domanda mondiale ha subito una forte contrazione. In particolare nel comparto standard (il 70% del mercato globale che comprende navi container, bulk carriers/combo, general cargo, oil tankers e product tankers) gli ordini sono scesi del 46%, mentre nel comparto high tech (ferries, car carries, chimica tankers, reefers e off shore) del 59%. Nel 2009 la riduzione della domanda di nuove navi è stata del 90% (dati Cesa). La cantieristica europea non poteva rimanere immune dall’ondata di crisi, inoltre subisce la concorrenza dei paesi asiatici. La Cina e la Corea del sud, grazie al sostegno statale, nel 2008 avevano il 76% degli ordini di nuove navi, la Corea del sud il 46% nel trasporto standard e il 43% in quello high tech; la Cina,

rispettivamente, il 37% e il 17%. Nel 2008 i cantieri navali sudcoreani STX avevano ottenuto il controllo dell’88,37% di Aker Yards, la più grande società norvegese quotata in borsa, oggi in fase di ristrutturazione e ridimensionamento. Anche i Chantiers de L’Atlantique, pur sostenuti dal governo francese sono caduti sotto il controllo coreano. La Germania ha puntato sulle grandi infrastrutture destinate alla movimentazione dei container. In Europa tra il 2008 e il 2010 sono stati licenziati oltre 48 mila lavoratori del settore, circa il 30% degli occupati. La Fincantieri produce prevalentemente navi crociera, ma si tratta di una piccola nicchia, con un mercato saturo: nel 2009 la domanda mondiale si è ridotta del 55%. La rottamazione è un mercato povero, presente in India e Bangla Desh.

Cosa propone l’azienda?Stefano Fontana: L’azienda vuole scaricare la crisi sui lavoratori, per aumentare la produttività intende applicare in Fincantieri la linea che Marchionne sta applicando nel gruppo Fiat. La direzione aziendale alla fine del 2007 aveva come obiettivo la collocazione in borsa dell’azienda e la sua internazionalizzazione. Mentre la privatizzazione è stata bloccata dalla mobilitazione della Fiom e dei lavoratori, il processo di internazionalizzazione è proceduto con l’acquisto nel 2008, in società con Lockheed Martin, dei cantieri militari Marinette in Wisconsin negli Stati Uniti. L’obiettivo era di partecipare alle grandi commesse militari Usa. Nel luglio 2010 Repubblica rese noto un piano Fincantieri che prevedeva migliaia di licenziamenti, ma la risposta della Fiom Cgil non è stata immediata. Quando a metà maggio 2011 l’azienda presenta il piano industriale Francesco Grondona, segretario provinciale della Fiom-Cgil di Genova ed esponente di Lotta comunista, incredibilmente considera il piano “un fulmine a ciel sereno”. Il piano aziendale prevedeva la chiusura degli stabilimenti di Castellammare di Stabia, Riva Trigoso e previa chiusura temporanea (tre anni!) l’allargamento a mare dello stabilimento di Sestri Ponente. Nei fatti la chiusura di tre stabilimenti su otto e il licenziamento di 2551 lavoratori diretti, oltre a migliaia di indiretti. Un migliaio di licenziamenti (1125) avrebbero dovuto essere spalmati negli altri stabilimenti (Palermo, Muggiano, Marghera, Ancona, Monfalcone). Il piano aziendale non solo prevede la chiusura degli stabilimenti e il licenziamento di migliaia di lavoratori, ma anche un drastico ridimensionamento dei diritti e un aumento dello sfruttamento, attraverso una riorganizzazione del lavoro secondo la linea Marchionne.

Quale è la situazione dello stabilimento di Marghera?Stefano Fontana: Anche nello stabilimento di Marghera, che conta circa 1100 lavoratori diretti e circa 2000 lavoratori indiretti, la crisi capitalistica brucia posti di lavoro. Nello stabilimento di Marghera centinaia di lavoratori diretti e degli appalti sono in cassa integrazione. Nel cantiere dopo la consegna della nave ’88 a fine giugno, resta una sola nave da completare. Lo stabilimento ha una storia di mobilitazione e di lotta, come dimostrano le lotte che abbiamo condotto nel 2008 per il contratto e contro i licenziamenti miranti a creare un clima di intimidazione e paura tra i lavoratori. I lavoratori, appartenenti a tutte le sigle sindacali ed anche non iscritti ai sindacati, hanno risposto alla

mobilitazione, agli scioperi e ai picchetti. Lo stesso vale per i lavoratori delle ditte d’appalto, molti dei quali immigrati. La linea politico-sindacale della Fiom Cgil deve tendere ad unificare la lotta dei lavoratori diretti e indiretti dello stabilimento, per ribaltare la gestione unilaterale dell’azienda rispetto ai volumi e alla modalità di cassa integrazione.

Quale è stata la reazione dei lavoratori al piano aziendale?Stefano Fontana: I lavoratori dello stabilimento di Ancona il 22 aprile hanno occupato, in segno di protesta, i binari della stazione ferroviaria per rivendicare la certezza del posto di lavoro. Dopo l’annuncio del piano aziendale, a partire da lunedì 23 maggio i lavoratori hanno dato una prima risposta rivolgendo la propria rabbia contro il governo. A Genova i lavoratori Fincantieri, Ilva e Ansaldo, con l’importante sostegno degli studenti, si sono

diretti verso al prefettura. La polizia ha sbarrato gli ingressi e ha caricato i lavoratori. A Castellammare di Stabia i lavoratori hanno fatto irruzione ed occupato il municipio, mentre il sindaco chiedeva l’intervento dell’esercito. Inoltre picchetti, scioperi e manifestazioni si sono tenuti nei cantieri e nelle città, compresa Marghera, dove è presente il gruppo industriale. Dopo dieci giorni di mobilitazione, il 3 giugno il ministero ha convocato il tavolo, presenti governo, azienda e sindacati Cgil, Cisl e Uil. I lavoratori presenziano con una manifestazione, l’Ad Giuseppe Bono e il governo sotto la pressione della piazza ritirano il piano per evitare “tensioni”.

Dopo il ritiro del piano, quale prospettiva?Stefano Fontana: Non c’è dubbio che la decisa mobilitazione dei lavoratori, sopratutto a Genova e Castellammare di Stabia, ha costretto il governo a ritirare il piano aziendale, si tratta di una prima vittoria dei lavoratori. Ma stante la situazione di crisi strutturale della cantieristica mondiale è chiaro che l’azienda e i sindacati complici ritorneranno alla carica. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, il 9 giugno dopo aver attaccato la Fiom-Cgil, ha rilanciato il piano di privatizzazione dell’azienda attraverso l’ingresso in borsa. La Cgil deve costruire una nuova linea politico-sindacale esattamente opposta a quella indicata da Bonanni. Di fronte all’attacco del governo e del padronato è necessario prepararsi a un duro scontro sociale nel prossimo periodo. Da questo scontro si esce vincenti solo se il sindacato, in particolare la Fiom-Cgil, mobilita i lavoratori e i propri delegati, costruisce un vero coordinamento nazionale Fincantieri che assuma la direzione delle lotte, mettendo in campo anche l’occupazione degli stabilimenti e la nazionalizzazione sotto controllo operaio. Il sindacato ha di fronte una duplice scelta: la costruzione di una vertenza generale sulla base di una piattaforma unificante o l’assunzione del punto di vista aziendale e la chiusura nel suo perimetro. Noi proponiamo la prima ipotesi.

LA LOTTA IN FINCANTIERI IN DIFESA DEGLI STABILIMENTI E DELL’OCCUPAZIONEIntervista a Stefano Fontana del Direttivo Provinciale della Fiom-Cgil di Venezia

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011 / Pagina 4

Dal Nord Africa al Medio Oriente La rivoluzione investe l’intera nazione arabadi Antonino Marceca

La rivoluzione araba costituisce un evento storico che modifica i rapporti di forza tra le classi nello scacchiere mondiale, come è evidenziato dal ri-chiamo esercitato nelle principali piazze europee. Nell’arco di pochi mesi la rivoluzione si è pro-pagata dal Nord Africa al Medio Oriente, coin-volgendo in forme diverse numerosi paesi della nazione araba e dimostrando nel contempo la na-tura artificiosa degli stessi confini che dividono gli stati della regione. L’innesco della rivoluzione è con tutta evidenza riconducibile ad un intreccio dialettico di fatto-ri economici, sociali e politici: il peggioramen-to delle condizioni materiali di esistenza dovuto all’impatto della crisi capitalistica, la perdita di valenza dei titoli di studio acquisiti, la precarietà esistenziale accresciuta dalla crisi capitalistica, il blocco o la forte limitazione della valvola di si-curezza rappresentata dall’emigrazione, l’assen-za o la forte limitazione delle libertà democrati-che. Questi fattori nel complesso sono divenuti insopportabili ai lavoratori, alle masse giovanili disoccupate, a larghi strati popolari. Quando que-ste forze si misero in moto si trovarono la strada sbarrata da un potere politico inamovibile varia-mente rappresentato da dittature militari, regimi islamico-monarchici, regimi bonapartisti sempre più ereditari. In questo quadro le rivendicazioni democratiche hanno svolto una funzione unifican-te del vasto fronte di mobilitazione e di lotta per la cacciata dei tiranni.

LA “CACCIATA DEI TIRANNI” BEN ALì E MUBARAK

La classe operaia e i giovani disoccupati hanno svolto un ruolo centrale nel movimento che ha portato rispettivamente in Tunisia ed Egitto alla cacciata di Ben Alì e Mubarak. Gli scioperi operai del biennio 2007-2008 in Egitto e Tunisia hanno rappresentato l’aurora della rivoluzione araba. La partecipazione al processo rivoluzionario dei lavoratori si è riflessa nel rafforzamento delle componenti più conflittuali nel sindacato tunisino Ugtt e nella costituzione, il 30 gennaio 2011, della Federazione egiziana dei sindacati indipendenti. La partecipazione delle donne arabe oltre ad evi-denziare la natura laica del movimento ha portato al rafforzamento delle organizzazioni femminili e alla mobilitazione per l’8 marzo 2011 nelle prin-cipali città arabe, compresa l’Arabia Saudita dove le donne il 17 giugno hanno violato la legge wa-habita che vieta loro persino di guidare un’auto. Dopo la cacciata di Ben Ali e Mubarak, il prole-tariato -per i limiti politici e programmatici delle attuali direzioni della sinistra politica e sindacale, per l’assenza di una significativa presenza mar-xista rivoluzionaria in grado di intervenire sulla base di un programma transitorio- non ha impe-dito lo sbocco liberale della prima fase della rivo-luzione. Uno sbocco borghese che è in profonda contraddizione con le rivendicazioni democrati-che e parziali del movimento. In Tunisia il nuovo governo provvisorio, dopo le dimissioni del pri-mo ministro Mohamed Ghannouchi, rimane nelle mani del personale politico del vecchio regime. Le mobilitazioni sindacali e di massa hanno co-stretto i ministri espressione della burocrazia sin-dacale Ugtt e della sinistra riformista (l’ex partito comunista Ettajdid e il Pdp) a dimettersi dal go-verno provvisorio. Il governo di Beji Caid Essebsi sotto la pressione delle masse ha dovuto eliminare le restrizioni alla formazione dei partiti politici e ha indetto le elezioni dell’Assemblea costituente.

