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Damiano Nocilla
VALORI COSTITUZIONALI E UNITA’ NAZIONALE
Si celebra quest’anno il settantesimo dell’entrata in vigore della
Costituzione repubblicana. Una Costituzione che fino ad oggi ha regolato la vita
delle istituzioni del nostro Paese ed anche la vita nostra, di semplici cittadini.
È una vita lunga, quella di questo testo normativo, che si è svolta tra
periodi di crisi sociali ed economiche e periodi di crescita, spesso tumultuosa
ed incontrollata. Un testo che, grazie all’elasticità delle sue proposizioni, si è
adattato alle varie esigenze dettate dalla politica; che ha subìto un lungo
processo di attuazione e che, forse, ancora oggi, non si può dire sia stato
completamente completato; che ha visto il significato delle sue formule
normative tacitamente mutare nel tempo, anche in seguito al mutare degli atti
che ne hanno attuato i princìpi (penso, ad es., alla forte incidenza che le varie
modifiche arrecate ai testi dai regolamenti parlamentari e alla stessa prassi dei
due rami del Parlamento hanno avuto sul funzionamento della forma di
governo). Ma è questo – mi sia consentito dire – il destino di tutte le
Costituzioni, che, quanto più hanno visto realizzarsi la loro aspirazione a durare
nel tempo (si ricordi come già Hamilton sul Federalista esprimesse la propria
contrarietà a frequenti interventi sul testo della Costituzione attraverso un
ricorso al popolo “poiché ogni ricorso al popolo implicherebbe un qualche
difetto del governo, il ricorrervi di frequente potrebbe, almeno in larga misura,
privare tale governo di quella venerazione che il tempo finisce col porre su ogni
cosa, e senza la quale anche il governo più saggio e più libero non sarebbe
abbastanza stabile”), tanto più hanno visto le proprie disposizioni adattarsi ai
rapporti di forza espressi dalla società da esse disciplinata. Basti ricordare in
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questo contesto il destino della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che
detiene il primato di longevità tra le Costituzioni scritte, avendo superato i due
secoli di vita ed essendo stata modificata in taluni suoi aspetti meno di 20
volte: sotto la sua vigenza si sono viste fasi di governo del Congresso, cioè di
prevalenza del potere legislativo, fasi di c.d. governo dei giudici e fasi (dalla
seconda guerra mondiale all’incirca fino ai nostri giorni) in cui la guida del
Paese è stata assunta dal Presidente.
Les Constitutions sont l’ouvrage du temps (diceva Napoleone).
Settant’anni non sono pochi, ma neppure troppi a fronte dell’esperienza
statunitense. Ma tant’è! Ormai siamo abituati a considerarla un’anziana
signora, donde la domanda:
si tratta di quelle signore in età, che le rughe hanno ormai deformato nei tratti
e che tentano disperatamente di imbellettarsi con cerone, cipria e rossetto,
aggiungendo agli inevitabili segni di vecchiaia il ridicolo della non accettazione
del trascorrere del tempo?
Fuor di metafora: siamo di fronte ad una Costituzione ormai sorpassata, che
non risponde più alle esigenze di regolazione di una società – si direbbe oggi –
postmoderna e dei rapporti economici e sociali quali si vengono sviluppando
sotto i nostri occhi e della quale le celebrazioni retoriche tentano – senza
riuscirvi - di mascherare i difetti?
oppure
si può paragonare a quelle signore, pur avanti negli anni, che hanno pur sempre
mantenuto, se non forse accresciuto il fascino intellettuale, che le aveva poste
al centro del corteggiamento di tanti. Una di quelle signore le cui rughe ed i cui
segni dell’età poco interessano il prossimo, se non sotto il profilo dell’essere
oggetto dei commenti malevoli, frutto esclusivamente dell’invidia di coloro che
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non riescono a stare al passo di quel loro fascino? Il che è come dire che si
tratta di una Costituzione che esprime valori tutt’ora in grado di orientare la
società civile nell’epoca presente, dando ad essa anche prospettive per il
futuro.
Questa domanda è ormai ineludibile, se non altro perché siamo a nostra
volta bombardati da ogni parte dall’indicazione di suoi difetti più o meno gravi
e perché – mi sia concessa la battuta un po’ pesante – sentiamo di tanto in
tanto levare alti lai da parte di chi tenta di far ricadere sulla Costituzione le
colpe della propria incapacità di guidare il Paese, quasi che il popolo italiano
non capisca che le norme costituzionali – come tutte le norme giuridiche, del
resto – camminano sulle gambe degli uomini e che anche la migliore delle
Costituzioni non potrà mai sopperire alla inettitudine della classe politica.
Mi studierei di riassumere con voi le più diffuse critiche che sono state
mosse alla Costituzione vigente. La prima e più diffusa è quella che più o meno
direttamente fa capo ad Arturo Carlo Jemolo (e sotto alcuni profili a quella
espressa da Piero Calamandrei già in seno all’Assemblea Costituente). Jemolo
dichiara di non amare la nostra Costituzione perché frutto di un compromesso
tra le tre grandi forze politico-culturali presenti in Assemblea Costituente (ed
ormai scomparse) – la marxista, la cattolica e la liberal-democratica – e perché
da tale compromesso sarebbero scaturite roboanti formule prive di immediata
forza normativa, indicative di programmi futuri, “suscettibili di esplicarsi in
sensi antitetici” (in Tra diritto e storia, 462) e la cui concreta realizzazione
sarebbe stata poi demandata a contingenti, variabili maggioranze politiche. Si
tratta di una posizione che va ricondotta – lo si voglia o no – a quella espressa
da Calamandrei nel discorso del 4 marzo 1947, quando disse che il testo del
progetto di Costituzione, proprio per la vaghezza e ambiguità delle sue
formulazioni e per i compromessi realizzatisi nella loro redazione, non era
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“l’epilogo di una rivoluzione già fatta, ma….. il preludio, l’introduzione,
l’annuncio di una rivoluzione, nel senso giuridico e legalitario, ancora da fare”
[salvo che poi lo stesso Calamandrei dovette parzialmente ricredersi (La
Costituzione si è mossa, in “La Stampa”) in seguito alla sent. n. 1 del 1956 della
Corte costituzionale che sancì l’immediata precettività di tutte le disposizioni
costituzionali – anche di quelle c.d. programmatiche, superandone perciò la
distinzione da quelle di immediata applicazione – e la sottoponibilità a
sindacato anche della legislazione precedente l’entrata in vigore della
Costituzione].
