Luca Marcigot
PROSPETTIVE DI SVILUPPO DEI DISTRETTI INDUSTRIALI VENETI
NELL’ATTUALE PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE
A.A. 1998/1999: N.14
DISTRIBUZIONE SOLO PER FINI DIDATTICI
Indice
Introduzione 1
PARTE I : Descrizione della situazione attuale
1. Definizione e struttura del distretto industriale 5
2. Il Veneto e i distretti industriali regionali
19
2.1 Evoluzione storica dell’economia regionale veneta 19
2.2 Metodologia individuativa dei distretti industriali veneti 25
2.2.1 Il distretto del tessile e dell’abbigliamento dell’Area
Pedemontana
31
2.2.2 Il distretto del tessile e dell’abbigliamento dell’Area
Meridionale
32
2.2.3 Il distretto del mobile della Bassa Pianura Veronese 32
2.2.4 Il distretto del mobile della Sinistra Piave 33
2.2.5 Il distretto multisettoriale del Bassanese 34
2.2.6 Il distretto della calzatura e dello sport system di
Montebelluna
35
2.2.7 Il distretto della calzatura della Collina Veronese 36
2.2.8 Il distretto della calzatura della Riviera del Brenta 37
2.2.9 Il distretto della concia e del metalmeccanico di
Arzignano
37
2.2.10 Il distretto dell’occhiale della Montagna Bellunese e del
Segusino
38
2.2.11 Il distretto del marmo della Collina Veronese 40
2.2.12 Il distretto orafo di Vicenza 41
2.2.13 Il distretto metalmeccanico di Schio-Thiene 42
2.2.14 Il distretto metalmeccanico di Conegliano 42
2.2.15 Aree specializzate di estensione territoriale limitata 44
3. I distretti industriali veneti e le dinamiche
dell’internazionalizzazione
47
3.1 L’internazionalizzazione dei distretti industriali 47
3.2 Dinamiche di internazionalizzazione dei distretti
industriali veneti
59
PARTE II : Analisi di un caso concreto
4. Il distretto industriale della Riviera del Brenta
71
4.1 La genesi storica del distretto calzaturiero e la sua
evoluzione fino al secondo dopoguerra
71
4.2 L’esplosione delle sinergie distrettuali 77
4.3 La struttura attuale del distretto calzaturiero 87
5. Percorsi valorizzanti il distretto nella logica
internazionale
97
5.1 L’azione collettiva all’interno di un distretto industriale 97
5.2 I servizi collettivi del distretto della Riviera del Brenta 103
5.3 La promozione delle specificità distrettuali
107
CONCLUSIONI
6. Un possibile sviluppo dei distretti industriali veneti
per il terzo millennio
115
ALLEGATI
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
1
Introduzione
Il Nordest italiano, in particolare il Veneto, sta catalizzando l’attenzione dei
media e degli economisti da diversi anni per l’incredibile successo economico
ottenuto nel corso dell’ultimo decennio. Nella vasta letteratura economico-industriale
si é spesso menzionato, nonché abusato, del termine “miracolo” in riferimento ai
notevoli tassi di crescita registrati, senza neanche ricercate le ragioni alla base del
florido presente. La condizione attuale non é che il risultato del dispiegarsi di fattori
sociali ed economici maturati dall’inizio dell’industrializzazione regionale ed evolutisi
in concomitanza con lo scenario nazionale e internazionale. Solo analizzando
l’evoluzione fin qui raggiunta é possibile ipotizzare delle linee di sviluppo per il
prossimo futuro. Le tendenze presenti portano a immaginare un’economia globale, il
che non significa annullare la prospettiva locale, in quanto l’attenzione alla
dimensione internazionale deve partire da una concreta base locale.
Il presente elaborato intende adottare la logica induttiva per inserire il
contesto economico regionale nel più generale quadro internazionale. Evitando
inutili generalizzazioni, si é puntato sull’approfondimento dei distretti industriali
veneti, quali artefici di gran parte del successo economico odierno. Tali soggetti
rappresentano un importante elemento distintivo del panorama italiano e un fattore
di vantaggio internazionale. La tradizione manifatturiera nazionale ha consentito la
formazione dei distretti industriali e ne ha favorito la diffusione al punto che oggi essi
sono studiati come possibile metodo produttivo alternativo dopo il crollo del
fordismo.
Il Veneto può essere considerato l’archetipo dell’economia italiana in termini
di settori di specializzazione produttiva, per cui l’analisi regionale ha in qualche
modo un’applicabilità a livello nazionale. Ovviamente, il tessuto sociale e la cultura
locale hanno condotto a una contaminazione delle strutture economiche teoriche
dando vita a una “via veneta allo sviluppo”.
2
La Parte Prima della tesi descrive appunto la situazione attuale della regione
affrontando la storia e la presente internazionalizzazione dei distretti industriali
veneti. La Parte Seconda, invece, si spinge nell’analisi di un caso concreto, il
distretto calzaturiero della Riviera del Brenta, nella sua evoluzione secolare e nella
proposta di applicazione di tecniche di marketing per la promozione collettiva. La
Parte Terza conclude il percorso tracciando possibili scenari evolutivi.
Più nel dettaglio, nel primo capitolo si affronta il concetto di distretto
industriale, analizzandone la trattazione teorica, e cercando di definirne la struttura.
Viene ivi messa in risalto la complessità organizzativa di questa entità in cui
economia e società sono inscindibili (distretto come modello sociale di
organizzazione della produzione). I valori appartenenti alle sfere dell’etica della
famiglia, della comunità locale e del lavoro si coagulano e si sciolgono in tratti
caratteristici e identificativi dei distretti industriali. Proprio la difficoltà nella loro
definizione e individuazione ha rallentato il processo di riconoscimento pubblico dei
distretti quali soggetti di politica economica; risale infatti al 1991 la prima iniziativa
governativa a tal proposito.
Nel secondo capitolo si procede dalla teoria astratta alle costruzioni concrete.
Una breve trattazione storica dell’industrializzazione regionale permette di
comprendere sia la distribuzione territoriale della produzione, sia le condizioni
macro-economiche di fondo del complessivo sviluppo dei distretti industriali veneti.
Questi ultimi sono individuati in base a un’integrazione degli studi precedenti con i
criteri delle normative pubbliche in materia.
L’internazionalizzazione viene affrontata nel capitolo terzo partendo dal
concetto di economia della conoscenza come fondante lo scenario post-fordista.
Infatti il declino del sistema produttivo fordista, l’evoluzione dell’Information
technology e l’espansione del commercio internazionale aprono la via alla
ristrutturazione dell’economia mondiale verso una dimensione globale. I distretti
industriali, in quanto soggetti economici, partecipano a questo salto evolutivo e si
riorganizzano per poter agire attivamente nel nuovo equilibrio strutturale. Forme e
metodi di internazionalizzazione modificano gli assetti dei sistemi produttivi locali e li
3
spingono a rafforzare i loro fattori di vantaggio per affrontare la competizione
globale.
In particolare, il distretto calzaturiero della Riviera del Brenta é sensibile al
mutamento dello scenario internazionale in quanto più dell’80% della sua
produzione viene destinato all’esportazione. Le origini, i contesti e i meccanismi
genetici, i fattori e gli attori dello sviluppo, le dinamiche del cambiamento, le
continue trasformazioni che hanno contraddistinto il percorso evolutivo del sistema
brentano consentono di analizzare la struttura attuale e i meccanismi di
cooperazione e collaborazione fra le imprese (capitolo quarto). Importanti forme
autoregolative consentono alla Riviera del Brenta di affrontare i nodi critici del
passaggio all’economia globale in modo unitario e coeso.
In quest’ottica é inseribile il progetto, esposto nel quinto capitolo, di
rafforzamento della promozione collettiva dell’intero distretto e del suo toponimo a
contenuto merceologico. Valorizzando le risorse locali e connotando il sistema
produttivo attraverso tratti distintivi riconoscibili, gli si fornisce la possibilità di
partecipare alla catena internazionale del valore e di competere efficacemente con
gli altri attori mondiali.
In conclusione, le forme cooperative implicite nella struttura del distretto
industriale veneto offrono nuove opportunità per superare lo sradicamento legato
alla globalizzazione. Il territorio diventa fattore strategico per la localizzazione delle
imprese e i radicati saperi contestuali, diffusi nelle aree distrettuali, ne
rappresentano una valido elemento attrattivo. L’evoluzione deve quindi prendere
avvio dalla riproduzione dei fattori di vantaggio ambientale che hanno reso i distretti
industriali veneti protagonisti della storia economica nazionale.
PARTE I
Descrizione della situazione attuale
5
1. Definizione e struttura del distretto industriale
La storia della scienza economica vede nel corso dei secoli il succedersi di
numerose teorie e sistemi concettuali per l’interpretazione e l’analisi della realtà.
Teorie e sistemi che quindi ipotizzano o si basano su costruzioni economiche reali.
E’ infatti su alcune realtà specifiche che Alfred Marshall fonda le sue analisi
economiche dei distretti industriali. Si tratta di costruzioni umane risalenti agli inizi
del XX secolo, evidentemente meno complesse rispetto alle strutture odierne.
Ciononostante esse hanno permesso al teorizzatore delle curve di domanda
reciproca di affrontare il concetto distrettuale. La regione del Lancashire, l’area di
Sheffield, il distretto tedesco della Ruhr e molte altre presentavano similitudini
produttive talmente rilevanti da poterne trarre la concettualizzazione di un idealtipo.
In “Industry and Trade” del 1919, Marshall offre una chiara spiegazione del
distretto industriale quale alternativa produttiva alla grande impresa per il
conseguimento di economie di scala, economie non basate sull’internalizzazione
delle fasi produttive all’interno di un’unica grande oragnizzazione bensì sulla
presenza di economie esterne alla singola impresa ma interne al distretto. Una sorta
di factory without wall1 in cui si respira una comune “atmosfera industriale”
caratteristica di quel determinato territorio. E’ infatti l’attenzione prestata al territorio
che permette di dare rilievo a questi sistemi integrati di medie e piccole imprese
specializzate che sviluppano legami stabili fra loro dando vita a un’intensa divisione
locale del lavoro .
Sistemi caratterizzati da un ispessimento localizzato delle relazioni
interindustriali che consente di raggiungere i rendimenti crescenti tipici delle aree
considerate. Ovviamente, un tale sistema di piccole imprese può raggiungere la
piena utilizzazione di strumenti di lavoro altamente specializzati se il processo
produttivo é scomponibile e le sue componenti sono ripartite appropriatamente fra le
1 G. Becattini (1981).
6
unità. Per cui la distribuzione territoriale é fortemente correlata alla scomponibilità
del processo produttivo. Con la scomposizione della produzione si verifica un
conseguente aumento di frequenza dei contatti fra le unità e una completa divisione
del lavoro poggiante su una solida professionalità. Ed é grazie a questo moltiplicarsi
degli scambi fra le imprese che si può introdurre i concetti di collaborazione e di
cooperazione caratteristici dei distretti. La necessità di contatti rapidi ed efficaci
implica un aumento dei vantaggi di una localizzazione comune delle attività
produttive e l’instaurazione di un clima di completa fiducia reciproca. Tali
considerazioni risalenti a inizio secolo appaiono particolarmente anticipatrici di quelli
che verranno identificati da O.E. Williamson negli anni ‘70 come costi di transazione.
Da questo breve accenno al pensiero marshalliano si può già capire che
l’originalità del suo contributo sta anche nel fatto che non si tratta del risultato di una
semplice analisi economica ma di una complessa interazione fra le scienze sociali,
l’economia e la geografia. Il distretto industriale “marshalliano” é infatti un sistema
socio-territoriale di produzione, un accoppiamento strutturale fra economia e società
che da vita a un processo produttivo completo. Si differenzia dalla “città
manifatturiera” (sempre seguendo una terminologia marshalliana), perché può
comprendere più centri urbani e una localizzazione industriale maggiormente
sparsa, ma soprattutto si distingue dal settore industriale. Marshall aveva proposto
due forme organizzative per l’economia industriale: il settore ed il distretto. Il primo si
differenzia tra l’altro perché le imprese sono solo in competizione fra loro, senza
essere governate da logiche collaborative, e perché astratte dai loro contesti locali;
di conseguenza il settore aggrega seguendo una logica tecnologica e mercantile
(“The Pure Theory of Domestic Values”).
Conviene a questo punto affrontare con maggior precisione e chiarezza i
connotati del distretto industriale in Alfred Marshall. Innanzitutto sono da individuare
i soggetti costituenti un distretto: un numeroso gruppo di piccole e medie imprese
raggruppate in uno stesso ambito geografico. La dimensione relativamente piccola
delle unità suggerisce la tendenza a una specializzazione in una o poche fasi del
ciclo produttivo, piuttosto che un’integrazione verticale, per cui una divisione del
7
lavoro di tipo orizzontale con l’uso di tecnologie perfezionate e di una manodopera
qualificata. Spesso il numero di addetti per impresa é talmente ridotto da coincidere
con la figura dell’imprenditore e della sua famiglia. Ciò implica una professionalità
diffusa, una forte spinta motivazionale e una marcata interiorizzazione dell’attività
economica all’interno della vita sociale; vita sociale condivisa con gli altri operatori
della stessa area, per cui caratterizzata dallo stesso sistema valoriale.
L’appartenenza a uno stesso contesto sociale porta alla creazione di una
consuetudine cooperativa anche nei rapporti economici, perciò si crea la proficua
interazione fra cooperazione reciproca e concorrenza tipica del mercato. Il risultato
di tale dialettica integrativa é la spinta verso il rinnovamento continuo e lo stimolo
alla ricerca delle soluzioni produttive più efficienti. Il dinamismo e l’economicità
prodotti dalla concorrenza si fondono con i risultati della cooperazione. La
cooperazione diminuisce i rischi della partecipazione all’attività imprenditoriale
autonoma, per cui agevola l’entrata di un maggior numero di persone; consente il
frazionamento del processo di innovazione fra le imprese distrettuali; favorisce il
coordinamento delle attività complementari e permette la riduzione dei costi di
produzione grazie all’apporto delle economie esterne.
Potendo usufruire delle successive teorie sui costi di transazione, é a questo
punto possibile integrare l’analisi di Marshall per approffondire le dinamiche interne
a un distretto. Se, in base a quanto detto, vige una compenetrazione fra
competizione e cooperazione, il meccanismo che governa le transazioni non potrà
essere solo il mercato attraverso i prezzi e neanche solo la comunità con i codici
comportamentali, bensì una forma intermedia, contaminata dai due estremi. La parte
comunitaria assicura una reciprocità fra prestazione e compenso, tale da ridurre
notevolmente i costi di transazione che ci sarebbero all’interno del mercato. Così le
transazioni sono meno costose, più semplici e maggiormente variate. Infatti uno
degli elementi che ostacola e alza il costo delle transazioni é l’opportunismo degli
agenti, che però in un sistema cooperativo viene di molto ridotto2.
2 Lo stesso Marshall in un passo di Industry and Trade specifica: “Una forte individualità, la risolutezza e l’immediatezza di propositi, possono permettere ad una moltitudine di imprese britanniche di dimensioni modeste di resistere contro gli aggruppamenti potenti in tutte le industrie
8
L’opportunismo può dipendere da un’asimmetria fra le parti di una transazione
per quanto riguarda le informazioni possedute, la sostituibilità dell’operazione stessa
e la spesa per investimenti specifici. Per le caratteristiche implicite al distretto tutte e
tre queste asimmetrie sono ridotte e i comportamenti opportunistici sono facilmente
individuabili e punibili con gravose sanzioni economiche, nonché morali. Altro
elemento che incide positivamente sui costi transazionali é costituito dall’incertezza.
Anch’essa viene di molto ridimensionata all’interno del distretto perché la flessibilità
organizzativa attenua i rischi per il sistema. La fiducia in una sorta di stabilità nella
mobilità, ovvero nella flessibilità, nasce dalla cooperazione garantita dalle istituzioni
del distretto e dalla famiglia nonché da una manodopera mobile e qualificata. Oltre a
ciò, la competizione promuove il cambiamento continuo nel senso di innovazione
permanente e diffusa, chiaro fattore anti-incertezza.
Man mano che ci si addentra nella descrizione del concetto “distretto
industriale”, si realizza la sua complessa costruzione e l’altrettanto ardua
decifrazione in termini economici. Come già specificato, le variabili da prendere in
considerazione sono di molteplice natura e viene richiesta una sintesi
interdisciplinare. Dopo Marshall, la scienza economica sembra essersi
disinteressata per lungo tempo alla realizzazione di uno studio sintetico sui distretti.
Ciò é imputabile all’influenza esercitata dal modello produttivo imperante lungo gran
parte del XX secolo. Il sistema produttivo fordista, il modello in questione, ha
catalizzato le attenzioni degli economisti in quanto dominatore incontrastato della
scena economica mondiale. Lo stesso distretto industriale appariva come un
decentramento produttivo a fini oppprtunistici, immeritevole di studi particolareggiati.
Negli anni ‘70, il fordismo classico entra in crisi, la grande impresa, monolitica e
complessa costruzione organizzativa, vacilla di fronte ai problemi dell’economia
mondiale3. L’attenzione quindi si sposta sulle alternative, la più probabile delle quali
sembra essere quella caratterizzante il sistema produttivo giapponese: un fordismo
nelle quali non v’é un vantaggio tecnico decisivo nella produzione continua di massa: purché tali volontà vadano congiunte ad una sincera disposizione ad imparare dagli altri, e a cooperare volentieri con gli altri in questioni nelle quali l’associazione non ostacolata ha grandi possibilità.” 3 F.Belussi, M. Festa (1990)
9
maturo o “neo-fordismo”, in cui dalla potenza tecnologica si riscopre l’autonomia
dell’organizzazione sotto forma di comunicazione-cooperazione. Il rinnovato
interesse per il capitale umano, le relazioni sociali e i contesti territoriali riconduce
alla valorizzazione dei distretti industriali e con essi alla considerazione della realtà
italiana dei sistemi di piccole imprese.
Nel 1969, uno studio dell’IRPET (Istituto Regionale per la Programmazione
Economica della Toscana)4 riportava l’analisi economica al distretto, quale possibile
alternativa della grande fabbrica. Importante teorizzatore a livello italiano é Giacomo
Becattini5 che, studiando il pensiero di Marshall, mette in contrapposizione la
metodologia meccanicistica del settore e quella, più adattabile e complessa, del
distretto. Piore e Sabel (1984) enunciano una toria della specializzazione flessibile,
rompendo così l’immagine del modello unico di sviluppo e riaprendo la strada verso
la riflessione più generale dei rapporti fra sviluppo economico e territorio.
Si abbandona un approccio funzionalista in cui il territorio giocava solo un
ruolo passivo, e si riconoscono i vantaggi strategici del distretto e, in generale, dei
sistemi produttivi locali. Prendono forma studi e approfondimenti su settori rimasti
inesplorati e balzati improvvisamenti agli onori della cronaca. Un esempio fra i tanti
é la costituzione in seno alla Direzione Generale per la politica regionale della Cee
del GREMI (Groupe de Recherche Européen sur les Milieux Innovateurs) che ha
prodotto (1992) uno studio dal titolo: “Development prospects of the Community’s
lagging regions and the socio-economic consequences of the completion of the
international market”. Il milieu innovateur é il prodotto dell’unione di economie di
distretto, di prossimità e di sinergia che riduce l’incertezza e garantisce processi
diffusi di apprendimento e di trasferimento tacito di know-how e di assets
immateriali. E’ un concetto normativo per lo sviluppo di regioni arretrate che
valorizza un approccio endogeno della crescita strettamente correlato al territorio.
4 Lo sviluppo economico della Toscana: un’ipotesi di lavoro in Il Ponte, n.1. 5 Nel 1979 Becatt in i scr ive nel la “Rivista di economia e pol i t ica industr iale” un saggio dal t i tolo: Dal settore industr iale al distretto industr iale. Alcune considerazioni sul l ’unità di indagine dell ’economia industr iale .
10
I contributi recenti in materia sono molto numerosi, indice della rilevanza
accordata al distretto industriale nell’attuale cornice post-fordista. Con esso si é
varcato il confine della più spinta globalizzazione, aprendo le porte a nuove
tecnologie che gestiscano gradi elevati di varietà/variabilità e a un alto livello di
comunicazione che permetta il collegamento fra luoghi molto distanti. Si delinea così
il nodo critico del coordinamento fra il localismo dei distretti e la globalizzazione
economica, ma di questo si parlerà nel terzo capitolo.
Mi preme qui riprendere una sorta di paragone evolutivo fra il metodo
produttivo fordista e quello distrettuale per dare ulteriore risalto all’importanza
attuale di quest’ultimo. Nel fordismo classico, l’organizzazione é gerarchia, prodotto
di tecnologia e mercato ed é determinata da processi di calcolo e selezione anonimi
rispetto alle capacità delle persone. L’organizzazione é una macchina pianificata,
dove appunto la tecnologia e il mercato sono efficaci algoritmi di problem solving. Di
conseguenza l’unico criterio valido di aggregazione appare il settore. Passano
invece in secondo piano i tratti salienti del distretto quali: le relazioni sociali, la
cultura tradizionale e imprenditoriale, la flessibilità lavorativa, i processi di
comunicazione e di cooperazione diffusi, la mobilità sociale e molti altri.
Nel fordismo maturo di stampo giapponese, l’organizzazione rimane sempre
al centro della produzione ma tecnologia e mercato diventano strumenti regolati
discrezionalmente dagli uomini. La macchina gerarchica fordista é inadeguata a far
fronte all’incertezza e variabilità crescenti perché ancorata a una rigida produzione
di massa (la grande impresa aveva un vantaggio quando l’evoluzione industriale
seguiva sentieri prevedibili ex ante e contrllabili ex post). Il neo-fordismo, quindi, non
mantiene la competizione esterna e la gerarchia interna come unici principi di
coordinamento operativo ma contempla anche l’interazione comunicativa e
cooperativa. Appare necessario mantenere condizioni di flessibilità e di coerenza in
un complesso sistema di interazioni e di distribuire il potere decisionale, attenuando
così i livelli gerarchici, per permettere di agire a chi si trova a contatto con problemi
e situazioni non previste. Permane tuttavia la massima compressione della varietà e
della variabilità in fabbrica, affiancata da produzioni più snelle affidate a piccole
11
imprese manifatturiere specializzate. Nonostante l’evoluzione operata dal neo-
fordismo, la reale natura dei significati di comunicazione e cooperazione rimaneva
estranea al mondo della fabbrica.
La comunicazione, intesa come interpretazione, comprensione e selezione
dei significati messi in gioco dalle controparti di un gioco sociale, é un processo non
riducibile a un fenomeno meccanico. D’altra parte, cooperare significa assumere i
fini ed il senso che i potenziali interlocutori danno alle loro azioni e cercare tra loro
il punto di incontro che renda possibile il reciproco riconoscimento. Entrambi i
concetti presuppongono una relazione preesistente, tale da garantire un linguaggio
condiviso e un rapporto di fiducia reciproca. Infatti, l’organizzazione distrettuale, a
differenza di quella fordista, é una variabile endogena, intrinsecamente dinamica
perché generata da scelte di cooperazione e di comunicazione. E’ il bisogno di
interazione fra i soggetti del sistema che richiede la condivisione di un sapere di
base che crei i presupposti dei due concetti suddetti. La stessa scala
organizzativa gerarchia-mercato di Williamson6 é di confusa applicabilità al distretto
perché é difficile individuare con precisione dove finisce la società e dove inizia
l’impresa. Comunità sociale e popolazione di imprese operano nel sistema locale
attraverso la cooperazione e la comunicazione fra uomini che hanno una capacità
relazionale legata al contesto (e proprio le qualità contestuali entrano a far parte
della catena del valore). L’integrazione di economia e società genera una grande
complessità, che il distretto ha imparato col tempo a governare e a sfruttare. In ogni
caso si tratta di una complessità all’interno di un sistema dotato di coerenza, in cui le
imprese agiscono per sé e anche per il distretto nel suo insieme. Questo rapporto
fra attore e sistema viene modificato nei processi di innovazione, perché in un
momento iniziale tali processi interessano solo alcune imprese, ma il distanziamento
é temporaneo in quanto le logiche cooperative ricuciono lo strappo e riportano la
coerenza.
Il distretto non esiste in quanto organismo autonomo ma é sempre il rapporto
fra imprese e sistema ad avere un senso; solo così si può vedere la molteplicità dei
6G. Becattini (1987).
12
livelli di organizzazione che coesistono. Se si prendesse come riferimento il solo
distretto si eliminerebbe la differenza con la grande impresa. Invece la differenza
esiste e si sostanzia nella decisione strategica e nell’evoluzione nel tempo. Le
strategie distrettuali non sono controllate da nessuna mente pianificatrice ma
scaturiscono da un processo di contrattazione disperso fra gli attori. Il distretto
“decide” attraverso molte decisioni interdipendenti e non coordinate. La stessa
strategia é frutto di un processo di evoluzione riconoscibile ex-post che consente la
riproduzione del sistema. Questa evoluzione modifica le forme collettive attraverso
un continuo processo di de-costruzione e di ri-costruzione operato dagli agenti
individuali che si muovono senza ruoli definiti e stabili e all’interno di una condizione
caotica. Il sistema non é ordinato e gli effetti non previsti delle azioni, grazie
all’apprendimento evolutivo, creano ordine nel caos. Il tutto avviene sempre
all’interno del distretto perché esso ha una frontiera con il mondo esterno che
rimane tendenzialmente chiusa. Solo nei momenti di crisi vi si possono aprire delle
brecce che fanno penetrare grandi imprese desiderose di accedere alle risorse
distrettuali o ne fanno uscire di interne in cerca di rilocalizzazioni più efficienti; in
pratica l’individualismo ha la meglio sulla cooperazione.
Il rapporto fra distretto e imprese non é inclusivo ma relazionale perché ci
possono essere più unità produttive localizzate in un territorio circoscritto che non
costituiscono un distretto. Tali imprese formano un distretto solo se dirigono verso
una comune direzione i loro processi cognitivi e decisionali, mettendosi a sistema
attraverso la formazione di un’identità collettiva e di circuiti autoreferenziali
necessari per la riproduzione nel tempo e nello spazio. Riprendendo la Teoria
Generale dei Sistemi, si può identificare il distretto come un sistema autopoietico i
cui elementi vengono prodotti e riprodotti dal sistema stesso secondo un codice di
differenziazione autoreferente.
Il distretto può essere interpretato allo stesso tempo come un sistema
evolutivo, cognitivo e autoregolato. All’interno di esso vige l’autoriferimento, vale a
dire un processo attraverso cui i significati vengono collaudati e stabilizzati
intersoggettivamente da individui che compongono la comunità di esperienza
13
insediata in un certo contesto. Infatti la formazione di significati utilizzabili
collettivamente é diversa dalla semplice condivisione di un’esperienza. Il linguaggio
locale assume una validità intersoggettiva che serve ad esprimere un punto di vista
sistemico perché il contesto comune di esperienza diventa sistema, dotato di
meccanismi di controllo e di feedback per riprodurre un livello collettivo di
conoscenza e per introdurre le pratiche dell’agire cooperativo. Quindi il sistema
costruito intorno all’identità collettiva diventa capace di autoriferimento, qualità
immateriale che da ordine e significato ai processi materiali.
L’identità distrettuale non é una sovrastruttura ma una vera risorsa che
qualifica il distretto come medium relazionale dotato di ordine sistemico proprio.
Ciononostante il distretto rimane una “struttura dissipativa” che genera ordine dal
disordine (ordine che nasce dall’apprendimento evolutivo, aldilà dei calcoli
razionali). A livello micro, il sistema sembra non esistere invece c’é e i suoi agenti
hanno interesse a preservare le sue prestazioni cognitive e operative. Le singole
azioni hanno un doppio significato perché guidate dall’interesse personale e perché
vincolate dall’esigenza di riprodurre quei presupposti cognitivi e relazionali per
perseguire l’utilità individuale. La produzione corrente deve infatti reintegrare e
potenziare la conoscenza e le relazioni utilizzate nel corso del processo. Si tratta di
un processo circolare perché produrre non significa solo sfornare outputs ma anche
riprodurre i presupposti materiali e umani da cui prende avvio la produzione stessa.
Il distretto genera valore e vantaggi competitivi perché permette
l’accumulazione locale di informazioni, rende possibile la specializzazione e
l’integrazione delle conoscenze e delle competenze, limita fenomeni di
opportunismo e gli usi parassitari dei beni comuni. In conclusione un distretto
perfetto é un ordinatore delle interazioni che contiene, un sistema autoregolato e
una comunità capace di produrre visioni condivise. Anche se é assente una
organizzazione pianificatrice fordita, i mezzi di governance del distretto surrogano
una testa che non c’é e lo qualificano come sistema ordinato7. Le interdipendenze
distrettuali sono governate da diversi tipi di istituzione. Le regole di interazione
7 E. Rullani (1995).
14
permettono di raggiungere i tre equilibri tra conoscenza contestuale e codificata, tra
competizione e cooperazione e tra conflitto e collaborazione. L’autoreferenza
sistemica distingue quali sono i confini del distretto stesso e l’identità comunitaria
costituisce un substrato comunicativo.
Finora si é accennato alla sola forma di interazione distrettuale ma l’analisi
non é completa se non si delinea l’esistenza di comunicazione e cooperazione
intercontestuali. Non può esserci nessuna possibilità di sviluppo per circuiti di
divisione del lavoro che assumano una dimensione solo locale senza aprirsi a linee
esterne. Soprattutto nell’attuale contesto globalizzato, la vera svolta del post-
fordismo implica un nuovo rapporto tra economia ed informazione su due aspetti:
nell’intelligenza artificiale e nella mondializzazione della divisione del lavoro per la
produzione e l’utilizzazione della conoscenza. Solo una forte identità locale può
inserirsi con successo nella catena internazionale del valore ma nessuna realtà
locale può permettersi di sopravvivere rimanendo ancorata a un solo ambito
territoriale.
E’ pur vero che il milieu locale fornisce all’organizzazione produttiva gli input
essenziali, quali: il lavoro, l’imprenditorialità, le infrastrutture materiali e immateriali,
la cultura sociale, e l’organizzazione istituzionale; che molti contesti locali sono dei
veri laboratori cognitivi in cui le varietà vengono continuamente sperimentate,
selezionate e conservate; ma ora non basta più. Se infatti prendiamo in
considerazione la conoscenza all’interno del distretto, essa può essere scomposta in
due generi: la conoscenza esplicita ovvero codificata e quella implicita, o
contestuale. La civiltà industriale moderna si regge su un incessante processo di
conversione di conoscenza codificata in conoscenza contestuale e viceversa.