In Egitto il nuovo potere è stato ereditato dall’eser-cito borghese. Il Consiglio supremo delle Forze Armate, legato agli Stati Uniti, si è fatto promo-tore della transizione nominando il governo mili-tare-civile, presieduto dal generale Ahmed Shafiq e sostenuto dai liberali e dagli islamisti. Questo governo, rafforzato dal referendum sulla modifica costituzionale, ha preso una serie di decisioni rea-zionarie per bloccare il movimento, a partire dagli scioperi operai. Tali misure comprendono restrin-gimenti e forti limitazioni del diritto di sciopero, attraverso una legge anti-sciopero, e restrizioni alla costituzione di partiti politici, per poter meglio gestire le programmate elezioni politiche. A metà febbraio la rivoluzione che sconvolgeva le piazze arabe del Nord Africa ha raggiunto la Li-bia del colonnello Muammar Gheddafi, il regime militare ha reagito con la massima brutalità per stroncare la rivolta nel paese. L’estrema debo-lezza del proletariato nativo, rimpiazzato da un proletariato immigrato e semiservile, l’assenza di organizzazioni politiche e sindacali del movimen-

to operaio, distrutte prima dalla repressione con-giunta dell’imperialismo inglese e dalla monarchia di re Idris aI-Sanussi e poi annientate dal regime militare degli Ufficiali Liberi, ha rappresentato e rappresenta uno dei fattori di debolezza della rivo-luzione in Libia. Il governo provvisorio di Bengasi è popolato da esponenti civili e militari provenien-ti dal regime di Gheddafi, lo stesso Mustafà Abd al-Galil, presidente del Consiglio Nazionale Libi-co, è stato ministro di giustizia del regime. Que-sto governo ha cercato fin dalla sua costituzione il sostegno dell’imperialismo, subito accorso per riconquistare un peso diretto negoziale sull’intera regione e bloccare la dinamica della rivoluzione. Nelle aree liberate dalla dittatura militare, la mag-giore agibilità democratica evidenziata dallo svi-luppo di nuovi mezzi di informazione, sopratutto radio e giornali, permette alle deboli forze della si-nistra un lavoro iniziale di costruzione delle orga-nizzazioni sindacali dei lavoratori, sopratutto nella scuola, pubblico impiego e banche. Questo quadro contraddittorio evidenzia l’importanza dell’inter-vento dei marxisti rivoluzionari a sostegno della rivoluzione, contro l’intervento imperialista e per l’abbattimento del regime di Gheddafi.

LA “RESISTENZA DEI TIRANNI” AL-KhALIFA, ALI SALEh, AL-ASSAD

Il vento della rivoluzione ha raggiunto ben pre-sto il Medio Oriente. Il Bahrain, importante cen-tro finanziario e strategico arcipelago del Golfo Persico, dove ha sede la base della Quinta Flotta della Marina militare statunitense, è stato inve-stito dall’onda rivoluzionaria a fine gennaio. La Piazza della Perla, nella capitale Manama, è stata presidiata da migliaia di dimostranti che rivendi-cavano riforme democratiche. Il re Hamad bin Isa al-Khalifa, legato all’imperialismo statunitense e all’Arabia Saudita, non ha esitato per stroncare

la rivolta a chiedere l’intervento militare saudi-ta. Un migliaio di militari sauditi e 500 poliziotti degli Emirati Arabi Uniti hanno preso il controllo del piccolo arcipelago. La caduta della monarchia di Manama avrebbe fortemente contribuito a mi-nare le basi del più importante bastione islamista reazionario della nazione araba: l’Arabia Saudita wahabita del re Abdullah bin Abdul-Aziz.Anche Sanàa, la capitale dello Yemen, a fine gen-naio ha visto la scesa in campo di migliaia di per-sone per chiedere le dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh. La protesta sul terreno democra-tico è iniziata all’Università di Sanàa, prendendo esempio dalla rivoluzione tunisina, estendendosi ben presto alle maggiori città del paese. Dopo mesi di repressione poliziesca e militare, si sono verificate spaccature nell’esercito. All’inizio di giugno veniva assaltato il palazzo del governo, Saleh ferito gravemente si rifugiava in Arabia Saudita. Nel paese lo scontro continua, mentre l’imperialismo statunitense cerca di controllare la transizione nel tentativo di evitare la perdita di un fedele e strategico alleato. In Siria dopo tre mesi di mobilitazione di mas-sa sulla base di rivendicazioni democratiche, di fronte alla feroce repressione poliziesca e militare del regime, il Coordinamento dei comitati locali (Lcc), espressione dell’opposizione, ha reagito ri-vendicando la cacciata di Bashar al-Assad. Un re-gime retto da un ramificato sistema di controllo e repressione, legittimato dalla legge di emergenza in vigore dal 1963, anno in cui il Baas prese il po-tere. Nel 1970 la presidenza è stata assunta da Ha-fez al-Assad e alla sua morte nel giugno del 2000 è stata trasferita al figlio Bashar. Il partito Baas di al-Assad, il cui ruolo guida è riconosciuto dalla Costituzione, ha costituito nel 1972 il Fronte na-zionale progressista a cui partecipa il Partito Co-munista Siriano, organizzazione stalinista diretta da Khaled Bakhdash. Il PCS nel 1986 si divise in due partiti stalinisti, entrambi hanno continuato a mantenere ministri nel governo. Le forze della sinistra contrarie a subire il bonapartismo borghe-se degli al-Assad sono state duramente represse e benché indebolite oggi partecipano al movimento di massa.

ATTUALITà DELLA TEORIA DELLA RI-VOLUZIONE PERMANENTE

La rivoluzione araba rappresenta un fattore di destabilizzazione degli equilibri energetici e geo-politici in un’area cruciale dello scenario mondia-le. Proprio per questo le potenze imperialiste, in alleanza con l’Arabia Saudita e lo Stato di Isra-ele, sono intervenute attivamente per bloccare o deviare la rivoluzione araba. L’intervento milita-re in Libia e l’invasione del Bahrain, il sostegno all’esercito egiziano e ai partiti islamisti, si inqua-drano in questa azione di contrasto della rivolu-zione. Anche per questo l’opposizione dei rivolu-zionari all’intervento imperialista deve muoversi dal sostegno alla rivoluzione araba. La rivoluzione araba conferma pienamente la te-oria marxista della rivoluzione permanente. Le rivendicazioni democratiche e parziali su cui si sono mobilitati milioni di lavoratori, studenti e masse popolari possono essere pienamente realiz-zate solo da un governo dei lavoratori che rompa con l’imperialismo, con le borghesie nazionali e i loro apparati statali, nella prospettiva della Fe-derazione socialista araba. Proprio la grandezza dell’evento storico che abbiamo sommariamente descritto evidenzia la necessita della ricostruzio-ne della Quarta Internazionale e delle sue sezioni in tutti i Paesi.

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011/ Pagina 5

SPAGNA Indignati, presente e futuro.di Baez Seara, David(traduzione di P.V.)

Con le manifestazioni del 19 luglio in tutto lo Stato spagnolo, il movimento degli indi-gnati, nato a Madrid nei giorni precedenti le elezioni regionali del 15 maggio, ha mo-strato una capacità di mobilitazione che po-chi credevano possibile. A più di un mese dall’inizio degli accampamenti a Puerta de Sol il movimento aumenta la sua forza ed inoltre si allarga a livello internazionale no-nostante la campagna dei media reazionari che hanno ingrandito incidenti isolati ten-tando di etichettare migliaia dei suoi appar-tenenti come violenti e filo terroristi.

Origini del movimento 15 maggio

Il movimento oggi conosciuto universal-mente come “ gli indignati “ o semplice-mente come “movimento 15 maggio” ha avuto la sua origine in Internet. Per mezzo delle reti sociali, gruppi formati recente-mente attraverso Internet, come Madrilo-nia o “Democrazia reale ora” (DRY) hanno dato vita ad una serie di proposte e azioni culminate con un accampamento a Porta del Sol di Madrid il 15 maggio, ad una settima-na dalle elezioni regionali del 22 maggio. Questi gruppi particolarmente DRY, pur non avendo rapporti con i partiti politici e non identificandosi esplicitamente come “di sinistra”, nascono non solo come reazione alla forma con cui il governo ha gestito e gestisce la crisi economica, ma anche contro l’ingiustizia di un sistema economico e isti-tuzionale che permette che siano i lavoratori a portare il peso del recupero dell’economia capitalista.Il motto “siamo persone, non merci in mano ai politici ed alle banche”, lascia pochi dub-bi circa il carattere rivendicativo del movi-mento. Dall’accampamento del Sol a Ma-drid la rivolta si estende a tutto il territorio nazionale. Si sono alzati accampamenti a Barcellona, Valenza, Siviglia, Santiago ed anche in piccole città e paesi dello Stato spa-gnolo. Ciascun accampamento in ciascuna città era autonomo e di natura assembleare, e quindi non esisteva un organo centrale di coordinamento. Dall’esperienza degli ac-campamenti è nata un’altra organizzazione, diffusasi spontaneamente, chiamata “Spa-nish Revolution”. Sebbene quest’ultima e DRY non siano la stessa cosa, la maggioranza dei partecipan-ti vedono queste organizzazioni non come organo di direzione o coordinamento, ma come partecipanti collettivi del movimento 15 maggio. Dopo le elezioni del 22 maggio, nelle quali il partito popolare ha consegui-to la vittoria nella maggioranza dei comuni e delle regioni spagnole, il movimento 15 maggio ha deciso di continuare a resistere