Quando si viene dicendo, in tono spregiativo, che la nostra sarebbe una
Costituzione catto-comunista - quasi ad invitare chi non si riconosce in tale
orientamento politico, riconducibile peraltro alla politica contingente, a non
riconoscersi neppure nella nostra Costituzione - si usa una formula inesatta: 1)
perché si disconosce l’apporto ai lavori della Costituente della componente
liberal-democratica; 2) perché si ignorano i tanti valori derivanti dalla cultura
illuminista, che animano la seconda parte della nostra Carta e che integrano e
garantiscono quelli della prima parte.
Non è difficile replicare a quest’argomento. Sulla scarsa incisività delle
formule compromissorie riguardanti i c.d. diritti sociali ha ormai fatto ragione la
dottrina sviluppatasi nell’immediato dopoguerra in ordine all’efficacia
normativa delle disposizioni costituzionali di principio (Crisafulli, le radici del
pensiero del quale vanno ricercate nel dibattito sull’efficacia delle disposizioni
della Carta del Lavoro), che – oltre a costituire impegni per il legislatore futuro
(Mortati) – dovevano ritenersi: a) parametro di valutazione dell’eventuale
legislazione, che, ove avesse contraddetto quei princìpi, sarebbe stata affetta
d’incostituzionalità; b) princìpi generali del diritto formulati espressamente, atti
ad orientare l’interpretazione della legislazione vigente; c) princìpi generali
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aventi efficacia integrativa della regolazione di fattispecie non specificamente
contemplate dalle leggi ordinarie.
Inoltre, come è stato efficacemente dimostrato, non vi è Costituzione che
non sia frutto di un compromesso tra le diverse forze che intervengono a darvi
vita. La Costituzione degli Stati Uniti non è forse frutto del c.d. Compromesso di
Philadelphia?
La seconda obiezione era quella (in tempi più vicini a noi formulata proprio
da chi mi fu Maestro, Vezio Crisafulli) di essere la nostra, una Costituzione anti-,
cioè antifascista, nella quale serpeggia una sorta di timore verso l’Esecutivo,
donde le numerose riserve di legge ed i numerosi richiami alla “legge” (che si
sarebbero potuti intendere come rinvii alla legge discussa e votata dal
Parlamento), l’eccessiva dipendenza del Governo dalle contingenti
maggioranze parlamentari, la subordinazione di importanti decisioni politiche
alle lungaggini della discussione in seno alle Assemblee, un bicameralismo
defatigante.
Alcune di queste sono obiezioni che ci sentiamo ripetere tutti i giorni, alle
quali però, si potrebbe far fronte con semplici inversioni delle prassi, modifiche
dei regolamenti parlamentari, opportune riforme legislative dell’organizzazione
dell’Amministrazione pubblica, chiara rispondenza delle proposte a precise
aspirazioni politiche di tipo riformatore.
Quanto al c.d. antifascismo della nostra Costituzione, non sembra dubbio
che essa è nata dalla necessità di rifiutare non solo i regimi totalitari del primo
dopoguerra, ma anche tutti – dico: tutti - i totalitarismi; e di porre al centro di
quella che La Pira chiamava l’architettura costituzionale la persona umana, così
come inserita nelle diverse comunità cui partecipa, cioè la persona umana nella
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concretezza della relazione con altre persone e non l’individuo isolato, preso
nella sua astrattezza.
Ma la critica più radicale fu formulata, all’indomani della liberazione, su
Meridiano del 1°-15 giugno 1945 da Giuseppe Capograssi – il grande filosofo
del diritto cattolico -, il quale – dopo aver ricordato come i grandi movimenti
popolari dell’800 europeo, che rivendicavano Costituzioni sul modello di quelle
scaturite dalle rivoluzioni della fine del XVIII sec., fossero animati dal “pensiero,
che si prendeva l’alta missione di ordinare la società proprio nel punto e nel
momento in cui essa si presenta più disordinata e meno ordinabile, cioè nel
momento della formazione dell’autorità politica…. perché aveva la fede più
sicura nella profonda razionalità della vita associata e nella libertà che sola può
assicurarne il libero svolgimento” -
si domandava se in questo secondo dopoguerra permanesse una tale fede e
constatava che “nella catastrofe queste povere popolazioni, eredi di tanta
storia, hanno smarrito tutte le idee che facevano la caratteristica di quei grandi
popoli europei” e non hanno più la forza di sollevare il loro “capo” ed il
desiderio di “radicale rinnovazione” alla “luce del pensiero”, sicché le
Costituzioni che si venivano ipotizzando non avevano “quel tanto di fermo e di
solido che è necessario per fondare una costituzione”. Di qui il disinteresse
dell’uomo della strada, dell’opinione pubblica, mentre “una costituzione per
essere tale deve essere proprio l’effetto e l’atto di un comune potente vissuto
pensiero!”. E concludeva con l’amara constatazione che proprio l’assenza di
questa base, di questo punto fermo induceva ad assimilare ciò che si stava
facendo, all’elaborazione delle regole del gioco (quante volte sentiamo ripetere
questa espressione dai sedicenti riformatori di oggi!), quasi a paragonare le
garanzie e i princìpi della libertà e della giustizia della vita politica alle regole del
tresette.
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L’obiezione è forte ed esige una risposta altrettanto forte, per la quale mi
servirò delle suggestioni degli scritti di un grande costituente, Giuseppe
Dossetti, che saranno un po’ il filo conduttore di questa nostra conversazione.
Dossetti riconduce il clima, esistente nel 1946 fra le forze politiche, alla
necessità per queste ultime di guardarsi attorno dopo quell’evento terribile che
fu la seconda guerra mondiale, che provocò circa 55 milioni di morti (molti dei
quali civili), e che provocò distruzioni; la divisione del mondo in due blocchi, il
cui equilibrio era costituito dal reciproco terrore dell’arma nucleare, la fine
degli ultimi residui del colonialismo, l’emergere sullo scacchiere mondiale dei
colossi orientali (Cina ed India), una particolare instabilità del Medio-oriente,
un radicale mutamento dei modi di vivere; l’affacciarsi ed il rapido sviluppo di
nuove tecnologie.
Certo per l’Italia le conseguenze di quell’evento erano state meno
disastrose che per altri Paesi (la Germania, per es.). I morti erano stati circa
400.000; la produzione industriale era crollata al 30% di quella precedente la
guerra; quella agricola al 50% circa; l’inflazione aveva avuto un rialzo
spaventoso; si era approfondito lo squilibrio tra nord e sud; le istituzioni
avevano perduto ogni capacità di costituire un punto di riferimento.