Riferendosi a Nonaka8 , l’apprendimento si articola in 4 fasi. In un primo momento la
conoscenza tacita viene socializzata, quindi convertita in conoscenza esplicita,
ricombinata e infine assorbita nei processi concreti del fare. Si tratta di spirali
dialettiche in cui la sintesi contiene un di più rispetto ai termini originari. I primi due
8 Ikujiro Nonaka, Come un’organizzazione crea conoscenza, 1994.
15
passaggi avvengono nei circuiti locali, ma i secondi si concretizzano grazie
all’apporto del sistema globale.
Di conseguenza il distretto, per collocare il proprio sovrappiù specifico e per
rispondere ai cambiamenti dell’ambiente competitivo, deve mutare continuamente la
propria struttura interna avvalendosi di apporti esterni. Ciò non significa rinunciare
alla propria identità, che deve al contrario essere mantenuta come nucleo
caratteristico di attività appartenenti all’area dei valori, delle conoscenze, e delle
istituzioni. Deve mantenere la propria diversità anche nei confronti della grande
organizzazione industriale perché detiene una modalità originale nell’allocare le
risorse della conoscenza. Grazie a questa maggiore efficienza nei processi di
creazione e di difffusione dei saperi produttivi e di mercato, il distretto mantiene un
rilevante vantaggio nel servire i settori fortemente condizionati dalla variabilità della
domanda (quale ad esempio il settore moda). Quindi, il rapporto globale-locale é la
vera sfida alla sopravvivenza dei distretti nei prossimi decenni.
Il distretto industriale é il presente di molte realtà produttive italiane, per cui
la sua sopravvivenza, o per essere meno fatalisti, la sua evoluzione, condiziona e
caratterizza il nostro sistema industriale. E’da questa riflessione che é possibile
capire l’interesse del mondo politico italiano. Infatti il distretto, da oggetto di studio
socio-economico, ha assunto negli ultimi anni in Italia un valore maggiore, quale
possibile elemento di programmazione della politica industriale. Risultava
inspiegabile la scarsa considerazione del concetto da parte dei decisori pubblici in
termini di politiche mirate. Il distretto é ormai un concetto maturo e ha superato la
fase decisamente spontanea e disorganizzata a favore di una consistente
razionalizzazione. Le relazioni aziendali non sono più guidate dall’informalità
organizzativa ma governate da pratiche di divisione del lavoro e della responsabilità.
Le relazioni inter-aziendali non fanno più parte del solo circuito fiduciario basato sul
“saper fare comune” ma sono maggiormente formali e selettive. Ed infine le
relazioni socio-istituzionali richiedono una sempre maggiore complessità di
approccio verso la delineazione di sostanziose politiche sovralocali. Nonostante ciò,
solo nel 1991, la sfera di applicabilità del concetto “sistema industriale” é passata da
16
un livello puramente scientifico e teorico ad uno più normativo e pratico. La legge
317/19919 e il successivo decreto ministeriale applicativo del 1993 hanno permesso
di inserire i distretti fra i potenziali strumenti di politica economica stabilendo dei
criteri legali per la loro individuazione. L’individuazione di sistemi socio-economici
tanto complessi non era compito facile e il risultato ha portato alla costruzione di una
mappa legale non completamente sovrapponibile a quella reale.
L’art. 36, comma 2, della suddetta legge così recita: “Si definiscono distretti
industriali le aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole
imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la
popolazione residente, nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme delle
imprese”10. Il decreto applicativo del ‘93 fa riferimento ai sistemi locali del lavoro
individuati dall’Istat ma spesso i distretti non coincidono con i bacini lavorativi definiti
sulla base degli spostamenti giornalieri casa-lavoro. La base settoriale del distretto
si ricava dalla classificazione censuaria dell’Istat (non tanto il settore-prodotto
quanto la filiera produttiva). 11
L’ambiente di un distretto é di difficile definizione esclusiva perché fatto di una
sedimentazione del sapere, di una imprenditorialità che matura all’interno dei
processi produttivi, di un circuito politico e di decisioni pubbliche che si trovano a
stretto contatto con gli operatori economici, di un sistema di assistenza e di servizi
9 Legge n.317 del 5 ottobre 1991 intitolata: “Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese”. 10 Tale legge definisce piccola impresa “quella avente non più di 200 dipendenti e 20 miliardi di lire di capitale investito”, ma nel 1993 la Commissione Europea ha adottato una definizione ufficiale che fissava la soglia dimensionale a 250, recepita dall’ordinamento italiano con DM 12/10/1997. 11 Una volta definiti in base al criterio territoriale, le aree individuate devono soddisfare a 5 condizioni: A. un indice di industrializzazione manifatturiera, in termini di addetti, come quota percentuale di
occupazione nell’industria manifatturiera locale, che sia superiore del 30% dell’analogo dato nazionale;
B. un indice di densità imprenditoriale dell’industria manifatturiera, in termini di unità locali in rapporto alla popolazione residente, superiore alla media nazionale;
C. un indice di specializzazione produttiva, in termini di addetti come quota percentuale di occupazione in una determinata attività manifatturiera rispetto al totale degli addetti al settore manifatturiero, superiore del 30% dell’analogo dato nazionale;
D. un livello di occupazione nell’attività manifatturiera di specializzazione che sia superiore al 30 % degli occupati manifatturieri dell’area;
E. una quota di occupazione nelle piccole imprese operanti nell’attività manifatturiera di specializzazione che sia superiore al 50% degli occupati in tutte le imprese operanti nell’attività di specializzazione dell’area.
17
che spesso si localizza nel centro urbano di gravitazione dell’area interessata.
L’identificarlo con il mercato del lavoro potrebbe essere un’approssimazione
accettabile se non fosse che la metodologia indivituativa messa appunto dall’Irpet
aggreghi i comuni sulla base del principio di autocontenimento12. Ciò significa che
nelle aree a bassa mobilità territoriale i sistemi locali individuati sono molto piccoli,
mentre nelle aree più sviluppate dove sono fortemente elevate le interrelazioni
funzionali, i bacini minori scompaiono. Inoltre la definizione individuativa sembra
fare riferimento ai soli distretti “marshalliani”, cioé a quelli contraddistinti da una
specializzazione monosettoriale, soprattutto per quanto riguarda il quarto criterio,
che risulta essere molto selettivo. Ciò porta a sottostimare quelle specializzazioni
che interagiscono in un sistema articolato dal punto di vista settoriale, trascurando
la possibile coesistenza di più distretti nella stessa area.
Se si procedesse a un’applicazione meccanica dei criteri ministeriali si
individuerebbero non maturi distretti ma quelle che Gioacchino Garofoli chiama
“aree di specializzazione produttiva”. Queste sono caratterizzate dalla
preponderanza di un settore che non genera tuttavia consistenti fenomeni di
interrelazione produttiva tra le imprese, in quanto tutte concorrenti nel medesimo
mercato (un esempio lampante sono i sistemi di subfornitura). Lo stesso termine
“sistema produttivo locale” , caratterizzandosi da un nucleo storicamente circoscritto
di competenze distintive, comprende più varietà di sviluppo locale, nel senso che un
bacino di mercato del lavoro può abbracciare più sistemi locali di produzione o
viceversa.
I confini sistemici non sono così netti perché le relazioni fra imprese e
lavoratori si affievoliscono man mano che ci si allontana dall’inner core. Il paradosso
di questi criteri é che non fanno emergere i distretti caratterizzati da
un’organizzazione più evoluta; quei distretti in cui si sono raggiunti livelli così elevati
di sviluppo, di divisione del lavoro tra imprese e di integrazione produttiva, che il
sistema produttivo caratterizzante si é collegato progressivamente a comparti e
12 Un sistema locale viene definito autocontenuto in entrata se la percentuale di movimenti
interni all’area é superiore al 70% dei lavoratori di attività ivi insediate; autocontenuto in uscita se la percentualedi movimenti interni all’area é superiore al 70% dei lavoratori ivi residenti.
18
settori merceologici diversi da quelli di partenza (caso comune é quello in cui si
sviluppa un comparto che produce i macchinari per la lavorazione del bene tipico
dell’area. D’altronde, se non si procede con la fase individuativa, non si può
accedere ai finanziamenti previsti dalla stessa legge al comma 3, art.36 13. I
programmi per i quali le regioni si impegnano a concorrere per il 40% delle spese,
possono avere come obiettivo lo sviluppo e l’ammodernamento del sistema
produttivo locale esistente oppure quello di favorire processi di riconversione interna
o verso altri settori delle risorse attualmente impegnate nelle tradizionali
specializzazioni produttive ed interessati da fenomeni di declino industriale. E’
innegabile che i distretti debbano mobilitare le risorse e le energie di cui dispongono
per concorrere alla realizzazione dei programmi di sviluppo, ma occorre che
possano realmente accedere a strumenti finanziari regionali e nazionali e
collaborare con le Università, i centri di ricerca e la Pubblica Amministrazione.
I tentativi in atto sono ispirati dal criterio di sussidiarietà, principio cardine
dell’Unione Europea, e muovono verso la creazione in ogni sistema locale di un
luogo riconosciuto ufficialmente dalle Regioni deputato all’analisi e alla
progettazione degli interventi. Nel 1994 si é formato il “Club dei distretti industriali”
per colmare il vuoto di rappresentanza degli interessi specifici di queste realtà. Le
sue linee d’azione sono congruenti con quanto detto finora perché i suoi obiettivi
riguardano la creazione di un network informativo e cooperativo fra operatori
distrettuali, lo sforzo di dare maggior risalto ai distretti quali oggetto di politiche
industriali mirate, il sostegno degli interessi dei distretti presso il governo nazionale
e l’Unione Europea, la promozione di studi e ricerche ad hoc.
13 “Per le aree individuate ai sensi del comma 2 é consentito il finanziamento da parte delle regioni, di progetti innovativi concernenti più imprese, in base a un contratto di programma tra i consorzi e le regioni medesime, le quali definiscono altresì la priorità degli interventi”.
19
2.
Il Veneto e i distretti industriali regionali
2.1
Evoluzione storica dell’economia regionale veneta
Il sistema economico veneto viene spesso preso come esempio di diverse
concettualizzazioni descriventi il panorama produttivo italiano. A seconda degli
autori1, lo si identifica come modello specifico, come dimostrazione dell’esistenza
della Terza Italia, come parte sostanziale del Nordest internazionalizzato, come
economia semi-periferica e via dicendo. Il Veneto é in parte descrivibile con tutti gli
appellativi suddetti, perché ognuno di essi considera una parte della storia veneta
od uno o più aspetti dell’economia regionale. Si può ammettere che un modello
veneto abbia un suo spazio teorico e una sua dignità esplicativa solo se valorizza la
gradualità del trapasso dal sistema agricolo a quello industriale accompagnata dalla
massima continuità nell’ambiente sociale e politico. Questo non significa che possa
ritenersi avulso dal sistema capitalistico e industriale occidentale, anzi il modello
rappresenta un’articolazione regionale di un fenomeno internazionale. Non
necessariamente una sola forma sociale tipica si può legare a un modo di
produzione quale é il capitalismo. Il caso veneto, con la sua matrice cattolica e
contadina, ha generato un capitalismo contaminato e specifico, fondato su un
particolare connubio di arretratezza e differenziazione. Grazie all’emergere della
comune capacità imprenditiva, le regole del gioco sociale hanno riconosciuto un
privilegio all’imprenditorialità produttiva, caratterizzata fortemente dal proprio lavoro,
al “saper fare” oltre che al guadagno materiale. La laboriosità, già presente nel
1 B. Anastasia e G. Corò (1996)
20
periodo protoindustriale, e una conformazione policentrica di piccole e diffuse
aziende hanno favorito la lenta acquisizione di una logica capitalistica comune.
Nel modello dell’economia mondiale di Wallerstein, il Veneto rientra fra le
economie semiperiferiche caratterizzate dalla compresenza di attività centrali, sedi
di accumulazione e del potere economico, e di attività periferiche, luoghi con
vantaggi comparativi dovuti a un minor costo dei fattori produttivi. E’ un incrocio fra
tendenze diffusive dello sviluppo e pratiche specializzatrici. Secondo la visione
microeconomica di Goglio, la stessa piccola impresa si differenzia in centrale, che
controlla il progresso tecnico e le sue applicazioni innovative, e in periferica, che
produce beni tradizionali con scarsa intensità di capitale, alta flessibilità e basso
costo del lavoro.
Il Veneto viene visto anche come Terza Italia, assieme alle regioni centro-
nord-orientali, caratterizzata da una crescita contemporanea più veloce che nelle
zone di antica industrializzazione 2. E’ senz’altro inconfutabile la similarità fra lo
sviluppo di alcune regioni del nord-centro Italia e la loro struttura produttiva.
Notoriamente, si parla di Nordest come di un’entità economico-sociale omogenea,
nonostante la diversificazione dei percorsi di successo, perché le tendenze di
sviluppo degli ultimi decenni sono coincise e i parametri economici sono
tendenzialmente simili.
La grande considerazione di cui gode il Veneto negli ultimi anni é un
fenomeno piuttosto recente perché é sufficiente tornare indietro di mezzo secolo per
leggere nella letteratura paragoni non troppo lusinghieri con il meridione d’Italia. Se
prendiamo in considerazione i dati dei censimenti industriali del 1911 e del 1991, si
nota come la situazione si sia modificata notevolmente. Le cause sono molteplici e
di diversa natura, alcune sono caratteristiche del contesto regionale, altre rientrano
in dinamiche nazionali o internazionali. In genere il rapporto regione-nazione si é
mantenuto piuttosto omogeneo e sensibile, legando le due economie nella
condivisione dei trend positivi e di quelli al ribasso. Dei settori di produzione
nazionali, in Veneto sono stati soprattutto quelli tradizionali (tessile-abbigliamento,
2 Tralasciando in questa sede una verifica della validità epistemologica e descrittiva del concetto di Terza Italia, esso rimane pur sempre di importanza relativa per aver superato il paradigma dualistico e in generale le semplicistiche classificazioni territoriali dello sviluppo.
21
industria del mobile e meccanica leggera) a giocare un ruolo da protagonisti. Tali
produzioni si sono sviluppate all’interno di un contesto con specificità quali: una
forte polarità industriale con molte piccole e medie imprese, un’urbanizzazione
diffusa e un basso costo di riproduzione della forza lavoro, (anche per l’utilizzo di
lavoro non pagato in imprese famigliari).
L’abbondanza e il basso costo della forza lavoro sono stati determinanti per
l’industrializzazione veneta, già a partire dalle prime forme protoindustriali
settecentesche specializzate nel tessile. Il passaggio dalla protoindustria alla
fabbrica si é completato solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo con il polo
laniero di Schio. L’industrializzazione quindi é avvenuta, come nel resto d’Italia, in
un secondo tempo rispetto ai Paesi del Nord e si é contraddistinta per un suo
insediamento “dolce” nel territorio.
La struttura industriale tipica della regione si delinea peró pienamente dopo la
seconda guerra mondiale quando, le esportazioni, sostenute da una fortissima
domanda estera dovuta alla competitività delle merci venete, stimolano il sorgere di
numerose imprese di piccole e medie dimensioni.
Lo stato interviene in regione con una politica di sostegno economico solo a
partire dal 1957 con la legge n. 635, dal titolo “Legislazione sulle località
economiche depresse”. Tuttavia, l’intervento statale (rinforzato e razionalizzato con
la successiva legge 614/1966) non fa altro che accentuare il disequilibrio regionale.
L’imprenditoria minore che nasce da queste manovre assomiglia a quella
degli anni ‘30 e si caratterizza per numerosi fattori poco qualificanti: l’assenza di una
coscienza di classe, la scarsa cultura innovativa, la casualità della scelta
imprenditoriale, il dirottamento extraziendale del profitto con conseguente
sottocapitalizzazione, l’elevato turn over degli imprenditori, la forte componente di
lavoro terzista, l’utilizzazione esasperata della legislazione sull’artigianato, ecc.
Quindi viene naturale la riflessione degli anni ‘60 sulla qualità e la stabilità dello
sviluppo, sulla riduzione della distanza fra le poche grandi industrie e le diffuse
piccole imprese, indice di un capitalismo atipico e dualista. Dibattito, questo, che
non ha avuto modo di maturare perché gli anni ‘70 registrano un boom del Veneto
tale da far dimenticare i problemi del decennio precedente. Il successo di questi anni
22
é essenzialmente attribuibile alla connotazione periferica dell’economia regionale.
La politica economica nazionale ha fatto fronte all’aumento del deficit dovuto alle
crisi energetiche manovrando i tassi di cambio e così favorendo le esportazioni più
flessibili.
Gli anni ‘70 sono stati anche il momento delle rivendicazioni salariali, del
decentramento produttivo e dell’aumento di complessità delle forme giuridiche
d’impresa. Dal 1973 al 1978, i tassi di crescita del margine industriale lordo flettono
a causa delle maggiori spese energetiche e per il personale, anche se il Veneto non
é stato toccato da violente lotte sindacali vista la scarsa presenza in regione di un
proletariato cosciente. Tale assenza é giustificabile viste le dimensioni ridotte delle
unità produttive e l’ampia offerta di manodopera a basso costo. Infatti negli stessi
anni si spinge verso un decentramento produttivo che razionalizzi la struttura
organizzativa togliendo potere al sindacato e aumenti la flessibilità. Un esempio lo
può fornire il settore tessile, che negli anni ‘70 ha subito una profonda
trasformazione che lo ha portato alla definizione del “sistema moda”, cioé di
un’interconnessione fra il tessile e l’abbigliamento. L’espulsione degli imprenditori
improvvisati degli anni della legislazione per le aree depresse, la specializzazione
produttiva, l’espansione grazie alla combinazione di elementi arretrati e di forti
investimenti in alcune fasi della produzione, la razionalizzazione organizzativa ed
amministrativa hanno contribuito all’affermazione mondiale dello “stile italiano”.
Lo scorporo di fasi in impianti giuridicamente distinti, dietro al quale si
intravedono chiari benefici in termini fiscali, ha portato alla costituzione di mini-
sistemi d’impresa sempre immersi in quel grande distretto tessile che può essere
considerato il Veneto nel suo insieme. Anche negli altri settori della specializzazione
produttiva veneta ci sono stati importanti evoluzioni verso nuove forme organizzative
ed aggregative. Anastasia e Rullani identificano nell’ “area tipica” un esempio di
sviluppo periferico. Queste aree sono un modo di organizzazione della
differenziazione industriale che utilizzano l’arretratezza, in termini per esempio di
basso costo salariale, innescando un processo di rapida industrializzazione
indirizzato verso i settori tradizionali. Si sviluppa un’elevata specializzazione in
alcuni comparti concentrati in zone fortemente integrate e una capacità sociale di
23
gestire il ciclo produttivo (“socializzazione manifatturiera”) cosicché i fattori
imprenditoriali si diffondono velocemente, la produzione diventa molto flessibile e
adattabile alle esigenze del mercato e l’offerta del lavoro si connota da un alto grado
di mobilità. Il pericolo nello sfruttare le forme di marginalità estrema é un
appiattimento verso il basso delle maggiori variabili differenziali come la tecnologia
e la professionalità a chiaro svantaggio della qualità.
E’ evidente come l’area tipica abbia una forte parentela descrittiva con il
distretto industriale ed é comprensibile visto che agli inizi degli anni ‘80 l’attenzione
comincia a rivolgersi verso questo sistema produttivo come esempio che coniuga il
protoindustriale ed il post-fordismo. Durante questo decennio il Veneto é sempre
più neo-industriale, con una produzione manifatturiera che tende ad integrarsi alle
attività di servizio incorporando dosi crescenti di informazione e di conoscenza. La
settorializzazione manifatturiera si qualifica come sempre meno tradizionale e
presenta degli optimum a livello mondiale come l’orafo di Vicenza e gli strumenti
ottici e l’occhialeria di Belluno. Il settore moda e il sistema casa-arredo assommano
il 40% degli addetti manifatturieri e la filiera meccanica acquista centralità fra le
specializzazioni più promettenti. Le imprese individuali diminuiscono per lasciar
spazio a quelle societarie, infatti il 40% degli addetti é impiegato nel 23,7% delle
imprese.
La forte innovazione spinge verso produzioni diversificate ad alto valore
aggiunto e di marketing. Le attività di servizio si sviluppano nelle grandi città ma
soprattutto dove c’era già una forte base industriale. La seconda metà degli anni ‘80
decreta definitivamente l’inadeguatezza del metodo produttivo fordista, fatto di
grandi imprese verticalmente integrate e basate sul taylorismo, a favore di modelli
che incorporino un maggior grado di flessibilità e di auto-organizzazione, come la
lean production, il toyotismo e le imprese-rete. Il Veneto, vista la sua dotazione di
piccole e medie imprese nonché di sistemi produttivi locali, si trova nelle condizioni
per affrontare al meglio il post-fordismo. E così é: se poniamo il PIL del 1970 pari a
100, nel 1993 raggiunge il doppio, 200. Il reddito procapite nel 1993 é di 19,2 milioni
di Lire, tanto da poter inserire il Veneto nel novero delle regioni più ricche d’Europa,
assieme alla Baviera, al Baden-Württemberg, alle Rhône-Alpes e a poche altre. Il
24
reddito medio mensile famigliare veneto (1993) é di 3,7 milioni, il più elevato di tutta
Italia. Il tasso di disoccupazione nel 1995 é di poco superiore al 7% rispetto a una
media italiana del 15%. L’export veneto nel 1960 era il 5% del totale made in Italy,
nel 1993 é il 18%. Il 1993 é in effetti un anno atipico perché gode degli effetti della
recente svalutazione della Lira. Infatti l’export ha mantenuto un buon andamento
fino al 1990, poi la rivalutazione di fatto della Lira dovuta al diiferenziale
inflazionistico fra Italia e partner commerciali ha condotto alla crisi valutaria del
1992, all’uscita dallo Sme e alla conseguente svalutazione monetaria del 20% circa.
Ancora una volta l’economia veneta ha visto un’impennata della crescita grazie alle
manovre sul tasso di cambio, che le hanno permesso nel 1994 di avere un saldo che
corrispondeva alla metà di quello italiano e la propensione all’export10 più alta di
tutte le regioni. I 2/3 delle transazioni internazionali avvengono con l’Europa
Occidentale e riguardano il settore meccanico, il sistema-moda e il legno-mobilio.
Il Veneto, e il nordest in generale, ha assunto sempre più la fisionomia di un
complesso di sistemi produttivi locali organizzato in distretti industriali e in città
diffuse11 con forti esternalità ambientali ed economie di localizzazione. La
dimensione locale e territoriale delle relazioni socio-produttive ha acquistato
rilevanza rispetto alla globalizzazione eliminando il concetto di centralità di un’area
rispetto ad un’altra. La gamma dei percorsi evolutivi che un sistema di produzione
locale può intraprendere dipende dalla sua capacità di rispondere agli stimoli senza
perdere la propria identità. Se la struttura interna del sistema entra in sintonia con le
trasformazioni dello scenario globale si verifica un accoppiamento strutturale
(matching), ciò che é avvenuto nel Nordest dagli anni ‘70. Inoltre il Veneto gode di
un particolare vantaggio dovuto alla sua posizione geo-economica. Secondo lo
studio del 1995 “Europa 2000+” della Commissione Europea, l’Unione si può
suddividere in 11 raggruppamenti transnazionali. Il Veneto fa parte dell’ Arco alpino
(assieme a Rhône-Alpes, Baden-Württemberg, Baviera, Svizzera e Austria), la
regione con il più alto PIL procapite, attraversata dalla principale arteria est-ovest.
10 definita come il rapporto fra le esportazioni e il valore aggiunto. 11 La città diffusa é un prodotto e una condizione del distretto industriale e si misura con l’indice di accessibilità, che dipende dalla distribuzione della popolazione sul territorio e dalla dotazione infrastrutturale che assicura i collegamenti.
25
I vantaggi del Veneto sono molteplici soprattutto nell’attuale contesto post-
fordista, a cominciare della capillare distribuzione sociale della conoscenza, alle
pratiche della cooperazione economica e all’imprenditorialità diffusa e al lavoro
auto-organizzato. Ma non tutti i vantaggi rimangono costanti nel tempo, per esempio
l’offerta di lavoro non é più un punto di forza tale su cui poter basare la competitività
internazionale. Il costo della manodopera si é livellato con quello di altre regioni
europee, la popolazione attiva sta subendo un declino a causa della transizione
demografica, il livello di istruzione si é elevato (pur rimanendo inadeguato agli alti
standard richiesti dalla società globale e tecnologica) e con esso le aspettative
economiche dei nuovi lavoratori e l’etica del lavoro staccanovista ha meno presa
nella popolazione giovane. Il successo economico non ha diffuso un benessere
sociale omogeneo ma ha acuito una certa disuguaglianza, perché, se da un lato il
reddito da lavoro autonomo é aumentato, dall’altro é diminuito quello da lavoro
dipendente e da capitale. La ricchezza finanziaria netta ha segnato un’ascesa nel
corso degli ultimi anni ma essa é di certo più concentrata che il reddito disponibile.
La stessa dotazione infrastrutturale, essenziale per un sistema produttivo
distrettuale, presenta oggi segni di invecchiamento e di inadeguatezza per cui
richiede una modernizzazione sia a livello materiale che immateriale. I miglioramenti
da apportare in comunicazione e trasporti devono essere accompagnati da una più
radicale politica di innovazione ambientale , basata non su una logica incrementale
quantitativa ma su una qualitativa che miri a sviluppare un alto grado di
interconnessione.
2.2
Metodologia individuativa dei distretti industriali veneti
Dalla metà degli anni ‘80 in poi si sono succeduti diversi studi per
l’individuazione dei distretti industriali, ognuno dei quali ha proposto una serie di
grandezze con cui operare la delimitazione. Il problema non é di facile risoluzione
perché il distretto é una struttura socio-economica complessa con significative
differenze fra una costruzione concreta e l’altra. L’individuazione geografica, seppur
26
problematica, é essenziale per studiare la consistenza del fenomeno e le sue
trasformazioni da un punto di vista economico e sociologico.
Nel 1986 é stato pubblicato una ricerca condotta dall’IRSEV (Istituto di
ricerche economiche per il Veneto) che classificava i comuni sulla base della
tipologia dell’occupazione industriale, individuando 11 specializzazioni settoriali
(mobile, calzature da passeggio, calzature sportive, elettrodomestici, ceramica,
concia, alluminio, zucchero, marmo, lana e il polo di Marghera) ma non tutte realtà
distrettuali perché mancava una distinzione tra grande e piccola industria. Gli studi
IRPET-ISTAT su dati dei censimenti del 1981 e del 1991 hanno per oggetto l’intera
realtà italiana. Il procedimento applicato consisteva in tre stadi successivi, a
cominciare da una regionalizzazione funzionale dell’Italia in base al rapporto tra
addetti e popolazione attiva a livello comunale e a una misura dei flussi giornalieri
casa-lavoro, si procedeva verso un’analisi della struttura economica dei sistemi
locali dell’industrializzazione leggera, selezionando quelli con specializzazione
manifatturiera dominante e con presenza relativa di piccole e medie imprese.
Risultavano esserci 61 distretti con 900000 occupati, il 5,4% del dato complessivo
nazionale, nei quali l’industria aveva un peso triplo rispetto che nel resto del
territorio italiano. Il Veneto presentava solo 8 distretti, dato che dimostra l’eccessiva
selettività del criterio individuativo e quindi l’inapplicabilità.
Nel 1993, l’indagine statistica condotta da Anastasia e Corò fornisce una
mappa più realistica della realtà distrettuale veneta con le sue specializzazioni
settoriali. Le fonti per l’estrapolazione dei dati sono i censimenti decennali Istat dal
1951 al 1981 e le elaborazioni di particolari archivi amministrativi. La mappatura
territoriale di riferimento deriva dalla classificazione in aree funzionali costruita sulla
base delle relazioni di interdipendenza nei flussi pendolari casa-lavoro e
l’articolazione settoriale é un’estrapolazione dai dati censimentari. Gli indicatori
applicati sono: il coefficiente di concentrazione territoriale (CS1), il coefficiente di
specializzazione settoriale (CS2) ed il quoziente di localizzazione (QL)12. Il Veneto
12 Se A=addetti S=settore T=totale manifatturiero i=area funzionale r=macroregione, CS1=(ASi/ASr)-(ATi/ATr) CS2=(ASi/ATi)-(ASr/ATr) QL=(ASi/ATi)/(ASr/ATr)
27
risultava avere nel 1981 616.349 addetti nel settore manifatturiero impiegati in
64.000 unità locali (dimensione media inferiore ai 10 addetti per unità locale); nella
graduatoria fatta in base all’intensità di specializzazione compaiono nell’ordine
l’abbigliamento, il mobilio, le calzature, la maglieria e la concia (nella tabella n.1 si
confronta i valori del 1981 e quelli di dieci anni dopo); il quoziente di localizzazione
presenta i valori più alti per l’occhialeria, la concia, il mobilio, il materiale elettrico di
illuminazione, l’oreficeria e via dicendo. In generale si nota una corrispondenza fra
le specializzazioni venete e quelle nazionali (eccetto per il settore elettromeccanico
e della costruzione di autoveicoli) tanto da poter affermare che il Veneto é
l’archetipo statistico dell’Italia.
Tabella n.1 Gruppi di attivita' economica alle prime 20 posizioni secondo l'ordine decrescente di specializzazione del Veneto rispetto all'Italia
28
Per quanto concerne propriamente la delimitazione dei distretti, l’analisi
Anastasia-Corò ne individua 13 (tabella n.2) con specifici caratteri distintivi (allegato
n.1).
Tabella n.2 Quadro riassuntivo dei distretti individuati. Indicatori di specializzazione e di dimensione
Fonte: elab. Anastasia-Corò, su dati Istat, Censimento economico 1981
29
Il 1994 vede la proposta del Dipartimento Industria e lo studio sui sistemi di
piccola impresa condotta dall’Osservatorio Regionale del Mercato del Lavoro su dati
CERVED dello stesso anno (allegato n.2). Entrambe le analisi rappresentano dei
tentativi che non hanno condotto a risultati sostanzialmente diversi o più esaustivi di
quelli degli studi sopracitati.