per dimostrare che le sue rivendicazioni sono di carattere sistemico e non possono essere delegittimate per il semplice fatto che alcune elezioni regionali hanno dato la vittoria ad un partito conservatore. Ul-timamente, il 13 giugno, l’accampamento del sole ha deciso di dissolversi e convo-care assieme ad altri collettivi e organizza-zioni, una marcia di poter nelle principali città. Così il 19 giugno circa 400.000 per-sone hanno marciato unite contro la cri-si e di capitale dando vita alla maggiore mobilitazione sociale dello Stato spagnolo dai tempi delle manifestazioni contro la guerra in Iraq nel 2002. Attraverso una ra-dicalizzazione pragmatica del movimen-to, la lotta si estende attraverso proposte concrete di azione la natura eterogenea del movimento 15 maggio, può causare diffi-coltà nella prospettiva di andar oltre sem-plici accordi “ minimi”. Tuttavia sembra che la discussione più o meno teorica so-pra la natura ed il contenuto concreto del-le rivendicazioni, stia passando in secondo piano, ed il movimento 15 maggio si stia concentrando nell’organizzare azioni sul-le quali esiste un consenso pratico circa le sue necessità. Un esempio pratico sono le azioni di appoggio contro lo sfratto per il mancato pagamento dei mutui ipoteca-ri, che hanno impedito che molte fami-glie fossero sfrattate dalle loro case. Tutti quelli che aderiscono al movimento 15 maggio concordano circa la necessità di rifiutare gli sfratti per mancato pagamen-to dell’ipoteca bancaria, quando una delle cause della crisi è stata il comportamento speculativo delle banche.Altro esempio è il blocco del parlamento regionale catalano, per impedire che la maggioranza conservatrice approvasse un pacchetto di tagli alla spesa pubblica so-ciale ed ai diritti sindacali dei lavoratori. La giustificazione falsamente democratica di questi tagli, è che sono stati portati da

una “maggioranza silenziosa”. L’argomen-to usato fino alla nausea, è che i parlamenti possiedono tutta la legittimità democratica basata su un mandato popolare che con-sente loro di attuare tali politiche. Tuttavia, questo discorso nasconde deliberatamente che tali tagli non siano mai citati dai par-titi politici nei loro programmi elettorali e tuttavia, quando giungono al potere, questa è la prima cosa che fanno. Contro questa concezione che i nostri governanti hanno della democrazia, quella di mentire e poi operare arbitrariamente tagliando diritti ai meno abbienti, è necessario intervenire. In questo senso il blocco del parlamento cata-lano è perfettamente giustificato da un pun-to di vista democratico. Non solo si chiede che la democrazia abbia un contenuto reale, ma di esigere anche che esistano condizio-ni che permettano che i politici siano veri delegati del popolo e che rispondano da-vanti a lui in caso di loro tradimenti, ingan-ni, corruzione o semplicemente incapacità a svolgere il proprio ruolo. Gli indignati hanno mandato chiari segnali a quelli che si piegano alle esigenze del mercato e che, facendosi alfieri di politiche di tagli, non le hanno mai applicate a se stessi. Si è visto come alcune centinaia di persone, operan-do collettivamente, sono capaci di paraliz-zare i piani oggettivamente reazionari del parlamento catalano o l’inerzia inumana del capitale nel momento di lasciare senza casa i lavoratori colpiti dalla crisi. È neces-sario fare uno sforzo perché il movimento non diventi un fenomeno congiunturale o passeggero, bensì l’inizio di un nuovo ci-clo di mobilitazione e lotta anticapitalista, nata il 15 maggio con l’accampamento del Sol. Se la maggioranza concorda sul prin-cipio per cui i lavoratori non possono paga-re per una crisi che non hanno provocato, allora la maggioranza di questi ugualmente concorderà con azioni che derivino logica-mente da questo principio.

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011/ Pagina 6

LA CRISI GRECA: RIFORMA O RIVOLUZIONE? di Marco Ferrando

Mentre scriviamo (22 Giugno), il Parlamento greco ha appena votato l’ennesimo piano di sa-crifici sociali (28 miliardi di tagli e privatizza-zioni), su mandato della U.E.. La Commissio-ne Europea, Barroso in testa, plaude entusiasta: Sarkozy, a nome dei banchieri francesi, dichia-ra che “La Francia non tollererà alcun default” della Grecia, mentre la signora Merkel chiede a Papandreu un volume di privatizzazioni an-cora più ampio, a tutela delle banche tedesche. Gli imperialismi europei, insomma, incassano e rilanciano la politica del nodo scorsoio. Dal canto suo, il governo del Pasok, sostenuto dalle banche greche, non può tuttavia cantare vitto-ria. Il baratro della crisi di consenso si fa, gior-no dopo giorno, sempre più ampia. E la corda potrebbe spezzarsi. La stessa scelta di un’ ora notturna per la seduta parlamentare sul piano economico e le relative votazioni, non è sta-ta casuale. Serviva a ridimensionare il rischio di una diretta reazione di massa delle vittime sociali del piano, che a migliaia presidiavano da giorni il Parlamento. Il fatto che ciò nono-stante il Parlamento sia rimasto oggetto, in pie-na notte, di un assedio di migliaia di giovani “indignati”, misura indirettamente il carattere straordinario dello scontro che si sta consu-mando ad Atene. Uno scontro che fa da avam-posto della lotta di classe in Europa. E il cui esito, in ogni caso, inciderà sull’intero scenario continentale.

LA QUESTIONE DEL DEBITO PUBBLI-CO

La Grecia è l’epicentro della crisi economica e politica europea. L’enorme debito pubblico del paese, amplificato dalla crisi internaziona-le, tiene in scacco la finanza europea e le stesse strutture comunitarie, precipitando tutte le loro contraddizioni.Il carattere irrazionale e parassitario del ca-pitalismo è illustrato dalla crisi greca meglio che da qualsiasi manuale. Cos’è il “debito pubblico” greco? E’ la massiccia esposizione delle banche francesi e tedesche nell’acqui-sto e detenzione di titoli di stato ellenici. Ciò significa che lo Stato greco è tenuto a pagare una massa ingente di interessi ai banchieri te-deschi e francesi. E siccome la finanza tedesca è il cuore della finanza europea, la solvibilità della Grecia diventa questione continentale e mondiale. Un default della Grecia avrebbe un potenziale effetto domino ben superiore alla relativa marginalità economica di quel paese. Ma per pagare un crescente debito pubblico ai banchieri tedeschi e francesi, la Grecia deve fi-nanziarsi. Come? Continuando a vendere titoli pubblici ai propri strozzini. Il che significa che per pagare il debito pubblico, la Grecia deve alimentare il proprio debito pubblico. E più il debito pubblico cresce, più i banchieri francesi e tedeschi pretendono tassi di interesse più alti come condizione di un acquisto “rischioso”: “Aumenta il mio rischio? Allora mi devi pagare di più”. Ciò che oggi ha spinto i titoli di Stato greci ad un saggio d’in-teresse record del 18%! Ma più salgono gli interessi da pagare agli strozzini, più aumenta il debito pubblico.. lungo una spirale inarresta-bile.Da qui il cosiddetto “aiuto” europeo e mon-diale alla Grecia. In cosa consiste l’”aiuto”? Nell’acquistare titoli di Stato greci con risor-se pubbliche, messe a disposizione da U.E. e

Fondo monetario, per consentire alla Grecia di continuare a pagare i banchieri francesi e te-deschi. Ma qui nasce un forte contrasto tra il governo tedesco e la BCE. Come rispondere al rischio reale di un default greco? La signora Merkel non sa più come spiegare ai suoi stessi elettori che devono continuare a fare sacrifici per consentire alla Grecia di salvare i banchieri tedeschi, già poco amati. E quindi pone come condizione di nuovi “aiuti” alla Grecia il coin-volgimento nel rischio delle banche private, che dovrebbero accollarsi parte degli oneri. La BCE è contraria perchè la deresponsabiliz-zazione degli Stati, e a maggior ragione della Germania, nel sostegno alla Grecia, sancirebbe di fatto il riconoscimento di un suo default, e quindi potrebbe svalutare con un effetto a ca-tena i titoli di stato detenuti dalle banche con effetti incontrollabili.

LA RAPINA SOCIALE DEL CAPITALE FINANZIARIO

Non sappiamo come si concluderà il conten-zioso, al momento “risolto” da un appello della Merkel ai propri banchieri per una collabora-zione “volontaria”. Sappiamo invece benissi-mo il costo sociale di questa mostruosa rapina per i lavoratori greci ed europei. Perchè la con-dizione ultimativa che tutti i banchieri strozzi-

ni e i loro Stati pongono alla Grecia, per conti-nuare a comprare i suoi titoli di Stato (e quindi oliare la corda dell’impiccagione) è il drastico e progressivo abbattimento della sua spesa so-ciale e delle condizioni di vita dei lavoratori, dei pensionati, dei giovani greci.L’ultimo anno ha rappresentato per la classe operaia e la gioventù greca la più pesante re-trocessione sociale del dopoguerra. Taglio sec-co degli stipendi pubblici, aumento delle tasse dirette e indirette, riduzione delle pensioni, soppressione di sussidi e prestazioni, aumento verticale dell’età pensionabile, liberalizzazio-ne dei licenziamenti nel settore privato e nei servizi pubblici. Il governo del “socialista” Pa-pandreu ha offerto ai banchieri europei lo scal-po dei lavoratori greci, per poter continuare a indebitare i lavoratori greci presso i banchieri europei.Ma siccome la cura da cavallo non ha rag-giunto lo scopo (ed anzi ha concorso ad una nuova recessione interna , con la conseguente

crescita della percentuale di debito), Papan-dreu vara oggi un’ulteriore stangata. Che non solo appesantisce ed aggrava le misure anti-popolari già intraprese, su dettato della finan-za internazionale, ma estende a dismisura il processo di privatizzazioni. La Grecia è in svendita. Porti, aeroporti, autostrade, acque-dotti, telecomunicazioni, energia, gas, persino le lotterie nazionali, sono messi all’asta.E gli acquirenti sono spesso - guarda caso - azien-de e banche europee creditrici. Con un ruo-lo di punta delle aziende tedesche (Deutsche TeleKom acquista a prezzi stracciati le tele-comunicazioni greche), ma anche italiane (il gruppo Atlantia è in corsa per autostrade e ac-quedotti), e persino cinesi (in particolare nel settore portuale). Pur di far soldi e pagare gli strozzini, il governo greco svende agli stroz-zini i beni della Grecia. Col plauso della bor-ghesia nazionale greca ed in particolare delle sue banche, anch’esse acquirenti dei titoli di Stato, anch’esse partecipi del bottino delle privatizzazioni.