Vi era da considerare inoltre che l’Italia era stata assegnata dalle potenze
vincitrici all’area di influenza del blocco occidentale e che vedeva sul proprio
suolo ancora una visibile presenza delle truppe alleate. Il problema era quello
di riorganizzare lo Stato, evitando che le forti contrapposizioni ideologiche e
l’asprezza dei contrasti politici ed economici facessero ripiombare il Paese in un
clima di guerra civile (l’esempio della Grecia era lì ad ammonire). La situazione
italiana era sì una piccola parte del disastro mondiale, ma richiedeva interventi
urgenti, ispirati ad intelligenza degli eventi, che andavano visti in un orizzonte
globale.
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“Insomma, voglio dire che nel 1946 – scrive Dossetti – certi eventi di
proporzioni immani erano ancora troppo presenti alla coscienza esperienziale
per non vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di parte e le
esplicitazioni, anche quelle cruente, delle ideologie contrapposte e per non
spingere in qualche modo a cercare, in fondo, al di là di ogni interesse e
strategia particolare, un consenso comune, moderato ed equo” (ogni riferi-
mento all’attuale situazione politica è puramente casuale!).
Perciò, la Costituzione italiana del 1948 si può ben dire nata da questo
crogiolo ardente ed universale, più che dalle stesse vicende italiane del
fascismo e del post-fascismo [più che dal mito della resistenza armata –
dovrebbe aggiungersi, interpolando il testo con le parole del suo stesso autore
– quando scrive che all’epoca della Costituente era ormai “sorpassata di fatto
dalla più vasta consapevolezza dei problemi immediati della ricostruzione
oggettiva….. in senso economico, sociale, giuridico e politico”], più che dal
confronto-scontro di tre ideologie datate, essa porta l’impronta di uno spirito
universale e in certo modo transtemporale”.
Prova ne sia il larghissimo consenso con il quale il suo testo definitivo fu
approvato in Assemblea Costituente.
Tutto ciò induce a concludere con Dossetti che i Costituenti “potevano
essere, sì, suscettibili a tutte le tentazioni banalmente compromissorie, ma
erano anche più profondamente ed intimamente necessitati, tanto dalla
lezione del recente tragico passato, quanto dall’urgenza e dall’imponenza dei
compiti dell’immediato futuro, a cercare un accordo più stabile, al di là delle
loro immediate preferenze: accordo di validità universale, oltre il nostro ambito
nazionale, e quindi ancorato a princìpi generali di umanità e di civiltà più
vastamente ammessi, capaci in qualche modo di interpretare il comune sentire
umano dopo la grande catastrofe della guerra”.
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Ma quali sono questi princìpi, questi valori, cui la Costituzione si ispira?
Quale è l’idea-forza che ne anima, in certo qual senso, il testo? Quale il
messaggio che essa contiene e lascia alle generazioni future? Quale è quel
punto fermo e solido alla cui ricerca spingeva Capograssi?
Confesso che lo trovo – cogliendo una suggestione di Casavola – in due valori
fondamentali, che appaiono evidenti leggendo il testo della nostra Costituzione
e che quest’ultima invita le forze dirigenti del presente e del futuro a coniugare,
senza abbandonare nessuno dei due. Uno è il valore della solidarietà e l’altro è
quello della dignità della persona umana. Essi sono “valori etici prima che” veri
e propri precetti, oggetto di un solenne “cum promittere” (promettere insieme)
di un popolo da concepirsi, non come una mera somma di monadi, ma come un
insieme di persone reali, di generazioni passate, presenti e future che sanno e
vogliono stare insieme. Detto in altri termini, la persona umana vive e matura
in formazioni sociali, all’interno delle quali essa è titolare di diritti, che le
derivano dal fatto che essa precede ogni raggruppamento di cui entra a far
parte, ma anche di doveri che essa è tenuta ad adempiere in funzione di
assicurare vitalità a quel raggruppamento e adeguata regolazione dei rapporti
che si instaurano fra i suoi membri.
Diritti della persona, che ne garantiscono e preservano la dignità, e doveri
della stessa, che le danno sicurezza di poter godere della solidarietà degli
appartenenti alla medesima formazione sociale proprio, in quanto è la stessa
singola persona chiamata a dare solidarietà agli altri componenti del gruppo ed
al gruppo visto come un organismo unitario: diritti e doveri della persona
vanno quindi di pari passo.
Ponendo al centro questi due valori della solidarietà e della dignità della
persona, la nostra Costituzione realizza il fine che, con bella immagine, U.
Scheuner assegna alle costituzioni, quello di essere “in fondo solo una proposta
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della forma politica, con la quale il presente tenta di vincolare il futuro”: il che
si traduce nella domanda se a distanza di settant’anni il vincolo ai valori
espressi dalla nostra Costituzione sia ancora attuale e possa continuare a valere
per le generazioni future. Ma di ciò non si potrà che discorrere a conclusione di
una discussione dettagliata dei princìpi che da quelle due idee-forza (solidarietà
e dignità della persona) scaturiscono.
Esaminiamo, infatti, quella parte del testo dedicata ai princìpi fondamentali
supremi, direttamente collegati a quelle idee-forza e, perciò, costituenti limite
non solo alla penetrazione dell’ordinamento europeo e delle norme dei trattati
nell’ordinamento italiano, ma anche allo stesso potere di revisione
costituzionale, come ha avuto modo di precisare la nostra Corte costituzionale
nella sent. n. 1146 del 1988: “La Costituzione italiana contiene alcuni princìpi
supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto
essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi
costituzionali. Tali sono tanto i princìpi che la stessa Costituzione esplicita-
mente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quali la
forma repubblicana (art. 139), quanto i princìpi che, pur non essendo
espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di
revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si
fonda la Costituzione….. Non si può pertanto negare che questa Corte sia
competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e
delle altre leggi costituzionali, anche nei confronti dei princìpi supremi
dell’ordinamento costituzionale”.
Poniamo per un momento in relazione l’art. 1 o, per così dire, l’incipit della
Carta - dovuto ad emendamento proposto da Fanfani – con l’ultimo articolo
della stessa; vediamo ricorrere la parola “Repubblica”, che costituisce poi il
soggetto dell’art. 114, co. 1, ove si dice che “la Repubblica è costituita dai
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Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”.
Ora quale sia questa “Repubblica”, che l’art. 139 dichiara espressamente non
modificabile neppure con legge di revisione costituzionale, in quanto forma
della comunità cui apparteniamo, lo indica l’art. 1, e cioè “l’Italia”.