L’attenzione sull’individuazione dei distretti si é particolarmente accuita a
causa della legge 317/91 e al relativo DM di applicazione del 1993 (vedi pagina 15).
La regione Veneto sta procedendo all’individuazione dei distretti ufficiali seguendo i
criteri ministeriali ma corretti col fine di restituire un’immagine della realtà aderente
alla conoscenza empirica. Infatti la procedura di delimitazione é preceduta da un
quadro conoscitivo di fondo, realizzato anche attraverso tecniche di analisi
multidimensionale dei dati sul territorio, é integrata dai risultati delle esperienze di
delimitazione di distretti effettuate negli ultimi anni e prende in considerazione i dati
del censimento ‘91, del CERVED 1994 e dell’Archivio Imprese del 1996, piuttosto
che del censimento ‘81 come indicato dalla legge. L’individuazione dei distretti
avviene procedendo secondo l’ordine discendente delle specializzazioni settoriali
della regione rispetto al contesto nazionale, partendo dalle filiere settoriali diffuse su
vaste aree del territorio.
Fatte queste considerazioni, prenderò i risultati di tale proposta individuativa
come base della descrizione specifica dei singoli distretti veneti. I distretti individuati,
seguendo i criteri ministeriali “allargati”, risultano essere 16 distribuiti nell’arco del
territorio regionale (allegato n.3); 10 rientrano perfettamente nei parametri
ministeriali, 3 soddisfano le 5 condizioni ma non sono costituiti da un intero sistema
locale del lavoro e 3 sono zone contenute all’interno di territori distrettuali ma che si
caratterizzano per una specializzazione settoriale differente (tabella n.3).
Come si può notare dall'allegato n.4, il Veneto può essere considerato un
unico grande distretto del settore tessile-abbigliamento e di quello metalmeccanico,
anche se entrambe le specializzazioni presentano pure delle aree particolarmente
concentrate.
30
Tabella n.3 Valore dei parametri di cui al DM 21.04.1993 per i distretti industriali individuati
Le riflessioni di carattere generale riguardanti il concetto di distretto
industriale e la storia veneta devono essere calate nello specifico e integrate da
approfondimenti validi localmente (per esempio alcune concentrazioni di
specializzazioni territoriali si formano sul tronco di antiche tradizioni ma con salti
tecnologici, economici ed organizzativi, mentre altre sono frutto di una lenta
evoluzione dell’artigianato rurale). Lo stesso concetto di distretto industriale
manifesta nello specifico diverse sotto-caratterizzazioni: ci sono i distretti industriali
“sicuri” (aree extraurbane specializzate in una produzione dominante con un numero
di addetti nel settore rilevante rispetto al totale regionale), i distretti industriali
31
integrati dove coesistono più aree specializzate e i distretti industriali “nascosti dal
contesto urbano” (concentrazioni annegate nella varietà produttiva delle città).
2.2.1
Il distretto del tessile e dell’abbigliamento dell’Area Pedemontana
L’area in questione si estende su tutta la fascia pedemontana (allegato n.5)
da Valdagno a Treviso, con un appendice nel Feltrino, comprende gli ambiti di più
antica industrializzazione, sviluppatisi intorno all’industria tessile, il cui insediamento
era favorito in origine dall’intensificazione degli scambi allo sbocco delle valli e dalla
disponibilità di risorse idriche. L’origine storica dello sviluppo di questa zona va
sottolineata per evitare l’equivoco di considerarla come un sistema marginale e
periferico dell’industria italiana. In realtà, tra la fine del XVIII secolo e la prima metà
del XIX, si sono manifestati alcuni dei momenti più significativi
dell’industrializzazione italiana (basti solo pensare a imprenditori come Francesco
Rossi e Gaetano Marzotto jr). E’ quindi un esempio emblematico dell’attuale
successo del Nordest, che non é un episodio congiunturale emerso solo con la crisi
dei sistemi urbani ed industriali fordisti, ma l’esito di processi storici e sociali di lunga
durata e ben radicati nell’evoluzione dell’industria europea.
Ancora oggi il sistema delle medie e piccole imprese coesiste con alcune
unità di maggiori dimensioni che hanno una posizione leader nei rispettivi settori. In
tutta l’area all’attività prevalente si associa un tessuto di piccole imprese del settore
metalmeccanico, particolarmente concentrate intorno ai poli urbani, che ha
conosciuto ultimamente un intenso sviluppo articolato in molte specializzazioni. Al
suo interno ci sono centri in grado di ospitare i servizi di sostegno al distretto quali
Treviso, Bassano del Grappa, Schio, Thiene, Castelfranco Veneto, Valdagno e
Feltre. Al presente é in corso all’interno del distretto un ripensamento delle logiche
produttive perché nel corso degli anni ‘90 si é verificata una forte crisi occupazionale
come conseguenza della perdita di competitività nel comparto della subfornitura
rispetto ai mercati del lavoro emergenti dell’Europa Orientale e del Terzo Mondo (dal
1991 al 1995, l’occupazione dipendente é calata del 17%). Gli addetti nel settore di
32
specializzazione del tessile-abbigliamento erano nel 1996 41.309, il 39,92%del
totale regionale. Il tessile-abbigliamento é senz’altro un settore tecnologicamente
maturo ad alto contenuto di lavoro e i grandi gruppi veneti stanno abbandonando
l’organizzazione a ciclo completo, sviluppando solo le lavorazioni a maggior valore
aggiunto (di recente la Marzotto ha deciso di delocalizzare diverse fasi produttive
negli stabilimenti a Cosenza e nella Repubblica Ceca, potenziando a Valdagno il
controllo strategico del gruppo). In generale la delocalizzazione produttiva si é
manifestata massicciamente verso paesi come Slovenia, Romania, Spagna, Cina,
Iran, India, ecc.
2.2.2
Il distretto del tessile e dell’abbigliamento dell’Area Meridionale
Nella media e bassa pianura, la specializzazione nel settore tessile e
dell’abbigliamento é la conseguenza della scarsa presenza di altre attività industriali
(in alcuni comuni del Basso Polesine la sola industria del vestiario occupa oltre il
70% degli addetti in tutto il settore manifatturiero). Le attività industriali sono tutte di
origine recente, con forte dipendenza da alcune grandi imprese localizzate al di fuori
dell’area. Si tratta di una grande area di sub-fornitura industriale con un grado di
autonomia assai ridotto e scarsi legami col territorio, i cui problemi sono diversi da
quelli dei distretti industriali maturi. A questo modello di specializzazione
dipendente, fanno eccezione due sistemi produttivi specializzati: il primo é quello
situato nell’Alto Polesine, tra le località di Lendinara, Trecenta e Badia, all’interno
del quale si é consolidato un processo locale di sviluppo imprenditoriale nel settore
dell’abbigliamento casual; il secondo é l’area specializzata nella pellicceria a Sud-
Ovest di Padova.. La crisi del tessile menzionata per il precedente distretto ha
coinvolto fortemente anche l’area meridionale portando il numero degli addetti nel
settore da 28.268 nel 1991 a 20.715 nel 1996.
2.2.3
Il distretto del mobile della Bassa Pianura Veronese
33
La filiera del legno e del mobile, che é il secondo settore di specializzazione
regionale, é diffusa in diverse parti della regione (allegato n.6), differenziandosi per
tipo di prodotti e struttura organizzativa. Il distretto della Bassa Pianura Veronese é
specializzato nella fabbricazione di mobili tradizionali in legno (7.392 addetti pari al
30% del totale regionale) e di poltrone e divani (1.469 addetti, 28% del totale
regionale). Si tratta di un distretto a forte base artigianale, dove la manualità
costituisce ancora oggi una delle caratteristiche del processo di produzione. Le
minacce allo sviluppo di questo distretto non vengono dall’emergere di nuovi
competitors mondiali quanto piuttosto dall’indebolimento del mercato esterno dei
prodotti, i quali, essendo molto caratteristici, rischiano di essere soggetti alla
modifica dei gusti della domanda, nonché all’esaurimento del mercato interno del
lavoro qualificato.
2.2.4
Il distretto del mobile della Sinistra Piave
Questo distretto, confinante con quello del mobile pordenonese, salda le due
aree limitrofe del Livenza e del Quartier del Piave, fra cui si inserisce il sistema
locale di Conegliano e Vittorio Veneto specializzato nella metalmeccanica e
nell’elettrodomestico. Complessivamente occupano circa 22.000 addetti, impiegati
per il 95% in piccole e medie imprese. La specializzazione del distretto é orientata
verso la produzione del mobile industriale e vanta la presenza di leader nazionali
nel mobile per la casa o nella componentistica. La crescita del distretto inizia negli
anni ‘50, ma é solo un decennio dopo che l’area acquisisce una struttura distrettuale
grazie al decentramento produttivo che vede la scomposizione del ciclo, la
specializzazione e la disintegrazione verticale a monte. Questo processo risulta
essere molto positivo per il contenimento delle dimensioni aziendali, nell’ottica di
un’organizzazione più snella e controllabile, e per l’innovazione tecnologica diffusa.
Con gli anni ‘70 esplode l’export, attività che porterà l’Italia a diventare il primo
esportatore mondiale di mobili. Negli anni ‘80 e ‘90, il sistema si riorganizza su tre
34
livelli: a livello distrettuale si formano dei gruppi di imprese (in media 4,3 mobilifici
per gruppo) per esigenze di diversificazione e di ulteriore contenimento delle
dimensioni. Tali gruppi attuano un decentramento operativo e, allo stesso tempo,
una centralizzazione strategica che permette alla aziende membri di raggiungere
economiche sinergie. A livello aziendale si creano delle innovazioni di processo e
una maggiore varietà di prodotto e di interazione con il cliente; ed infine a livello
globale si spinge verso una maggiore internazionalizzazione attraverso nuovi canali
di distribuzione, export di semilavorati e di componenti (proiezione all’estero di anelli
intermedi della catena del valore), delocalizzazioni di parte del ciclo produttivo in
paesi a basso costo del lavoro.
Rimangono dei punti critici come lo scarso utilizzo delle conoscenze
codificate. Il basso livello di scolarizzazione dimostra che le conoscenze tecniche si
sono diffuse in un processo di learning by doing e i media cognitivi utilizzati sono
stati le merci e le persone. Invece la codificazione delle competenze vere, e non
solo di facciata, faciliterebbe l’inserimento nel villaggio globale e, di conseguenza,
amplierebbe ulteriormente l’export e migliorerebbe l’immagine. La progettualità
collettiva ha fallito nella commercializzazione di un marchio identificativo della zona
ma ha portato alla creazione dell’Istituto Professionale per l’industria e l’artigianato
di Brugnera e del Cert (Centro di certificazione e di test di Treviso, della Camera di
Commercio di Treviso con il contributo di fondi comunitari).
Un altro piccolo centro specializzato nel mobile rustico della montagna si può
individuare in un gruppo di comuni dell’Alto Agordino, ma pur presentando un alto
indice di specializzazione non ha un indice di specializzazione manifatturiero e una
dimensione occupazionale sufficienti.
2.2.5
Il distretto multisettoriale del Bassanese
Bassano del Grappa, il centro del distretto in questione, é inserito nella
Fascia Pedemontana del tessile ma presenta delle sottospecializzazioni in settori
differenti. 33.900 occupati in attività manifatturiere, di cui 32.100 in piccole e medie
35
imprese, denotano l’importanza produttiva dell’area. Le sottospecializzazioni, che
nell’insieme rappresentano il 31,4% dell’occupazione manifatturiera complessiva,
riguardano le produzioni per l’arredamento e la casa, in particolare l’industria del
legno e del mobile (5.072 addetti), dell’oreficeria-argenteria (2.174 addetti) e della
lavorazione della ceramica artistica (concentrato in modo particolare a Nove, dove é
localizzata il 30% dell’occupazione regionale nel settore, come mostra l'allegato
n.7). Vi é anche una specializzazione settoriale minore che però riveste
un’importanza a livello nazionale: il sistema produttivo integrato di componenti per la
bicicletta. Settore questo per cui il Veneto si qualifica come regione leader, con
un’esportazione pari al 30% di quella nazionale. Questa specializzazione si é
sempre più rafforzata in termini competitivi (la produzione di selle é al massimo
livello mondiale in quanto a qualità e a commercializzazione) ma si é anche estesa
ad altri settori collaterali fino a formare un sistema di competenze distribuite che
viene riconosciuto come il terreno più fertile anche per la rilocalizzazione della
produzione di medio-grandi imprese.
2.2.6
Il distretto della calzatura e dello sport system di Montebelluna
Il terzo settore di specializzazione della regione é quello delle calzature, che,
seppur presente in diverse aree, si concentra entro ambiti storici ben definiti, di
ridotte dimensioni territoriali (allegato n.8). Montebelluna é l’idealtipo del distretto
marshalliano (Porter, 1990, lo cita come caso esemplare di cluster settoriale
integrato su base locale), basato su una specializzazione produttiva unica, ma non é
detto che lo rimanga a lungo perché sta attuando forti innovazioni di prodotto
aprendosi verso una maggiore differenziazione merceologica nella gomma e nella
lavorazione delle plastiche.
Nel 1991 gli addetti alla sola industria calzaturiera erano 8.025, tutti in piccole
e medie imprese (l’industria media ha 24 dipendenti), su un totale di 23.000 addetti
manifatturieri distribuiti in circa dieci comuni. Consideriamo alcuni numeri
percentuali per dare un’idea dell’importanza del distretto: si producono il 62% delle
36
scarpe da montagna europee, il 65% dei doposcì nel mondo, il 75% degli scarponi
da sci mondiali e l’80% degli stivali da motociclismo. L’attività calzaturiera si
sviluppa nella zona già a partire da inizi ‘800, ma é nel 1936, con l’entrata dello sci
negli sport olimpici , che inizia una produzione specializzata e all’avanguardia.
Negli anni ‘70 il distretto esplode grazie alla rivoluzione della plastica e da 136
imprese si passa a 511 nel giro di pochi anni. Contemporaneamente alla
specializzazione calzaturiera, si sviluppano i settori di supporto e si crea un sistema
produttivo locale integrato che comprende la filiera della scarpa sportiva, il ciclo dei
materiali, degli stampi, e dei componenti, e la catena logistica. Gli anni ‘80 portano
una crisi determinata dal calo della domanda (anche a causa di una successione di
inverni miti) e la conseguente sovraproduzione, dall’aumento della concorrenza
internazionale e da problemi finanziari per investimenti in know how da cui il distretto
esce diversificando la produzione. Oggi infatti si parla di sport system perché oltre al
comparto neve, c’è quello delle scarpe da specialità, delle scarpe sportive e
dell’abbigliamento. L’innovazione nei processi produttivi si é caratterizzata da un
andamento incrementale e supplier dominated che non ha creato grandi vantaggi
concorrenziali proprietari ma un miglioramento dell’efficienza generale del distretto.
La superiorità internazionale del distretto é proprio nelle relazioni distrettuali, cioé
nell’organizzazione di attività di supporto e di subfornitura e in un efficiente divisione
del lavoro. Questo vantaggio sistemico ha attirato i concorrenti ad entrare nel
distretto. Ciò evidenzia un ciclo biunivoco di internazionalizzazione produttiva: se da
un lato le imprese locali hanno aperto le proprie reti di divisione del lavoro su scala
globale, dall’altro alcune imprese transnazionali hanno ritenuto strategico localizzare
propri nodi nel sistema locale. Il processo di per sé arricchisce il sistema locale di
competenze specifiche codificate e, per questo, capaci di muoversi nella rete
globale.
2.2.7
I distretti della calzatura della Collina Veronese
37
Nel Veronese quella che compare ufficialmente in base ai criteri ministeriali é
l’area calzaturiera di San Giovanni Ilarione, che ha solo 1588 addetti nel settore;
invece la concentrazione a ovest di Verona (Bussolengo, Sona e altri comuni), nella
quale lavorano 3556 addetti non riesce ad apparire come sistema locale del lavoro a
causa della sua vicinanza all’area economica del capoluogo. La descrizione delle
due aree é tuttavia assimilabile per caratteristiche produttive comuni. Una strategia
competitiva orientata a sfruttare prevalentemente i vantaggi di costo ha portato la
produzione locale a un basso livello qualitativo, ciò che espone il distretto a una
forte concorrenza internazionale. L’industrializzazione precoce degli anni ‘70 non ha
favorito un radicamento delle competenze e delle risorse imprenditoriali sul territorio,
infatti negli anni ‘80 il distretto ha incominciato il suo declino perché sprovvisto di
capacità di reazione di fronte alla crisi. Dopo la rapida crescita degli anni ‘70, é
iniziato l’altrettanto rapido declino della seconda metà degli anni ‘80 che non fa
prevedere un futuro roseo all’area.
2.2.8
Il distretto della calzatura della Riviera del Brenta
E’ il distretto più importante del settore nel Veneto con 8.942 addetti. Non é
tuttavia identificabile ufficialmente perché non corrisponde ad alcun sistema locale
del lavoro vista l’elevata mobilità territoriale della su cui si insiste, a cavallo fra
l’area di influenza degli spostamenti quotidiani di Venezia e quella di Padova. Per
una descrizione più approfondita rimando al quarto capitolo e successivi, che
tratteranno in particolar modo di tale distretto.
2.2.9
Il distretto della concia e del metalmeccanico di Arzignano
Nella Valle del Chiampo si concentra uno dei più importanti distretti conciari
d’Europa con 7.335 occupati nel settore, che concentra il 75,6% di tutti gli addetti
regionali (allegato n.9). In quest’area si registra la massima esposizione verso
38
l’estero delle imprese distrettuali venete, sia per quanto riguarda i mercati di sbocco
che per gli approvvigionamenti. E’ anche il distretto che meglio si identifica con il
modello di sistema produttivo locale perché l’area del mercato del lavoro coincide
con il circuito relazionale delle attività economiche. Il distretto di Arzignano presenta
nel settore della concia una struttura industriale polarizzata in quanto la produzione
per metà viene realizzata da concerie a ciclo integrato alleate in gruppi e da circa 20
medie imprese e per l’altra metà da 80 microimprese industriali ed artigiane a ciclo
completo e da terzisti.
E’ interessante invece analizzare i tentativi di attività di progettazione
collettiva interna al distretto e finalizzata a economie di scala nel rispetto dei vincoli
ambientali e nella ricerca. Nel 1984 nasce un consorzio per la gestione di un
depuratore, visti i vincoli ambientali imposti dalla “legge Merli” del 1976, ma questo
si rivela presto inadeguato e viene chiuso. Allora nel 1987 l’Amministrazione
propone la realizzazione di un Centro servizi pelle, capace di offrire servizi reali
ordinari e innescare iniziative strategiche in campo tecnologico e commerciale. Il
progetto non riuscirà ad andare oltre lo studio di fattibilità per l’opposizione e lo
scarso interesse delle imprese maggiori. I gruppi e le medie aziende rimanevano
fiduciosi nelle proprie autonome possibilità di sostenere la sfida concorrenziale, e
non volevano un nuovo soggetto che alterasse l’equilibrio di potere nel distretto. Si
tenta allora la strada dell’accordo fra le imprese stesse, che da vita a Intesa spa,
una specie di holding formata da 80 concerie che si propone di operare nei campi
della finanza e mercato, della R&S ambientale e della tecnologia di processo. Con
essa si é dato risposta su base privata al fabbisogno di azione collettiva che vi é
comunque nel distretto.
Nel medesimo sistema locale del lavoro si é verificata negli ultimi decenni
anche una formidabile crescita di attività nel comparto della produzione di macchine
ed apparecchiature elettriche (3.771 addetti); in particolare si concentra, in termini di
addetti, il 25% della fabbricazione di motori della regione, il 36% di fili e cavi isolati,
il 38% di accumulatori, pile e batterie e il 58% di apparecchi elettrici per motori.
Considerando l’insieme delle attività connesse in filiera, il settore elettromeccanico
arriva a 7.361 addetti, dei quali 5.317 in piccole e medie imprese, con un indice di
39
specializzazione pari al 30,3%, inferiore di pochi decimi a quello del settore
conciario.
2.2.10
Il distretto dell’occhiale della Montagna Bellunese e del Segusino
Quello degli occhiali é insieme all’oreficeria, il settore che ha avuto la
massima crescita negli ultimi anni, espandendosi dalla culla originaria del cadore
verso larga parte della montagna bellunese, in particolare nell’Agordino, e nell’area
del Segusino. La presenza della montagna ha a lungo costituito un ostacolo per lo
sviluppo industriale, ponendo vincoli sia alla possibilità di localizzare insediamenti
produttivi che alla realizzazione di reti di trasporto. Negli ultimi anni, proprio alcune
aree di montagna hanno manifestato dei trend di sviluppo altissimi, non spiegabili
con le risorse provenienti dal turismo ma con l’evoluzione tecnica e commerciale
delle originarie vocazioni produttive. Gli occhiali (allegato n.10) sono oggi una vera
e propria monocultura industriale, unica alternativa al turismo. Al 1991 l’indice di
specializzazione manifatturiera é uno dei più elevati del Veneto, facendo segnare
70,47% nel Cadore, 64,23% nell’Agordino e 56,21% nel Comelico.
L’industria dell’occhialeria ha raggiunto livelli di sviluppo e di apertura
internazionale delle produzioni che non possono essere spiegati con la svalutazione
della Lira; la crescita accomuna sia le microimprese artigianali che i grandi gruppi
industriali (come Luxottica, Safilo, De Rigo, ecc.) divenuti leaders mondiali del
settore. La corrispondenza di performance fra piccoli e grandi produttori indica una
complementarietà produttiva che accresce il vantaggio del sistema. Il vantaggio del
sistema é anche sostenuto dalla presenza di soggetti attivi di politica industriale
come il Comitato di Iniziativa per lo Sviluppo dell’Occhialeria Bellunese, nato nel
1992 per la realizzazione di progetti di sviluppo (focalizzati in cinque aree:
l’economia distrettuale, la certificazione e la qualità, il trasferimento delle tecnologie,
la formazione, la promozione dell’immagine dell’occhialeria bellunese) e per il
consolidamento, l’innovazione, la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese
artigianali e industriali della provincia. L’istituto per la certificazione “Certottica”,
parte del progetto succitato, ha preso vita nel 1992, é una società consortile a
40
carattere misto, pubblico e privato, preposta alla certificazione dei prodotti ottici
secondo i parametri determinati dalla normativa nazionale e di derivazione
comunitaria. Il centro “Cittadella dell’occhiale”, ancora in fase di realizzazione,
dovrebbe coordinare l’attività di una pluralità di istituzioni e di servizi e promuovere
l’interscambio fra industria, università e ricerca; una delle unità operative dovrebbe
essere il “Centro Servizi Occhialeria” di Tai di Cadore che gestirà una banca dati
collegata con i principali centri mondiali per la ricerca. Gli organismi menzionati
assieme al Museo dell’occhiale e alla Scuola specifica sono segnali forti dell’attività
cooperativa degli attori del distretto.
41
2.2.11
Il distretto del marmo della Collina Veronese
La Valpolicella é la prima fascia pedemontana veneta, al confine con l’area
trentina e bresciana. In questa valle l’industria del marmo (allegato n.11) é una delle
attività di specializzazione di più antica origine, che concentra ancora oggi oltre il
50% degli addetti regionali nel settore. Già in epoca romana il marmo rosso di
Verona veniva apprezzato e utilizzato per nobili usi, e nel corso della storia si é
creata una competenza nel settore dell’estrazione e della lavorazione di questo
materiale. L’evoluzione del distretto é tipica di quelle aree a ridosso dei sistemi
prealpini, dove l’industrializzazione é stata innescata da un iniziale specializzazione
nell’estrazione del marmo e della pietra. Contestualmente all’estrazione si é formata
una vera competenza specifica nella lavorazione della pietra, che ha portato già nel
1867 alla creazione di una scuola professionale che preparava tecnici qualificati nel
trattamento dei materiali lapidei. Questa competenza é diventata la risorsa
strategica del distretto nel momento in cui la materia estratta in loco presentava
segnali di esaurimento. Oggi l’attività estrattiva ha carattere residuale in quanto le
400 imprese specializzate lavorano marmi e graniti di provenienza esterna (dalla
Sardegna, dal Portogallo e dal Brasile). La grande varietà di materiali lavorati non
permette di dare precise quote di mercato della produzione veronese anche se é
facilmente comprensibile come le cifre da prendere in considerazione siano di
rilevanza mondiale. Basti pensare che l’80% della produzione é destinato
all’esportazione e che nell’area sono concentrate le imprese leaders mondiali nella
lavorazione degli agglomerati. Oltre che nella lavorazione della pietra il distretto si é
specializzato nella meccanica e nel settore della logistica e dei trasporti. Niente di
strano se si pensa alla specificità che devono avere le macchine per il taglio e la
lavorazione del marmo (telai da granito, argani, levigatrici, ecc.) e alla complessità
dell’organizzazione dei trasporti e della distribuzione di un materiale così pesante ed
ingombrante (a Sant’Ambrogio Valpollicella é stato realizzato un importante terminal
ferroviario privato, grazie ad un consorzio tra imprese ed enti locali, che gestisce
42
direttamente i collegamenti con i porti del Tirreno e con la Sardegna). Per cui due
nodi critici legati alla produzione principale si sono trasformati in due vantaggi
aggiuntivi. Addirittura la specializzazione nel trasporto e nella logistica ha assunto
una competenza tale che si sta applicando a settori esterni al marmo, dando così al
distretto un’ulteriore via evolutiva. La storia della Valpolicella é interessante per
capire il concetto di evoluzione di un distretto, che si modifica mantenendo sempre
delle capacità specifiche, anche se diverse da quelle originarie.
2.2.12
Il distretto orafo di Vicenza
Vicenza é con Arezzo e Valenza Po uno dei tre poli nazionali della
produzione di oreficeria e gioielleria e insieme rendono l’Italia il primo produttore
europeo del settore. La sola provincia di Vicenza nel 1993 ha trasformato una
quantità di oro fine superiore a quella lavorata nell’intera Germania, secondo
produttore europeo. Il distretto reale ha difficoltà ad emergere a livello di sistema
locale del lavoro perché la produzione specifica é immersa in un’area urbana
fortemente industrializzata, con una composizione assai differenziata di attività.
Allargando la filiera alla produzione e alla lavorazione dei metalli, si individua un
distretto ufficiale comprendente il capoluogo ed i comuni limitrofi, con un indice di
specializzazione settoriale pari al 33,1%, derivato dalla presenza di 13.168 addetti
di cui 7.024 solo nel gruppo dell’oreficeria e dei gioielli. Si concentrano nell’area il
53% degli addetti regionali nella categoria di attività “fabbricazione di oggetti di
gioielleria e oreficeria” e il 65% nella “coniazione di monete e medaglie”.
L’attività orafa vicentina é di antica specializzazione perché le prime notizie
risalgono al 1325. Oggi il sistema produttivo urbano rappresenta la più elevata
concentrazione specializzata al mondo, con un'integrazione che coinvolge alcuni
settori sia di supporto tecnico (meccanica, strumentistica, galvanica, ecc.), che di
servizio (trasporto e corrieri specializzati, sistemi di sicurezza). L’attività
dell’oreficeria ha nel Vicentino (allegato n.12) altri due centri importanti: Trissino
(958 addetti, il 34,14% sul totale manifatturiero), specializzato nello stampato e nelle
43
lavorazioni manuali, e Bassano del Grappa e comuni limitrofi con una presenza di
imprese più grandi e meccanizzate specializzate in catene (2170 addetti).
2.2.13
Il distretto metalmeccanico di Schio-Thiene
Il settore metalmeccanico ha avuto una crescita formidabile negli ultimi
quarant’anni in tutte le aree della regione (allegato n.13), ma soprattutto in quelle
circostanti i centri urbani maggiori (Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Schio-Thiene,
Bassano del Grappa-Cittadella, Conegliano-Vittorio Veneto). Negli anni recenti
questa crescita si é diffusa notevolmente sul territorio, interessando anche i comuni
di piccolissima dimensione. Pur essendo il settore che ha oggi il maggior peso in
valore assoluto nella regione, esso ha tuttavia un indice di specializzazione
regionale inferiore a quello medio nazionale. Per questa ragione e per il fatto che le
aree dove é più concentrato sono in genere caratterizzate anche da una forte
presenza di attività terziarie, con conseguente abbassamento dei valori dell’indice di
industrializzazione, esso si presta con difficoltà a far emergere formazioni socio-
economiche identificabili come distretti. L’area di Schio-Thiene é una di quelle che
presenta in modo più evidente i caratteri socio-economici e l’integrazione fra
ambiente e sviluppo produttivo tipici dei distretti industriali. L’attività metalmeccanica
si é sviluppata a partire dalla produzione di beni strumentali per l’industria della lana
ed é cresciuta di importanza in concomitanza con la crisi della grande industria
tessile. Oggi conta 12.900 addetti in piccole e medie imprese, di cui 6.482 nel solo
gruppo di fabbricazione di macchine. Più precisamente 1.086 addetti (il 60,2% del
totale regionale) si occupano di costruzione e installazione di macchine tessili, 1.162
di macchine per la lavorazione del legno, 1.065 di macchine per la lavorazione dei
prodotti alimentari, e così via.
2.2.14
Il distretto metalmeccanico di Conegliano
44
Il settore di maggiore importanza per l’economia dell’area e quello
dell’elettrodomestico, che al 1991 contava 2.981 addetti, il 39% del totale regionale
(gli addetti nell’intera filiera metalmeccanica sono circa 8.000 e sono impiegati nella
fabbricazione di radiatori e caldaie per riscaldamento centrale, di strutture
metalliche, di serrature e cerniere, ecc.). La specializzazione territoriale nella
lavorazione dell’acciaio, in elettrodomestici e in forniture per la collettività ha dato
vita ad un sistema di piccole e medie imprese che oggi viene indicato come Inox
valley. Il sistema produttivo attuale nasce negli anni ‘60 grazie alla ristrutturazione
della Zanussi e della Zoppas, le grandi imprese del settore. L’esternalizzazione di
fasi della produzione ha incentivato una crescita sommersa del distretto, creando
una nebulosa di attività governate dai flussi produttivi della grande impresa. Lo spin-
off dalla Zoppas ha dato vita a una miriade di piccole imprese che, dopo un periodo
iniziale di sudditanza, si sono riqualificate verso una reale indipendenza e una
ricerca di sbocchi di mercato sempre più segmentati.