IL GOVERNO GRECO TRABALLA

La rapina del secolo tuttavia non è politica-mente indolore. Il governo Papandreu, che aveva retto la prima fase della crisi, vede ora precipitare il suo consenso sociale. Il PASOK

in particolare è investito da una crisi profonda, con defezioni parlamentari, abbandoni, forti divisioni interne. Il restringimento numerico della maggioranza parlamentare, già risicatis-sima (155 deputati su 300), ha indotto Papan-dreu, sotto pressione internazionale, a invoca-re un governo di “solidarietà nazionale” per varare la nuova stretta sociale. Ma la vecchia destra reazionaria di “Nuova Democrazia” ha respinto la proposta, per far cuocere il Pasok nel suo brodo e cercare di rimpiazzarlo alle prossime elezioni.In questo quadro, un governo in condizioni di-sperate ha due soli punti d’appoggio. Il primo è la finanza europea e la crisi europea: tutti i go-verni europei sorreggono Papandreu così come i creditori sorreggono i propri esattori e gabel-lieri. Il secondo è l’opportunismo dei gruppi dirigenti della sinistra greca: che di fronte alla più grave crisi del Paese, sono del tutto inca-paci anche solo di perseguire una via d’uscita indipendente. E questo è il vero punto cruciale.

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011/ Pagina 7

L’ASCESA DEL MOVIMENTO DI MAS-SA DEI LAVORATORI E DELLA GIO-VENTU’

La classe lavoratrice e le masse popolari greche non hanno subito passivamente la propria spo-liazione. L’ultimo anno e mezzo ha registrato una forte ascesa delle lotte di massa, prevalen-temente concentrate nel settore pubblico e nei servizi. In particolare una nuova generazione di lavoratori, di studenti, di precari, di disoccupati (la disoccupazione è ormai al 15%) ha invaso lo scenario sociale e politico, col ricorso ripetuto all’azione diretta e radicale, contro il governo e il padronato, in una dinamica di scontro diffu-so con lo Stato e il suo apparato repressivo. Si sono moltiplicate in tutta la Grecia - a partire da Atene - esperienze di assemblee popolari, occupazioni di uffici pubblici, comitati di lotta a difesa di posti di lavoro e servizi minacciati. La piazza del Parlamento greco è diventata il luogo principe delle manifestazioni di rabbia contro “ladri e corrotti”. L’irruzione sulla sce-na del movimento giovanile degli “indignati” e il suo assedio del Parlamento, su richiamo dell’esperienza spagnola, assume nel contesto greco un peso maggiore che in Spagna. La pa-rola d’ordine “Pane, sapere, libertà” - che fu la bandiera della sollevazione popolare contro la dittatura dei colonnelli greci nel 1973 - è signi-ficativamente rieccheggiata in piazza Syntag-ma sulla bocca di decine di migliaia di giovani. Non a caso la questione dell’”ordine pubblico” in Grecia, di come preservarlo (o restaurarlo), è in cima alle preoccupazioni borghesi, non solo ad Atene. Il rischio di “contagio” in Europa del “radicalismo greco” è oggetto di dibattito pub-blico nei circoli dominanti del vecchio conti-nente. Tanto più a fronte delle ulteriori terapie d’urto commissionate contro il popolo greco.

SOCIALDEMOCRAZIA E STALINISMO IN GRECIA: IL RUOLO CONSERVATO-RE DEGLI APPARATI

Ma proprio questo scenario di potenzialità di-rompenti misura il ruolo conservatore degli ap-parati dirigenti del movimento operaio greco.Il Pasok, primo gestore della politica di aggres-sione sociale, è ovviamente nel mirino della protesta popolare. Ma proprio per questo ha cercato e cerca di usare i propri canali sindacali o la propria influenza nei sindacati per “rappre-sentare” parte della protesta, addomesticarla, e quindi incanalarla su un binario morto: quello della “pressione” sul governo..del Pasok, se-condo un abile gioco delle parti, tipico della socialdemocrazia. Gli scioperi promossi dal sindacato GSEE, a forte influenza socialista, hanno svolto esattamente questo ruolo: fornire alle masse un canale di sfogatoio, far defluire la rabbia, disinnescare ogni rischio di esplosione concentrata di massa. Cercando così di salvare il governo Papandreu e il capitalismo greco. La recente integrazione nel governo di un dirigen-te socialista “di sinistra” (Venizelos), critico di Papandreu, vuole coprire il governo a sinistra sul versante sindacale, per meglio consentire la nuova mazzata antipopolare.A sinistra del Pasok, l’aggregazione Syriza - riferimento greco del PRC e della Sinistra Europea - svolge un ruolo di “socialdemocra-zia di sinistra” in rapporto ai “movimenti”, in particolare giovanili. Il governo l’ha definito “un partito di bulli e di teppisti”(Panglos, vice-presidente del governo). In realtà si tratta della riedizione greca del bertinottismo italiano di 10 anni fa, stile Genova. La sua enfasi ideolo-gica “movimentista” convive con una politica di contenimento e subordinazione delle spinte più radicali dei movimenti stessi: teorizzando ad esempio il principio della “non violenza”

di fronte alla violenza repressiva dello Stato, contro ogni pratica di autodifesa di massa. Ma soprattutto è chiarificatore il suo programma: un programma di “ricontrattazione del debito pubblico greco” con le istituzioni finanziarie europee; che significherebbe “contrattare” la rapina e spoliazione dei lavoratori e dei giova-ni greci con i loro strozzini. La parola d’ordine riformista e illusoria di un’”Europa sociale e democratica” in ambito capitalistico, appare così per quello che è: la subordinazione “criti-ca” ma rassegnata al capitalismo europeo, alla sua Unione, alla sua crisi, alle sue controrifor-me sociali.In forme diverse, la politica del KKE (Partito Comunista greco) e del suo sindacato (PAME) svolge un ruolo complementare. Chi ha illu-sioni nello stalinismo greco (anche in Italia) è bene apra gli occhi. Il KKE contesta apertamente e con un lin-guaggio radicale la politica di Papandreu, così come denuncia con parole vibranti la “rapina” della U.E. Il suo “anticapitalismo” ideologico è a prova di bomba. Ma la sua linea d’azio-ne concorre a disarmare il movimento reale

delle masse: da un lato la moltiplicazione di scioperi generali una tantum, scaglionati nel tempo, in contrapposizione ad ogni proposta di sciopero generale prolungato; dall’altro una linea costantemente separatista e autocentrata nelle manifestazioni di massa e nelle azioni di lotta (manifestazioni di partito/ sindacato fiancheggiatore sempre distinte e distanti dalle manifestazioni e azioni degli altri soggetti) in una logica di contrapposizione al fronte unico di classe. Infine il costante ricorso al più ver-gognoso armamentario stalinista contro il radi-calismo di lotta della gioventù ribelle: definita e denunciata come massa di provocatori prez-zolati, e più volte aggredita dai propri servizi d’ordine di partito, col pubblico plauso del Pa-sok e del governo.Certo, il KKE ha beneficiato elettoralmente della crisi del Pasok e della sua politica gover-nativa. Ma il suo programma si riduce all’usci-ta del capitalismo greco dalla U.E in una logica di riforma dell’economia nazionale. Il fine ul-timo del KKE, al di là dei proclami, è l’ auto-conservazione del proprio apparato e ruolo po-litico dentro le istituzioni dello stato borghese. Contro ogni reale prospettiva rivoluzionaria.A sinistra della socialdemocrazia e dello stali-nismo è presente una eterogenea aggregazione centrista (Antarsia), divisa al suo interno tra diverse opzioni programmatiche (contrattazio-

ne del debito o suo annullamento?) e politi-che (“partito o movimento”?).E’ la cosiddetta “unità dei comunisti” in salsa greca: un car-tello elettorale, una commedia politica degli equivoci senza futuro. Il cui ruolo nelle lotte è sicuramente “antagonista”, ma fuori da ogni prospettiva strategica di alternativa di potere.

LA PROPOSTA DEI MARXISTI RIVO-LUZIONARI GRECI: IL POTERE DEI LAVORATORI QUALE UNICA ALTER-NATIVA.

Nella sua piena autonomia politica, solo lo EEK - sezione greca del Coordinamento per la Rifondazione della 4° Internazionale - svi-luppa un intervento di massa e una proposta programmatica all’altezza della radicalità del-la crisi greca.Il suo programma rivendica apertamente la rivoluzione sociale quale unica vera risposta alla crisi capitalista e alla sua rapina: solo un governo dei lavoratori che annulli il debito pubblico verso le banche creditrici, interne e internazionali, e nazionalizzi, sotto controllo dei lavoratori, l’intero sistema bancario, può salvare il popolo greco dalla rovina sociale; solo la prospettiva di un Europa socialista (Stati Uniti Socialisti d’Europa) che liberi il vecchio continente dalla dittatura degli indu-striali e delle banche, può offrire un futuro di-verso alle giovani generazioni europee.Questo è il programma che distingue EEK dal resto della sinistra greca. Ed è il programma che indirizza il suo intervento di massa: co-struzione del più ampio fronte unico di clas-se nel movimento di lotta dei lavoratori e dei giovani contro il settarismo burocratico del KKE; ma al tempo stesso proposta di scio-pero generale prolungato, mirato a bloccare la Grecia e rovesciare il governo; sviluppo e unificazione dell’autorganizzazione operaia e popolare; incoraggiamento e organizzazio-ne dell’autodifesa di massa contro l’appara-to dello stato; rifiuto di ogni subordinazione al feticcio istituzionale di una “democrazia” borghese, sempre più privata oltretutto di ogni parvenza di sovranità. In ogni lotta parziale, in ogni piega del movimento, lo EEK pone la prospettiva del potere come questione decisi-va: quale classe comanda in Grecia (e in Euro-pa), i lavoratori o i banchieri, la maggioranza della società o una minoranza dei capitalisti? Questo è il nodo che non si può né rimuovere, né archiviare. Sviluppare la coscienza dei la-voratori e dei giovani verso la comprensione di questa verità è l’essenza della politica rivo-luzionaria. In Grecia come in Italia.Lo EEK è ancora un piccolo partito, che non può oggi esercitare una direzione alternativa del movimento di massa. Ma è un partito che registra una crescita significativa tra i lavora-tori e i giovani. Sviluppa una crescente visibi-lità nell’azione di massa. Dispone di militanti e quadri sperimentati, con indubbio prestigio a sinistra. Non a caso è stato più volte nel mi-rino della repressione governativa e polizie-sca, subendo isteriche campagne intimidatrici da parte dei giornali del Pasok e della destra. Ciò che vi è di più coraggioso e generoso nel movimento operaio greco si concentra in que-sto piccolo partito rivoluzionario. Il cui svi-luppo misurerà, in ultima analisi, fortune e prospettive storiche della rivoluzione greca, al di là della dinamica contingente degli av-venimenti attuali.Di certo, il PCL dà e darà ai propri compagni greci tutto il sostegno e la solidarietà di cui sarà capace. Sulla base di un comune pro-gramma, di una comune politica, di un comu-ne progetto: la rifondazione dell’internazio-nale rivoluzionaria.