A meno di non voler ritenere che con quest’ultimo lemma si volesse far
riferimento ad una mera espressione geografica (il che sarebbe un involontario
ritorno a Metternich), l’uso dell’espressione “l’Italia” costituisce il riconosci-
mento che quella comunità perpetuantesi nella storia che è la nazione italiana,
è e deve essere ordinata nella forma dello Stato repubblicano, democratico e
fondato sul lavoro. Donde il diretto richiamo alle nostre due idee-forza, perché
richiamo alla nazione implica che tra tutti gli italiani debba instaurarsi una
concreta solidarietà, che li accompagni verso un destino comune, mentre il
porre il lavoro a fondamento dell’ordinamento significa ricordare che la dignità
dell’uomo si esprime e si guadagna soprattutto con il lavoro, come ci ricorda
con martellante e profetico insegnamento Sua Santità, Papa Francesco.
Né va trascurato, poi, il secondo comma di quel testo, che supera la
tradizionale dottrina, che attribuiva la sovranità allo Stato-governo, per fissarne
l’appartenenza al popolo senza incorrere però nella forma del più estremo
democratismo, visto che l’esercizio di tale sovranità dovrà avvenire “nelle
forme e nei limiti della Costituzione”. Si tratta del preannuncio di tutti quei
princìpi e di tutti quei valori che ritroveremo nella seconda parte del testo
della Costituzione.
Ma l’articolo che esprime meglio, nel loro reciproco intreccio, i due valori
della solidarietà e della dignità della persona è probabilmente l’art. 2, nel testo
presentato da Fanfani, Moro, Tosato ed altri ed illustrato all’Assemblea da Aldo
Moro. Se le costituzioni democratiche del Novecento – ha scritto di recente
Fioravanti – si svolgono “entro un campo che non risulta da un unico principio
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ispiratore, ma dalla combinazione ed interazione di due forze”, queste forze,
questi princìpi “sono proprio i due princìpi fondamentali che campeggiano nel
testo dell’art. 2: inviolabilità e solidarietà”; noi abbiamo preferito parlare di
dignità della persona, nella quale alla fine si risolvono sia la c.d. inviolabilità dei
diritti che la pari eguaglianza (era Casavola che indicava la seconda idea forza
nell’eguaglianza) in dignità degli uomini, a qualsiasi razza, parte politica, credo
religioso, sesso, lingua, condizione personale o sociale appartengano (art. 3, co.
1, Cost.). La centralità della persona umana nell’ambito delle formazioni sociali
di cui è parte, è quindi, affermata in modo netto e preciso e non può che
riferirsi anche a quella specifica comunità che è la nazione (e ciò in polemica
con l’ideologia fascista che subordinava il singolo ed i suoi diritti allo Stato
nazionale). Ma l’affermazione dei diritti e di tale centralità impone anche
l’adempimento dei doveri “inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale”, doveri che richiedono di essere adempienti in direzione di tutte le
comunità, cui la persona è chiamata a prendere parte: prima fra tutte,
appunto, la comunità nazionale.
“Mancando la solidarietà – è stato scritto – viene meno il cemento che tiene
unita la Repubblica, quella stessa che sempre nell’art. 2 provvede a riconoscere
e garantire l’inviolabilità dei diritti. Il soggetto è unico, è la Repubblica, e doppia
è la sua funzione: da una parte riconoscere e garantire i diritti individuali e
dall’altra parte promuovere la cultura e la pratica della solidarietà,
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà” (Fioravanti). Se non c’è la
solidarietà, che fonda la Repubblica (con questo termine la Costituzione
designa in generale il c.d. Stato in senso largo, cioè la comunità nazionale
ordinata a Stato), non ci sono neppure i diritti inviolabili della persona. Se c’è
una società articolata e complessa, ma anche legata da un vincolo di solidarietà
reciproca fra quanti la compongono e nella quale sono originariamente
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presenti i diritti individuali della persona, ed allora questa società dovrà darsi
un ordine (la Repubblica) “che svolga un’azione positiva di diffusione e di
consolidamento dei diritti medesimi”. All’inverso non sarà possibile parlare di
diritti e soprattutto di inviolabilità degli stessi, allorché quella società si risolva
in mera anarchia abbandonata alla legge del più forte.
Tutta l’architettura – come avrebbe detto La Pira – del testo della
Costituzione del 1948 si spiega in base ai due princìpi della dignità dell’uomo e
della solidarietà, princìpi che consentono di dire che la nostra Costituzione
guarda al futuro, in quanto contiene un progetto che non può lasciare
indifferente ogni uomo di buona volontà e che è suscettibile, nell’elasticità
della sua formulazione, di adattarsi al mutar delle contingenze storiche ed
addirittura al superamento della stessa forma-Stato, in quanto anche
un’eventuale comunità globale per poter vivere dovrà far appello alla
solidarietà tra gli uomini ed alla garanzia dei diritti necessari ad assicurare loro
pari dignità. Indietro – credo – non si torna!
Anche l’art. 3 va letto alla luce delle idee guida delle costituzioni del
Novecento. Esso contiene tre prescrizioni: a) l’eguaglianza dei cittadini di fronte
alla legge e dunque, l’eguale sottomissione di tutti i cittadini alla legge; b) il
divieto per la legge di distinguere i cittadini per sesso, razza, lingua, religione,
opinioni politiche, condizioni personali e sociali; c) la pari dignità sociale di tutti
i cittadini. Quanto alla prima prescrizione, essa deriva dall’art. 1 (Gli uomini
nascono e restano liberi ed eguali nei diritti) della Dichiarazione del 1789 e
dall’art. 24 dello Statuto Albertino (Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o
grado, sono eguali dinanzi alla legge) e, soprattutto dalla tradizione
montesquieuiana e rousseauiana, che, come insegna Carré de Malberg,
“caratterizza la legge come una regola generale, ossia come una prescrizione
che non concerne né un caso particolare e attuale, né persone determinate, ma
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che è emanata in anticipo per applicarsi a tutti i casi e a tutti i soggetti
rientranti nelle previsioni astratte del testo di legge”: e se Montesquieu fa
allusione alla (ed in certo qual senso presuppone la) generalità della legge
come ad una virtù ad essa intrinseca, Rousseau si collega la generalità della
legge all’essere quest’ultima expression de la volonté générale, in quanto “non
può esservi volontà generale su un oggetto particolare….. Ma quando tutto il
popolo delibera su tutto il popolo non considera che se stesso, e, se allora si
stabilisce un rapporto, è tra l’oggetto intero visto sotto una certa prospettiva, e
l’oggetto intero visto sotto un’altra prospettiva, senza nessuna divisione del
tutto. Allora la materia su cui si delibera è generale come la volontà che
delibera, ed è quest’atto che chiamo una legge”.