Dagli anni ‘70 (anni in cui termina anche la competizione fra la Zoppas e la
Zanussi a causa dell’acquisizione della prima da parte della seconda) le nuove
aziende hanno spinto verso una specializzazione nei piccoli elettrodomestici,
essendo il settore della ristorazione collettiva piuttosto saturo. Questo settore é
coperto da poche imprese leaders (non a livello di competitori globali) e tanti
produttori interstiziali e di nicchia. Nel distretto infatti c’è un’alta densità di
subfornitura, e un forte sfruttamento delle risorse diffuse sul territorio per
l’integrazione flessibile a monte e a valle, per la ricerca di modularizzazioni e
standardizzazioni produttive. Oggi, vista l’entrata nel distretto di multinazionali che
procedono con una politica di acquisizioni, dovrebbero essere valutate nuove
strategie per rispondere alle esigenze della domanda internazionale con sofisticate
forme commerciali e di assistenza tecnica. Il quadro evolutivo appare problematico
e poco chiaro, perché, a fronte di facili de-territorializzazioni per sfruttare i
differenziali di costo della manodopera, il distretto mantiene un affidabile sistema di
fornitura e di competenze diffuse. Infatti sono presenti nel sistema delle competenze
specifiche nella lavorazione dell’acciaio inox e nel design (quest’ultimo si é
45
sviluppato per il fatto che le imprese distrettuali, essendo degli inseguitori dei grandi
gruppi internazionali, vi hanno puntato in vista di una diversificazione). Tuttavia
questo insieme di competenze sono difficilmente utilizzabili in un contesto globale
perché sono essenzialmente di natura tacita e informale. I luoghi di apprendimento
non sono mai stati i centri di diffusione della conoscienza codificata, per dire il vero
quasi assenti, ma la fabbrica, con i suoi continui miglioramenti, ed il mercato,
imitando le soluzioni di successo. La grande impresa é stata produttrice di nuovi
imprenditori e di norme comportamentali, é stato luogo di accumulazione e di
riproduzione delle conoscenze.
2.2.15
Aree specializzate di estensione territoriale limitata
Il sistema produttivo del vetro di Murano é il tipico distretto invisibile a ogni
tipo di indicatore statistico, in quanto sommerso nella realtà economica di un grande
centro urbano. In uno spazio ristrettissimo si concentra un elevato numero di addetti:
2.450 localizzati per lo più nella sola isola di Murano. All’origine della
concentrazione dei laboratori vetrai nell’isola di Murano c’è una disposizione della
Repubblica Veneta, che così facendo voleva delimitare il pericolo di incendi dovuto
ai forni. In seguito il carattere artigianale-artistico della produzione ha ancorato
l’industria alle risorse lavorative locali, anche se i processi di dispersione
insediativa nell’entroterra e i vincoli di accessibilità all’area lagunare stanno
progressivamente spostando le lavorazioni fuori dall’isola. Negli anni ‘50 il distretto
ha conosciuto il massimo successo (5.000 addetti) ma da allora é iniziato un periodo
di declino che ha frenato solo negli anni ‘80, grazie all’integrazione con il comparto
dell’illuminazione moderna. Recentemente é stato introdotto anche un marchio di
qualità per le produzioni di Murano, allo scopo di salvaguardare il distretto dai
prodotti concorrenti a basso costo. La Scuola professionale del vetro e la Stazione
sperimentale sono esempi di istituzioni create con l’obiettivo di facilitare l’evoluzione
strategica e tecnologica del distretto.
46
Un altro sistema specializzato di piccole imprese é quello della strumentistica
di precisione di Padova, sviluppatosi anche per la domanda proveniente dal
comparto ospedaliero-universitario, e quello dell’illuminazione ai confini tra le
province di Padova, Treviso e Vicenza.
Colpisce il fatto che non si riesca a identificare nessun distretto specializzato
nella filiera alimentare. Ciò non sorprende se si tiene conto che nelle aree di
maggior specializzazione una parte notevole dell’occupazione é di tipo stagionale. Il
turismo e il peso del settore agroalimentare spiegano, soprattutto nel litorale
orientale, la mancanza di qualsiasi specializzazione significativa in altri settori
(“distretti turistico-agro-alimentare”). A questo punto rimangono fuori dalla
descrizione gli ambiti di gravitazione dei tre poli principali e di Belluno che
ovviamente hanno una forte connotazione nel terziario (“distretti terziari
metropolitani”).
47
3. I distretti industriali veneti e le dinamiche
dell’internazionalizzazione
3.1
L’internazionalizzazione dei distretti industriali
L’internazionalizzazione, intesa quale sviluppo della divisione internazionale
del lavoro tra più imprese, richiama un concetto di catena del valore non circoscritta
ad un unico ambito locale ma frutto della compenetrazione di competenze e di
risorse plurilocalizzate. L’asse della divisione del lavoro cambia sotto lo stimolo della
competizione globale e con esso anche l’organizzazione distrettuale. Le linee chiuse
della divisione del lavoro fordista lasciano il passo all’instaurazione di un sistema
aperto. Il distretto in questo assomiglia alla grande impresa fordista perché entrambi
realizzano per linee interne la divisione del lavoro; entrambi interiorizzano tutte le
specializzazioni a monte e si aprono all’esterno solo nella vendita del prodotto
finale. Le economie a monte sono possibili grazie agli sbocchi sicuri e allo stesso
tempo offrono un vantaggio competitivo alle produzioni a valle nel senso di un
accesso privilegiato. Questa sinergia crea una stabile integrazione che cementa la
complementarietà1.
Tale meccanismo apparentemente efficiente ed evoluto entra in crisi quando i
differenziali nel costo del lavoro o dei trasporti rendono conveniente la
delocalizzazione produttiva in toto o di alcune fasi del ciclo. La concorrenza
internazionale non permette di mantenere all’interno di un’economia fortemente
industrializzata come quella italiana delle produzioni labour intensive facilmente
delocalizzabili perché non basate su competenze specialistiche complesse. Nel
processo di produzione fordista, l’integrazione scoraggiava la ricerca di strade più
1 F. Belussi e M. Festa (1990).
48
proficue fra fornitori esterni, mentre oggi la de-verticalizzazione ha aperto i cicli a
monte a più sbocchi possibili. Ciò vale anche per il distretto e porta a conseguenze
rilevanti in termini di chiusura e di indebolimenti aziendali o di riduzione di quote di
mercato controllate da aziende interne. Inoltre la gerarchizzazione del distretto da
parte delle imprese più forti modifica l’identità collettiva tradizionale, che non
fornisce più una base adeguata alle nuove relazioni e a una divisione del lavoro
autosufficiente. Il tessuto produttivo dei distretti mostra infatti una progressiva
dissociazione tra i circuiti finanziari e organizzativi delle imprese divenute a pieno
titolo transnazionali ed i fattori che per loro natura rimangono radicati sul territorio,
come il lavoro, l’artigianato di qualità, i servizi locali, ecc. Le imprese leader
rappresentano la sola interfaccia locale con i mercati mondiali, le reti scientifiche,
tecnologiche e manageriali esterne al distretto e quindi sviluppano strategie
autonome e divergenti rispetto alle unità più piccole. Le aziende più deboli restano
senza copertura relazionale e cognitiva, perdono fornitori e sbocchi tradizionali
oppure competono con forti concorrenti che hanno acquisito l’ingresso nel distretto.
Si può aprire un conflitto fra i due tipi di impresa che mina la coesione interna nella
sua essenza.
Molti distretti veneti hanno basato il proprio successo competitivo su una
sapiente combinazione di saperi pratico-manuali e di innovazioni tecnologiche
incrementali, il che ha favorito la crescita di imprese specializzate in settori correlati
di supporto, nati come anelli specializzati delle catene locali del valore. Ora, dal
momento che i rapporti globali non permettono più di considerare la contiguità
territoriale come un’assicurazione sulla stabilità delle relazioni, esse come detto si
sfaldano e creano una distanza evolutiva fra i due tipi di unità economiche
inducendo le imprese leader ad agire più convenientemente fuori dal distretto. Però
i settori correlati sono stati i punti di forza delle imprese maggiori, per cui
sopprimere questa collaborazione può essere molto pericoloso per entrambe le
parti.
Tuttavia le fasi de-costruttive, provocate da strategie divergenti, sono
necessarie per far balzare in avanti il distretto lungo un percorso evolutivo e non
49
reazionario-difensivo. La crisi é un passaggio obbligato verso l’evoluzione e farvi
fronte può significare dover sostenere sacrifici notevoli come é successo per la
ristrutturazione delle grandi imprese fordiste. A livello di distretto si possono
verificare più possibilità, con conseguenze diverse per la struttura d’insieme. La
soluzione più semplice é che le imprese leader traghettino le minori grazie alle
esperienze distintive fatte in questi anni di emersione dal locale. Ma può anche
accadere che tutte le imprese vengano spinte dalla maggiore concorrenza ad uscire
dal mercato prettamente locale per sfruttare differenziali di competenze cognitive
nella rete globale. Infatti la conseguente specializzazione e conoscenza più spinte,
provocate dall’inserimento di nuovi soggetti competitivi nelle fasi a monte e di
produzione della qualità, possono indurre le imprese a considerare la possibilità di
vendere all’esterno del distretto le proprie competenze.
In generale l’internazionalizzazione comporta dei notevoli cambiamenti anche
nei meccanismi regolativi di base di un distretto. Dovendo intrattenere relazioni a
distanza, i linguaggi e le procedure operative non possono rimanere connotati da
una valenza unicamente contestuale ma devono aprirsi a radicali processi di
formalizzazione. Il lavoro stesso necessita di una professionalizzazione a vari livelli
per poter gestire efficientemente le nuove relazioni formalizzate. La formazione é
l’unico strumento con cui generare quel continuo rinnovamento delle competenze
tecniche e professionali della forza lavoro per assicurare il rafforzamento dei fattori
strategici del vantaggio competitivo locale. Questi cambiamenti richiedono
naturalmente un incremento degli investimenti in risorse immateriali e comportano
un aumento dei rischi da sostenere. Anche se le risorse immateriali del distretto
aumentano, ci sono delle competenze specifiche che per eccessivi costi di
riproduzione non possono essere sviluppate all’interno del distretto, per cui
comportano una dipendenza dall’esterno. Da queste riflessioni si capisce che la
variabile strategica non é più l’esportazione di merci, di macchine o di componenti
ma la formazione di canali di cessione regolata delle conoscenze e di
accumulazione congiunta di nuove competenze e relazioni.
50
La forma di internazionalizzazione recente non é paragonabile a quella degli
anni ‘70 perché non si limita all’esportazione di prodotti finiti ma da spazio per
l’appunto a scambi transnazionali di beni intermedi e di conoscenze . Infatti non
avviene solo attraverso forme relazionali quali il mercato o la gerarchia ma anche
attraverso la cooperazione, la fiducia e la comunicazione2. Grazie alle forme
relazionali attuali si costruiscono delle reti transnazionali che collegano diverse
realtà locali le quali si mantengono nella loro originalità distintiva. Il distretto può
mantenere la sua originalità dell’organizzazione produttiva solo se
l’internazionalizzazione coinvolge non soltanto le imprese leader ma tutti gli anelli
della catena, perché una produzione del valore competitiva richiede una divisione
del lavoro su scala globale. La produzione internazionale del valore non riguarda
solo la singola impresa ma tutta la catena del valore, vale a dire un concetto sovra-
aziendale. Bisogna osservare il processo di internazionalizzazione delle conoscenze
presenti ai vari livelli della catena e la posizione che la singola impresa occupa al
suo interno. L’impresa mette in circolo, attraverso la catena, l’originalità del suo
patrimonio conoscitivo e della sua forza imprenditoriale, ma anche le risorse
organizzative e professionali dell’ambiente locale, le fonti finanziarie a cui ha
accesso, i servizi disponibili in loco.
Non ci sono solo le esportazioni o gli investimenti diretti all’estero ma anche
altre forme di cooperazione transnazionale che ampliano la catena del valore.
Tuttavia anche l’esportazione può essere una forma valida di internazionalizzazione
ma solo se basata sulla qualità. Se nei prodotti esportati vi sono incorporate
competenze rare ed esclusive, se il profilo di redditività é soddisfacente e se lo
sbocco nel mercato é stabile, allora la produzione dei beni oggetto di esportazione
permette una crescita competitiva internazionale ed un’evoluzione economica
dell’impresa. Al contrario, se l’esportazione é solo dovuta a differenziali di costo dei
fattori produttivi (come succede spesso nel caso di sostegno all’export attraverso
manovre sui tassi di cambio non molto ortodosse), in tal caso la produzione sarà
2 R. Grandinetti ed E. Rullani (1996).
51
incentivata finché si manterranno tali vantaggi contingenti ma poi sarà
inevitabilmente soggetta a declino.
L’internazionalizzazione di una piccola e media impresa, all’interno o meno di
un distretto, si sostanzia quindi nell’esportazione o nella messa appunto di un
prodotto finito giunto da una catena internazionale o nella realizzazione di beni e
servizi intermedi per utilizzatori industriali che servono un mercato sovranazionale (a
volte infatti un’impresa internazionalizzata può non avere rapporti diretti con
l’estero)3. In ogni caso, nelle piccole e medie imprese italiane, le variabili più vicine
al centro della formula imprenditoriale non vengono internazionalizzate ma
rimangono di competenza locale; solo il mantenimento di un rapporto stretto con il
proprio territorio permette all’impresa di acquisire risorse, relazioni e competenze
peculiari. Così si viene a delineare una certa complementarietà tra l’ambiente
internazionale, che fornisce domanda e tecnologia, e quello locale, imprenditorialità,
organizzazione e lavoro. Una piccola impresa che si internazionalizza mette in
valore, attraverso un circuito internazionale, l’originalità e le risorse dell’ambiente
locale, per cui rappresenta un segnale dell’efficienza del proprio contesto. Il pericolo
infatti insorge quando il contesto locale non é più in grado di riprodurre il valore
competitivo delle risorse endogene, allora il rapporto globale-locale subisce uno
squilibrio verso il primo termine e le imprese non trovano i motivi per rimanere
localizzate in quel territorio.
In un contesto in cui lo Stato-nazione perde importanza, l’impresa per
rimanere competitiva deve sempre più fare affidamento sulle capacità del proprio
sistema territoriale4. Si ricerca l’autonomia locale non in senso di isolamento ma di
partecipazione autonoma al processo decisionale globale. Il potere politico-
normativo deve sostenere questa svolta verso la responsabilizzazione del territorio
locale come attore specifico in uno scenario sovranazionale. La politica neo-localista 3 G. Nardin (1994). 4 K. Ohmae (1998) scrive: “In un sistema economico senza più frontiere gli aggregati da considerare sono quelli da me chiamati stati-regione [...] sono questi gli aggregati economici naturali, rientranti o meno entro i confini di un determinato paese. L’appartenenza ad uno stato nazionale éun aspetto storico che non ha più importanza pratica, mentre ciò che oggi conta é il possesso degli elementi che rendono efficace la partecipazione al sistema economico globale, non ultimi quelli dell’intento e della capacità di anteporre a tutto la nuova logica economica globale.”
52
dovrebbe mettere in atto non solo semplici manovre di incremento tecnologico ma
misure importanti di innovazione sociale. Le politiche locali possono promuovere un
ambiente sociale in grado di utilizzare la tecnologia come mezzo di comunicazione.
Il sistema locale avrà un ruolo specifico all’interno dell’apertura comunicativa al
globale se le trasformazioni individuali saranno estese all’insieme delle imprese
attraverso un’azione di progettazione collettiva.
Il sistema politico locale ha ancora senso ma deve spostare i suoi obiettivi di
intervento dai fattori di crescita delle imprese alla costruzione delle condizioni
ambientali foriere di nuove potenzialità sociali per lo sviluppo. Il mantenimento
dell’integrità del luogo diventa una necessità strategica in un distretto, un limite e
allo stesso tempo una condizione allo sviluppo. La politica industriale deve puntare
all’innovazione ambientale, a replicare le condizioni di competitività del sistema
locale. Per agire concretamente a favore dei distretti, la politica dovrebbe
incentivare l’arricchimento dell’ambiente socio-economico, valorizzando la struttura
formativa e creando forme di applicazione e di apprendimento nel contesto che
evidenzino la specificità dell’area. Dal momento che il territorio su cui si sviluppa il
distretto coincide nello stesso tempo con il luogo di lavoro e di vita degli individui
che ne fanno parte, un’opera di valorizzazione dell’ambiente urbano e naturale
porterebbe dei benefici notevoli a tutto l’equilibrio sistemico. Si intuisce l’importanza
di azioni di questo tipo se si pensa al potere attrattivo verso i golden collars che
esercitano i parchi tecnologici immersi in aree naturali; per non parlare della vitalità
per un sistema fortemente integrato di disporre di un’efficiente e diffusa rete
infrastrutturale e di potenti sistemi di comunicazione (logistica integrata, sistemi
telematici, marketing strategico, e altri sono delle funzioni essenziali per la
competizione globale). In definitiva la politica industriale, per facilitare l’evoluzione
attuale delle piccole imprese distrettuali , dovrebbe mettere in atto allo stesso tempo
azioni rivolte all’incremento del processo formativo, all’istituzione di centri per
l’innovazione e il trasferimento tecnologico e alll’implementazione nel territorio di
centri che offrano servizi di sostegno per l’ internazionalizzazione commerciale e
produttiva.
53
Come si é avuto modo di accennare, l’internazionalizzazione attuale riguarda
sia il lato commerciale sia quello produttivo; ciò significa in una parola: multi-
territorializzazione. Grazie ai canali connettivi delle reti transnazionali un’impresa
può delocalizzare fasi del proprio ciclo produttivo in altri paesi così da poter sfruttare
il differenziale di costo, di produttività e di cultura. Si é detto che il territorio con cui
l’impresa entra in relazione condiziona enormemente il successo ed il vantaggio
competitivo della stessa. La qualità del territorio diventa così un elemento portante
della differenziazione competitiva a tal punto che le scelte di localizzazione di
un’impresa sono quanto mai cruciali e complesse. L’impresa deve scegliere
l’ambiente più conveniente dove poter integrare le proprie risorse e competenze
imprenditoriali, stabilendo un nesso evolutivo con il luogo circostante. La scelta non
si basa sul principio dell’one best way ma su quello della differenziazione
competitiva, vale a dire che non si cerca il costo minimo in assoluto o per forza
l’area con migliori dotazioni infrastrutturali ma un luogo particolarmente adatto a
quella specifica attività. Il mix fra dotazioni infrastrutturali, conoscenze contestuali
esclusive, cultura locale e qualità della vita sarà differente da impresa a impresa
perché la ponderazione delle voci non porta ad attribuire lo stesso peso a ciascuna
variabile. Alla base delle scelte aziendali c’è il principio dell’equifinalità, che spinge
a ricercare la propria strada senza dover per forza convergere verso lo stesso
standard. Il fine delle strategie aziendali, soprattutto se si parla di piccole e medie
imprese, non é il livellamento ma la specializzazione, per cui non ci sarà la corsa
verso il luogo più conveniente in assoluto. Tuttavia é chiaro che le imprese
prenderanno in considerazione un paese a basso costo produttivo per poter
realizzare delle economie significative. Le delocalizzazioni delle imprese distrettuali
venete per lo più sono motivate da ragioni di costo e non tanto dalla necessità di
acquisire competenze specifiche presenti nei nuovi territori (come é invece il caso
dell’entrata di numerose multinazionali straniere all’interno dei distretti più innovativi
e specializzati).
La de-territorializzazione impoverisce il distretto di origine in termini di
occupazione e di ricchezza prodotta e attiva pericolosi concorrenti futuri nelle aree
54
di delocalizzazione. Infatti le fasi del ciclo soggette a delocalizzazione sono
abitualmente quelle più labour intensive e non richiedenti competenze lavorative
molto complesse: proprio quelle più facilmente gestibili in proprio dai lavoratori del
luogo, che, una volta acquisito il sapere contestuale minimo trasferito dal distretto,
possono entrare in competizione con fabbriche proprie5. La convenienza nell’essere
territorio scelto é a questo punto evidente e, conseguente, ne scaturisce la lotta fra
aree per attirare le imprese (ci sono esempi anche fra i paesi dell’Unione Europea:
l’Irlanda sta seguendo da alcuni anni una politica di incentivazione nella
localizzazione industriale attraverso sgravi fiscali e sostegno pubblico). Da queste
riflessioni si é appurato che la mobilità delle imprese condiziona il loro insediamento
nel territorio a logiche più performanti delle semplici origini storiche. La simbiosi fra
territorio e imprese si é in parte incrinata, permettendo d’altro canto alle seconde
una maggiore libertà e possibilità di sperimentazione di forme imprenditoriali nuove.
Se scomponiamo l’impresa in due livelli distinti, da una parte il comando e la
finanza, e dall’altra il lavoro e la produzione, noteremo che il primo é composto da
funzioni mobili che possono essere spostate perché operanti in base a un linguaggio
codificato non strettamente connesso al territorio. Al contrario, il lavoro e la
produzione sono nel loro insieme funzioni meno mobili perché consumano molta
conoscenza contestuale. Questo é confermato dagli episodi recenti perché se a una
prima vista le delocalizzazioni riguardano soprattutto la produzione, a veder meglio
ci si accorge che sono solo alcune fasi del ciclo produttivo, le meno usufruttrici di
sapere contestuale. Ad esempio, nel settore delle calzature, le uniche fasi che
hanno permesso di sperimentare la delocalizzazione sono l’orlatura e la
fabbricazione di suole, cioè le due fasi meno determinanti per la qualità complessiva
della scarpa6. Appurato ciò, le istituzioni dovrebbero investire nel territorio per
renderlo appetibile anche al livello comando-finanza, così spingendo verso
l’evoluzione competitiva ideale dei distretti. Non si può lasciare la guida del
processo alle sole imprese perché si devono mobilitare risorse sovra-aziendali, che
5 G. Nardin (1994). 6 G.L. Gregori (1990).
55
solo delle istituzioni collettive, ma interne al distretto, possono gestire con una
progettualità di lungo periodo. Un piano di sviluppo e di sostegno di lungo periodo é
necessario per far in modo che le imprese facciano del radicamento territoriale una
scelta strategica stabile; tale piano non deve inoltre essere delegato a livelli
decisionali pubblici superiori perché si perderebbe così l’autogoverno competitivo e
si beneficerebbe di azioni troppo generaliste.
Tuttavia esiste tutta una serie di nodi problematici che sono irrisolvibili dagli
automatismi dall’autogoverno distrettuale e che quindi necessiterebbero di un
intervento regolatore da parte di organi istituzionali sovra-locali. L’inserimento negli
equilibri socio-economici del distretto di una massa non qualificata di immigrati, che
non sono messi nella condizione di potersi integrare con la popolazione locale, non
supplisce alla carenza di forza lavoro tradizionale dovuta all’allontanamento della
nuova generazione dall’etica del lavoro di un tempo, ma innesca processi di rigetto
di matrice razzista. La catena del valore knowleged based richiede nuovi profili
professionali che sappiano gestire alti livelli di conoscenza codificata, ma il sistema
formativo statale non colma tale lacuna perché molto distante da un’organizzazione
educativa con fini di inserimento facilitato nel mondo del lavoro7. Lo stesso processo
di mobilitazione sociale del mercato non é più sostenuto dalle istituzioni non
economiche quali la famiglia e la comunità locale. In passato, la famiglia ha
sostenuto gran parte dei costi di riproduzione della forza lavoro, i legami di parentela
e di amicizia hanno favorito la mobilità del lavoro e garantito un clima di fiducia,
agevolandolo scambio di conoscenze e di informazioni. Ora, all’interno della
famiglia, non avviene più la socializzazione dei giovani ad un sistema di valori
funzionale alla mobilitazione del mercato.
L’aumento dell’istruzione e del tenore di vita porta i giovani a non adeguarsi
più alle condizioni lavorative interne al distretto (rischiose, faticose e scarsamente
remunerate) e quindi i saperi tradizionali non codificati vengono persi con l’uscita
dall’attività lavorativa dei vecchi detentori. La conseguenza é un aumento
dell’entropia del distretto, intesa come energia non disponibile in una struttura
7 F. Belussi (1993).
56
isolata (Giovannetti), e una perdita di capacità di rigenerazione delle risorse
sistemiche. Dal lato produttivo, i problemi riguardano la subfornitura che deve
adeguarsi a standard qualitativi sempre più alti e in tempi sempre più brevi, per cui
le viene richiesta una notevole flessibilità e snellezza. Le stesse delocalizzazioni, se
non regolate, aprono dei vuoti all’interno del distretto e un aumento di entropia nel
senso di un non utilizzo della forza lavoro prima impiegata. Invece il sistema
finanziario é sempre stato un punto debole delle piccole e medie imprese italiane.
Esso é fragile perché gli imprenditori hanno sempre fatto ricorso ad un forte
indebitamento bancario. Per affrontare con successo la globalizzazione, c’é bisogno
di una ridefinizione qualitativa delle fonti di finanziamento del fabbisogno delle
piccole e medie imprese, capaci di dotarle di una struttura finanziaria solida. Il
passaggio evolutivo si dovrebbe avere con l’aumento del capitale di rischio, ottenuto
grazie al mercato telematico per le quotazioni delle piccole imprese e alla
concessione alle banche di acquisire partecipazioni in imprese non finanziarie.
L’attuale indebitamento é sgradevole perché é a breve termine e ad alta onerosità;
l’accesso al sistema bancario non é semplice, nonostante la grande presenza di enti
creditizi locali, perché questi non conoscono la situazione di molte piccole e medie
imprese che spesso, viste le ridotte dimensioni, non hanno grande forza
contrattuale. La quotazione in borsa é scarsa in quanto il piccolo imprenditore non
vuole essere condizionato nelle scelte che riguardano la sua impresa e perché il
mercato mobiliare ristretto e la stessa Borsa valori rimangono per lo più degli ambiti
speculativi. Oltre ai problemi menzionati, l’industrializzazione selvaggia degli scorsi
decenni ha prodotto situazioni di mancato rispetto delle norme riguardanti la tutela
dell’ambiente. Ora la necessità di certificare il prodotto con procedure standard
(ISO9000) ha riportato in luce tutta una serie di attività fortemente inquinanti e non
in linea con i minimi parametri di tutela dell’ambiente.
Questa serie di problemi non é facilmente risolvibile dall’Amministrazione
Pubblica, che in questi anni sta riorganizzando la propria presenza in ambito locale
a cominciare dalle Camere di Commercio8 . L’impotenza dell’Amministrazione
8 Legge 29 dicembre 1993 n.580.
57
Pubblica e la permanenza delle difficoltà sopracitate evidenziano la carenza di
meccanismi spontanei ed istituzionali di aggiustamento, che si ricollega più in
generale alla crisi dell’organizzazione fordista con i suoi meccanismi di regolazione
endogena. Di fronte alla richiesta di maggior governo, la risposta più semplice
sarebbe indicare una linea giuridico-istituzionalista che porti a una riforma
completa dello stato in chiave più federalista. Questa non é la soluzione perché
bisogna conservare i principi costitutivi ancora validi ed inserirvi poteri ordinatori
diversi ed addizionali. Lo stato “fordista” ha istituzionalizzato la meso-economia
corporativista, quell’area fra il pubblico ed il privato fatta di attori collettivi, che non
può essere cancellata ma semmai riformata.
Nello stato “post-fordista” il rapporto tra il pubblico ed il privato é logicamente
cambiato, per cui il sistema produttivo deve trovare dei modi organizzativi nuovi. Il
presupposto é il decentramento e l’applicazione del principio della sussidiarietà non
solo a livello europeo ma anche nazionale; si deve riprendere la formazione di
regole di interazione uniformi e universali; nuovi attori collettivi devono essere
formati in grado di affrontare i problemi attuali attraverso metodologie auto-
organizzative, così da evitare il sovracarico dello stato. La struttura reticolare può
essere permeata dall’economia per impostare l’organizzazione pubblica, creando
strutture leggere basate sull’accentramento delle regole ma sul decentramento delle
scelte. Le reti sono le institutions del post-fordismo, l’equivalente dello stato in epoca
fordista9.
Il principio cardine di tale struttura é l’autoorganizzazione competitiva che
vale in tutti gli ambiti della società, dall’economia al sistema istituzionale. Per far
funzionare un tale principio non devono esserci alcun tipo di barriere all’entrata o
all’uscita dei sistemi locali, anzi bisogna incrementare la mobilità. Ciò non é
semplice perché la “sindrome da invasione” fa considerare con timore gli elementi in
entrata non corrispondenti alle aspettative, ma questo significa ridurre il dinamismo
competitivo e fare innalzare il costo degli input. A livello economico é essenziale che
9 R. Grandinetti ed E. Rullani (1996).
58
ci siano nuovi ingressi, in termini per esempio di investimenti incrementali, per
crescere e per tenere sotto pressione le forze produttive locali. Per utilizzare una
metafora biologica, il sistema é in osmosi con il suo ambiente, l’equilibrio viene
mantenuto da logiche interne che sappiano sfruttare il rapporto aperto con il resto
del mondo. Dal momento che le imprese hanno acquisito mobilità, grazie alla
scomponibilità dei cicli e alle conquiste dell’information technology, possono
rappresentare proprio un elemento in entrata del sistema che mette in concorrenza i
vari territori fra di loro per attrarre questo nuovo input.
La concorrenza fra territori fa sì che le forze produttive radicate nel contesto
ambientale specifico acquisiscano effettiva capacità di autogoverno e capiscano che
la sopravvivenza competitiva dipende dall’innovazione collettiva del sistema
progettata in prima persona e senza deleghe. Ovviamente la progettazione di tali
azioni va svolta nell’ambito locale, come tale deve essere il finanziamento relativo e
l’assunzione del rischio specifico. Quindi perché il decentramento sia permeato dalla
logica della flessibilità, non deve essere calato d’autorità con atteggiamento
illuministico ma prodotto dal locale attraverso l’auto-organizzazione. La flessibilità
poi richiede che l’organizzazione a rete presenti l’unità elementare del sistema
relativamente piccola se vuole mobilitare sensi di appartenenza e di identità
sufficientemente forti. Beninteso, ciò non significa eliminare la presenza degli attori
pubblici perché essi garantiscono l’universalità del sevizio e decidono le modalità di
spesa del denaro pubblico. Lo stato, anche se trasformato e ridimensionato in
chiave di una maggiore autonomia decisionale delle periferie, rimane presente
come struttura che garantisce l’universalità di applicazione delle regole del gioco.