Il Primo Ministro Papandreu

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011 / Pagina 8

MILANO: CAMBIA IL VENTO?di Fabrizio MontuoriCandidato sindaco del Pcl Milano

Dopo l’euforia della vittoria del centro sinistra a Milano, dopo i festeggiamenti, , i concerti, ed i vari eventi che si sono susseguiti per festeggiare la sconfitta delle destre che da 20 anni governavano la città meneghina, ora bisogna fare i conti con la re-altà. Dai primi passi compiuti da Pisapia, la famosa svolta, il famoso cambiamento utilizzato in tutta la campagna elettorale non si è visto. Vi è una sorta di linea continua tra la vecchia giunta della Moratti e la nuova che si è appena insediata. Milano, capitale economica italiana, mantiene al timone del Gover-no della città i poteri forti: la grande borghesia, le lobby economiche, la Chiesa.Guardando i nomi della nuova Giunta, si può già prendere atto di questa continuità, un nome su tutti Tabacci. All’ex presidente della regione Lombar-dia, democristiano di vecchio stampo,ora iscritto all’API, il partito di Rutelli, pupillo delle grandi banche viene assegnato l’assessorato al Bilancio, un assessorato chiave per i prossimi anni, visto che nel 2015 si svolgerà nella nostra città l’Expo.Oltre a Tabacci, anche le altre forze politiche che hanno sostenuto Pisapia nella campagna elettorale hanno ricevuto un assessorato, tranne la Federa-zione della sinistra, che si è dovuta accontentare della Presidenza del consiglio comunale assegnato a Basilio Rizzo, veterano del consiglio comunale. Noi che in campagna elettorale ci siamo presentati autonomamente, avevamo già indicato che con un centro sinistra al governo della città non ci sareb-be stato un cambiamento reale. Allo stesso tempo, nell’indicazione di voto per il ballottaggio, aveva-mo dato indicazione per Pisapia, in modo critico, per cacciare le destre dalla nostra città ma non solo, voleva essere un segnale forte anche a livello na-zionale, visto che sia Berlusconi sia il centro sini-stra, avevano sostenuto che la tornata amministrati-va avrebbe avuto una valenza nazionale. Noi, come partito rivoluzionario, abbiamo sostenuto e detto che non si vive d’illusioni ma di fatti. Abbiamo già visto come i governi nazionali di centro sinistra ed anche quelli che hanno governato e governano a livello locale, sono espressione di poteri forti a sca-pito dei lavoratori, dei precari, dei giovani, degli immigrati, delle donne, dei pensionati, in generale di tutte le classi meno abbienti. Per questo durante la campagna elettorale, anche se abbiamo ottenuto un risultato pessimo, siamo stati gli unici ad aver stilato un programma di cambiamento radicale del-la città. In breve alcuni punti del programma :• Rinuncia unilaterale all’Expo 2015• Ritiro immediato del Piano di Governo del Ter-

De Magistris il sindaco delle mille illusioni

I risultati delle ultime elezioni amministrative, a Napoli come a livello nazionale, segnano profonda-mente la crisi del berlusconismo, che riceve una sonora sconfitta in tutti i fondamentali appuntamen-ti elettorali (vedi Milano, Torino, Bologna, Caglia-ri). Il sultano è agli atti conclusivi del suo dispoti-co regime bonapartista che ha portato, negli ultimi vent’anni, enormi sofferenze per la stragrande mag-gioranza dei lavoratori ormai stufi di un governo corrotto e perseverante nelle sue politiche antipopo-lari. La volontà di “cambiamento” è stata raccolta soprattutto dai due candidati vincitori rappresentan-ti in toto della classe borghese: Pisapia e De Ma-gistris. Entrambi hanno saputo cavalcare l’onda di entusiasmo e di speranza che si è venuta a creare nell’elettorato di centro-sinistra, acquistando l’au-reola di super eroi estranei alle logiche di partito, risolutori di tutti i problemi che da anni affliggono le due grandi metropoli d’Italia. Miti che sono destina-ti a fallire come sono fallite le esperienze di gover-no del centrosinistra sia a livello nazionale (governi Prodi) che locale (Bassolino, Iervolino per restare in Campania). E sui rifiuti si ricavano già i primi paragoni tra vecchie e nuove false promesse, con un De Magistris impantanato nei mille lacci e laccioli

ritorio• Ripublicizzazione dell’azienda Elettrica di Mila-no (Salvaguardando i piccoli azionisti)• Ripublicizzazione dei servizi sociali erogati dal comune con esclusione delle cooperative di servi-zi e assunzione con contratti a tempo indetermina-to di tutto il personale in servizio• Cassazione del debito comunale contratto attra-verso contratti capestro con le banche• Rinuncia all’ecopass ed aumento del trasporto pubblicoOra sarà pur vero che bisogna lasciare tempo che siamo solo all’inizio, ma questo incipit è già nega-tivo. Vediamo le prime mosse della nuova Giunta.L’indicazione di proseguire sull’Expo, compito affidato al neo assessore Boeri, incrementerà la speculazione finanziaria ed immobiliare. Questo

comporterà incrementi economici per le famiglie del mattone, Cabassi e Ligresti, e probabilmente l’ingresso di alcuni soggetti economici legati al PD e soci. Per questo sosteniamo che la città di Milano, intesa sia come pubblica amministrazione che come comunità di persone che vi risiedono e lavorano, non avrà nulla di positivo da trarre da una manifestazione come Expo; anzi ne subirà la pesante ricaduta di problemi. La stessa candida-tura all’Expo 2015 ed i progetti che si sono via via succeduti confermano tutta la povertà politica, urbanistica e di prospettiva di chi governa la città. Expo sarà certo un enorme affare, ma non per i milanesi; l’aggravarsi della crisi economica riduce ancora più la spesa pubblica per servizi e lascerà soltanto i poteri forti a dividersi la torta. Affari per i proprietari delle aree (Fiera Milano e gruppo Ca-bassi) sulle quali sorgerà il sito, cedute alla A.C. in comodato d’uso, che verranno restituite alla con-clusione di Expo con permessi di edificazione per

che regolano le istituzioni borghesi (dimostrando, ancora una volta, come i problemi delle masse non possano essere risolti all’interno dell’istituzionali-smo borghese, con la compartecipazione alle sue logiche ed ai suoi strumenti). Restando a Napoli, i dati non sono poi cosi entusiasmanti come tutti i media hanno descritto: l’alta percentuale di asten-sione (40 al primo turno e 50 al secondo) conferma il forte scetticismo che da molti anni i napoletani ripongono nelle istituzioni borghesi. Insomma il successo di De Magistris è segnato da alcuni meriti, in primis quello di aver soppiantato politicamente il candidato del Pd Morcone, ma anche da limiti, come la forte spinta al voto “critico” per la paura della vittoria di un governo fascista/malavitoso a guida Lettieri-Cosentino. La solita logica di gioco al “meno peggio” che porta alla fine al peggiora-mento delle condizioni degli sfruttati in questo si-stema economico iniquo. Scopo ed obiettivo dei comunisti è quello di svelare ed avvertire tutto il blocco sociale che ha appoggiato De Magistris che sarà lui a “scassare” i diritti e le conquiste dei la-voratori se si appresterà a fare da vassallo ai poteri della Confindustria napoletana. Infine quale compi-to spetta ad un partito coerentemente comunista e di conseguenza rivoluzionario come il Partito Co-munista dei Lavoratori? L’obbiettivo che si è posto

4/5mila appartamenti. Per i costruttori, per le attività criminali che girano nel settore edile ed intorno agli appalti pubblici, per una pletora di politici e loro protetti che faranno man bassa dei fondi stanziati per Expo. Un esempio su tutti: Lucio Stanca, già ministro, poi parlamentare del PDL, amministrato-re delegato della Società di Gestione Expo Milano 2015 Spa, a giugno dello scorso anno si è dimes-so intascando 300.000 euro (oltre allo stipendio da parlamentare) per 14 mesi di attività, senza riuscire a sciogliere alcuno dei nodi sul tappeto. La nostra proposta, è che Milano rinunci unilateralmente ad ospitare Expo 2015 (costruendo un movimento più ampio per l’abolizione della Legge Obiettivo) e che utilizzi parte dei fondi ad esso destinati per una campagna straordinaria di realizzazione di ope-re pubbliche entro il 2015, sotto lo stretto controllo della Giunta e delle rappresentanze dei lavoratori e di investimenti concreti sul Parco Sud che rischia di essere cementificato.Sull’ecopass, dopo la vittoria del referendum comu-nale, tutti i partiti, tranne noi, si sono espressi in maniera positiva sull’allargamento di questo ladro-cinio nei confronti dei cittadini.Uno strumento, che dati alla mano, si è dimostrato essere inefficace ed inefficiente per risolvere il pro-blema dello smog e dell’inquinamento. Noi abbia-mo sostenuto che il metodo ecopass vada sostituito con la chiusura al traffico privato di un’ampia zona del centro, la creazione delle “isole ambientali”, di nuove aree pedonali, l’estensione delle aree di so-sta per residenti. Il tutto naturalmente da combinar-si con il potenziamento del trasporto pubblico per farlo diventare veramente attrattivo e competitivo rispetto a quello privato, anche attraverso apposite scelte tariffarie con un piano integrato con la Pro-vincia, dalla quale arriva un elevato numero di pen-dolari per studio e lavoro (ecco il caso di un servizio pubblico che secondo noi può essere erogato anche in passivo).Gli interessi e gli impegni internazionali presi dalla vecchia giunta Moratti sono rimasti intatti ed anzi vengono difesi e salvaguardati. E’ stato concesso l’utilizzo del centro storico per la celebrazione del-lo stato d’Israele, uno stato sanguinario che ha am-mazzato migliaia e migliaia di palestinesi.Per concludere questa giunta è partita con il piede sbagliato, a Milano così come in Italai, non basta cambiare il direttore d’orchestra ma bisogna cam-biare musica, e come si vede centro sinistra e centro destra si alternano come direttori d’orchestra ma lo spartito è sempre lo stesso. Si difendono i poteri forti, le lobbie a danno dei lavoratori. Per cambiare spartito è necessario un governo dei lavoratori, sia a livello nazionale e sia a livello locale.

il PCL in questa tornata elettorale, partecipando con una lista autonoma ed indipendente, è stato quello di utilizzare la tribuna come mezzo di diffusione pro-pagandistico del suo programma rivoluzionario che concilia obbiettivi minimi (blocco dei licenziamenti, salario minimo garantito ai disoccupati, abolizione delle leggi di precarizzazione, assunzione di questi ultimi a tempo indeterminato, ect) agli obbiettivi transitori (il Governo dei Lavoratori, la necessità della rivoluzione). Ovviamente i modesti risultati raggiunti, frutto dei limiti che la nostra organizza-zione in via di costruzione sta scontando, e del voto di gran parte dei movimenti di lotta raccolto dall’ex pm, non possono essere ritenuti soddisfacenti (a Na-poli lo 0,21%). Ma tutto ciò non sposta di una virgola la nostra posizione politica che tiene conto di tutte le esigenze e le domande di fondo del mondo del lavo-ro e della maggioranza della società. Questa chiede oggi come ieri la cacciata delle vecchie classi domi-nanti e l’instaurazione di un nuovo ordine sociale, in cui siano le masse a governare direttamente e non più gli attuali industriali e dirigenti bancarottieri. Senza questa prospettiva di svolta, ogni rivendica-zione e ogni conflitto finiscono su un binario morto. A sua volta, solo la lotta per un governo dei lavorato-ri può consentire, cammin facendo, nuove conquiste parziali e la difesa dei vecchi diritti.