Questa tradizione storica ha dato vita ad una serie di questioni assai
dibattute in dottrina sulla ammissibilità costituzionale di leggi-provvedimento e
sul modo di operare del principio di eguaglianza come limite all’attività
legislativa. Se la legge è destinata a dettare prescrizioni generali ed astratte
sarà possibile con legge dettare disposizioni dirette a regolare casi concreti e
situazioni, in cui il soggetto interessato sia facilmente individuabile? Una
risposta affermativa al quesito – e la dottrina italiana ha in larga maggioranza
dato questa risposta affermativa – trascinerà inevitabilmente il sistema
normativo verso la c.d. amministrativizzazione della legge con inevitabile
compromissione della divisione dei poteri, escluderà inevitabilmente ogni
possibilità di costruire una c.d. riserva di amministrazione, metterà l’attività
amministrativa in balia del potere delle maggioranze parlamentari, legge ed
esecuzione della legge si confonderanno tra loro e si determinerà senza dubbio
nei tempi medio lunghi un’inflazione delle leggi.
Ma ciò che è più importante è che la prima e la seconda prescrizione hanno
ampliato nell’evolversi della giurisprudenza costituzionale i poteri di intervento
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della Corte sul sindacato di costituzionalità delle leggi. Dall’affermazione per la
quale l’eguaglianza deve essere intesa come trattamento eguale di condizioni
eguali e trattamento diseguale di condizioni diseguali (sent. n. 3 del 1957), la
Corte – allorché si è posta il problema dei criteri in base ai quali valutare la
diversità o meno delle suddette condizioni – ha dovuto constatare che né i
sette criteri elencati nel primo comma vietavano ogni forma di distinzione (si
pensi al caso evidente del criterio del sesso) né, al di fuori di quei criteri, era
possibile ogni distinzione. Sicché in un primo momento ha affermato (sent. n.
28 del 1957) che “la valutazione della rilevanza della diversità di situazioni in cui
si trovano i soggetti da disciplinare non può non essere riservata al potere
discrezionale del legislatore” e che un’indagine della Corte sull’uso di tale
discrezionalità avrebbe implicato “valutazioni di natura politica”. Salvo che – è
stato efficacemente detto – se il potere di compiere il giudizio comparativo fra
le varie situazioni “fosse affidato totalmente alla discrezionalità del
legislatore….. il senso del principio di eguaglianza formale come limite al potere
politico verrebbe totalmente meno” (Dogliani). Occorreva individuare criteri
idonei a guidare la competenza del legislatore a stabilire quando c’è una
differenza di situazioni e quando tale differenza non vi sia.
Se si prescinde dai casi in cui le differenze hanno una base, per così dire,
nella stessa natura delle cose (uomo/donna, vecchio/giovane, vedente/non
vedente etc.), si è detto che la discrezionalità nella differenziazione di una
situazione da un’altra deve essere esercitata dal legislatore in modo
“ragionevole”. La Corte ha affermato che “il principio di eguaglianza è violato
anche quando la legge, senza un ragionevole motivo faccia un trattamento
diverso ai cittadini che si trovano in una situazione eguale” (sent. n. 15 del
1960), introducendo così la valutazione della legge secondo il canone della
“ragionevolezza”, in assenza della quale la legge stessa deve essere dichiarata
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incostituzionale. Ora, se l’irragionevolezza (cioè l’assenza di un ragionevole
motivo per fare un trattamento diverso tra cittadini che si trovano in situazione
eguale o per fare un trattamento eguale a cittadini che si trovino in situazioni
differenti) risulta evidente la questione risulta di semplice soluzione; ma se tale
evidenza non dovesse sussistere, si dovrà aver riguardo alle finalità della legge,
alla c.d. ratio legis, ed alla luce di tale individuazione, vedere se risulta o no
ragionevole discriminare tra la situazione A e quella B. Il potere del giudice
della legge in tal modo si è potuto ampliare enormemente al punto da
determinare un vero e proprio adattamento della forma di governo a tale
situazione.
L’ultima prescrizione del primo comma dell’art. 3 esula dalla tradizione
illuminista della legge generale ed astratta e si ricollega direttamente all’art. 2,
in quanto ribadisce che è la dignità della persona umana a giustificare i suoi
diritti e la sua posizione di eguaglianza non solo di fronte alla legge, ma anche
in seno alla società: in ciò introducendo al comma 2, che assegna alla
Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Credo che questa disposizione non si limiti ad enunciare un programma per
il legislatore futuro, un disegno di società ideale in cui non vi siano ostacoli allo
sviluppo della persona umana e si realizzi una sua partecipazione all’organiz-
zazione politica, economica e sociale del Paese, non essendo possibile
distinguere – come vorrebbe taluno (Romagnoli) al fine di assicurare una
partecipazione privilegiata dei cittadini-lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese – tra “persona” e “lavoratore”, in quanto con ciò
si contraddirebbe all’art. 1 (nel quale non si accolse la dizione “Repubblica
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democratica di lavoratori”), all’art. 4, co. 2, nel quale “lavoro” è ogni attività o
funzione “che concorra al progresso materiale o spirituale della Società” ed alla
stessa parità dei cittadini di fronte alla legge (Esposito). La disposizione del co. 2
dell’art. 3 anticipa i contenuti della Costituzione, ponendo al centro la persona,
e, prendendo atto dell’esistenza di ostacoli economici e sociali, da un lato vieta
ogni trattamento sociale in contrasto con la pari dignità dei cittadini (Esposito)
e dall’altro vuole “particolarmente tutelati coloro che svolgono un’attività utile
per il Paese di fronte agli inattivi e agli inetti”.
Del resto la disposizione si specifica non solo nell’intera parte prima del
testo costituzionale, ma chiarisce in che senso debba intendersi che l’Italia è
una repubblica democratica, in quanto fa del principio partecipativo uno dei
princìpi cardine dell’organizzazione sociale (si veda, ad es., l’eguaglianza dei
coniugi di cui all’art. 29), economica (si veda il favore della Costituzione verso la
cooperazione e il riconoscimento del diritto dei lavoratori a collaborare alla
gestione delle aziende di cui all’art. 46) e politica (si ricorda il principio della
libertà ed eguaglianza del voto).
Il legame profondo tra lavoro e dignità sociale, che si è visto emergere nel
primo comma dell’art. 1 e nell’art. 3, trova espressione nell’art. 4. Si tratta di
una disposizione che ha destato scarsa attenzione fra i giuspubblicisti, che si
sono concentrati su una polemica che a me appare sterile e che trascura il
preciso e sottile collegamento tra primo e secondo comma. A parte quanti
hanno voluto limitare l’efficacia della disposizione, interpretandola come
recante un mero programma politico, opinione, come si è visto, ormai superata
dalla giurisprudenza costituzionale, la migliore dottrina si è concentrata sul
primo comma, dal quale ha dedotto, innanzitutto, che esso dovesse
interpretarsi come libertà di lavorare, onde il lavoratore non potrebbe essere
impedito di esercitare la propria attività lavorativa (Mazziotti) e, in secondo
18
luogo, che per lavoro dovesse intendersi, secondo concetto, un’attività
retribuita, conseguendone un obbligo per lo Stato a fornire lavoro ai
disoccupati (Mortati, Crisafulli).