L’auto-organizzazione funziona solo se ci sono le premesse sufficienti, per
esempio nel lavoro. Nei distretti, il valore sociale del lavoro é una fondamentale
risorsa di mobilitazione, l’imprenditorialità é la forza base per il rinnovamento dei
processi produttivi e la sua rigenerazione può essere pensata appunto attraverso il
lavoro auto-organizzato. Ma perché si possa innescare un processo lineare di auto-
organizzazione del lavoro ci deve essere piena occupazione, altrimenti si accentua il
dualismo fra figure avanzate e quelle marginali (l’auto-organizzazione sarebbe un
59
modo per non affrontare i problemi e lasciare che i più forti dettino legge), la
relazione fra gli orari di lavoro e i tempi di vita possibile e non contrastante, i regimi
contributivi e fiscali neutrali in rapporto alle diverse forme di impiego, il
rafforzamento delle reti di welfare. Come si può notare le condizioni non sono di
semplice attuazione per cui una forma di stato é necessaria.
Le discussioni teoriche sul futuro del modello organizzativo nazionale e locale
sono comprensibili perché la caduta del fordismo e l’avvento rapido della
globalizzazione ha lasciato senza sistemi di riferimento. L’internazionalizzazione
porta con sé il rischio di un processo che spinga alla sola de-regulation senza però
produrre una vera riorganizzazione post-fordista. Se si accettasse il mercato come
unica forma di organizzazione dei rapporti economici, non si vedrebbe mai una
piena divisione transnazionale del lavoro perché il sistema sarebbe troppo instabile.
Occorre allora puntare su un’internazionalizzazione dello stato nazionale, che non
significa solo depotenziamento ma costruzione di isole di cooperazione
transnazionale, partendo dai paesi e dai problemi dove esiste una condizione di
interdipendenza più avvertita e dunque il massimo incentivo a cooperare.
3.2
Dinamiche di internazionalizzazione dei distretti industriali veneti
Usando le parole di Porter, “uno dei maggiori ostacoli alla continuità del
successo economico é il successo stesso”. Il Veneto si trova nella condizione di
impostare le linee di innovazione per mantenere e incrementare il successo
raggiunto nel corso degli ultimi anni. Il momento non é semplice perché
l’autocompiacimento per i risultati raggiunti può minare la fonte di creazione e di
rinnovamento dei fattori di vantaggio; allo stesso tempo può subentrare la paura di
perdere indipendentemente dalla propria volontà le condizioni che hanno condotto
al successo. Il pericolo di una chiusura localistica é reale e non va sottovalutato
perché condiziona direttamente l’inserimento dei distretti industriali veneti nella
logica globale. La mancanza di iniziative politiche di ampio respiro strategico, la
60
carenza di investimenti sostanziosi nella ricerca, la scarsità di infrastrutture vitali, la
difficoltà di coinvolgere le imprese in progetti comuni, sono tutti segnali che indicano
la difficoltà di individuare una chiara e condivisa direzione di marcia per i distretti
veneti. Il problema é serio perché il Veneto ha sfruttato abbondantemente i vantaggi
relativi ma non ne ha impostato la riproduzione. Il successo dei diversi sistemi locali
e delle singole imprese al loro interno sembra dovuto più a invenzioni involontarie
che a progetti intenzionali.
Nonostante la notevole attenzione puntata attualmente sui distretti industriali,
non c’é ancora un progetto uniforme estendibile alle varie realtà produttive regionali
per un loro sviluppo armonico e per l’impostazione di servizi indispensabili
all’internazionalizzazione. Porter10 ha chiaramente messo in evidenza che il
vantaggio duraturo di una nazione non si sostanzia in una maggiore dotazione di
fattori, bensì in un elevato tasso di crescita degli stessi. In Giappone, la carenza di
spazio, che era uno svantaggio relativo, non permetteva di produrre secondo logiche
fordiste di massa con beni standardizzati e stoccati in magazzini prima della vendita,
così si é ricorsi a logiche di prosumership, quali il just-in-time, che hanno permesso
di superare l’ostacolo iniziale e anzi di trasformarlo in un fattore vantaggioso perché
foriero di innovazioni. In Italia, il peso dei sindacati degli anni ‘70 ed il forte aumento
del costo del lavoro ha stimolato le imprese ad investire in meccanizzazioni ed
automazioni di fabbrica, tanto che ora il paese é leader mondiale nel settore. Sono
solo alcuni esempi per sottolineare l’importanza che ha per i distretti superare
l’individualismo imprenditoriale ed affrontare un’azione di riqualificazione
dell’ambiente locale, accantonare la logica della crescita estensiva per abbracciare
quella intensiva, basata sull’aumento della produttività delle risorse e non della loro
quantità.
Con l’entrata dei distretti nella catena del valore internazionale, la singola
impresa si focalizza maggiormente sulla fase del ciclo in cui gode di un vantaggio ed
esternalizza le altre, ricorrendo poi all’out-sourcing. Il rapporto con l’ambiente
circostante si mantiene e si rafforza solo se il territorio produce ciò di cui l’impresa
10 M. Porter (1990).
61
ha bisogno, altrimenti questa lo cercherà altrove. Il Veneto ha beneficiato di un
ambiente adatto allo sviluppo ma ora il vantaggio storico viene eroso da una serie di
fattori interni ed esterni per cui é indispensabile un processo di evoluzione
ambientale. Dal momento che non si può pensare di rimanere estranei al processo
di internazionalizzazione, occorre rafforzare le infrastrutture che danno competitività.
Le produzioni hanno acquisito un contenuto di innovazione superiore rispetto ad un
tempo, ne viene che per l’impresa é indispensabile poter disporre del circuito della
riproduzione della conoscenza; tale circuito é impossibile da sviluppare all’interno di
una piccola e media impresa per cui il sistema locale potrebbe qualificarsi come
distributore di tale servizio.
La piccola impresa veneta é portatrice di un modello individualistico di azione
imprenditoriale che si é retto su di un forte impulso all’autosufficienza e sul sapere
pratico, informale, posseduto per lo più dall’imprenditore stesso. Ora questo punto di
partenza deve essere integrato con l’accesso alle reti globali, sviluppando nuovi
saperi che potenzino le capacità intellettuali e comunicative delle imprese. La
svalutazione del 1992 ha favorito uno sviluppo rapido ma ha fatto dimenticare
momentaneamente la necessità di una co-evoluzione di ambiente ed imprese. Solo
acquisendo competenze esclusive nei settori emergenti ed investendo nella base
tecnologica e organizzativa, le imprese possono reggere a lungo di fronte agli
inevitabili aumenti di costo dovuti al riapprezzamento della Lira, senza perdere
quote o velocità di crescita. Deve essere vinto il naturale scetticismo
dell’imprenditore distrettuale verso gli investimenti nell’information technology, a
maggior ragione nell’attuale contesto di creazione delle strutture reticolari. L’azienda
reticolare, o il distretto nel suo insieme, ha un assetto strategico centrato sul core
business e, nelle altre attività in cui non c’è una specializzazione adeguata, ricorre a
soggetti esterni. Ciò implica che la gestione dei collegamenti fra i vari nodi faccia
aumentare i costi di gestione, a patto che non si investa in sostanziali tecnologie di
comunicazione. In tal caso esse rappresenterebbero la condizione per la riduzione
dei costi di transazione e per il conseguente ampliamento della rete su scala
mondiale.
62
Paradossalmente il Veneto registra una carenza nei sistemi tecnologici di
comunicazione pur essendo già stata sperimentata altrove la convenienza di
un’organizzazione innovativa e di una tecnologia all’avanguardia. Applicando le
moderne tecnologie comunicative, quindi non solo telefono, fax e posta elettronica,
si può costruire un’organizzazione incentrata sul lavoro per progetti e sulla
valutazione per obiettivi, che responsabilizza i dipendenti e permette maggiore
autonomia gestionale. Le cause della scarsa diffusione delle tecnologie di rete nelle
piccole e medie imprese venete é da ricondurre a fattori di diverso ordine. Prima di
tutto, l’offerta di connettività e le soluzioni informatiche sono limitate, cioè si tratta di
pacchetti standard che non soddisfano a pieno le esigenze specifiche delle imprese
in questione. Ciò é particolarmente importante perché, vista la numerosità dei
soggetti della filiera produttiva da coinvolgere, la soluzione offerta deve essere
articolata e specifica , progettata su misura per le necessità contestuali11. Dal lato
della domanda, gli imprenditori hanno una concezione del lavoro difficilmente
conciliabile con le trasformazioni virtuali impostate dalla nuove tecnologie e non
hanno una chiara consapevolezza dell’incidenza dei costi di comunicazione e di
transazione nella competitività globale. Il mancato incontro fra domanda e offerta é
un handicap del sistema verso la costruzione di un territorio virtuale che si basi sulla
condivisione di progettualità comuni piuttosto che di solo spazio fisico.
Nell’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese ha più peso la
dimensione processuale e sperimentale rispetto a quella formalizzata in
pianificazione strategiche. L’imprenditore veneto ha, nel corso degli anni, imboccato
la strada dell’estero, per ricercare migliori opportunità di sviluppo, non seguendo
una logica coerente e premeditata ma lasciandosi guidare dalle scelte di chi era già
presente in quel determinato mercato e dal suo fiuto. Il “fiuto dell’imprenditore” ha
condizionato le scelte di export più di qualsiasi variabile tecnico-economica e ha
portato ad una conoscenza dei mercati e delle dinamiche di internazionalizzazione
basata sull’esperienza e quindi sulla sperimentazione. Anche perché le imprese di
piccole dimensioni non hanno avuto grandi possibilità di conoscere direttamente i
11 S. Micelli e L. DE Pietro (1997).
63
vari mercati e di adottare la soluzione esportativa migliore, spesso si sono inserite
all’estero delegando ad intermediari indipendenti molta parte delle loro attività
commerciali. I vantaggi iniziali in termini di costo hanno portato ad una prima
penetrazione dei mercati esteri senza grandi distinzioni calcolate fra paese e paese,
al massimo la segmentazione delle esportazioni in più stati era la logica
conseguenza della riduzione del rischio associato ad una eccessiva concentrazione
in un solo mercato. Si parla di esportazione perché era ed é tuttora la più diffusa fra
le vie all’internazionalizzazione.
L’apertura verso l’esterno del distretto ha riguardato per lungo tempo solo la
fase commerciale dell’attività economica delle imprese venete; perciò si sono
sviluppate molteplici modalità di presenza nei mercati esteri concernenti
l’esportazione. L’esportazione si é configurata in diverse forme in base al prodotto e
al mercato di destinazione. La forma più diffusa é senz’altro quella indiretta , che
implica un minor rischio d’investimento e una penetrazione più veloce perché ci si
affida all’abilità e all’estensione dell’impresa intermediaria. I canali per l’esportazione
indiretta sono molteplici e si differenziano secondo la complessità
dell’intermediario12 (l’importatore-distributore, l’agente di vendita, l’agente di
acquisto, le trading company, ecc.).
Un’altra forma di esportazione é quella diretta, che permette un maggior
controllo da parte del produttore che segue i propri beni fino al dettaglio e che quindi
ne trae informazioni di ritorno per modifiche produttive. Il rappresentante dipendente
infatti negozia in nome e per conto dell’azienda fungendo così da tramite fra questa
e i clienti esteri. Filiali e succursali sono utilizzate da imprese che hanno una
produzione elevata e una capacità finanziaria adeguata a sostenere i costi maggiori
di una struttura stabile. Invece, le piccole imprese, se producono beni
complementari, si avvalgono di associazioni di esportatori, altrimenti ricorrono a
consorzi per l’export che le affiancano nell’intera attività.
Le forme di internazionalizzazione commerciale non esauriscono le possibilità
di coinvolgimento di un’impresa con l’estero. Esiste tutta una serie di “forme nuove
12 A. Foglio (1993).
64
di internazionalizzazione” che si concretizzano in tipologie non mercantili di
presenza in mercati internazionali, vale a dire investimenti diretti all’estero, joint
ventures, accordi tecnologici e costruzioni di reti commerciali13. Il processo di
delocalizzazione sopracitato si sostanzia in questa forma di azioni, infatti gli
investimenti diretti all’estero mirano all’acquisizione di attività produttive in suolo
straniero, le joint ventures sono associazioni temporanee fra imprese, simili a
società congiunte o in coproprietà, per la realizzazione di una singola opera (i
partners si dividono i costi, il know how, i brevetti e gli impianti), gli accordi
tecnologici riguardano la cessione di licenze e di know how , usualmente in paesi
con economie molto protette, e i piggy back sono degli accordi di distribuzione con
cui si usufruisce della rete distributiva di un’impresa già insediata nel territorio.
Il Veneto ha puntato massicciamente sull’internazionalizzazione del primo tipo
e solo negli ultimi anni si sta verificando un aumento dell’interesse verso le forme
nuove che riguardano più propriamente la produzione. L’Italia nel suo complesso é
passata solo negli anni ‘90 dalla posizione di importatore di capitali destinati
all’acquisizione di attività produttive a paese esportatore14. Negli ultimi anni si
segnala una tendenza alla diminuzione del grado di concentrazione delle
partecipazioni italiane in imprese estere, dovuto, oltre che al minor dinamismo dei
grandi gruppi industriali, all’aumento della presenza, tra gli investitori, di piccole
imprese e di gruppi di dimensioni medio-grandi, operanti nei settori competitivi
dell’Italia. Anche i settori che caratterizzano i distretti industriali veneti, pur
risultando strutturalmente fra i meno interessati dagli Ide sia in uscita che in entrata,
hanno evidenziato negli anni ‘90 segnali di dinamicità, soprattutto in direzione
dell’Europa Orientale e dei nuovi mercati asiatici. Tuttavia nel 1992 solo sei imprese
su cento avevano costruito, o erano in procinto di farlo, relazioni di vera e propria
divisione produttiva del lavoro.
13 B. Anastasia (1995). 14 Il saldo cumulato tra investimenti diretti all’estero (Ide) in uscita e in entrata é diventato positivo non solo grazie alla maggiore apertura internazionale dei capitali italiani ma anche a causa della caduta di interesse degli investitori esteri per il nostro paese.
65
I settori più attivi nella politica di delocalizzazione produttiva all’estero sono
risultati a livello regionale quelli del tessile-abbigliamento e delle calzature (esclusa
la produzione di scarpe ad alta qualità della Riviera del Brenta). Tali settori
presentano dei vantaggi competitivi nella loro collocazione in Paesi con basso costo
del lavoro in quanto sono labour intensive e dotati di tecnologie facilmente
acquisibili, e quindi esportabili. L’Osservatorio regionale nel 1993 ha svolto
un’indagine sulle delocalizzazioni estere nell’abbigliamento-maglieria: su 794
imprese considerate, le lavorazioni decentrate ammontavano a 2.060 mld di Lire, il
23,1% della produzione totale, di cui il 74,1% a laboratori veneti, il 13,3% a
laboratori italiani e il 13,3% all’estero (166 MLD di produzioni decentrate al netto
della materia prima e 274 MLD completamente decentrate)15. Il decentramento in
questione riguarda soprattutto le imprese più grandi e le fasi iniziali e intermedie del
ciclo produttivo. Le ragioni sottostanti una tale logica delocalizzativa si riconducono
al processo di natural resource seeking, cioé al reperimento di risorse a basso
costo16, ma non sono le uniche motivazioni che possono spingere un produttore
all’estero. In alcuni casi ricorre il market seeking, ovvero la ricerca di una presenza
sostanziale nei mercati più importanti, oppure l’efficiency seeking, che mira a una
razionalizzazione della struttura produttiva, od infine lo strategic assat seeking, vale
a dire il tentativo di accesso ad assetti complementari di rilevanza strategica. I Paesi
oggetto di insediamenti produttivi sono stati soprattutto quelli dell’Europa orientale,
confermando il cosiddetto “effetto Muro di Berlino” (la caduta del regime comunista
ha accelerato i processi di internazionalizzazione e ne ha orientato i flussi).
Ricollegabile all’internazionalizzazione produttiva succitata é il traffico di
perfezionamento passivo, o import strategico, che consiste nella fornitura di
semilavorati ad un terzista estero e nella reimportazione dei prodotti finiti per la
commercializzazione. Non si tratta di vera e propria importazione ma di esportazione
temporanea, soggetta a norme doganali particolari. Il traffico di perfezionamento
passivo é stata una delle prime forme di internazionalizzazione del tessile-
15 E. Scarso (1996). 16 I margini di convenienza sono comunque inferiori ai differenziali salariali perché i livelli produttivi sono più bassi ed entrano nel calcolo costi aggiuntivi.
66
abbigliamento, che non ha in ogni caso interrotto il legame fra fasi di lavorazione a
monte e a valle perché sussisteva l’obbligo dell’utilizzo di materia prima europea. Si
capisce così perché il rapporto import/export si sia mantenuto costante nonostante il
forte incentivo dato al secondo dalla svalutazione del 1992. L’import strategico
comporta delle conseguenze negative in termini di una riduzione del valore aggiunto
della produzione nazionale, e di un aumento della competitività fra fornitori, spesso
a detrimento di quelli tradizionali. I Paesi eletti come meta preferenziale sono
sempre quelli dell’Est europeo, perché hanno una tradizione industriale preesistente
(rafforzata dalle già consolidate delocalizzazioni tedesche), livelli di costo inferiori
rispetto all’Europa occidentale e sono prossimi geograficamente.
Il processo di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese dei
distretti veneti non può essere considerato indipendentemente dall’azione pubblica
di sostegno, perché la singola unità produttiva dovrà essere supportata dal proprio
sistema-paese. L’internazionalizzazione si riscontra nell’unificazione su scala
mondiale del circuito di produzione, circolazione ed uso delle conoscenze , ma le
piccole imprese hanno volumi di produzione troppo bassi per potersi caricare dei
costi di accesso alle informazioni specializzate. I costi di produzione delle
conoscenze (sono sunk costs) sono insostenibili per una singola impresa e i prezzi
di utilizzo delle conoscenze prodotte sono bassi perché non ci sono forte barriere di
protezione. Ci si trova così di fronte a una market failure: oggi la conoscenza é
essenziale per innalzare la competitività e far funzionare bene i mercati, ma mercati
ed imprese non sono istituzioni adatte a produrla, c’è bisogno di un intervento
regolativo esterno.
In quest’ottica rientra la riorganizzazione delle Camere di Commercio
approntata dalla legge 580/1993, che ristruttura tali enti per garantire una migliore
attività di sostegno alle imprese17. I servizi per l’internazionalizzazione offerti dalle 17 Legge 29 /12/1993 n.580, art.1: “... enti autonomi di diritto pubblico che svolgono, nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza, funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese curandone lo sviluppo nell’ambito delle economie locali”; descrivendo in generale le competenze delle riformate Camere di Commercio,l’art. 2 parla di “funzioni di sviluppo e di promozione degli interessigenerali delle imprese nonché, fatte salve le competenze attribuite dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato alle Amministrazioni statali e alle Regioni, funzioni nelle materie amministrative ed economiche relative al sistema delle imprese”.
67
Camere di Commercio riguardano l’erogazione di informazioni, assistenza,
formazione e promozione. I principali servizi di sportello sono di varia natura,
concernendo il rilascio di certificati di origine per le merci destinate all’esportazione,
il visto di congruità dei prezzi, l’assistenza nel campo delle controversie doganali,
l’assegnazione del numero di posizione meccanografico alle imprese italiane, la
pubblicazione periodica degli elenchi, suddivisi per voci merceologiche, degli
importatori e degli esportatori delle singole provincie, ecc.
Gli Enti offrono anche la consultazione di aggiornate banche dati, le
principali delle quali sono: lo Sdoe (anagrafe ditte italiane operanti con l’estero) che
contiene le informazioni sulle imprese che svolgono un’abituale attività di
esportazione e/o di importazione; l’Itis (schede Paesi esteri), un archivio che
consente di mettere a fuoco gli elementi-base della realtà e della congiuntura
economica di ogni singolo Paese analizzato; lo Sfei che fornisce elenchi aggiornati
ed indicazioni importanti sulle principali fiere internazionali; il No.Do che permette di
ottenere informazioni sui trattamenti doganali in funzione nelle aree geografiche o
economiche di interscambio; ed infine il Top Line (inoltro personalizzato informazioni
estero), un pacchetto di software che consente di smistare e di selezionare le
notizie Sdoi (domanda internazionale di prodotti e servizi) e Sten (informazioni sui
Tender internazionali) per poterle poi indirizzare verso gli operatori interessati ai
singoli mercati e alle singole categorie merceologiche18.
Tra le linee direttrici dei servizi camerali rientra anche l’azione di sostegno
all’attività dei Consorzi export della provincia. Questa é un’iniziativa che consente di
stanziare nel bilancio camerale una somma, determinata annualmente, da erogare,
sotto forma di contributi, ai consorzi per l’esportazione legalmente costituiti tra
piccole e medie imprese industriali o artigianali operanti nella provincia. I consorzi
beneficiari devono avere per scopo sociale il sostegno delle esportazioni dei prodotti
dei consorziati e l’attività di promozione necessaria a realizzarlo. Le disponibilità
finanziarie delle singole Camere e la capacità-volontà delle aziende di organizzarsi
in consorzi sono fattori critici per la riuscita del progetto. Un’alternativa alle soluzioni
18 P. Ferrarese (1995).
68
fin qui descritte é rappresentata dalle aziende speciali inquadrate nell’ambito
camerale; queste sono aziende per lo più prive di personalità giuridica, con fini
speciali, rispetto a quelli generali delle Camere di Commercio, che richiedono
rapidità decisionale e una specifica competenza tecnica. A Vicenza, per esempio, il
settore estero-normativo viene distinto da quello estero-promozionale, e quest’ultimo
risulta affidato ad un’azienda speciale, “Vicenza qualità”, che si occupa
principalmente della subfornitura e della realizzazione di filmati settoriali (oro, tessile
e concia). A Padova, accanto al Parco scientifico-tecnologico, c’é “Promo qualità”
che gestisce la valorizzazione delle produzioni agricole e l’organizzazione di fiere19.
Nel tentativo di coordinare e di approfondire l’offerta pubblica di servizi
all’internazionalizzazione é stato dotato di nuovo statuto anche il Centro Estero
delle Camere di Commercio del Veneto (il cui compito prioritario é appunto quello di
attuare “ogni iniziativa che possa favorire l’internazionalizzazione delle imprese e
dell’economia del Veneto”). Il Centro estero veneto é riuscito a coniugare il
potenziamento dei servizi all’impresa già esistenti con la copertura di aree-settori
informativi non serviti. Come esempio si può citare il programma promozionale 1994,
dove spiccano progetti speciali come quelli denominati “Nuove repubbliche Csi”
(partecipazione a progetti Ue, a mostre settoriali e realizzazione dello sportello
Ucraina), “Peco” (progetti di affiliazioni interregionali e missioni nei paesi dell’Europa
orientale), “Sud Est Asia” (accordi di collaborazione e realizzazione dello sportello
Taiwan), “America latina” e “Subfornitura” (banche dati, osservatori, organizzazioni
di workshops, ecc.). A questi progetti si aggiungono interessanti opportunità, sempre
attraverso un sevizio informativo e di assistenza, a favore delle joint ventures nei
Paesi di nuova industrializzazione e in via di sviluppo. Inoltre al Centro estero é
stata assegnata una delle sedi dell’Eurosportello veneto, servizio informativo
decentrato della Commissione Europea che si propone come strumento per facilitare
l’inserimento delle imprese venete nel processo di consolidamento dell’Unione
europea (tra i principali servizi: consultazioni Gazzette Ue e banche dati
19 Idem.
69
comunitarie, informazioni su finanziamenti e prestiti comunitari, organizzazione di
corsi e seminari, ecc.)20.
A tal proposito non vanno dimenticati gli uffici locali di istituzioni nazionali
quali l’Ice (Istituto nazionale per il commercio con l’estero) e Mondimpresa (agenzia
che promuove programmi avanzati a livello di globalizzazione delle imprese e
fornisce assistenza tecnico-organizzativa ai soggetti più deboli). L’Ice ha in Veneto
più sedi che hanno lo scopo di sviluppare, agevolare e promuovere i rapporti
economici e commerciali italiani con l’estero, con particolare riguardo alle esigenze
delle piccole e medie imprese, dei loro consorzi e raggruppamenti, assumendo le
necessarie iniziative e curandone autonomamente la realizzazioni.
Oltre ai sevizi e alle risorse di carattere nazionale, i distretti possono
beneficiare delle azioni dell’Unione Europea, che nel 1997 ha indirizzato all’Italia
50.061 ml di Euro in fondi strutturali. Di tale somma il Veneto nel suo insieme ha
beneficiato di 1.885,4 mil di Euro concernenti tutti gli Obiettivi eccetto il primo. In
particolare, i fondi utilizzati in ambito distrettuale hanno riguardato l’Obiettivo 2, per
la riconversione delle aree in declino industriale, che rappresentavano il 10,31% del
totale nazionale21.
Ritornando all’esportazione, la principale forma di internazionalizzazione, non
ci sono dati ufficiali disaggregati per ogni singolo distretto veneto; bisogna ricorrere
ai dati Istat sull’export divisi in settori merceologici ed in provincie22 e quindi
procedere con un certo grado di approssimazione. Nel capitolo 2 si é cercato di
mappare e delimitare i principali distretti industriali veneti, ciò che ha permesso di
evidenziare la non corrispondenza fra l’estensione delle aree in questione e i confini
provinciali. Si deve quindi ricorrere ad una base provinciale per descrivere i trend di
sviluppo dei movimenti di merci da e verso l’estero. Tuttavia dalla tabella sottostante
si evince come gran parte dei primi 20 settori per esportazione nel Veneto
coincidono con quelli delle specializzazioni distrettuali. 20 Idem. 21 Anche se la regione per l’insieme degli interventi strutturali cofinanziati dall’Ue di sua precipua competenza segnalava alla fine del 1997 una capacità di assumere impegni del 36,4% ed una capacità di poco superiore al 14%. 22 Dati elaborati a cura dell’Unioncamere del Veneto.
70
Se, per ogni singola voce regionale controllassimo la corrispondente
proviciale dove é localizzato il distretto, noteremmo che buona parte delle
esportazioni totali provengono da una zona specifica. E’ il caso del settore “Argento,
oro e platino” che nel 1997 registrava 3.277,8 mld di esportazione regionale: la
singola provincia di Vicenza, sede del distretto orafo, nello stesso anno ha esportato
2.936,2 mld. Tabella n.1 Esportazioni del Veneto 1987, 1993, 1997. Primi 20 settori 1993
Valori assoluti (in mld.) Percentuali di composizione N. indice 19971987 1993 1997 1987 1993 1997 87=100 93=100
Altre macchine non elettriche 1.487,1 3.441,7 5.828,9 8,3% 9,6% 10,4% 392,0 169,4Argento, oro e platino 1.772,3 3.061,6 3.277,8 9,9% 8,5% 5,8% 184,9 107,1Altru prodotti delle industrie manifatturiere varie 674,5 1.932,7 3.575,1 3,8% 5,4% 6,4% 530,0 185,0Calzature di pelle 1.384,3 1.660,4 2.285,8 7,8% 4,6% 4,1% 165,1 137,7Altri prodotti delle industrie metalmeccaniche 748,8 1.520,4 2.622,9 4,2% 4,2% 4,7% 350,3 172,5Oggetti cuciti di fibre tessili vegetali 570,6 1.399,6 1.840,2 3,2% 3,9% 3,3% 322,5 131,5Pelli conciate senza pelo 676,8 1.308,2 2.452,1 3,8% 3,7% 4,4% 362,3 187,4Mobili in legno, di giunchi, di vimini 716,6 1.261,9 1.998,4 4,0% 3,5% 3,6% 278,9 158,4Altri apparec. per l'applic dell'elettricità e parti 400,3 1.026,3 1.797,1 2,2% 2,9% 3,2% 448,9 175,1Parti staccate di macchine ed app. non elettrici 484,3 851,2 1.477,5 2,7% 2,4% 2,6% 305,1 173,6Calzature non di pelle (esclusa gomma elastica) 447,1 766,9 797,8 2,5% 2,1% 1,4% 178,4 104,0Maglieria e calze di fibre tessili vegetali 337,9 721,7 859,1 1,9% 2,0% 1,5% 254,2 119,0Maglieria e calze di lana 507,0 656,0 666,0 2,8% 1,8% 1,2% 131,4 101,5Parti staccate di autoveicoli 390,6 640,1 663,3 2,2% 1,8% 1,2% 169,8 103,6Altri prodotti chimici organici 346,9 567,4 871,5 1,9% 1,6% 1,6% 251,2 153,6Ferri e acciai laminati 233,5 542,8 734,3 1,3% 1,5% 1,3% 314,5 135,3Lavori di pietre e minerali non metalliferi 241,7 519,4 736,7 1,4% 1,5% 1,3% 304,8 141,8Vini 213,2 493,5 948,7 1,2% 1,4% 1,7% 445,0 192,2Altre macchine utensili 213,4 469,6 605,1 1,2% 1,3% 1,1% 283,6 128,9Macchine ed apparecchi agricoli 200,3 396,3 679,2 1,1% 1,1% 1,2% 339,1 171,4Altri settori 5.813,1 12.574,2 21.472,7 32,5% 35,1% 38,2% 369,4 170,8Totale 17.860,40 35.811,9 56.190,2 100,0% 100,0% 100,0% 314,6 156,9
Fonte: elab. su dati Istat-Unioncamere del Veneto
Anche il settore delle “pelli conciate senza pelo” rileva 2.452,1 mld di
esportazioni regionali, di cui 1915,2 attribuibili alla provincia di Vicenza (distretto
conciario della Valle del Chiampo). Dai dati esposti si comprende l’importanza dei
distretti e il loro peso nell’economia regionale. I settori trainanti dell’economia veneta
sono area di specializzazione dei più influenti distretti industriali. Il trend mostrato
71
negli ultimi dieci anni é espansivo e non ha presentato un picco nel 1993, in
corrispondenza della svalutazione, per poi decrescere rapidamente. Questa é una
dimostrazione della solidità dei distretti e dei loro margini di evoluzione produttiva
nonché di internazionalizzazione commerciale. E’ infatti queto tipo di
internazionalizzazione che prenderò in considerazione per l’analisi del caso
specifico a partire dal prossimo capitolo.