TUTTO CAMBIA NULLA CAMBIA

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011 / Pagina 9

NASCE LA SEZIONE PROVINCIALE DI PESARO DEL PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI UN PRIMISSIMO BILANCIO E PROSPETTIVE

di Davide Margiotta

Nel marzo di quest’anno è nata a Pesaro la nuo-va sezione del Partito Comunista dei Lavora-tori: un piccolo, grande accadimento. Piccolo, perchè sappiamo che siamo ancora piccola cosa rispetto a quello di cui ci sarebbe bisogno; ma al tempo stesso un fatto grande, perchè di grande importanza politica.L’impulso iniziale alla nascita della sezione è venuto dalla fuoriuscita dei cinque compagni che componevano l’ex-sezione del Partito di Al-ternativa Comunista, cui si sono aggiunti subito due compagni già del Pcl, che facevano attività a Forlì-Cesena vista l’assenza del partito a Pesaro.Per i compagni ex-Pdac, tra cui vi è chi scri-ve, si è trattato in realtà per molti versi di un ritorno a casa, avendo tutti fatto parte dell’Asso-ciazione Progetto Comunista - Sinistra del Prc fino alla scissione del 2006. Un “ritorno a casa” che abbiamo ritenuto assolutamente necessario e inevitabile, perchè i comunisti che condivi-dono lo stesso programma non possono avere due case separate. La rottura dell’intero gruppo marchigiano (sei compagni in tutto) con il Pdac è già stata spiegata in un documento che potete trovare sul sito del Pcl (Dal territorio > Perchè aderiamo al PCL), ragion per cui non ci dilun-gheremo qui su queste ragioni.Ci limitiamo a sottolineare come principali cau-se di divergenza proprio il rapporto con il Pcl, la democrazia interna e il rapporto del Pdac con le altre organizzazioni del movimento operaio e con i movimenti in generale, improntati sempre più verso un marcato settarismo.A questi compagni subito si sono uniti altri mi-litanti giovani e giovanissimi, portando attual-mente la sezione a dieci compagni, tutti mili-tanti, mentre registriamo settimanalmente nuovi contatti e interesse intorno al progetto. In ge-nerale, anche se come detto siamo consci delle difficoltà e della nostra attuale inadeguatezza, c’è un clima di grande entusiasmo!

Il nostro territorio

Nella provincia di Pesaro il centrosinistra gode di un vasto e ramificato sistema di potere fatto

di sindacati amici, cooperative rosse, Arci, asso-ciazionismo di vario genere. Una vera macchina da guerra che, ad esempio, ha permesso negli ultimi dieci anni all’Amministrazione di Pesaro (dove il Prc occupa un posto in pianta stabile) di privatizzare tutto il possibile, senza registra-re praticamente nessuna opposizione credibile. Tuttavia crediamo che in generale nel pesare-se vi siano ottime potenzialità di crescita per il partito. Quella di Pesaro-Urbino è una provin-cia con una cultura storicamente “rossa”, con un forte insediamento manifatturiero e industriale, oggi in forte crisi, e un importante centro uni-versitario come Urbino. Ma questa convinzione non ci viene solamente da un’analisi del territorio, ma, cosa ben più im-portante, dall’interesse dimostrato da subito per il nostro progetto politico.Come in occasione della prima assemblea pub-blica della neonata sezione organizzata con il compagno Marco Ferrando, dove una sala affol-lata di giovani, lavoratori, immigrati, ha ascol-tato il portavoce nazionale del partito e discusso sul tema impegnativo del ruolo del partito ri-voluzionario nel quadro della crisi capitalistica mondiale.

L’importanza politica di una nuova sezio-ne del Partito Comunista dei Lavoratori

In generale, al di là dei riscontri positivi, la cosa che crediamo centrale è l’importanza politica che la nascita della sezione del Pcl ha per il no-stro territorio, che come detto è privo di un’op-posizione di classe credibile da troppo tempo. Conosciamo bene i nostri limiti, tuttavia un partito comunista rivoluzionario può giocare un ruolo attivo nello scontro di classe anche nella ristrettezza dei suoi numeri, a patto di non fare di questo un vanto e di lottare costantemente per guadagnare a sè la maggioranza del pro-letariato: avanzando le giuste parole d’ordine, partecipando a ogni movimento e ogni vertenza cercando di ricondurla al programma generale dei comunisti.E’ quello che stiamo cercando di fare ad esem-pio alla Berloni, dove agli scioperi contro i 166 esuberi decisi dal padronato eravamo l’unico

partito presente, portando la nostra solidairetà di classe agli operai e avanzando le nostre pa-role d’ordine di classe: rivendicando la nazio-nalizzazione immediata, senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori degli stabilimenti oggetto di dismissione, giungendone, se neces-sario, all’occupazione diretta, e richiedendo che gli enti locali si adoperino concretamente (e non solo con parole e buone intenzioni) nel rilancio e nel supporto dell’attività. Questa crediamo sia, al di là di tutto, l’impor-tanza della nascita della nostra piccola sezio-ne: l’aver piantato anche nel nostro territorio la bandiera dell’indipendenza di classe dei comu-nisti e della lotta senza quartiere per l’unica via d’uscita alla crisi dell’umanità: la rivoluzione socialista.

IL PCL APRE LA NUOVA SEZIONE DI CALTANISSETTACaltanissetta risponde : PRESENTE all’appello lanciato dal partito Comunista dei Lavoratori” Fare come in Tunisia” e così che dieci compo-nenti del “comitato di lotta contro il caro vita” aderiscono al PCL ,riconoscendosi nel program-ma rivoluzionario, autonomo dal centro sinistra. I nuovi compagni tesserati fanno parte del quar-tiere del centro storico, con cui lavoriamo da de-cenni per le lotte per: i disoccupati, i senza tetto, gli ex detenuti, gli immigrati, i precari e contro le varie riforme succedute sia dal centro sini-stra che dal centro destra che hanno impoverito la scuola. Il nucleo fondante dei nuovi iscritti nasce attorno alla scuola Primaria San Giusto ubicata al centro dei quartieri definiti ”a rischio“ tra cui genitori, e lavoratori della Scuola. Il 22 Maggio 2011 il compagno Marco Ferrando e i rappresentanti del PCL di tutta la Sicilia hanno partecipato all’inaugurazione della nuova sezio-ne cittadina, la presenza del portavoce naziona-le del Partito e il suo intervento hanno suscitato notevole interesse da parte di molti che hanno aderito tesserandosi al PCL. Caltanissetta è una meravigliosa cittadina questa è l’espressione di chiunque arriva da forestiero, per questo molti hanno deciso di restare trovando un modo più

umano per vivere apprezzabile nei ritmi, rispet-to alle grandi città. Un popolo internazionalista già solo per la sua multietnia odierna. Caltanis-setta si formò da popoli diversi che scappavano dall’invasione costiera verso il centro dell’isola con tutto il loro bagaglio culturale e di sofferen-za indelebile e proprio qui che nasce la saggez-za di questo popolo, dal profondo del cuore la voglia di giustizia proletaria internazionalista, che è intrinseca in ogni lotta. È un popolo che ha combattuto ad armi impari ed ha anche vinto qualche battaglia, dalle miniere estraeva lo zol-fo “oro” per i padroni, ma nelle case mancava il pane. Anche i bambini “i carusi “ facevano par-te dell’esercito degli sfruttati come gli schiavi d’Africa. Addirittura anche la chiesa non accet-tava di celebrare la messa per i morti in miniera perché considerati diavoli perché il loro lavoro si svolgeva sottoterra. I morti furono tantissimi durante le esplosioni delle miniere,(moltissimi si ammalarono) morirono anche molti “caru-si “che vennero sepolti in fosse comuni senza nome. Si racconta di una insurrezione contro la Chiesa e tutto il clero con scontri con la polizia che coinvolgevano spesso anche minori anzia-ni e donne. Questa fu una delle tante battaglie

vinte dal popolo nisseno che seguì le avanguar-die comuniste nel creare un forte Partito Co-munista e un Sindacato che attraverso le lotte unificate hanno permesso di conquistare per di-versi decenni alle classe operaia diritti e digni-tà. Tutte le conquiste avvenute, in quegli anni e negli a seguire verranno svendute sia dal centro destra che dal centro sinistra in cambio di una falsa pace sociale che porterà al tradimento di tutti i valori umani e alla scomparsa del vero principio Comunista. Oggi il PCL è determinato a ricostruire un partito degno della tradizione nissena Rivoluzionario, Anticapitalista, Anti-fascista, Antirazzista. Comincia la campagna di reclutamento di tutte le avanguardie di ogni generazione che possa consentire e garantire il processo Rivoluzioanrio. Dall’inaugurazione della sede ogni giorno si contano nuovi iscritti e simpatizzanti al partito perché il PCL ha aderito alla campagna referendaria, alla campagna con-tro il caro vita e oggi è presente al movimento degli “indignati “ che ogni giorno si incontra o nella sede del PCL o manifesta nella Piazza Principale della Città.