Quest’ultima conseguenza, però, trascura innanzitutto non solo che il
concetto di “lavoro” comprende anche il lavoro autonomo, ma soprattutto che
sussiste un collegamento tra primo e secondo comma: tanto è vero che devo
dissentire da quanto scrive il mio Maestro, Vezio Crisafulli, che, difendendo
un’interpretazione radicale del diritto al lavoro come diritto che implica un
obbligo per lo Stato, si vedeva costretto a ridurre il concetto di lavoro a quello
di lavoro dipendente ed a sottolineare, contraddicendo tutte le sue tesi sulle
disposizioni di principio contenute in Costituzione, la natura non normativa del
secondo comma.
In realtà è proprio il secondo comma, che è una delle poche disposizioni in
cui compare il termine “dovere”, che illumina il primo e per quanto riguarda
l’individuazione del concetto di lavoro, comprendendo quest’ultimo ogni
attività (professionale, artistica, autonoma, dipendente) suscettibile di ricevere
una retribuzione, e per ciò che riguarda il soggetto che può rivendicare il diritto
al lavoro, che non potrà che essere colui che svolge “un’attività o una funzione,
che concorre al progresso materiale e spirituale della società”. Gli ignavi non
possono rivendicare un “diritto al lavoro”.
Dall’art. 4 si ricava tuttavia un obbligo per tutti i soggetti che formano la
Repubblica, così come indicata dall’art. 114, co. 1, nel testo in vigore dal 2001:
ed è quello di concorrere all’attuazione di una politica di piena occupazione,
rendendo così possibile per i cittadini il pieno esercizio del proprio “diritto al
lavoro”. In una situazione di crisi economica ed occupazionale come quella che
vediamo sotto i nostri occhi, i princìpi contenuti nell’art. 4 sarebbero dovuti
essere un faro per governanti e cittadini: gli uni e gli altri si sarebbero dovuti
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ispirare agli obblighi che il Costituente ha posto a loro carico, perché è proprio
il lavoro, il principio che taluno ha chiamato “lavorista”, a caratterizzare la
forma di Stato voluta dalla nostra Costituzione.
Siamo così pervenuti all’articolo fondamentale, che specifica il senso del
riferimento dell’art. 1 all’Italia.
Si è già visto come il riferimento alla “persona” e non all’individuo implichi
l’intenzione di aver riguardo non al soggetto inteso come individuo astratto dal
contesto in cui vive, ma piuttosto la considerazione dell’uomo come soggetto
reale, che si pone in relazione con gli altri uomini e che partecipa con altri a
comunità nelle quali essi si aggregano o naturalmente (la famiglia) o spinti da
una molteplicità di interessi, che possono riguardare la difesa comune, il
commercio o la produzione di beni, la cultura, le credenze religiose. Queste
comunità si organizzano e danno vita a tanti ordinamenti. Tra queste comunità
fa spicco la comunità nazionale, alla formazione dalla quale concorrono tanti
fattori (i c.d. fattori della nazionalità) e che si organizza (o tende ad
organizzarsi) nello Stato (inteso ovviamente come ordinamento territoriale e
sovrano) raccolto attorno ad un nucleo governante (lo Stato-governo o Stato-
autorità). Ora quanto più numerosa è la comunità nazionale, quanto più vasto è
il territorio sul quale ha sede stabile, tanto più distante sarà l’autorità
governante dalle singole persone e dai diversi gruppi sociali che essa formano,
e tanto più questa distanza contribuirà a far sentire quell’autorità statale
lontana e ad alimentare una sorta di tendenza centrifuga di quella comunità.
Questo è il problema che è al centro dell’art. 5, che i Costituenti hanno
tentato di risolvere con il riconoscimento delle autonomie locali (e quindi la
loro autonormazione), garantendo il decentramento amministrativo dei servizi
ed attribuendo alla futura legislazione il compito di favorire sia l’autonomia che
il decentramento: tutto ciò riaffermando, però, il principio dell’unità ed
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indivisibilità della Repubblica, cioè della comunità nazionale, una d’arme, di
lingua, d’altar, di memorie, di sangue, di cor (Manzoni, Marzo 1821).
Si ripropone perciò in questo articolo la dialettica tra diritti della persona e
della comunità, da un lato, e dall’altro, corrispondente solidarietà reciproca
delle singole persone e delle c.d. comunità minori, solidarietà funzionale, per
così dire, all’unità nazionale. Non vi è unità se non vi è solidarietà, non vi sono
diritti se non vi è reciproco riconoscimento e pari dignità, cioè solidarietà.
Unità ed indivisibilità della Repubblica appunto, dove per indivisibilità
dovrebbe intendersi il divieto di dividere il territorio della Repubblica in più
Stati ovvero quello di secessione di parte del territorio nazionale (Esposito),
trattandosi di un limite assoluto, perché esso investe l’essenza territoriale della
Repubblica (art. 139 Cost.), non superabile neppure con il procedimento di
revisione costituzionale (art. 138); mentre il principio di unità dovrebbe
assicurare uno sviluppo armonico ed integrato tra i vari livelli di governo,
rappresentando “il momento – si potrebbe dire apicale – di unificazione
normativa, poiché Stato, Regioni ed autonomie locali sono tutti integrati allo
interno del medesimo sistema di valori individuati dalla Costituzione” (Rolla).
Si deve riconoscere, però, che l’art. 5 ha avuto, nei settant’anni che ci
hanno preceduto, un’attuazione, a poco dire, altalenante. Il riconoscimento
delle autonomie territoriali nel testo originario del titolo V della parte seconda
della Costituzione era ben poca cosa. Esso si limitava all’istituzione del nuovo
Ente-Regione, cui erano attribuite specifiche competenze legislative in una
serie di materie tassativamente indicate, competenze nell’esercizio delle quali
la Regione incontrava il limite dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello
Stato e quello dell’interesse nazionale o delle altre Regioni, oltre che,
ovviamente, quello della Costituzione. Facevano eccezione cinque regioni ad
autonomia speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e
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Friuli-Venezia Giulia), alle quali era attribuita una competenza legislativa
esclusiva in alcune determinate materie. Tutte le competenze legislative
eccedenti quelle specificamente indicate erano di spettanza dello Stato.