PARTE II
Analisi di un caso concreto
71
4. Il distretto della calzatura della Riviera del Brenta
4.1
La genesi storica del distretto calzaturiero e la sua evoluzione fino al secondo
dopoguerra
Scendendo nello specifico della realtà di un distretto industriale, si realizza
l’integrazione degli elementi teorici e storici generali con le linee di sviluppo locali
precipue di un determinato contesto. Nella genesi storica e nell’evoluzione
strutturale dell’area produttiva della Riviera del Brenta (compresa nei sette comuni
di Stra, Fiesso d’Artico, Fossò, Vigonovo, Noventa Padovana e Camin, Saonara,
Vigonza) si riconoscono i fattori distintivi del distretto industriale veneto e si possono
ipotizzare le linee di sviluppo internazionalizzanti comuni a più ambienti regionali. Il
distretto in questione é uno dei più conosciuti ed importanti dell’intero panorama
italiano, nonché internazionale. Si tratta di un distretto consolidato con un presente
contraddistinto da una solida organizzazione produttiva (nel 1997 sono stati fatturati
2.652 miliardi di lire) ed un tasso di esposizione all’estero fra i più alti di tutto il
Veneto (sempre nel 1998, l’86% della produzione comune é stato esportato) e con
alle spalle un secolo di storia1. Risale al 1898 la fondazione da parte di Giovanni
Luigi Voltan della prima industria calzaturiera della zona, che ha segnato il
passaggio da una concezione prettamente artigianale del settore ad una industriale.
L’area in cui si svilupperà il moderno distretto era paragonabile economicamente e
socialmente alla gran parte dei territori agricoli della pianura veneta.
Le condizioni di vita nella seconda metà dell’800 erano legate alla mera
sussistenza perché il territorio non offriva grandi risorse e la classe proprietaria
1 Nel 1998 si sono tenute una serie di manifestazioni per celebrare i 100 anni di industria calzaturiera dislocata lungo la Riviera del Brenta.
72
languiva in un atteggiamento per niente innovativo. L’area considerata non
includeva centri abitati di apprezzabili dimensioni ma solo piccoli centri rurali,
economicamente stagnanti, con scarse capacità attrattive.
Le attività artigianali avevano carattere tradizionale e non riuscivano a fare il
salto verso l’organizzazione industriale2. Fra le varie categorie di artigiani, quella dei
calzolai era una delle più diffuse in tutta Italia, nelle città e nelle campagne; nelle
campagne doveva essere integrata con altre fonti di reddito (i tratti distintivi della
figura del calzolaio in tutta Europa erano quelli dell’indipendenza e della povertà)
ma era in ogni caso conveniente perché l’attrezzatura di base aveva un costo
modesto e vi era la possibilità di lavorare in casa. Nel 1879, la provincia di Venezia
contava 1.600 lavoratori della scarpa divisi nelle varie sottospecializzazioni3 e tutti
formati grazie all’apprendistato in bottega. Le botteghe centrali dei paesi erano
luoghi di vita sociale , secondi solo alle locande, aperti e disponibili per la
conversazione durante tutta la giornata e i calzolai avevano un’immagine di artigiani-
intellettuali (risultavano sempre più alfabetizzati della media e inclini alla lettura).
Il destino dei calzolai e della Riviera subì un mutamento con l’attività di
Giovanni Luigi Voltan (1873-1941). Il padre possedeva due botteghe di calzolai,
aveva un negozio in affitto a Venezia e svolgeva attività di mediatore nelle
compravendite di beni immobili, cosa che consentì a G.L. Voltan di frequentare il
liceo e di intraprendere nel 1896 un viaggio negli Stati Uniti. L’America, ovvero gli
Stati Uniti, venivano già considerati come il futuro del capitalismo mondiale;
Alessandro Rossi, il fondatore del Lanificio Rossi di Schio, sosteneva con forza di
riflettere sulla concorrenza transatlantica e di imparare da quel pragmatismo
economico. Così G.L. Voltan emigrò con spirito intraprendente, sognando
opportunità di impiego e di affermazione professionale nel nuovo mondo. Si diresse
nella zona di Boston, una delle principali aree calzaturiere americane, dove la 2 La moda tardo ottocentesca degli scialli ricamati fece sorgere a Fiesso d’Artico un laboratorio-scuola di ricamo, che nonostante il successo presso i negozi veneziani non seppe passare dal laboratorio alla fabbrica (Elvio Tuis, 1998). 3 I “scarpari” si suddividevano in : “calegheri”che lavoravano su commissione e su misura per il cliente o su ordinazione per il negozio; l’artigiano che confezionava scarpe in serie; il cibattino che si limitava a riparare le scarpe rotte; il “savataro”che produceva scarpe morbide che avvolgevano solo la parte anteriore del piede; e l’artigiano più evoluto che aveva fatto il salto verso la piccola fabbrica.
73
produzione era già fortemente industrializzata con un’elevata divisione del ciclo
produttivo e soprattutto con un alto grado di meccanizzazione delle fasi di lavoro. Le
condizioni professionali non furono affatto quelle immaginate e, dopo un anno di
permanenza e di esperienza all’interno dell’organizzazione produttiva americana,
tornò in patria senza “aver fatto fortuna”.
A distanza di pochi mesi Voltan diede avvio alla sua attività imprenditoriale a
Stra, iniziando con un piccolo laboratorio che nel giro di alcuni anni si sarebbe
trasformato in una grande fabbrica di calzature. Iniziò una fase di intensa attività
artigianale e commerciale per la quale, date le difficoltà di accesso al credito
bancario, ricorse ai circuiti parentali e relazionali, sempre molto importanti nelle fasi
di avvio dell’esercizio imprenditoriale. La ricerca delle risorse finanziarie divenne
sempre più essenziale man mano che l’attività si caratterizzava per un’intensa
meccanizzazione. Il suo, nella regione, rappresentava un tentativo innovativo di
meccanizzazione dell’attività calzaturiera, ma in Inghilterra già nel 1814 apparvero le
prime macchine applicate alla lavorazione delle scarpe. Il primo stabilimento
meccanizzato in Italia comparve a Vigevano nel 1872 ma rimase un episodio isolato,
per cui Voltan si trovò in una posizione eminente nel settore, ancora caratterizzato
dalla componente artigianale. Riunendo alcuni lavoranti dei negozi del padre ed
importando le prime macchine per cucire, Voltan aumentava i ritmi e la produttività
del lavoro senza sopprimere l’intervento manuale al quale sarebbe rimasto, nel
tempo, l’insostituibile compito di caratterizzare qualitativamente il prodotto.
La fabbrica qui non rappresentava, come nei proto-distretti tessili vicentini, il
risultato di una lenta e graduale evoluzione, ma l’irruzione di un moderno sistema
produttivo in un contesto ancorato alle attività agricolo-artigianali4. Il calzaturificio
Voltan fabbricava indistintamente scarpe da uomo, da donna ed anche pantofole,
con una specializzazione nei prodotti per bambini. Lavorava in parte su
commissione e in parte per magazzino. Legata alla produzione a magazzino era
l’apertura di un negozio dove venivano vendute le scarpe di produzione Voltan. Era
4 Ne é una prova l’intestazione della carta della ditta che riferiva: “Luigi Voltan Fabbricante calzature dei sistemi più colossali finora conosciuti - Venezia Stra”.
74
un’anticipazione della creazione della successiva rete di vendita diretta al pubblico
secondo tecniche mutuate dall’esperienza americana. La forte abbondanza di
manodopera, a differenza del marchigiano (altra area calzaturiera), spingeva a
realizzare la maggior parte delle componenti della calzatura all’interno della
fabbrica. Gli approvvigionamenti di materie prime avvenivano nell’area veneziana,
padovana e al massimo brianzola. La presenza a Padova di fabbriche di cuoio e di
pellami, di depositi e negozi specializzati in articoli per il settore svolse
un’importante funzione di supporto al decollo delle lavorazioni della Riviera.
Il forte aumento delle importazioni di calzature prodotte in serie in paesi come
la Gran Bretagna e gli Stati Uniti spinse Voltan a puntare sulla meccanizzazione
della propria azienda e a darle la struttura di una vera fabbrica industriale. Una volta
pero' superata l’avversione del consumatore verso una calzatura prodotta in serie,
rimaneva da diffondere la stessa in più punti vendita. Voltan adottò un nuovo
sistema distributivo creando una rete di punti-vendita diretta, dislocati soprattutto
nell’Italia settentrionale, nei quali veniva eliminato ogni passaggio intermedio fra
produttore e consumatore, con riduzioni dei prezzi fino al 40%. Il numero dei negozi
crebbe fino alla prima guerra mondiale fino a raggiungere 35 punti vendita, dislocati
in tutte le maggiori città del Triveneto (solo a Venezia ve ne erano ubicati 4 ).
Gli anni del conflitto bellico furono molto duri per i punti vendita, anche perché
Voltan in questo periodo non era in grado di rifornirli essendo impegnato nel cogliere
la grande opportunità della fabbricazione di scarpe militari per l’esercito italiano.
Infatti la prima guerra mondiale offrì all’industria calzaturiera italiana un’eccezionale
possibilità di crescita, della quale seppero approfittare le imprese più attrezzate ed
efficienti. In tutti i settori interessati alle forniture belliche avvennero profonde
trasformazioni: si ampliò la base produttiva e si estese l’innovazione tecnologica nei
comparti industrialmente poco avanzati, mentre i settori più maturi (es. il tessile)
sopportavano una sollecitazione principalmente quantitativa. In questi casi, la guerra
fu uno spartiacque, innalzando di colpo il livello delle potenzialità produttive.
La situazione era comunque difficile e anche la Voltan dovette riorganizzare il
sistema di fornitura spostando l’asse dal mercato tedesco a quello italiano. Nel
75
comparto delle calzature civili la situazione ristagnava date le carenze di materie
prime e la necessità di dare priorità assoluta alle esigenze dell’esercito. Lo stato
fissò i tipi di calzatura per uomo, donna, bambini e ragazzi, le materie prime con cui
dovevano essere prodotti, le modalità di fabbricazione, i prezzi di costo e anche
quelli di vendita. Tuttavia, nel suo insieme, il calzaturiero italiano uscì dal periodo
bellico fortemente rafforzato a livello produttivo ad anche più autonomo. Le vicende
belliche segnarono un irreversibile processo di dissociazione degli interessi
all’interno di un settore solo apparentemente omogeneo: calzaturieri, commercianti
di cuoio e conciatori si accusarono a vicenda di voler trarre vantaggio dalla
situazione a scapito degli altri comparti e così crearono separate associazioni di
categoria (nel 1925 fu fondata l’Anci, l’Associazione nazionale dei calzaturieri
italiani)5.
Consolidatosi durante la prima guerra mondiale, il calzaturiero italiano
mantenne un trend ascendente per tutti gli anni ‘20 beneficiando anche delle nuove
tariffe protezionistiche adottate nel 1921. La produzione interna salì dai 16 milioni di
paia di calzature del 1913 ai circa 26 milioni del 1926, quando per la prima volta il
saldo della bilancia commerciale del settore presentò un modesto saldo positivo.
Dopo la guerra ebbe importanza l’affermazione dell’incidenza della variabile moda
per la calzatura quale stimolo alla diversificazione della produzione tradizionale. Chi
esportava doveva puntare sulla calzatura di lusso e alla moda perché in quella
economica non avrebbe potuto competere con la ben più sviluppata industria
straniera. Le condizioni del tempo erano però tali da consentire di esportare solo a
pochissimi produttori che potevano avvalersi di una collaudata organizzazione e di
una larga rete di rappresentanti. Il settore si era infatti configurato con caratteristiche
specifiche e presentava aree produttive specializzate e la convivenza di una ristretta
fascia di grandi produttori standardizzati con una miriade di piccole imprese.
Nel Veneto le ditte specializzate nel calzaturiero passarono da 1.612, con
6.090 addetti, nel 1911 a 6.264, con 12.931 occupati nel 1927 mostrando così che
5 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).
76
gli addetti medi per unità erano 3,8 nella prima rilevazione e solo 2 nella seconda.
La Riviera del Brenta conobbe negli anni ‘20 i primi fenomeni di germinazione
produttiva come dimostrano i censimenti. Nel 1927 l’attività calzaturiera brentana si
componeva di 14 ditte, una nella classe tra i 101 e i 250 addetti e le altre
variamente ripartite nelle classi dimensionali inferiori. Nel 1937 i calzaturifici
industriali erano 28 con 646 occupati totali e una dimensione media di 23 addetti.
Chi, nel distretto, sceglieva di abbandonare il lavoro dipendente non poteva iniziare
un’attività imitando il prodotto in cui precedentemente aveva affinato il mestiere,
perché le calzature Voltan avevano un grado di standardizzazione non replicabile in
piccoli laboratori. Così chi tentava l’attività autonoma doveva ricominciare dalla
bottega, oppure mantenere un legame con l’ex datore di lavoro ed occuparsi di
lavorazioni decentrate dalla grande fabbrica. La decentralizzazione delle fasi ed il
ricorso al lavoro a cottimo fu continuato anche dai nuovi imprenditori. Alla fine degli
anni ‘30, nel tipico stabilimento brentano veniva perfezionato solo il 20% del lavoro
complessivo; qui si creavano i modelli, si tagliavano i materiali, si preparava la
tomaia ma il resto veniva realizzato all’esterno dai singoli artigiani.
E’ in questo informe decentramento, che richiama ad un’organizzazione del
lavoro preindustriale, che si inserì una sorta di micro-economia sommersa, spesso
integrativa del reddito contadino; un’attività residuale che nasceva dal tentativo di
sfuggire dai vincoli di un’economia povera e marginale. Germinò all’interno dell’area
una miriade di iniziative individuali tutte incentrate sulla calzatura, l’unica forma di
produzione manifatturiera presente in loco. Lo stesso artigiano, dovendo affrontare
una molteplicità di linee e di materiali a lui prima sconosciuti, affinò capacità e gusto
estetico e iniziò a svincolarsi dal lavoro di terzista e a proporre ai negozianti di
Padova e di Venezia le sue creazioni6. Inizialmente le difficoltà di proporsi come
interlocutore credibile furono forti, ma poi, grazie alla qualità delle lavorazioni e ai
ritmi di lavoro massacranti, riuscì a ritagliarsi una propria presenza nel mercato. Da
qui all’assunzione di qualche lavorante, al trasferimento in una bottega un pò più
grande e all’introduzione di pochi macchinari il passaggio é stato breve. Tuttavia
6 Idem.
77
delle unità produttive così semplici erano particolarmente soggette alle variazioni
delle condizioni del mercato e molte furono danneggiate pesantemente dalla Grande
Depressione.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale avvenne in un regime di autarchia,
in cui le corporazioni fasciste avevano già un forte controllo sulle principali
fabbriche. I prodotti esteri erano stati sostituiti con quelli nazionali, per cui gli scarsi
quantitativi di pellame vennero utilizzati per produzioni militari.
4.2
L’esplosione delle sinergie distrettuali
Dal secondo dopoguerra, il rinnovamento politico, l’entusiasmo per un futuro
senza conflitti bellici, la voglia di riscatto, il tutto inserito in un clima di solidarietà
familiare e sociale e di tenuta di valori della morale cattolica, aprirono la strada ad
una nuova configurazione socio-economica del distretto. Il mondo agricolo comincio'
a superare la soglia di sopravvivenza grazie all’apporto di redditi extra, provenienti
da impiego in calzaturifici locali o nel polo industriale di Marghera. Ed é proprio
questo mondo contadino che ha fornito accanto a lavoro a basso costo, anche una
cultura basata sull’adattamento e l’aggiramento di grandi difficoltà quotidiane, nella
continua sfida con il rischio.
Le aspettative di una rapida ripresa andarono tuttavia deluse, poiché la
domanda interna rimase a valori minimi a causa delle difficoltà della Ricostruzione
del Paese, della disoccupazione dilagante e del permanere di redditi di pura
sussistenza. La domanda dei prodotti calzaturieri, come di quelli tessili, era
estremamente sensibile ai dati congiunturali, se a ciò si aggiunge il massiccio arrivo
di calzature in cuoio dagli Stati Uniti nel quadro del piano Unrra, la situazione
appare nella sua reale drammaticità7.
La debolezza strutturale del calzaturiero brentano, incentrato su poche
imprese e su un numero variabile di piccoli e piccolissimi artigiani, se costituiva un
7 G. Roverato (1996).
78
punto debole ne rappresentò, contraddittoriamente, anche un elemento di forza.
Quando infatti, nella seconda metà del 1948, la ripresa della domanda cominciò
anche in Italia, sia le imprese brentane che i lavoratori indipendenti furono in grado
di recuperare presto le nicchie di mercato precedentemente occupate sul mercato
interregionale. Le contenute dimensioni aziendali permisero con più agilità che non
ai produttori di Vigevano, maggiormente meccanizzati e standardizzati, di lavorare
per piccole serie, servendo una domanda che andava differenziandosi quanto a
gusto e a tipologia di calzatura. Nel giro di pochi mesi riprese corpo la filiera che
legava laboratori terzisti e lavoranti domiciliari part-time imprese formalizzate. Fino
al 1948, data la dipendenza dai consumi popolari e l’ancora scarso potere
contrattuale nei confronti degli organi di governo, il calzaturiero italiano attese la
ripresa dell’economia nazionale per usufruire dell’aumento dei consumi. Nel 1947 il
Governo decise di vietare ai conciatori l’esportazione delle pelli e con l’avvio del
Piano Marshall si stabilì che il 60% delle pelli giunte in Italia venisse consegnato
direttamente agli industriali calzaturieri. Così nel 1948 la domanda riprese vigore e
con essa la produzione calzaturiera.
Il settore della calzatura presentava fermenti vitali ma cresceva in modo
disordinato; le unità produttive italiane nel censimento del 1951 risultavano inferiori
a quelle del 1937 in quanto a numero e occupati ma, in compenso, i calzaturifici
industriali erano raddoppiati. La Lombardia rimaneva la regione più specializzata nel
comparto ma cresceva anche il peso delle Marche, con la provincia di Ascoli, e della
Toscana. La Riviera del Brenta non compariva come una realtà importante a causa
della sua suddivisione nelle due provincie di Padova e di Venezia, tuttavia essa
poteva vantare nel 1951 ben 278 imprese, anche se più del 90% erano unità
artigianali. La scelta di intraprendere un’attività autonoma nel calzaturiero era
l’unica possibilità per avviare un miglioramento reale delle condizioni di vita.
Ormai il territorio locale aveva assorbito una certa cultura specifica sulla
produzione di calzature. Alle origini del distretto infatti stava la combinazione del
sapere tacito sedimentato nelle pratiche dei laboratori artigianali e del sapere
codificato incorporato nelle macchine, nelle tecniche produttive e nelle formule
79
organizzative introdotte dall’impresa Voltan. Il calzaturificio Voltan svolse la funzione
di una vera e propria scuola, così le conoscenze codificate vennero a mescolarsi
con quelle pratico-contestuali socializzate attraverso il rapporto diretto maestro-
apprendista. Questo connubio fra le due forme di sapere produsse già nel 1923 la
scuola per artigiani “Ottorino Tombolan Fava”, promossa dall’Associazione
nazionale combattenti di Stra e finanziata da Voltan e dai comuni limitrofi8.
Inizialmente l’impreparazione didattica venne ovviata con la collaborazione con un
istituto artistico-industriale di Padova, dal quale venne un insegnante per i corsi.
Successivamente la scuola assunse una propria autonomia e una specializzazione
nel settore calzaturiero; le sovvenzioni pubbliche le permisero di estendere i corsi,
sempre impartiti durante il fine settimana, e di accogliere nel 1938 140 allievi. Molti
degli allievi erano operai delle aziende maggiori, apprendisti di bottega o lavoranti a
domicilio e per tutti il frequentare la scuola festiva rappresentava un investimento
formativo in un settore in crescita.
Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 si preparò il boom del calzaturiero italiano, si
migliorarono le tecniche commerciali e si imparò a beneficiare della formazione del
Mercato comune europeo. In Italia il tenore di vita era migliorato ma il reddito pro
capite rimaneva comunque al di sotto di quello dei paesi europei più evoluti (nel
1952 l’Italia era all’ottavo posto per il consumo pro capite di calzature), ciò che
faceva puntare ai produttori di ampliare l’esportazione. Nel processo di
qualificazione del prodotto in vista di una concorrenza europea più forte, l’antica
tradizione artigianale poteva essere fonte di vantaggiose opportunità se si riusciva a
puntare sulla moda e sulla qualità. Ciò che fece un crescente numero di operatori
della Riviera del Brenta, mettendo a profitto l’elasticità della struttura produttiva
assicurata dalla piccola impresa e dal lavoro a domicilio, fonte anche di riduzione
dei costi vista la sua frequente illegalità. Le calzature della Riviera trovarono
favorevole accoglienza nel mercato tedesco grazie all’accuratezza del prodotto,
all’eleganza della forma e della linea, alla competitività del prezzo; infatti la
8 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).
80
Germania federale sarebbe diventata il più importante mercato estero per i
calzaturieri della zona, arrivando ad assorbire il 50% del totale delle vendite.
Nel 1955 fu costituito il Centro nazionale studi sulla calzatura, con lo scopo di
analizzare i mercati di sbocco e di indirizzare la moda sulla linea dell’Italian style.
Era proprio lo stile italiano delle calzature ad attirare gli acquirenti stranieri nei
negozi esteri o in quelli nazionali durante le vacanze. La produzione italiana di
calzature esportate passò da 1,212 milioni nel 1951 ai 19,205 del 1957; nella
Riviera le calzature esportate nel 1955 erano solo il 16% della produzione ma nel
1962 erano già arrivate al 50%9. Il successo della scarpa brentana all’estero era
dovuto all’eccellente rapporto qualità-prezzo di calzature per donna di tipo fine e
medio -fine. La reputazione di tali calzature, basata su stile-qualità-prezzo, crebbe
velocemente a livello internazionale e i flussi esportativi si diressero oltre che in
Germania anche verso Svizzera, Belgio, Olanda, Paesi scandinavi, Gran Bretagna
e Francia.
Strumenti essenziali per far conoscere il prodotto italiano al resto del mondo
furono le fiere internazionali del settore. La Riviera del Brenta organizzò nel 1955 la
prima edizione della “Mostra della calzatura” a Villa Pisani di Stra. La già ricordata
rilevanza dal punto di vista promozionale non esaurisce l’importanza di una tale
mostra perché essa rappresenta anche un essenziale momento di progettazione
collettiva. Cooperazione e collaborazione, fattori alla base di una crescita
distrettuale, cominciavano a manifestarsi in azioni istituzionalizzate. Si vedeva infatti
nella cooperazione e nell’associazionismo dei fondamentali strumenti attraverso i
quali le piccole imprese e i lavoratori avrebbero potuto beneficiare dell’espansione
del mercato. L’obiettivo di creare una coscienza unitaria negli industriali della zona
non era però cosa facile. La mostra fu proprio il primo passo per riunire i produttori
del Brenta in una pubblica manifestazione, per dar loro coscienza della propria forza
nel presentarsi unitariamente. Dei 60.000 abitanti della zona, il 70% era impiegato
direttamente o indirettamente nell’industria calzaturiera; 1/3 delle calzature venivano
esportate: dopo solo tre anni di collaborazione, iniziata grazie alla “Mostra della
9 Idem.
81
calzatura”, si cominciavano a raccogliere i frutti, anche in termini di successo
ottenuto dalle “collettive” all’estero. Nel 1959 la Riviera del Brenta era ormai al
secondo posto in qualità di produttrice di calzature in Italia dopo l’area di Vigevano.
L’azione collettiva sfociò nel 1961 nella creazione dell’Associazione
calzaturifici della Riviera del Brenta (Acrib) con finalità sindacali, di assistenza, di
consulenza e di promozione del prodotto nel mondo. La sua utilità si poté constatare
praticamente quando sorsero problemi per la partecipazione alla fiera internazionale
di Düsseldorf. Infatti la fiera consentiva la partecipazione solo a ditte che, nello
stand assegnato, presentassero singolarmente e non in gruppo le proprie
produzioni, escludendo inoltre i rappresentanti di vendita. L’Acrib studiò il caso con
la Camera di Commercio di Venezia e decise di affittare un salone nelle prossimità
della fiera dove esporre i propri prodotti in concomitanza con la manifestazione
principale.
La soluzione funzionò fino al 1977, anno in cui il regolamento della fiera fu
modificato permettendo ai calzaturieri del Brenta di affittare un salone all’interno
dell’esposizione che potesse ospitare 120 imprese. Sempre nell’ambito dell’attività di
cooperazione e di promozione dello sviluppo del distretto nel suo insieme, va
inserita la riapertura nel 1947 della scuola per artigiani “Ottorino Tombolan Fava”,
chiusa durante la seconda guerra mondiale. I corsi festivi miravano a fornire agli
allievi le indispensabili nozioni teoriche e pratiche per iniziare un’attività lavorativa
come operai qualificati o specializzati oppure di proseguire negli studi superiori. Il
successo iniziale é testimoniato dalle iscrizioni che nel 1958 arrivarono a 312,
concentrate soprattutto nella specializzazione per calzolai. L’istituto era l’unica
scuola in Italia riconosciuta dallo stato per la formazione professionale dei lavoratori
dell’industria calzaturiera. Tuttavia la difficoltà nel reperimento di finanziamenti, la
concorrenza esercitata da altri corsi più generalisti in provincia, l’aumento della
cultura con l’introduzione delle medie obbligatorie e l’attrazione esercitata sui
giovanoi da Marghera segnarono il declino della scuola negli anni ‘60 (il numero
degli iscritti toccò quota 29 nel 1973). La ripresa si ebbe solo con una più spinta
82
qualificazione degli insegnamenti nel settore calzaturiero, ciò che le permise din
raggiungere i brillanti risultati odierni.
L’internazionalizzazione del distretto procedette più rapidamente con la
nascita nel 1957 della Comunità Europea: nel solo comparto calzaturiero le tariffe
doganali vennero ridotte del 30%. L’industria calzaturiera italiana aveva il numero
più alto di imprese nel settore rispetto ai partner europei ma molto frammentate (una
media di addetti per impresa bassa), per cui la maggiore dinamicità italiana veniva
frenata dalla scarsa complessità organizzativa. Tuttavia le piccole imprese italiane
non erano arretrate tecnologicamente e soprattutto potevano sfruttare la loro
flessibilità complessiva e le loro abilità produttive per specializzarsi ulteriormente
nella calzatura di lusso. Cosa che fece la Riviera del Brenta contribuendo a
decretare il successo dell’export di qualità italiano. Tra il 1954 e il 1958, la
produzione di calzature italiane crebbe come in nessun altro paese europeo, come
lo dimostra il grafico sottostante (figura n.1).
I maggiori paesi di destinazione dei flussi di export erano gli Stati Uniti e la
Germania che ne assorbivano complessivamente il 50%, seguiti da Francia, Gran
Bretagna e Svezia. La produzione del Brenta era come detto concentrata soprattutto
in Gemania e la distribuzione era molto semplificata; tra produttori e dettaglianti vi
era un rapporto diretto in modo che i primi potessero avvertire più rapidamente il
mutamento dei gusti dei consumatori evitando il collo di bottiglia dei grossisti (il
costo della distribuzione oscillava a seconda dei modelli tra il 23 e il 29% del prezzo
totale della calzatura).
83
Figura n.1 - Produzione di calzature in pelle in alcuni paesi europei. 1954 1958.
0
20
40
60
80
100
120
Germania Belgio /Lus
Francia Italia Olanda RegnoUnito
Mili
on
i di p
aia
1954
1958
Fonte: Ente autonomo per le fiere di Bologna, Ufficio Studi, 1960.
Gli anni ‘50 furono anche sinonimo di crescita delle dimensioni medie delle
unità produttive della Riviera, facendo segnare un aumento da 5 a 21 addetti nel
1961. Tuttavia la dimensione media era inferiore a quella italiana ed indicava un
contesto produttivo fatto di aziende piccole o piccolissime. L’organizzazione della
produzione non era più su base familiare ma di tipo industriale, con l’introduzione
nel processo di macchinari non ancora sofisticati10. Gli anni ‘60 furono appunto
contrassegnati dalla meccanizzazione del processo, dal costante miglioramento
qualitativo e dalla forte natalità di imprese grazie al basso costo degli investimenti
per addetto. Il know how diffuso e l’irrilevanza di un fattore di scala nei costi di
produzione della calzature del Brenta favorirono la proliferazione delle nuove unità.
Il biennio 1968-1969 fu anche quello che fece registrare la punta massima della
produzione che arrivò alle 10 milioni di paia per poi attestarsi sugli 8 milioni negli
anni successivi (tabella n.1). Nel 1969, il 73% delle imprese brentane non superava i
50 addetti e solo il 9% giungeva ad oltrepassare i 100. Sotto il profilo giuridico
prevalevano naturalmente le ditte individuali (67%), le società di fatto (18%) e le
10 Roverato, 1996.
84
società in nome collettivo (10,5%), costituite spesso tra familiari. La produzione
italiana nel corso del decennio subì un aumento incredibile passando da 73 milioni
di paia di scarpe nel 1960 a 270 milioni nel 1970. Il mercato italiano si era
fortemente dilatato per effetto del migliorato tenore di vita della popolazione, ma la
quota di produzione nazionale assorbita dal consumo interno rimaneva al di sotto
del 40%, le esportazioni non diminuivano e rimanevano dirette per i 4/5 verso Stati
Uniti e paesi CEE. Numerose attività di sostegno all’esportazione furono progettate
dall’Anci, che guadagnò importanza per l’intero settore anche in virtù dei numerosi
accordi raggiunti con le altre associazioni di categoria e organi di governo.