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011/ Pagina 10

LA LIBERALIZZAZIONE DELL’INTERMEDIAZIONE CLIENTELARE NEL COLLOCAMENTO DEI LAVORATORIDi Claudio FERRO

Questo dovrebbe essere il vero “titolo” dell’art. 29 (Liberalizzazione del collocamento e dei servizi) contenuto nel nuovo Decreto Legge 30 giugno 2011, inerente l’attuale manovra finan-ziaria che l’attuale Governo italiano si appresta a varare, col tacito consenso anche dell’opposi-zione “ombra” (partiti e sindacati che di “sini-stra” hanno ormai solo la volontà di collaborare nel demolire il diritto al lavoro). Alla distanza di ben vent’anni dalla Legge n. 223 del 1991, che istituiva, tramite il suo articolo 25, la generaliz-zazione facoltativa della chiamata nominativa per tutte le assunzioni dei datori di lavoro priva-ti, propedeutica poi alla Legge Treu n. 196 del 1997, col superamento della funzione pubblica del collocamento, legittimante l’avversione al monopolio pubblico col pretesto del “mancato funzionamento delle graduatorie per l’avvia-mento numerico di fatto prima abrogato”, fino ad arrivare al Decreto Legislativo n. 276 del 2003, col passaggio dal lavoro interinale alla somministrazione della manodopera, assistia-mo al coro, pressoché unanime, di chi rivendica ancora ulteriori “liberalizzazioni”, poiché tutte quelle finora poste in essere nell’ultimo “ven-tennio” sarebbero “insoddisfacenti”. Il processo di “mercantilizzazione” sembra non conoscere più ostacoli, nonostante il fatto che la finora attuata e decantata “flessibilità” non abbia ge-nerato altro che maggiore precarietà ed inoccu-pazione-disoccupazione. Assistiamo purtroppo alla “convergenza” della retorica politica sinda-cale con le ulteriori proposte di controriforma costituzionale sulla “libertà d’impresa” (artico-lo 41 Cost. ed abolizione delle Province, quindi anche dei “Centri per l’Impiego” provinciali, quali “ultimi” uffici pubblici locali “sopravvis-suti”, demandati a gestire la domanda e l’offer-ta di lavoro). Ci siamo dimenticati, tutti, delle ragioni, lungimiranti, che i padri “costituenti” della nostra Repubblica democratica, fondata sul lavoro, avevano posto come “ratio” per il dettato degli articoli 14 e15 della Legge n. 264 del 1949, legge “madre” del diritto al lavoro ita-liano: l’equa ripartizione dei posti lavoro, con la funzione pubblica statale del collocamento quale unico strumento per realizzare, in termini giusti ed imparziali, il diritto sociale al lavoro, tramite le richieste numeriche di assunzione e la predisposizione delle relative graduatorie per gli avviamenti e le selezioni.Ora invece siamo arrivati a raschiare il fondo del barile, legittimando quell’intermediazione privata il cui esercizio costituiva violazione, penalmente rilevante, del medesimo diritto al

lavoro (artt. 11 e 27 della Legge n. 264/1949). Il reato di “caporalato” si fonda sulla non me-ritevolezza di una attività di privati che lucrino sul bisogno di lavorare che le persone hanno per procurarsi una retribuzione idonea ad assicura-re una vita libera e dignitosa. Come si possono legittimare e “rilanciare” nuovi “regimi parti-colari di autorizzazione agevolata” a favore di soggetti privati come le “associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparati-vamente più rappresentative”, come i “patro-nati” ed enti affini, i gestori di siti internet e l’ordine nazionale dei “consulenti del lavoro”, per lo svolgimento di questa delicata attività di intermediazione su domanda ed offerta di la-voro? In un paese “anormale” come il nostro, ove la cosiddetta “questione morale” continua ad essere l’emergenza più grave che turba ed inquina la vita civile, spesso collegata alla ge-stione paramafiosa del potere politico-economi-co-finanziario, dovrebbe preoccupare tutto ciò che può violare la tutela antidiscriminatoria, per porre almeno un freno al libero “arbitrio” di non assumere persone sgradite per motivi politici, sindacali o comunque non rilevanti ai fini della valutazione attitudinale professionale. Permet-tere a sindacati, patronati e consulenti privati di poter gestire il collocamento al lavoro, per avere una “mediazione più larga ed ordinata”, è pericoloso per il rischio (sicuro) delle assun-zioni clientelari. Pensiamo alle c.d. clausole di “closed shop” in auge in alcuni paesi anglosas-

soni: clausole che permettono di assumere solo lavoratori iscritti ai sindacati firmatari di accordi o del contratto collettivo di lavoro. Per rimedia-re alle inefficienze burocratiche e alle eventuali corruttele nel pubblico impiego basterebbe sele-zionare meglio i funzionari e i dirigenti, inseren-do nelle procedure di assunzione, tramite pub-blico concorso, test psico-attitudinali mirati a misurare la motivazione e la predisposizione ad operare al servizio della collettività. L’alternati-va è ridare efficienza alla funzione pubblica del collocamento, potenziando e tutelando almeno l’attività dei Centri per l’Impiego delle Provin-ce. Anziché abrogare le Province, proviamo ad abrogare l’autonomia, ormai anacronistica, del-le cinque Regioni a statuto speciale: il risparmio economico qui supererebbe di certo il costo del-le Province …..

Alessandria, 7 luglio 2011

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ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011 / Pagina 11

Sull’editoriale dell’ultimo numero di Erre, la rivista politica di Sinistra Critica, si ten-tava di giustificare con la scusa della rico-struzione di una “sinistra alternativa” (ci si domanda con chi e su quali basi) l’atteggia-mento elettorale schizofrenico che ha l’ha vista allearsi, alla precedente tornata ammi-nistrativa, con chiunque in giro per l’Italia, senza nessuna logica di principio. A Napoli Sinistra Critica ha partecipato alla lista “Na-poli non si piega” insieme alle organizza-zioni staliniste Sinistra Popolare (di Marco Rizzo) e Rete dei Comunisti, a Torino si è coalizzata con la Federazione della Sinistra e per finire a Casoria, nel campano, ha par-tecipato ad un pasticcio elettoralistico con la Fds e... Sinistra e Libertà! Per il resto dell’articolo Sinistra Critica si rammarica che la “sinistra di alternativa” nelle altre parti del paese abbia preferito accodarsi al PD, giudicando il fatto come un’”occasione sprecata”. Ci si chiede se nel caso in cui SEL ipoteti-camente (non è certo la sua natura) avesse partecipato ad altre accozzaglie elettorali insieme alla “sinistra di alternativa” Sini-stra Critica avrebbe gioito per la rinascita di un’”opposizione sociale”. Oltre ai comuni succitati, nella maggior par-te degli altri luoghi dove Sinistra Critica non ha avuto interlocutori con cui creare mine-stroni elettorali non ha neanche provato a presentarsi alle elezioni (con le eccezioni di Rimini e Cattolica); ciò ad ulteriore confer-ma della sua natura politica, un’organizza-zione incapace di un intervento indipenden-te tra le masse. Ma oltre al danno la beffa: nello stesso editoriale si legge “Sempre a si-nistra si registra l’attitudine solitaria del Pcl che rifiuta ipotesi di alleanze, sia pure solo elettorali”. Vogliamo ricordare a Sinistra Critica che la nostra “attitudine solitaria” ci ha portati a partecipare, nonostante i mode-sti risultati, alle elezioni amministrative di sei capoluoghi regionali e di diversi impor-tanti comuni e province.Un’altra considerazione di merito riguarda il bilancio sui propri risultati elettorali da parte di Sinistra Critica. Il suo sito contiene diversi roboanti comu-nicati riguardanti i buoni risultati ottenu-ti in alcuni comuni mentre viene taciuto il deludente risultato della lista “Napoli non si piega” presentato come un “laboratorio nazionale” importante dai suoi promoto-ri. Il risultato è stato analogo (leggermente inferiore) rispetto a quello del PCL, che ha corso da solo. In sostanza il bilancio di Si-nistra Critica della sua partecipazione alle amministrative è stato del tutto parziale, in un’ottica puramente autoreferenziale. Ma al di là dei numeri è necessario fare alcune considerazioni di metodo.

LE ELEZIONI PER I COMUNISTI: UNA TRIBUNA PER LA PROPAGAN-DA DEL PROGRAMMA RIVOLUZIO-NARIO

La partecipazione alle elezioni per i comu-

nisti rivoluzionari costituisce da sempre un elemento tattico col fine di propagandare tra le masse il programma della rivoluzione so-cialista. E’ quello che ha fatto il PCL fin dalle sue origini e nelle ultime amministrative; non a caso il fulcro della propaganda elettorale del Partito Comunista dei Lavoratori all’ultima tornata elettorale è stato la campagna “Fare come in Tunisia ed in Egitto”: non un vuo-to slogan elettorale, ma una parola d’ordine agitatoria che si rifà alla realtà concreta delle masse (vedi le interviste ai pastori sardi nella puntata di Annozero del 5 Maggio) e alle con-dizioni della lotta di classe che impone la si-tuazione internazionale, ovvero alla necessità della prova di forza per rovesciare i governi del capitale che fanno pagare la crisi ai lavo-ratori e alle masse popolari.Chiarita la questione del metodo a questo punto c’è da chiedersi che scopo politico ab-bia avuto l’atteggiamento di Sinistra Critica: ovvero, che prospettiva “anticapitalista” si può costruire alleandosi elettoralmente con organizzazioni come Sinistra Popolare o la Rete dei Comunisti che hanno difeso Ghedda-fi contro la rivoluzione delle masse libiche? O addirittura con Sinistra e Libertà, che si pre-para ad un’eventuale ipotesi di nuovo centro-sinistra?

LA NATURA DI UN PARTITO CENTRI-STA

Il vero nocciolo della questione è la natura politica generale di Sinistra Critica, di cui l’atteggiamento opportunistico alle elezioni costituisce soltanto un particolare. La corrente politica di Sinistra Critica si è sempre storicamente caratterizzata per la su-bordinazione dell’indipendenza politica e del programma alle burocrazie del movimento operaio. Fu così all’interno di Rifondazione Comunista, in cui il gruppo dirigente dell’al-lora “Bandiera Rossa” (l’antenato dell’odier-na Sinistra Critica) si accodò, con numerose svolte e zig-zag, al gruppo dirigente bertinot-

tiano che puntava a ricostituire un’allean-za con i partiti del capitale; fu così durante la stagione dei movimenti altermondialisti che portò Sinistra Critica ad accettare e proporre i programmi riformisti dei diri-genti di quel movimento (come la misera “Tobin Tax”); è stato così, ad esempio, du-rante le recenti ondate del movimento stu-dentesco a partire da quella del 2008, in cui l’organizzazione universitaria legata a Sinistra Critica (ovvero Atenei In Rivol-ta), si è accodata alle burocrazie studen-tesche del settore dei disobbedienti, senza una reale proposta politica.Così come subordina l’indipendenza po-litica e programmatica durante le elezioni ad una prospettiva di blocco elettorale con altre organizzazioni centriste o riformiste.Nella situazione attuale di crisi del capita-lismo, inoltre, i limiti delle organizzazioni centriste (cioè a metà strada tra il riformi-smo ed il marxismo rivoluzionario) come Sinistra Critica vengono maggiormente a galla. Di fronte alle politiche del capitale inter-nazionale e alle conseguenze che implica-no per il movimento operaio né Sinistra Critica, né i suoi partiti fratelli in altri pa-esi lavorano per la costruzione di un’alter-nativa di potere vera. E’ il caso in primo luogo dell’NPA (Nouveau Parti Anticapi-taliste) francese a cui si rifà Sinistra Criti-ca; durante le ultime grandi mobilitazioni di massa contro Sarkozy i cugini francesi di Sinistra Critica non hanno saputo, pur con una buona forza militante, indicare ai lavoratori in lotta una strategia per caccia-re il governo e costruire una vera alterna-tiva. Il PCL dal canto suo lavora in una direzione opposta: quella di denunciare il fallimento delle classi dominanti su sca-la mondiale e di preparare il terreno della loro cacciata; quella di lanciare la parola d’ordine del governo dei lavoratori come unica alternativa. Sia nelle elezioni, senza opportunismi e minestroni elettorali, che nel terreno ben più importante.