Ritardi nell’attuazione dell’ordinamento regionale (diventato concreta-
mente operativo per le Regioni a statuto ordinario solo nel 1971), tendenza al
centralismo delle Pubbliche Amministrazioni ed una severa giurisprudenza della
Corte costituzionale hanno contribuito a fare delle regioni enti costosi, litigiosi
ed assolutamente poco incisivi nella vita delle rispettive comunità.
Si determinava nel Paese un clima insofferente dei poteri dello Stato
centrale ed una spinta in favore di forme più ampie di autonomia, che aveva
indotto alcune forze politiche ad ipotizzare addirittura secessioni o federalismi
sostanzialmente distruttivi della solidarietà fra le varie parti del Paese e quindi
dell’unità nazionale. Sicché, anche per rispondere a tali esigenze si è pervenuti
nel 2001 alla riforma dell’intero titolo V della parte seconda, rovesciando, per
così dire, i princìpi contenuti nel testo del 1948: la competenza legislativa dello
Stato può esplicarsi solo nelle materie specificamente enumerate nel comma 2
dell’art. 117, sussiste una competenza legislativa concorrente delle regioni
nell’ambito dei princìpi generali fissati dalla legislazione dello Stato, per tutte le
altre materie la legislazione è attribuita in via esclusiva alle Regioni, sparisce il
limite dell’interesse nazionale. Ma la nuova riforma, approvata dal popolo con
il referendum del 7 ottobre 2001, non sembra abbia dato buoni risultati.
In realtà il riformatore della Costituzione non ha saputo operare una scelta
precisa tra un federalismo (sarei alquanto alieno dal parlare di federalismo, che
è parola estranea alla nostra tradizione “nazionale”, in quanto le amministra-
zioni degli Stati preunitari si caratterizzavano per debolezza e inefficienza)
cooperativo (come si esprime nella formula tedesca der unitarische
Bundesstaat) ed un federalismo con precisa e netta ripartizione di competenze
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e, quindi, c.d. conflittuale. Si delineava all’orizzonte un sistema, per così dire,
paralizzato dai conflitti. È stata la Corte costituzionale che, facendo leva sulle
c.d. materie trasversali attribuite alla competenza esclusiva dello Stato, ha
allargato il campo di intervento legislativo dello Stato. Sempre la Corte,
utilizzando concetti del c.d. federalismo cooperativo, ha introdotto il principio
di leale collaborazione tra Stato e Regioni ed in genere tra gli enti territoriali e
successivamente, con la famosa sent. n. 303 del 2003, ha fatto del principio di
sussidiarietà l’”asse portante” dell’intero sistema, allorché ha statuito che
l’attribuzione allo Stato di funzioni amministrative in base al principio di
sussidiarietà attraesse anche le relative funzioni legislative. In altri termini la
Corte, “nel contemperamento tra principio unitario e principio di autonomia si
è sempre posta a presidio dell’unità” (Stajano).
Ma la storia dell’attuazione dell’art. 5 non finisce nel 2001. L’insoddisfa-
zione verso il funzionamento delle Regioni, gli scandali sempre più numerosi
che investono le classi dirigenti locali hanno indotto la fallita riforma
costituzionale, bocciata con il referendum del 2016, ad introdurre modifiche
dirette a ridurre gli spazi di autonomia concessi agli enti territoriali.
L’art. 6 risponde in fondo alla medesima logica degli altri articoli,
soprattutto se si tiene conto del fatto che per minoranza si intende (Capotorti)”
un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione di un certo
Stato, i cui membri – essendo cittadini dello Stato – posseggono caratteristiche
etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della
popolazione, e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà
inteso a preservare la loro cultura, tradizioni religiose o lingue”.
Così intesa, la minoranza linguistica viene identificata con una formazione
sociale, donde il collegamento dell’art. 6 con gli articoli 2, 5 e 9 (nei limiti in cui
il patrimonio culturale ed artistico della Nazione comprende anche quello
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proprio delle minoranze linguistiche, anche se, identificandosi le minoranze
linguistiche con vere e proprie minoranze nazionali, il loro patrimonio artistico-
culturale potrebbe non essere più considerato appartenente alla Nazione
italiana).
Anche l’art. 6 viene annoverato tra i princìpi supremi (sent. n. 81 del 2018)
e la Corte costituzionale ha affermato che l’attuazione in via di legislazione
ordinaria della tutela delle minoranze linguistiche compete sia allo Stato che
alle Regioni, ma che “il compito di determinare gli elementi identificativi di una
minoranza da tutelare non può che essere affidato alle cure del legislatore
statale”, in modo da poter contemperare le esigenze del pluralismo con quelle
dell’uniformità”. Con il che ha ritenuto che il legislatore regionale non potesse
configurare o rappresentare la propria comunità, in quanto tale, come
minoranza ed ha quindi dichiarato incostituzionali tutte quelle leggi con le quali
alcune Regioni (Piemonte, Veneto) tendevano a configurare le proprie
popolazioni come comunità etnico-linguistica, atta a rivendicare i diritti della
Convenzione di Strasburgo per la protezione delle minoranze nazionali.
Lascerei da parte i problemi sollevati dagli artt. 7 e 8, anche se da essi si
ricava il riconoscimento delle confessioni religiose come comunità, che possono
dotarsi di propri Statuti purché non contrastanti con l’ordinamento italiano e
coordinare i rispettivi ordinamenti con quello della Repubblica sia per mezzo
del Concordato che per mezzo di specifiche intese (v. anche artt. 19 e 20), o,
così come poco significa ai nostri fini l’art. 9, se non per l’aspetto che da esso
può dedursi un’idea di Nazione che non coincide perfettamente con la
Repubblica; anche se – come si è visto – se si dovesse supporre la coincidenza,
la Nazione, così come la Repubblica, si trasformerebbe in Nazione pluralista o,
come diceva una volta, multietnica.
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Ma gli articoli che meglio rivelano la presbiopia dei nostri Costituenti sono
gli articoli 10 e 11. Essi aprono la nostra comunità nazionale all’esterno, verso
gli altri Stati e mostrano quanto il Costituente si sia dimostrato presbite. Si
possono considerare perciò la serratura per aprire la porta dello Stato-
comunità al mondo ed al futuro. L’art. 10, infatti, apre all’ordinamento
internazionale, prevedendo l’ingresso delle sue norme nel nostro ordinamento
attraverso un meccanismo di adattamento automatico. Si tratta di una norma
che troverà la propria consacrazione nel primo comma del nuovo art. 117 Cost.,
che prevede che i trattati internazionali costituiscono un limite sia per la
legislazione statale che per quella regionale. Attraverso il riconoscimento, poi,
del diritto d’asilo ed il rifiuto dell’estradizione per reati politici, i valori di libertà
fatti propri dalla nostra Costituzione si rivolgono agli uomini di tutte le nazioni,
additando un modello di civiltà ed una forma di Stato, che si spera vengano
accolti a scala mondiale.