Tabella n.1 - Produzione in paia, fatturato globale ed esportazioni delle aziende calzaturiere della Riviera del Brenta
Anni paia prodotte % fatturato %
incremento fatturato % export
globale fatturato export rispetto l'interno 1964 6.800.000 - 21.580 - 12.080 55,97 1965 6.819.000 0,27 23.868 10,60 14.320 59,99 1966 8.620.000 26,41 31.033 30,00 18.619 59,95 1967 9.650.000 11,95 36.244 13,50 21.146 60,00 1968 10.387.000 7,63 39.474 12,00 23.084 58,50 1969 10.970.000 5,61 45.540 15,30 27.320 60,00 1970 9.310.000 15,13 40.986 -10,00 24.591 60,00 1971 8.500.000 8,70 40.500 -1,20 25.000 61,73 1972 8.500.000 - 50.250 24,00 31.250 62,18 1973 9.100.000 7,05 64.600 28,50 40.698 63,00 1974 9.050.000 -0,55 86.900 34,54 55.616 64,10 1975 9.010.000 -0,44 108.400 25,00 72.628 67,00 1976 8.650.000 -3,99 133.200 22,88 93.300 70,05 1977 8.615.000 -0,40 165.850 24,51 120.125 72,43 1978 8.700.000 0,60 188.660 13,75 136.967 72,59
Fonte: elaborazione su dati Acrib
85
Gli anni ‘70 rappresentarono per tutta l’economia italiana un periodo di
ripensamento della logica produttiva e di razionalizzazione dell’apparato
organizzativo. Anche il calzaturiero del Brenta subì la flessione produttiva e le
difficoltà organizzative ma il risultato fu di rafforzamento dello spirito associativo che
si espresse con una temporanea iniziativa consortile fra quattro calzaturifici che si
riunirono sotto un’unica organizzazione di vendita (Stracalzatura). La fase
congiunturale era critica a causa della diminuzione dei consumi interni, della
flessione delle esportazioni, della stretta creditizia e dell’improvviso aumento dei
costi di produzione e delle materie prime. L’area del Brenta utilizzava quasi solo
esclusivamente cuoio e pellami come materie prime, per mantenere alta la qualità
del prodotto finito, forniti loro direttamente dai produttori, che negli anni ‘70
aumentarono notevolmente i prezzi. I calzaturieri, non avendo possibilità di
controllare i prezzi della materia prima, dovettero adeguarsi all’aumento. Come
dovettero adeguarsi anche di fronte alle violente lotte sindacali di quegli anni. La
soluzione fu un processo di ristrutturazione aziendale mirante a ridurre le dimensioni
delle imprese e semmai a crearne di nuove piccolissime. Infatti i livelli di
sindacalizzazione risultavano praticamente nulli nelle imprese artigiane.
Altro grosso problema della zona, esploso qualche anno prima, era la grave
emorragia di manodopera specializzata per effetto dell’attrazione esercitata dal polo
industriale di Marghera. I costi di produzione ed in particolar modo del lavoro, fattore
che era sempre stato abbondante e a buon mercato, lievitarono a tal punto che gli
imprenditori brentani dovettero forzatamente puntare su un prodotto ulteriormente
qualitativo che permettesse una commercializzazione a prezzi più alti. Con un
prezzo medio unitario triplo rispetto a quello nazionale, la produzione locale veniva
a posizionarsi su una fascia di assoluto prestigio. La maggior parte delle imprese
abbandonò la gamma media per qualità e prezzo per collocarsi sulla fascia di
mercato dove il fattore moda assumeva un ruolo decisivo. La scelta di prodotti a
maggior valore aggiunto per l’alto contenuto moda contribuì all’innalzamento della
percentuale di produzione destinata all’esportazione, che salì a 75,29% nel 1978,
rappresentando il 9,55% del totale export italiano di calzature in pelle. Vista la
86
qualificazione verso l’Italian fashion, si fecero più urgenti le necessità di avere un
sistema informativo sulla moda-mercato. All’inizio si affidarono a continui contatti
con i clienti, con i rappresentanti, con riviste specializzate per poi approdare ad
accordi di collaborazione con le più importanti case di moda europee e statunitensi.
Così divenne sempre più importante la flessibilità produttiva per poter realizzare lotti
minimi con tempi di esecuzione ridotti. L’opzione strategica dei produttori venne
sostenuta dal progressivo ampliarsi delle attività collegate, tanto che l’indotto
comprendeva componenti ed accessori della calzatura, modelleria e design, ma
anche macchinari ed attrezzature. Il capitale utilizzato per sostenere gli investimenti
era per lo più capitale d’esercizio e non fisso, caratteristica di molte piccole e medie
imprese dei distretti industriali veneti. Il rapporto con i fornitori era migliorato
notevolmente grazie allla sostituzione dell’intermediazione dei grossisti con un
contatto diretto. Anche le vendite del prodotto finito si svolgevano direttamente al
dettagliante o tramite agente non esclusivo in Italia e all’estero attraverso agenzie o
agenti.
Nel 1974, risultavano iscritte all’Acrib 345 ditte di cui 77 industrie calzaturiere,
129 laboratori artigianali, 9 aziende industriali per la produzione di accessori e 50
artigianali, 30 ditte per lo studio di modelli e 50 aziende commerciali. La nascita di
queste imprese fabbricanti parti, accessori e componenti, permise ai calzaturifici di
focalizzarsi sulle fasi strategiche del ciclo produttivo, rivolgendosi all’esterno per
l’esecuzione delle altre lavorazioni11. In questo clima di interazioni si poterono
sviluppare economie di scala, di specializzazione e di standardizzazione altrimenti
difficilmente conseguibili da un singolo calzaturificio. I vantaggi consistevano in un
contenimento delle dimensioni aziendali, in minori costi di investimento in capitale
fisso, in una maggiore velocità di risposta al mercato e in una riduzione dei costi di
eventuali specializzazioni interne. La deverticalizzazione della produzione era
favorita dalla struttura del ciclo produttivo che non presentava forti vincoli alla sua
scomponibilità per i bassi investimenti connessi e per le caratteristiche tecniche
11 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).
87
della lavorazione. Le imprese di media-grande dimensione rimasero in numero
sempre minore ed incentrarono la loro forza competitiva principalmente sul design e
sulla qualità del prodotto, realizzato spesso in piccole serie e destinato
prevalentemente all’esportazione. I terzisti erano costituiti sia da aziende industriali
che artigiane di piccolissime dimensioni oppure da lavoranti a domicilio che si
occupavano di operazioni come l’orlatura, il taglio dei pellami o la foderatura dei
tacchi. La manodopera di queste piccole unità artigiane era in parte agevolata dalla
legislazione con sgravi fiscali e in parte era forza irregolare.
L’area produttiva della Riviera del Brenta aveva così assunto definitivamente
la conformazione di un moderno distretto industriale. Le conoscenze si diffondevano
in modo semplificato grazie alla circolazione tramite canali informali; la
professionalità e l’innovazione erano presenti ad un altissimo grado; un diffuso
senso di appartenenza e di cooperazione fra i diversi attori evitava comportamenti
scorretti e allo stesso tempo la concorrenza fra imprenditori impediva atteggiamenti
collusivi. Le aziende avevano modificato le loro forme societarie pur sempre
mantenendo un carattere familiare. Infatti lo spirito imprenditoriale costituì un valore
tramandato di generazione in generazione che alimentò anche atteggiamenti
fortemente individualistici accompagnati da grande fiducia nelle capacità progettuali
aziendali e nelle caratteristiche dei prodotti realizzati.
4.3
La struttura attuale del distretto calzaturiero
Gli anni ‘80, con le loro fasi altalenanti di vendita, decretarono definitivamente
l’importanza della deverticalizzazione del ciclo e quindi della flessibilità produttiva. Il
ricorso ai produttori di fase esterni non fu più temporaneo ma sistematico, e con essi
si cercò di ovviare ai maggiori costi di produzione attraverso le economie di scala
nel complessivo sistema della calzatura brentana. Le fasi decentrate sono state
soprattutto quelle del taglio del pellame, dell’orlatura e della giuntura della tomaia.
L’insieme delle imprese poteva così suddividersi in diverse tipologie (figura n.2); le
88
4-5 imprese di media dimensione che avevano rapporti diretti con il mercato finale, il
cui posizionamento si basava sulla qualità, sul design e sull’innovazione nei
materiali e nei processi produttivi; le piccole imprese industriali puntavano sul
decentramento produttivo di alcune fasi, non avevano un’organizzazione di vendita
diretta ma collocavano i loro prodotti o attraverso le fiere internazionali oppure
tramite i gruppi di acquisto nei paesi in cui esportavano; le imprese artigianali
avevano al massimo 20 addetti per lo più non strutturati, producevano in base alle
esigenze dei committenti con macchinari piuttosto obsoleti; le imprese specializzate
in singole parti del prodotto, in accessori o in servizi erano le più numerose e, una
volta acquisita una solida competenza, presero a servire anche clienti esterni al
distretto; infine le imprese commerciali erano essenziali per i piccoli produttori che
non potevano internalizzare la fase distributiva.
Figura n.2 – Aziende della Riviera del Brenta
Fonte: elab. su dati Acrib
Nonostante l’ambiente distrettuale si fosse strutturato grazie a una vasta
divisione del lavoro e a relazioni stabili fra gli operatori, i produttori brentani si
dovettero confrontare con nuovi nodi problematici. Primo fra tutti era l’aumento della
Figura n.2 - Aziende della Riviera del Brenta
Calzaturifici49%
Accessori38%
Modellisti7%
Ditte commerciali6%
89
concorrenza internazionale. I prezzi molto convenienti, uniti però a una qualità
medio-bassa, delle produzioni dei paesi in via di sviluppo crearono effetti
destabilizzanti per l’intero mercato. Altri distretti calzaturieri italiani furono spinti da
questa competitività a reimpostare la propria offerta in direzione di quella qualità
medio-fine fino a non molto tempo prima presidiata dalla Riviera. La stessa struttura
produttiva di paesi come la Spagna, il Portogallo e il Brasile aveva raggiunto un
livello di sviluppo tale da eguagliare la qualità delle calzature del Brenta ma a costi
inferiori.
Al contrario, nella Riviera, i vantaggi di costo legati negli anni ‘50 e ‘60 sia alla
vasta disponibilità di manodopera che ai contenuti prezzi di acquisto delle materie
prime, sono stati compromessi da un lato dalla attenuazione della possibilità di
ricorrere al lavoro non regolamentato e dall’altro dal crescente aumento dei pellami.
La strategia di risposta del distretto si é orientata verso due direzioni: alcuni hanno
puntato sulle variabili qualitative della produzione e del sistema locale (maggiori
caratteristiche tecniche dei propri articoli rispetto a quelli della concorrenza,
affidabilità nei tempi di consegna, ricchezza del campionario, possibilità di avere
piccole serie esclusive , ecc.), altri hanno introdotto una politica di contenimento dei
prezzi sia attraverso una contrazione dei propri margini sia con un ricorso ancora più
spinto al decentramento di fase.
Le difficoltà che ha affrontato, e sta tuttora facendo, la Riviera sono comuni a
più distretti calzaturieri italiani. La produzione italiana nei primi anni ‘90 é risultata la
prima in Europa e la quarta nel mondo dopo la Cina Popolare, Hong Kong e Taiwan
e questo grazie alla sua specializzazione nelle calzature di qualità in pelle e alla
grande capacità di inseguimento della domanda internazionale. In tutto ciò ha
giocato un ruolo fondamentale l’affermazione nel mondo del “made in Italy” come
valore extraeconomico rispetto al contenuto intrinseco dei prodotti del nostro export
nel tessile-abbigliamento12. L’esportazione di calzature ha nuovamente accelerato il
suo andamento dopo la svalutazione competitiva del 1992, non raggiungendo più
tuttavia il valore massimo del 1985 (434,7 milioni di paia), con un aumento del
12 M. Maugeri (1998).
90
fatturato grazie alla già ricordata manovra di innalzamento della qualità e del prezzo
medio. La produzione italiana può ora considerarsi per la gran parte attestata su
una tipologia medio-fine fabbricata in pelle e cuoio (67% del totale prodotto e 81,5%
del fatturato). La Riviera del Brenta rientra quindi nell’andamento del comparto
nazionale, con un’ulteriore destinazione della produzione all’esportazione (nel 1996
82,7%).
I maggiori paesi di sbocco delle esportazioni si sono confermati quelli
dell’Unione Europea, in particolare Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Regno
Unito, favoriti dalla caduta dei dazi doganali, dalla prossimità geografica e dalla
comune appartenenza a una stessa cultura dei consumi. Tuttavia il peso delle
esportazioni verso l’Europa occidentale sta presentando negli ultimi anni segnali di
flessione a causa della rapida crescita dell’industria spagnola e portoghese, così
che le imprese del Brenta stanno reimpostando la propria politica in direzione di un
allarganento dei paesi di sbocco. Gli Stati Uniti, il Giappone ed i Paesi arabi
rappresentano un nucleo preferenziale di meta esportativa in quanto luoghi dove il
“made in Italy” é particolarmente apprezzato e dove il contenuto immateriale della
creatività italiana riesce a porre in secondo piano il problema del prezzo.
E’ importante soffermarci sulla flessione delle vendite in Germania,
compratore storico delle calzature del Brenta, nonché principale mercato di molte
imprese locali. Le difficoltà sono attuali e dipendono dalla succitata concorrenza
iberica. I produttori della Riviera si vedono costretti a lavorare agli stessi prezzi dei
calzaturieri spagnoli, pena l’uscita dal mercato, pur non avendo la stessa struttura
dei costi. La soluzione per evitare di chiudere i bilanci in rosso é la ricerca di nuovi
approvvigionamenti di componenti, più economici ma meno qualitativi, nei paesi
dell’Est europeo. Soluzione poco convincente perché ne deriverebbe un
peggioramento complessivo della qualità della calzatura e di conseguenza una
perdita di caratterizzazione del prodotto. Il problema é quindi serio e ha radici
lontane nel tempo. Le dimensioni aziendali ridotte non consentirono infatti agli
imprenditori di raggiungere direttamente i clienti comportando un rapporto squilibrato
a favore dei compratori. In più la tendenza tedesca di pianificare anche la moda
91
portò i compratori a pretendere dei prezzi standard per tipologia di prodotto,
costruendo in pratica delle “gabbie” di riferimento sempre più rigide: la domanda finì
per determinare il prezzo di acquisto. Unito a ciò, si deve considerare come causa la
pessima strategia di alcune imprese di far dipendere la totalità della propria
produzione da un unico mercato.
Aldilà dei mercati di sbocco, resta per il distretto la necessità di approntrare
validi meccanismi volti all’evoluzione delle singole imprese e del sistema nel suo
insieme. Le innovazioni tecnologiche non sono fonti di grandi e duraturi vantaggi
competitivi in questo settore, perché sono facilmente acquisibili e imitabili. Invece
sono sempre più importanti le innovazioni strategico-aziendale per mantenere un
ruolo nel contesto internazionale. Da una strategia prevalente orientata al prodotto
si sono aperte nuove strade organizzative. La strategia più diffusa era appunto
quella basata sulla qualità dei materiali e della lavorazione in sé, senza grandi sforzi
per far conoscere il prodotto ai consumatori finali. Questa carente cultura del
marketing non ha permesso un’adeguata segmentazione dell’offerta e una ricerca di
visibilità dei prodotti brentani presso il grande pubblico. Di conseguenza si può
ipotizzare un’evoluzione verso una strategia di immagine propria che raggiunga
direttamente il consumatore finale e spinga i prodotti verso nicchie molto precise e
identificabili. Un’alternativa é quella attuata da alcune imprese del distretto: la
collaborazione con le case di moda. La produzione può essere firmata da stilisti o
per conto loro. Nel primo caso il calzaturificio si occupa della realizzazione e della
commercializzazione in proprio di un progetto di calzatura fornito dalla casa di
moda; il guadagno risiede nell’immagine della firma, che nelle sue complessive
operazioni di marketing inserisce anche la calzatura la quale poi entra in
selezionatissimi canali di vendita. Nel secondo caso, lo stilista é interessato a un
arricchimento della propria gamma merceologica e così commissiona la produzione
di calzature a un’impresa che diventa una semplice subfornitrice perdendo la propria
autonomia ma guadagnando in stabilità13.
13 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).
92
Come si può immaginare le strategie aziendali adottabili sono molteplici ma
da sole non bastano a far evolvere un distretto industriale. Un punto di forza, una
risorsa vantaggiosa del distretto é la cooperazione interna fra gli operatori del
sistema e la progettualità comune. I calzaturieri del Brenta l’hanno sperimentata e
incentivata in diverse forme. Alcune di queste hanno avuto grande successo perché
sorrette da una reale volontà collaborativa, altre sono fallite a causa della
prevalenza delle logiche individualistiche dei singoli imprenditori. L’esempio più
eclatante del sistema cooperativo distrettuale é rappresentato dall’Acrib e dalle sue
germinazioni.
L’Associazione Calzaturifici della Riviera del Brenta (vedi allegato n.2) venne
fondata nel 1961 dagli imprenditori locali con lo scopo di agevolare l’attività comune
del distretto. I suoi rappresentanti si inserirono nelle principali istituzioni collegate al
settore della calzatura, a cominciare dall’Anci, fino ai consigli direttivi delle
Associazioni industriali delle provincie di Padova e Venezia e alla Confederazione
europea delle calzature (Cec). Alle aziende aderenti l’Acrib fornì da subito i servizi di
consulenza sindacale e tributaria, infatti dagli anni ‘70 si era acuita la necessità di
assistenza per l’interpretazione e l’applicazione delle norme di legge e di contratto in
materia di lavoro e per le problematiche inerenti i sistemi retributivi e i trattamenti
economici in generale. L’Acrib fu dunque essenziale per la stipulazione di contratti
integrativi zonali. Un altro importante settore di attività divenne quello relativo ai
problemi fiscali in genere con la consulenza per l’applicazione delle disposizioni
tributarie.
Nei primi anni di evoluzione dei sistemi comunicativi l’associazione si fece
carico delle esigenze delle imprese istituendo un servizio di posta, telex e
traduzione. Dato il preminente orientamento all’esportazione, il mantenimento dei
contatti con persone parlanti altre lingue era di vitale importanza, ma non essendoci
grandi conoscenze linguistiche diffuse fra gli imprenditori, i servizi Acrib ebbero una
notevole espansione. Connesse a queste attività furono fin dall’inizio quelle relative
alle manifestazioni fieristiche nazionali e internazionali. Già alla fine degli anni ‘50
cominciarono ad affermarsi alcune fiere di carattere nazionale, come a Bologna,
93
Milano e Firenze, e in campo internazionale a Düsseldorf, Bruxelles e New York.
Proprio con la Fiera delle calzature di Düsseldorf, una delle più importanti al mondo,
sorsero i problemi organizzativi già menzionati, che l’Acrib risolse prontamente
dimostrando l’utilità della scelta consortile. Nel 1976 nacque dall’associazione il
consorzio Maestri calzaturieri del Brenta, costituito anch’esso per promuovere ed
assistere la cooperazione fra le aziende consorziate. Il consorzio ha curato azioni
promozionali attraverso fiere, convegni e manifestazioni collettive in Italia e
all’estero. Oggi fa parte della FEDEREXPORT, compie studi e rilevazioni statistiche,
acquisisce e diffonde ricerche di mercato, informa sui problemi commerciali con
l’estero, organizza partecipazioni a missioni economiche, fa conoscere e tutela le
caratteristiche qualitative della produzione calzaturiera della Riviera del Brenta e
provvede alla pubblicità collettiva.
L’attività del consorzio e dell’associazione principale si compenetrano a
vicenda nel seguire i produttori nello sviluppo internazionale. E’ recente infatti la
mobilitazione dell’Acrib per l’organizzazione di una presenza collettiva alla fiera di
Hong Kong. Tale fiera é essenziale per farsi conoscere all’interno del mercato
asiatico, in particolar modo quello cinese, e quindi nel corso degli anni ha rivestito
un’importanza crescente per i calzaturifici che stavano riprogettando gli sbocchi
commerciali. In generale una fiera non é solo il momento della vendita del prodotto
ma rappresenta un momento di incontro fra produttori e operatori del settore, un
luogo di aggiornamento e di scambio delle opinioni, e un modo di presentare le
proprie produzioni in aree di nuova penetrazione (spesso nei nuovi paesi le vendite
si realizzano solo dopo alcuni anni di presenza costante alle fiere, ciò che dimostra
la qualità dell’investimento effettuato).
Oltre alla promozione dell’immagine collettiva, l’Acrib mette a disposizione
anche un servizio per identificare le tendenze moda del momento offrendo
consulenze personalizzate alle singole aziende in base al tipo di prodotto che si
vuole creare e al mercato in cui si vuole vendere. Un’attività collegata é quella
pubblicitaria che viene sfruttata talmente poco dai membri che i prodotti della
Riviera sono ben conosciuti dagli importatori, dai grossisti e dai negozianti ma
94
praticamente sconosciuti per i consumatori finali. Una promozione di carattere
collettivo é sempre stata fra gli obiettivi dell’Acrib, ma le differenze fra le varie fasce
di prodotti coperte, pur nella generale qualità medio-alta, e l’assenza nella zona di
organizzazioni specifiche non hanno per il momento permesso la riuscita del
progetto. La forza collettiva si é invece fatta valere dal lato delle forniture in quanto
l’associazione ha intermediato per la stipula di convenzioni con grandi fornitori di
servizi come banche, assicurazioni, autotrasportatori, ecc. Le condizioni contrattuali
ottenute sono sicuramente più vantaggiose di quelle che potrebbe spuntare una ditta
singola, infatti le adesioni in taluni casi coinvolgono il 90% degli operatori.
Il Centro Veneto Calzaturiero é un consorzio germinato dall’Acrib e ne fanno
parte la Scuola Modellisti di Stra e il Centro Tecnologico di Vigonovo. La prima
rappresenta l’evoluzione dell’antica scuola “Ottorino Tombolan Fava” e organizza
corsi di vario livello per modellisti tecnici e creativi, operatori su Cad-Cam e
computer grafici. I docenti della scuola sono tutti prestati all’insegnamento, sono
imprenditori, liberi professionisti e tecnici della calzatura, che, dopo aver lavorato
regolarmente durante la settimana, al sabato mettono a disposizione le proprie
conoscenze. Il Centro Tecnologico si occupa invece dell’innovazione tecnica e
informatica nonché del controllo qualità sui materiali con prove di tipo fisico.
Tutto l’apparato cooperativo non é sufficiente a superare il punto debole del
distretto, vale a dire il nodo della commercializzazione. Gli alti livelli di qualità da
mantenere si scontrano con il problema del prezzo e, posto che ad essi la
deverticalizzazione produttiva sta già dando una parziale soluzione, la risposta non
può che trovarsi nelle strategie di marketing e di commercializzazione.
L’intensificazione del ricorso a terzisti, come del resto la delocalizzazione di fasi del
ciclo nei paesi ex-comunisti, non sempre garantiscono il livello di qualità su cui si
basa il successo della produzione brentana. La delocalizzazione nei paesi a minor
costo del lavoro non si é realizzata se non per segmenti limitati del ciclo, tanto é
vero che il traffico di perfezionamento passivo ha mantenuto un andamento
altalenante se non regressivo. Fattori che si oppongono all’internazionalizzazione
produttiva sono essenzialmente le piccole dimensioni medie delle imprese locali e la
95
ricerca della massima qualità dei prodotti. Chi lavora nel settore moda, magari
essendo licenziatario di marchi prestigiosi, sa che la delocalizzazione di parti
significative della produzione o causerebbe una caduta pericolosa dei contenuti del
prodotto o produrrebbe antieconomiche fasi centralizzate di rifinitura dello stesso. La
rivoluzione attuale del ciclo produttivo spinge verso l’utilizzo di nuove tecnologie
nelle fasi ancora legate al prevalente uso di manodopera, ma perché sia veramente
applicabile alla Riviera deve garantire una caratteristica artigianale delle finiture. In
definitiva il cumulo di sapere e di abilità operaie risulta ancora vincente rispetto alla
pure stringente necessità di abbattimento dei costi.
La commercializzazione rimane il problema e lo testimonia l’insuccesso del
tentativo di avviare una politica di qualificazione della produzione locale mediante
un marchio distintivo. Il marchio non é mai decollato a causa dell’opposizione degli
intermediari, restii a vincolare la propria attività ad una specifica zona d’origine del
prodotto, e all’accentuato individualismo degli imprenditori. L’attuale sistema di
commercializzazione risulta oggi in mano agli intermediari plurimandatari, ai
grossisti e alle centrali d’acquisto straniere, che di fatto impongono il prezzo alle
aziende produttrici. Probabilmente solo l’emergere all’interno del sistema di imprese
capofila moderne, in grado di guidare l’approccio tecnologico al prodotto e il
cambiamento commerciale e di marketing, offrirà alle piccole imprese la possibilità di
essere compatibili con un mercato globale. La Riviera del Brenta potrebbe attuare
un mutamento che la renda sempre meno zona di produzione in senso stretto e
sempre più testa pensante di un sistema proiettato all’estero, dove la
delocalizzazione non sia solo quella del lavoro materiale ma incorpori anche
trasferimento di sapere organizzativo, tecnico e professionale.
97
5. Percorsi valorizzanti il distretto nella logica
internazionale
5.1
L’azione collettiva all’interno di un distretto industriale
Seguendo i principi della nuova sociologia economica1, oltre al mercato e alla
gerarchia, esistono altre modalità ricorrenti e stabili di organizzare la produzione e
distribuzione di beni e servizi. Associazioni imprenditoriali, alleanze e reti tra
imprese, forme fiduciarie di collaborazione tra aziende e tra capitale e lavoro sono
tutte forme nuove di governance2. Secondo lo schema analitico di Parri (1993),
l’azione economica si può dividere in due dimensioni fondamentali: quella dell’homo
œconomicus, indirizzata verso la produzione e la distribuzione di beni individuali o
per piccoli gruppi, e quella dell’homo sociologicus, basata su interazioni multilaterali
e orientata verso beni collettivi (sia pubblici che categoriali). Se lungo queste due
dimensioni si distingue un continuum di crescente formalizzazione delle relazioni fra
gli attori coinvolti, si ottengono sei modalità di governance: due basate sulla
regolazione spontanea (mercato e comunità); due sull’autoregolazione (alleanze tra
imprese e associazioni imprenditoriali); due sulla regolazione amministrata
(gerarchie aziendali e autorità pubblica). La realtà distrettuale ha conosciuto
un’evoluzione dei sistemi di regolazione verso una sempre maggiore influenza della
dimensione cooperativa e auto-organizzata.
Negli anni ‘70, il distretto si configura come un sistema decentrato e
scarsamente connesso tenuto assieme da mercato e comunità, supportati da forme
deboli di intervento dell’autorità pubblica e da informali alleanze verticali tra imprese;
i beni collettivi sono creati dal mercato comunitario e l’efficienza é di carattere
1 Swendberg e Granovetter (1992). 2 Governance è qui intesa come modalità attraverso cui le azioni degli attori economici sono coordinate, le corrispondenti risorse sono allocate, i relativi conflitti sono trattati (Lange e Regini, 1987).
98
adattivo, orientata al breve periodo, con apprendimenti routinari e innovazioni
incrementali..
L’aumento della concorrenza degli anni ‘80, dovuto all’emersione di paesi di
nuova industrializzazione e alla fine dei vantaggi di costo dell’economia italiana,
spinge i distretti a riprogrammare la ricerca dell’efficienza in chiave non più solo
adattiva ma dinamica, agendo attivamente all’interno del proprio ambiente per
sfruttarne le contingenze. L’efficienza basata sul mercato comunitario mostra le sue
inadeguatezze regolative nell’affrontare l’aumento di complessità e dinamicità
dell’ambiente. Sono perciò necessarie aggregazioni di risorse all’interno del sistema
, in modo da raggiungere le masse critiche necessarie per produrre beni privati,
categoriali e pubblici all’altezza delle nuove sfide ambientali. Queste masse si
raggiungono sia aggregando in maniera fortemente connessa unità aziendali
distinte, sia permettendo ad attori come le associazioni imprenitoriali locali e le
autorità pubbliche subnazionali di dar vita a nuove organizzazioni, capaci di
concentrare risorse pubbliche, private o miste (Parri, 1993).
Il sistema passa all’autoregolazione o alla regolazione amministrata perché la
spontaneità comunitaria non é più sufficiente. Nascono o si rafforzano, come nel
caso della Riviera del Brenta, consorzi e società pubblico-private che organizzano il
complicato percorso interattivo dei distretti semplificando le linee di forza interne. Il
distretto indusriale da maturo diventa evoluto e non più eterodiretto. Il percorso di
ricerca del nuovo equilibrio é ad apprendimento progressivo, in cui l’errore é
inevitabile e necessario, pena la chiusura immobilistica e la destrutturazione del
sistema produttivo locale. Un ostacolo evidente e di notevole gravità verso il salto
evolutivo é rappresentato dalle inerzie strutturali connaturate alla specifica natura
dell’imprenditorialità e della tipologia aziendale distrettuali. La profonda immersione
nella società locale rende molto viscosi i comportamenti imprenditoriali e preclude
salti strategici trainati da unità di comando, come per esempio il nuovo vertice di una
grande impresa.
I sistemi-distretto sono poco aperti verso l’esterno, presentando dei limiti
autarchici nella propria cultura imprenditoriale, manageriale e tecnologica, una
99
scarsa terziarizzazione e un’insufficiente peso nella politica economica nazionale. I
casi di autoregolazione sono diventati sempre più frequenti ma ciò non vuol dire che
siano tutti coronati dal successo, anzi spesso incappano in difficoltà insuperabili. E’
infatti evidente che il dilemma sociale3 fa vedere le iniziative, razionali dal punto di
vista collettivo, ma irrazionali da quello individuale. Ciò vale per le imprese
distrettuali più dotate di risorse interne, che pensano di poter prosperare da sole, ma
anche per quelle più piccole, alle quali un investimento di tempo e denaro in
iniziative comuni sembra insostenibile. La logica diffusa fra gli operatori del distretto
é quella mirata al perseguimento del massimo di beni privati nel breve periodo, per
lasciare la creazione dei beni collettivi necessari alle altre imprese e poi
condividerne solo i benefici. I costi da sostenere per produrre collettivamente
attraverso progetti di medio-lungo periodo dei beni categoriali4 o pubblici sembrano
alla singola piccola impresa molto alti rispetto ai benefici che se ne ricavano.