L’OPPORTUNISMO ELETTORALE DI SINISTRA CRITICA

ilGiornalecomunistadeiLavoratori / Agosto 2011/ Pagina 12

ChAVEZ E BOLIVARUNA CONTINUITà STORICA DI DUE “BONAPARTE PROGRESSISTI”….. NEL TRADIMENTOdi Franco Grisolia

Bolivar è [….] il più vile, il più volgare e il più miserabile cialtrone (Karl Marx, lettera a Engels, 14 febbraio 1858)

Lo scorso aprile Hugo Chavez ha commesso un’infamia tale da sconvolgere persino molti dei suoi più onesti (e finora ingenui) sostenitori sul piano internazionale Infatti il 25 di quel mese ha consegnato al governo reazionario della Colombia il giornalista Joaquin Perez Becerra. Becerra era il direttore di ANN-COL, l’agenzia di stampa della sinistra colom-biana che dall’Europa trasmette, in particolare via Internet, informazioni sulla situazione del proprio paese. Becerra viveva in Svezia dove si era rifugiato da circa vent’anni. Aveva avuto lo status di rifugiato politico e poi acquisito la cittadinanza svedese. Becerra era giunto a Caracas il 23 aprile scorso per partecipare a dei convegni. Non aveva purtroppo considerato i nuovi rappor-ti di grande amicizia politica tra Chavez e il suo regime e il nuovo presidente della Colombia, il conservatore Santos e il suo reazionario governo. Dopo anni di alti e bassi- in cui buffonescamente, come d’abitudine, Chavez era passato da denun-ce di rischi di aggressioni militari colombiane a improvvise riappacificazioni - da quando è assur-to alla presidenza Santos, che, più flessibile del suo predecessore Uribe, ha “colto la cifra” del “caudillo” di Caracas, i rapporti sono al bello fis-

so. Questa situazione ha portato ad un accordo tra servizi segreti dei due paesi per lottare congiun-tamente contro il “terrorismo”. E di questo è sta-to accusato Becerra, cioè di essere un “criminale terrorista” per il semplice fatto di essere conside-rato, a torto o a ragione, un dirigente estero delle FARC, le forze guerrigliere colombiane.

Un’azione infame con metodi da dittatura

I dettagli dell’infame azione sono inqualificabi-li. E’ pubblico, per affermazione dei colombiani, che, informato dai suoi servizi segreti dell’arrivo di Becerra a Caracas il 21 aprile, il ministro co-lombiano degli interni ha telefonato direttamente all’“amico Chavez”, chiedendogli il “favore” di farlo arrestare e consegnare alla sua polizia. Cosa che Chavez ha provveduto a fare immediatamen-te. Ciò in spregio a tutte le leggi venezuelane e internazionali. Becerra è stato arrestato senza mandato giudiziario ed estradato in 48 ore sen-za autorizzazione della magistratura, senza poter essere assistito da un avvocato e opporre ricorso, senza poter contattare le autorità diplomatiche della Svezia, di cui è appunto, cittadino. Un abo-minio completo. E una dimostrazione che le for-me di governo bonapartista, anche quando sono utilizzate da forze “progressiste” e contro la de-stra, non devo mai trovare il sostegno delle forze proletarie, perché prima o poi, verranno utilizzate contro la sinistra.Chavez ha dapprima cercato di mascherare con

la censura questa notizia. I media controllati dal suo regime hanno avuto quindi l’ordine di tace-re sull’argomento (quando la direttrice di Radio Sur, una delle più importanti radio “chaviste”, indignata di quanto avvenuto, ha reso pubblici i fatti è stata immediatamente fatta licenziare dal presidente.) La notizia tuttavia si è diffusa, grazie ad internet e alla campagna internazionale lan-ciata da ANNCOL, e a Caracas si erano svolte al-cune, sia pur modeste, manifestazioni di protesta.Così Chavez è stato costretto a rispondere e lo ha fatto nel più chiaro modo. Circondato dai suoi ministri ad una selezionata riunione pubblica di dirigenti chavisti, il colonnello si è assunto la piena responsabilità della decisione dell’arresto e consegna di Becerra, rivendicandone la corret-tezza e accusando il giornalista di aver compiuto una “provocazione” per essere venuto in Vene-zuela, dando così “pretesti” alla destra colombia-na (per cui per qualche giorno di presenza “inop-portuna” in Venezuela, Chavez lo ha consegnato all’ergastolo della …. “destra colombiana” di cui è tanto amico). Questa la politica reale del con-tinuatore di Simon Bolivar, che effettivamente ha qualche elemento di continuità col “caudillo” delle guerre di liberazione dell’America del Sud dal dominio spagnolo.

Il mito di Simon Bolivar e l’amara realtà

Su Bolivar esiste purtroppo una vera mitologia. Per molti esiste la convinzione che egli esprimes-se una ipotesi unitaria (cosa almeno parzialmente vera), in quanto “giacobino rivoluzionario” (cosa del tutto falsa; giocobini ce ne furono nelle rivo-luzioni latinoamericane, in particolare gli argen-tini Castelli e Moreno, ma furono rapidamente emarginati o liquidati). Bolivar fu un “caudillo” bonapartista, che cercò sempre di dominare gli stati che si creavano caoticamente a seguito del-le rivoluzioni e guerre contro la Spagna, senza porre realmente nessun elemento di reale trasfor-mazione sociale, ad esempio rispetto alle terre, come tento di fare Castelli in quella che divenne poi la Bolivia. Detto questo, perché l’accanimen-to particolare di Marx contro Bolivar nella sua lettera a Engels del 1858? Da Marxisti ortodossi noi, non siamo per nulla dogmatici. Sappiamo che il giovane Marx ebbe difficoltà a cogliere l’importanza delle lotte dei popoli oppressi più arretrati (si veda il suo giudizio sulla guerra tra Stati Uniti e Messico nel 1845-48). Ma su que-ste questioni il Marx del 1858 si è molto evoluto rispetto a 10-12 prima (ne sono esempio le sue magnifiche posizioni rispetto alla grande rivolta del 1857 degli indiani contro gli inglesi), e il suo giudizio non risente di alcun pregiudizio, ma si riferisce alla reale natura della figura di Bolivar. Anche Bolivar ebbe il suo Becerra e questo epi-sodio fu centrale nel giudizio di Marx che si tro-vò a scrivere, per lavoro, la voce “Bolivar” per la “Nuova Enciclopedia Americana” e di cui parla ad Engels nella lettera citata.

Miranda, il Becerra di Bolivar

Il tradimento di Bolivar si realizzò nel confronto del primo comandate dell’esercito rivoluzionario del Venezuela, il generale Miranda (che ancora oggi viene ricordato come padre della patria in Venezuela accanto a …. Bolivar).Ecco come Marx riporta i fatti: nel settembre del 1811, il generale Miranda, lo convinse ad accet-tare il grado di tenente-colonnello, e il coman-do di Puerto Cabello, la più potente fortezza del Venezuela. I prigionieri di guerra spagnoli che Miranda inviava regolarmente a Puerto Cabello […] riuscirono a sopraffare di sorpresa le loro guardie e a impadronirsi della cittadella: nono-stante fossero disarmati, mentre egli disponeva di una nutrita guarnigione e di notevoli depositi di munizioni, Bolivar, senza neanche avvisare le

truppe, si imbarcò precipitosamente nella not-te con otto dei suoi ufficiali[…]. Quando si rese conto della fuga del suo comandante, la guar-nigione abbandonò il luogo, e la fortezza fu oc-cupata dagli spagnoli, comandati dal Generale Monteverde. Questo avvenimento fece pendere la bilancia in favore della Spagna e obbligò Miran-da, su ordine del Congresso, a firmare, il 26 luglio 1812, il trattato di Vitoria, che restituiva il Vene-zuela all’autorità spagnola. Il 30 luglio Miranda arrivò a La Guayra, dove intendeva imbarcarsi su un vascello inglese. Durante la sua visita al comandante del luogo[…], incontrò una numero-sa compagnia di persone, tra le quali [..] Simón Bolivar; quest’ultimo lo persuase a trattenersi almeno per una notte [...]. Alle due del mattino, mentre Miranda dormiva, Casas, Pena e Bolivar entrarono nella sua stanza con quattro soldati armati, gli sottrassero prudentemente la spada e la pistola, quindi lo svegliarono, gli dissero bru-scamente di alzarsi e vestirsi, gli misero i ferri e infine lo consegnarono a Monteverde che lo spedì a Cadice dove morì in catene dopo qualche anno di prigionia. Questa azione, commessa con il pre-testo che Miranda avesse tradito il suo paese con la capitolazione di Vitoria, procurò a Bolivar il favore particolare di Monteverde: quando Boli-var chiese il suo passaporto, egli dichiarò che «la richiesta del colonnello Bolivar dev’essere accol-ta in ricompensa del servizio da lui reso al re di Spagna con la consegna di Miranda».

Indubbiamente una bella continuità…. nel tradimento

Non si tratta di una questione storica. La realtà è che la sinistra nazionalista radicale o lo stalinismo latino americano hanno utilizzato il richiamo a Bolivar, per adarttarsi alla borghesia nazionale, e per sostituire, salvo il caso particolare di Cuba, la “rivoluzione democratico-popolare” a quella so-cialista. Migliaia di compagni che si considerano comunisti pensano che questo fatto sia compatibi-le con il richiamarsi al bolivarismo. In realtà ciò e impossibile. O si è “bolivariani” o si è marxisti, o si accetta il “socialismo” borghese del nazionali-sta Chavez o si è per il comunismo. Auspichiamo che anche gli ultimi avvenimenti spingano tanti di loro, onesti e militanti, a collocarsi al posto giusto: nel PCL, contro tutti i borghesi o piccolo borghe-si per quanto travestiti ad arte da “rivoluzionari”, “anticapitalisti”, “antimperialisti”.

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