Quanto all’art. 11, a parte l’importanza del ripudio della guerra che non è
certo privo di rilievo giuridico, ciò che si è rivelato particolarmente felice in
questo articolo è il fatto che vi si dice “che l’Italia consente, in condizioni di
parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Originariamente
i Costituenti guardavano, con questa disposizione, all’aspirazione italiana ad
entrare a far parte delle Nazioni Unite (ed io ricordo con quanto orgoglio –
avevo 13 anni - si apprese la notizia che tale aspirazione era stata soddisfatta il
14 dicembre 1955), ma successivamente essa consentì la nostra adesione alla
Comunità europea senza traumatiche revisioni costituzionali. Oggi il diritto
dell’U.E. è anche nostro diritto.
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Come è noto la giurisprudenza della Corte di Giustizia afferma che il diritto
europeo prevale su quello del nostro ordinamento, quale che ne sia il rango
(costituzionale, legislativo, regolamentare etc,). Tesi alla quale le Corti
costituzionali di Italia e Germania hanno risposto con la c.d. teoria dei
controlimiti, tutta basata sui c.d. princìpi fondamentali e supremi, nel senso
appunto che in tanto il diritto comunitario potrebbe far premio sulle norme
costituzionali in quanto esso, però, non contrasti con i princìpi supremi del
nostro ordinamento (sent. n. 203 del 1989). E la Corte ha proprio di recente
fatto applicazione della teoria dei controlimiti (o meglio minacciato di farvi
applicazione) in un caso in cui il diritto comunitario, così come interpretato
dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, avrebbe violato il principio di
retroattività della legge penale più favorevole (sent. n. 24 del 2017), inducendo
la Corte di Giustizia a cambiare la propria interpretazione del diritto
comunitario (sent. della Corte di Giustizia del 5 dicembre 2017, caso Taricco).
Come si può vedere la teoria dei controlimiti, usata con maggiore coraggio,
può consentire di mitigare l’asprezza di certi princìpi dell’ordinamento dell’U.E.
in campo socio-economico, in difesa del principio fondamentale e supremo di
solidarietà che anima la nostra Costituzione. Se princìpi fondamentali sono
quelli che definiscono l’identità del nostro ordinamento costituzionale o, come
recita la sent. n. 238 del 2014, quelli “qualificanti e irrinunciabili dell’assetto
costituzionale”, non vi è dubbio che il principio di solidarietà, così come
specificato nei titoli della prima parte dedicati ai rapporti etico-sociali ed ai
rapporti economici, potrà costituire un limite per l’ordinamento dell’U.E., che
volesse imporre una visione di quei rapporti ispirata ad un liberismo spinto al
punto estremo, nel quale sia messo in forse il dovere di solidarietà nei riguardi
dei ceti più deboli.
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Come si può vedere, si tratta di due disposizioni dalle quali risulta che
l’Italia “una ed indivisibile” non si chiude in se stessa, nell’impenetrabilità del
proprio ordinamento, ma si apre a tutti i processi di internazionalizzazione, ivi
compreso quel grande fenomeno dagli sbocchi ancora incerti che è la
globalizzazione. Con quelle disposizioni l’Italia si mostra consapevole di poter
diventare una piccola patria nell’ambito della grande comunità mondiale, che
dovrebbe riunire tutti gli uomini; piccola patria, in tanto più amata – avrebbe
detto Croce – in quanto alimentata dall’amore che dovrebbe suscitare la
fratellanza di tutti gli uomini nell’ipotetica comunità globale.
Siamo pervenuti infine all’ultima disposizione della parte della nostra
Costituzione dedicata ai princìpi fondamentali: l’art. 12. Si tratta dell’unica
disposizione costituzionale concernente i simboli ed alla quale la dottrina ha
dedicato poca attenzione, anche perché si tratta di una disposizione che può
apparire estranea ad un complesso di proposizioni normative recanti princìpi
generali.
È ovvio che chi ritiene (Cassese) che la disposizione sulla bandiera non
rechi un principio fondamentale, ne trae la conseguenza che essa sarebbe
modificabile con una legge di revisione costituzionale approvata ai sensi
dell’art. 138 Cost. Ma occorre considerare: a) che l’art. 12, parlando di tricolore
“italiano” allude ad un’identità nazionale costruitasi già prima della
Costituzione a partire da quel Consiglio della Repubblica Cisalpina (ma già
prima il Congresso della Repubblica Cispadana del 7 gennaio 1797) dell’11
maggio 1798, passando per la decisione del Regno di Sardegna del 27 marzo
1948; b) il cambiamento della bandiera non è mai privo di valore costituzionale,
in quanto essa esprime in modo immediatamente percepibile un’identità
nazionale; c) i princìpi fondamentali e supremi non sono solo quelli che
attengono a situazioni soggettive, ma anche quelli che recano previsioni
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organizzative; d) la bandiera è simbolo di valori condivisi; e) la decisione sulla
bandiera è una decisione fondamentale.
La bandiera è il tricolore per il semplice fatto che la Costituzione lo afferma
(donde la natura di norma costitutiva, in quanto fa assumere quella certa
qualità al tricolore), ma, affermandolo, lo prescrive (Luciani). I Costituenti – è
stato detto – non erano affatto inconsapevoli dell’importanza dei simboli
costituzionali, nella discussione l’uso che il fascismo aveva fatto del tricolore
era svanito, mentre erano ricomparse le memorie risorgimentali.
Ci si può domandare cosa la bandiera simboleggi: un popolo, uno Stato
(inteso come Governo), la Repubblica (o Stato ordinamento), la Nazione, la
Patria? La Corte costituzionale nella sent. n. 189 del 1987 parla indifferente-
mente di Nazione italiana, Paese, Stato. In realtà, proprio in quanto simbolo si
può dire che essa sia polifunzionale e tale possibilità di simboleggiare più entità
si racchiude nella definizione della bandiera come “simbolo della comunità
politica”, cioè della solidarietà che lega fra loro le persone che formano una
stessa comunità politica. Non a caso la Corte con la sent. n. 228 del 2004 ha
precisato che “il dovere di difendere la Patria deve essere letto alla luce del
principio di solidarietà espresso nell’art. 2 della Costituzione…. chiamando le
persone ad agire non solo per imposizione di un’autorità, ma anche per libera e
spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza le persone
stesse”.