Gli ostacoli all’azione collettiva sono paradossalmente molto forti all’interno
del distretto perché l’individualismo degli imprenditori é reale e consente loro di
raggiungere lo status sociale sognato, le aziende hanno una base familiare e quindi
sopportano malamente le deleghe interne ed esterne delle funzioni chiave e la
mentalità predominante fra gli operatori é puntata esclusivamente alla produzione.
Ovviamente, questi citati sono fattori che rivestono un peso differente a seconda dei
distretti, della loro storia e del loro settore di specializzazione manifatturiera, ma é
comune per tutti la necessità che l’azione collettiva sia attivata da soggetti trainanti
pubblici, associativi, privati o misti, capaci di catalizzarla. Le strategie per farlo sono
molteplici e sono spesso applicate naturalmente quelle che la letteratura economica
ritiene più efficaci per sviluppare la logica cooperativa. Un forte stimolo ad unirsi e
collaborare, su cui si può far leva, é rappresentato dalla paura del futuro sul 3 “I dilemmi sociali sono caratterizzati da due proprietà: a) la ricompensa sociale ad ogni individuo per un suo comportamento di defezione é più alta di quella per un comportamento cooperativo, indipendentemente da quello che gli altri membri della società fanno; b) ogni individuo nella società riceve una ricompensa più bassa, se tutti e quanti defezionano, rispetto a quella che riceverebbero se tutti cooperassero” (Dawes, 1980). 4 I beni pubblici e categoriali rientrano entrambi all’interno della categoria dei beni collettivi, ma i primi sono prodotti da un certo numero di attori per portere vantaggio a tutto l’universo di riferimento; mentre i beni categoriali sono prodotti da un numero limitato di attori facenti parte di una stessa categoria produttiva, funzionalmente o territorialmente intesa, e destinati alla fruizione da parte dei soli attori che hanno contribuito alla loro realizzazione, in quanto formalmente associati (Streeck e Schmitter, 1985).
100
presente per il mantenimento del successo raggiunto. Altra strategia é la
promozione della cultura dell’interdipendenza e della reciprocità fra le varie unità
produttiva, insistere cioé sull’appartenenza allo stesso distretto e quindi sulla
contraddittorietà del comportamento non cooperativo anche rispetto ai fini
individuali. Può anche essere progettato un sistema che penalizzi chi non collabora
e che al contrario premi chi lo fa. In ogni caso é essenziale che il singolo
imprenditore avverta che la scelta cooperativa sia sostenuta anche dai suoi vicini e
che quindi sia animato dalla fiducia nella reciprocità dei comportamenti collaborativi.
Un altro importante fattore che può ostacolare la realizzazione di iniziative
collettive é l’opposizione da parte di imprese che detengono posizioni di preminenza
all’interno del distretto; queste possono temere che il loro potere venga messo in
dubbio dalla nascita di nuovi soggetti collettivi, per cui é necessario guadagnarsi il
loro consenso. Il distretto é senz’altro un luogo dove la collaborazione convive
spontaneamente con la concorrenza ma solo a un livello di debole e strategicamente
poco impegnativa pratica cooperativa fra imprese; se si vuole puntare su un sistema
di autogoverno efficiente, che stimoli la produzione di beni collettivi, bisogna
necessariamente agire con più forza verso la sfera comunitaria.
Il consorzio5 rappresenta un assetto misto tra le modalità regolative
dell’alleanza, per la sua natura contrattuale, e dell’associazione tra le imprese, per i
suoi meccanismi di interazione politici, ed é finalizzato alla produzione di beni
categoriali e, a volte, pubblici. Esso viene usato per svolgere nuove o più efficaci
azioni aziendali, che le imprese non potrebbero realizzare perché non aventi la
massa critica adeguata, ma anche per disciplinare le attività delle imprese stesse.
Ciò significa che i beni categoriali possono derivare dalla creazione di un’apposita
organizzazione oppure dalla rinuncia delle imprese membri ad atteggiamenti
illecitamente concorrenziali (imitazioni selvagge, realizzazione di articoli ”bidone” di
bassa qualità, guerre di sconti, ecc.) nei confronti delle altre consorziate.
5 L’art. 2602 del Codice Civile dice: “Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese”.
101
Le funzioni operative di un consorzio sono di diversa natura e possono
concernere la promozione all’export, l’esposizione, gli acquisti di materie prime, il
controllo della qualità, la ricerca e sviluppo, l’assistenza sindacale e tributaria, ecc.
Un consorzio distrettuale é ulteriormente esposto al conflitto fra cooperazione e
concorrenza perché i membri producono lo stesso bene, si conoscono tra di loro e
pensano di poter far meglio dell’altro, sospettano che la direzione consortile si
muova dietro una facciata di neutralità per favorire alcuni di loro e via dicendo.
Sicuramente é più semplice proporre e far funzionare un consorzio che non invada
le prerogative imprenditoriali cruciali ma che si limiti alla promozione
dell’esportazione o di esposizioni collettive piuttosto che alla vendita all’estero o
alla R&S. In questi ultimi casi, le imprese dovrebbero essere animate da un notevole
grado di fiducia nei confronti degli altri consorziati perché si andrebbero a toccare
funzioni vitali e caratterizzanti le singole unità produttive.
La difficoltà nell’organizzare e nel gestire un ente che fornisca a livello locale i
beni collettivi necessari non deve far dimenticare che, in un distretto industriale, i
fattori di successo si basano molto sulle economie esterne. Marshall evidenziava
l’importanza dell’“atmosfera industriale”, descrivendolo come un patrimonio di
esternalità che rappresenta un vantaggio competitivo e un insieme di competenze
distintive. In questo senso le esternalità possono essere avvicinate al concetto di
bene pubblico spontaneamente prodotto dal distretto. La conoscenza su cui si basa
la divisione interna del lavoro non va sottovalutata nel momento in cui un soggetto
forte, che può essere pubblico, privato o misto, stimola l’azione collettiva. In questa
fase di globalizzazione dell’economia é essenziale che il distretto si equipaggi di
strumenti adatti a gestire il maggiore grado di conoscenza codificata presente nella
produzione e necessariamente può farlo solo impostando una logica collettiva. Infatti
la creazione di servizi ad elevato contenuto di conoscenza é funzionale ai sistemi di
piccola e media impresa perché la singola azienda non ha i mezzi finanziari per
provvederne individualmente.
Normalmente nella fase di avvio, la struttura allocativa di tali servizi innovativi
deve essere di tipo monopolistico e sorretta dall’azione pubblica che garantisca la
102
qualità delle informazioni in caso di asimmetria informativa. La strategia erogatrice
deve tuttavia rimanere di carattere locale ed essere imbevuta di quella conoscenza
contestuale fondante un distretto. Il servizio erogato perché possa essere avvertito
come importante dagli imprenditori distrettuali deve essere di natura reale e
permettere un aumento di competenze possedute a livello individuale. Dal lato della
domanda prevalgono le richieste di servizi informativi che consentano di ottimizzare
le strategie di penetrazione commerciale (soprattutto per le nuove aree geo-
economiche, dove non si conoscono le controparti, la domanda, il contesto
economico e politico) e che permettano di selezionare gli operatori locali affidabili
con i quali avviare rapporti di cooperazione. Spesso questi servizi non sono quelli
standard che possono venire offerti da una grande agenzia di consulenza ma sono
specifici per le esigenze degli operatori locali, per cui c’é inseparabilità fra
l’economia dell’offerente e quella dell’acquirente.
La natura relazionale, la contiguità, di domanda e offerta porta a due
anomalie: da un lato la domanda per molti servizi all’internazionalizzazione é latente
perché non si può manifestare senza l’offerta, dall’altro le imprese non acquisiscono
servizi specializzati ma si limitano a quelli standard. Qui rientra il ruolo di un
consorzio o di altra espressione collettiva nel senso di fornire le risposte ai bisogni
tipici latenti delle imprese locali e di proporre soluzioni innovative su misura per il
contesto di riferimento. Gli esempi di successo di consorzi o centri servizi all’interno
di un distretto sono tutti caratterizzati da un processo di co-evoluzione di domanda e
offerta. Le condizioni del successo riguardano i servizi, la cui gamma di offerta non
deve essere troppo ampia e generica ma deve poter evolversi e arricchirsi
continuamente da un nucleo originario semplice e visibile, e il ruolo
dell’organizzazione erogatrice, ruolo di interfaccia dinamica tra il sistema locale e
l’ambiente internazionale attraverso la partecipazione a circuiti cognitivi globali6. In
mancanza di un processo di co-evoluzione attraverso cui la domanda genera la
propria offerta e viceversa, le imprese si trovano di fronte a due alternative: ricorrere
al mercato dei servizi esterni oppure autoprodurre il servizio al proprio interno con
6 G.Corò ed E. Rullani (1998).
103
grande dispendio di risorse. Entrambe le soluzioni pongono forti limiti allo sviluppo
di servizi di qualità. L’autoproduzione di servizi di qualità può essere un punto di
avvio, ma non una soluzione efficace a lungo termine; quindi l’evoluzione congiunta
di domanda e offerta può trarre origine dall’esternalizzazione del terziario che si
forma all’interno delle imprese più innovative. Una volta creata l’offerta, si manifesta
la domanda latente anche delle imprese meno innovative contribuendo a innescare
il circuito virtuoso evolutivo.
In conclusione, le imprese venete all’interno di distretti export oriented
possono entrare nel nuovo contesto competitivo investendo in intelligenza terziaria
interna, ma soprattutto esternalizzando i servizi interni verso organizzazioni che
mantengano un rapporto privilegiato con la matrice di origine. Lo sviluppo del
terziario interno non é alternativo, ma piuttosto complementare, alla crescita del
terziario esterno. Questo collegamento però rende più difficile l’evoluzione delle
imprese verso il miglioramento della qualità dell’internazionalizzazione, perché in
aziende povere di intelligenza terziaria e collocate in un ambiente poco stimolante,
la domanda di servizi interni non può manifestarsi in quanto non sufficientemente
stimolata dal contatto con servizi esterni di qualità, e viceversa.
5.2
I servizi collettivi all’interno del distretto della Riviera del Brenta
Il distretto calzaturiero della Riviera del Brenta é uno dei primi ad aver
manifestato dei segnali cooperativi forti fra le imprese interne. L’esempio più
significativo dell’azione collettiva brentana é rappresentato dall’ ACRiB e dai due
consorzi da essa gemmati: i Maestri Calzaturieri del Brenta e il Centro Veneto
Calzaturiero. Queste strutture funzionano rispettivamente dal 1961 e dal 1976 e
hanno accompagnato l’evoluzione del distretto adattando i propri servizi alle
esigenze delle imprese. La natura associativa privata é un segnale dello stimolo
aggregativo evidente che anima gli operatori economici del distretto. Dalle interviste
fatte ad alcuni imprenditori si evince la ferma convinzione dell’appartenenza allo
104
stesso ambiente produttivo e dell’utilità nel cooperare per facilitare l’evoluzione del
distretto e per ottimizzare alcune fasi del ciclo produttivo. Essenzialmente la
cooperazione fra le imprese brentane si é sostanziata nella volontà di presentarsi
agli occhi dei fornitori e dei clienti come un insieme omogeneo di produttori
condividenti la stessa cultura imprenditoriale. I rapporti informali ricorrenti fra gli
abitanti del distretto é una valida base sociale che stimola le iniziative aggregative a
livello economico.
L’Associazione dei calzaturieri della Riviera del Brenta condivide il sistema
comunicativo e valoriale delle imprese del distretto per cui raccoglie grande fiducia e
convinte adesioni da parte di queste ultime. Quindi esistono le condizioni di
partenza per la progettazione e la successiva erogazione dei servizi ottimali per i
calzaturifici. Oggi, i servizi offerti dall’associazione, come già accennato nello scorso
capitolo, riguardano la materia sindacale e tributaria, l’informazione del settore, i
rapporti esterni e gli acquisti collettivi.
Dal lato commerciale é di maggiore interesse il consorzio affiliato dei Maestri
Calzaturieri del Brenta a cui é propriamente affidata l’innovazione dell’ultima fase
della catena del valore. Il consorzio in questione si occupa dell’assistenza nella
diplomazia commerciale, delle campagne pubblicitarie istituzionali, di studi di
mercato e statistiche di settore, di pratiche doganali, di organizzazione di fiere ed
esposizioni collettive all’estero e di iniziative promozionali in genere. La dimensione
media delle imprese del distretto non permette l’esistenza di un articolato reparto
commerciale all’interno di ogni azienda, di conseguenza i servizi collettivi offerti
sono di vitale importanza.
Un esempio fra i tanti é la banca dati sui punti vendita messa a disposizione
dei consorziati. Essa ha raggiunto la dimensione di 35.000 indirizzi, fra importatori,
esportatori, dettaglianti, gruppi d’acquisto, che le imprese possono consultare
gratuitamente evitando così costose e lunghe ricerche individuali. La costruzione
della banca dati, e il suo continuo aggiornamento, si é avvalsa dell’esperienza delle
imprese del distretto con i singoli punti vendita mettendo a disposizione della
collettività gli errori e i successi ottenuti nei rapporti esterni nel corso di 50 anni di
105
attività. L’impresa, rivolgendosi al consorzio, può avere informazioni su un
particolare mercato di sbocco o su uno specifico punto vendita contando sulla
segretezza del servizio e sull’accuratezza dei dati forniti. Infatti il consorzio si
interpone fra l’impresa offerente e quella richiedente l’informazione garantendo
l’anonimato e così incentivando l’uso del servizio stesso. Per un distretto che
esporta più dell’80% della produzione é molto importante la scelta dei giusti canali di
distribuzione all’estero, anche perché non é diffusa la pratica dell’export strategy o
dei marketing plan7.
Nella mia esperienza personale all’interno del distretto ho avuto modo di
constatare l’inesistenza di un politica di marketing aziendale in senso stretto.
L’intero processo di programmazione dell’esportazione é basato sulle scelte
arbitrarie dell’imprenditore, che é a sua volta orientato dall’esperienza accumulata,
dal comportamento altrui e da un indefinibile fiuto commerciale. Il prodotto esportato
si contraddistingue da un’omogeneità qualitativa e tipologica e si rivolge a un target
specifico per cui non si realizzano azioni di segmentazione del mercato o lanci di
nuovi beni con specifici posizionamenti. Il marketing é presente nelle scelte
strategiche delle aziende non perché vi sia un reparto apposito ma in quanto
componente connaturata alla figura imprenditoriale. Non si tratta di marketing
scientifico perché rientra all’interno del sapere contestuale decodificato degli
operatori del distretto. E’ compito delle organizzazioni collettive codificare tale forma
di sapere e integrarla con nozioni scientifiche per permettere alle aziende di inserirsi
all’interno della catena internazionale del valore.
Infatti se il sapere contestuale non viene codificato, esso non può condurre
all’esplicitazione di una domanda di servizi reali e alla conseguente creazione
dell’offerta. Nell’internazionalizzazione, un’impresa deve necessariamente fare
ricorso a fornitori di servizi esterni che possono essere realmente utili solo se chi li
eroga condivide la cultura aziendale e sa interagire con i richiedenti. Le imprese
della Riviera riconoscono l’Acrib e i consorzi collegati come una loro creazione,
immersi nello stesso contesto di riferimento, quindi partecipano al momento
7 A. Foglio (1993).
106
cooperativo traendone linee d’azione individuali. Lo stesso servizio moda messo a
disposizione delle imprese dall’associazione é usufruito da gran parte delle
associate8. Dal momento che le produzioni della Riviera si stanno connotando da
una sempre maggiore ricerca della qualità e del contenuto moda, la fase di
ideazione dei modelli risulta essere determinante per il successo della collezione. Il
servizio consente ai modellisti delle singole imprese di caratterizzare le proprie
creazioni a seconda delle tendenze presenti e future del settore della moda
riducendo i costi di una ricerca individuale e dando al distretto una certa unitarietà
stilistica distinguibile dal consumatore.
Il problema dell’accesso ai canali distributivi non si risolve con il solo ricorso
alla banca dati perché, oltre alla difficoltà informativa, esiste l’ostacolo della
intermediazione distributiva internazionale. In mercati relativamente vicini come
quelli europei, la distribuzione si effettua sia direttamente che indirettamente, ma nel
caso di una penetrazione cospicua in un paese lontano si presenta il problema di
un’organizzazione fissa in loco. La maggior parte delle imprese brentane hanno
dimensioni troppo esigue per potersi avvalere di filiali o di succursali in mercati
lontani, per cui l’Acrib ha studiato e realizzato una soluzione alternativa. Il problema
alla base era la presenza delle calzature distrettuali nel mercato nordamericano; di
fronte a relativamente alti volumi di vendita (relativamente perché per le produzioni
di calzature di elevata qualità non si può parlare di cifre ingenti in termini di numeri
di paia) la distribuzione indiretta non era più sufficiente. L’idea é stata quella di dare
un supporto materiale a un nucleo di imprese del distretto interessate a tale sbocco
senza costringerle a forti immobilizzazioni finanziarie. Il risultato é stato lo show
room (“Venetian Fashion Group”) aperto nel 1998 a New York.
Il progetto riveste un’importanza specifica perché ha coinvolto l’attore
collettivo (l’Acrib), le singole imprese, l’amministrazione pubblica e l’Istituto
nazionale per il commercio estero. Lo show room é stato realizzato come progetto
all’interno degli accordi di programma del 1997 fra Regione Veneto e Ministero per il
8 G.L. Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato (1998).
107
Commercio Estero e ne detiene la titolarità l’ufficio Ice di New York. Fino a questo
momento la Regione si era limitata a interventi contributivi mirati a singole iniziative
promozionali, ma con questo progetto si é aperta la strada di una collaborazione più
sostanziosa con il distretto. Lo show room consente a 13 imprese brentane di
usufruire di un punto d’appoggio per la penetrazione del mercato americano. E’ una
struttura di servizio e non di vendita e in esso operano individualmente i
rappresentanti delle imprese. A coordinare il tutto c’é un capo progetto che lavora
all’interno dell’Italian Trade Comission (ICE) nella sezione calzature, pelle e
componenti. I costi d’esercizio del centro sono ripartiti fra l’impresa (50%), il
Ministero per il Commercio Estero (25%) e la Regione Veneto (25%) cosicché la
prima non deve sobbarcarsi ingenti uscite. La struttura ha lo scopo di facilitare i
rapporti con il mercato americano e non ha scopo di lucro per cui i servizi offerti
sono pagati dalle imprese al prezzo di costo.
Una tale struttura di presenza nel mercato é un’innovazione tale che, in caso
di successo, potrebbe rappresentare il primo di numerosi moduli identici da
implementare in paesi differenti. E’ in effetti allo studio un progetto di tale tipo anche
per la Cina Popolare, nella fattispecie a Shangai, che permetta una più agevole
attività ai calzaturifici brentani nel promettente mercato del sud-est asiatico.
L’azione intrapresa porterà i suoi benefici in termini di efficienza distributiva
ma anche dal punto di vista promozionale. E’ infatti su questo versante che il
distretto nel suo insieme dovrebbe investire per migliorare la sua visibilità nei
confronti del più ampio spettro di operatori economici e di consumatori.
5.3
La promozione delle specificità distrettuali
La Riviera del Brenta rappresenta uno dei maggiori distretti italiani per la
produzione di calzature in pelle e cuoio di alta qualità e contiene al suo interno una
competenza nel settore accumulata nel corso di un secolo di attività. Tali
caratteristiche sono il motivo del grande successo esportativo dei calzaturifici del
108
Brenta ma possono anche essere considerate il punto di partenza per l’evoluzione
del distretto. Il suo inserimento nel comparto moda si adatta perfettamente con le
caratteristiche produttive dell’area. Come già detto, le dimensioni limitate delle
imprese e l’alta flessibilità produttiva consentono la fabbricazione di piccole serie
estremamente variate. Ciò si adatta perfettamente alle necessità delle grandi griffe
della moda, che richiedono qualità del prodotto e varietà tipologica in piccoli numeri
di paia. Il distretto quindi si é notevolmente specializzato in un prodotto di fascia alta
e si é definitivamente inserito nell’Italian fashion style. Questa qualificazione
produttiva é il presupposto essenziale per un proficuo collocamento all’interno
dell’economia globale. Effettivamente, i concorrenti sono sempre più numerosi, ma
la Riviera del Brenta si distingue fra tutti. L’omogeneità e la qualità della produzione
locale rappresentano per i clienti storici una garanzia nell’acquisto, e li fidelizza in
un rapporto duraturo9.
Fra gli elementi del marketing mix, il più importante per il target di vendita dei
calzaturifici del Brenta é senza dubbio la qualità. Non si riscontra la necessità di un
controllo consorziale stringente su tale aspetto perché il singolo produttore avverte
che l’unico modo per rimanere sul mercato é quello di puntare sulla qualità del
prodotto. La logica qualitativa é perseguita con estrema tenacia dai singoli
imprenditori e permea le abilità professionali degli operai specializzati. La qualità
della calzatura rappresenta il segnale delle capacità lavorative dell’imprenditore e
dei suoi dipendenti. Il “saper fare il proprio mestiere” all’interno del distretto significa
il riconoscimento sociale della comunità, vale a dire la condizione per una vita
gratificante. E’ indubbiamente un fattore extra-economico, ma strutturale per capire
le logiche di funzionamento di un distretto industriale. Gli operatori economici che
danno vita a un’attività sono inseriti in una specifica etica del lavoro e quindi sanno
quali sono le conseguenze sociali di comportamenti che si distaccano
negativamente dalla media. Ciò non comporta un’inibizione nell’introduzione delle
innovazioni purché queste ultime non contrastino con i principi produttivi locali.
9 Idem.
109
Questa puntualizzazione sulla qualità come fattore implicito nella produzione
é funzionale alla spiegazione delle potenzialità di un marchio collettivo, che
promuova l’intero distretto. Per un calzaturificio che produce scarpe di tipo medio-
fine in pelle e cuoio é un fattore di vantaggio poter dimostrare la costanza nella
ricerca della qualità, e questo é normalmente impossibile se l’attività é stata
intrapresa da breve tempo. La clientela del settore é così concorrenziale ed esigente
da pretendere delle garanzie e delle dimostrazioni anche storiche della qualità
produttiva dell’imprenditore. Un produttore agente all’interno di un distretto
consolidato può avvalersi a tal fine dell’immagine collettiva. Per questa ragione gli
operatori economici della Riviera del Brenta possono usufruire dell’immagine del
distretto come garanzia di qualità.
A tal proposito nel 1976, con la creazione dei Maestri Calzaturieri del Brenta,
si é ideato un marchio collettivo che identificasse il consorzio. Il marchio
effettivamente esisteva già ed era quello della Confraternita dei Calegheri veneziani
del 1868. Il trasferimento di tale sigillo storico sulla terraferma é avvenuto in modo
naturale e non conflittuale. Oramai l’attività calzaturiera di Venezia era estinta , al
contrario di quella brentana che era nata e cresciuta nel corso del novecento. Così il
marchio é passato di titolarità al consorzio, che lo ha depositato presso il tribunale e
ha iniziato a farne uso. Si tratta di un sigillo storico senza funzioni commerciali ma
solo promozionali e informativi. Esso é impiegato dal consorzio come simbolo
distintivo della sua attività e di quella delle imprese del distretto, ma non ha mai
interessato strategie che vadano oltre l’informazione.
Il collegamento ai calzolai veneziani non é improprio e per di più rievoca
nell’immaginario collettivo il passato artistico fiorente della Serenissima. Ed é il
legame con Venezia che é stato al centro di un importante iniziativa culturale,
promossa dai Maestri Calzaturieri del Brenta, che ha prodotto nel 1988 l’allestimento
di un’esposizione sulle arti e i mestieri nella città lagunare (“I mestieri della moda a
Venezia”). La cura della mostra ha richiesto cinque anni di ricerca e di studio in
archivi e musei e ha portato alla costituzione di una società a responsabilità limitata
110
per l’amministrazione dell’evento10. E’ stata portata a Berlino, New York e Londra
ottenendo un grande successo di pubblico11. Tutto ciò sembra esulare il contesto
economico-produttivo del distretto, invece rappresenta un’interessante azione
promozionale per rendere visibili i calzaturieri del Brenta anche al grande pubblico.
E’ proprio la scarsa conoscenza del distretto da parte dei consumatori un
handicap per la diffusione del prodotto. Infatti solo i punti vendita conoscono la
provenienza delle calzature e identificano la Riviera del Brenta come zona tipica di
produzione. A questo punto risulta necessario presentare ai consumatori-target la
specificità delle calzature provenienti dal distretto veneto. Per fare ciò bisogna
proseguire l’attività di promozione collettiva, portando avanti un’immagine unitaria
della qualità della produzione brentana e il marchio dei Calegheri potrebbe
assolvere a tale scopo. Per il momento l’uso del sigillo é consentito, oltre che al
consorzio promotore, a tutte le imprese consorziate. Il limite ufficiale é quindi solo
l’appartenenza all’area geografica della Riviera, condizione per poter aderire al
consorzio, senza controlli specifici sulla qualità delle calzature. Il consorzio si riserva
il diritto di possibili diffide nel caso in cui un’impresa consorziata utilizzi il marchio
per produzioni di visibile qualità inferiore (fatto mai accaduto, a ulteriore prova della
professionalità degli imprenditori locali). Tuttavia la mancanza di un controllo
ufficiale e stringente sulla qualità del prodotto non permette di considerare il sigillo
come un indiscutibile marchio di qualità.
I traguardi di un’evoluzione del marchio collettivo riguardano due aspetti: da
un lato l’attestazione attraverso un controllo della qualità effettiva della calzatura,
dall’altro l’utilizzo più esteso possibile del sigillo soprattutto dalle imprese che
godono già di un certo successo individuale presso i consumatori. Riguardo al primo
punto, e ricollegandomi al concetto di qualità produttiva come manifestazione della
cultura distrettuale, é facile capire come e perché non siano stati sviluppati da parte
degli attori collettivi dei controlli ufficiali sulla qualità. Tuttavia all’acquirente serve
una garanzia tecnica della testata qualità perché sarebbe meno immediato nonché
10 Al termini dell’esposizione la società é stata sciolta e le quote sono passate al consorzio del Maestri Calzaturieri. 11 Solo a New York, in due mesi di permanenza della mostra, sono stati registrati 22.000 visitatori.
111
di difficile comprensione un discorso articolato sulle dinamiche distrettuali. Le
attestazioni rappresenterebbero così dei metodi veloci di rappresentazione di qualità
effettiva.
Un esempio analogo si é verificato nel dstretto del tessile-abbigliamento di
Carpi nel 1985, quando é stato costituito il consorzio misto privato-associativo-
pubblico “Carpi Qualità”12. Compito del consorzio era l’assegnazione del marchio di
qualità ai prodotti che avessero superato cinque tipi di controlli (solidità colori,
durata, stabilità dimensionale, regolarità taglie e misure, regolarità visibile di
esecuzione). Il progetto ha avuto una vita breve a causa di leggerezze gestionali del
consorzio, scarsità di risorse finanziarie e controlli troppo omogeneizzanti per un
distretto con produzioni di qualità molto varia. Infatti l’errore é stato strategico
perché il marchio é stato assegnato a imprese troppo distanti per fascia di prezzo,
tipo di prodotto e canale di vendita. Ovviamente le imprese più “in alto” non
marchiavano per non confondersi con quelle più “in basso” e perdere così immagine.
La fonte di insuccesso di “Carpi Qualità” non riguarda il distretto della Riviera
del Brenta in quanto il tipo, la qualità e il posizionamento del prodotto sono
omogenei. Resta da superare la percezione dell’imprenditore della superiorità delle
proprie creazioni rispetto a quelle degli altri. Ma anche i più restii si
convincerebbero di fronte al successo dell’iniziativa, in termini di partecipazione e di
risultati economici.
Un altro passo delicato da affrontare con estrema competenza consiste nella
scelta dei criteri per testare la qualità di una calzatura in pelle e cuoio13. La
decisione dei tipi di controllo dovrebbe essere presa a maggioranza dal personale
tecnico specializzato delle imprese consorziate, perché il marchio rimane comunque
patrimonio dell’intero distretto e non solo delle imprese leader. In questa fase, i
responsabili del progetto devono considerare l’utilità di predisporre dei controlli non
12 L.Parri (1993). 13 Le fasi del ciclo produttivo della calzatura in pelle si possono suddividere in: 1) taglio del pellame (a trancia o manualmente) sulla base dei disegni del modellista; 2) lavorazione delle differenti parti della tomaia, incollatura e cucitura; 3) preparazione del fondo (suola, soletta, guardolo e tacco), che viene normalmente affidata ai suolifici; 4) montaggio della tomaia sulla suola; 5) finissaggio (stiratura, tintura dei tacchi, lucidatura, correzione difetti, messa in scatola) lungo la manovia.
112
troppo leggeri in modo da certificare una reale qualità superiore e stimolare le
imprese a raggiungere il livello richiesto. Un marchio qualità infatti non esaurisce la
sua validità solo dal lato dell’offerta e quindi della commercializzazione ma
contribuisce, se ben impostato, a innalzare il livello medio qualitativo. Nel caso della
Riviera del Brenta, i margini di livellamento verso l’alto della qualità sono
estremamente limitati per cui il marchio avrebbe una funzione più propriamente
promozionale.
Il marchio collettivo assolverebbe al compito di certificare la qualità del
prodotto finito e allo stesso tempo di identificarne la provenienza. Esso rappresenta
una politica di qualificazione e di promozione della produzione locale. Cosicché
l’acquirente, dettagliante o consumatore che sia, racchiude in un unico binomio la
qualità di una calzatura alto di gamma e la sua origine produttiva, il tutto in un
marchio impresso nel prodotto stesso. Il sigillo della confraternita dei calegheri
rappresenta già per gli operatori un identificativo della qualità brentana, seppur non
su basi tecniche, perciò il suo uso nelle modalità descritte sarebbe una naturale
evoluzione.
La seconda condizione per l’attuazione di una innovativa politica di marketing
territoriale é che il marchio in questione sia riconosciuto e usato dal maggior numero
di calzaturifici del distretto. Normalmente ogni imprenditore considera il proprio
prodotto superiore ai concorrenti e riconosce solo le proprie competenze aziendali
come fonte del successo ottenuto. Anche nella Riviera del Brenta esiste questo
atteggiamento ma allo stesso tempo prevale la consapevolezza che le competenze
distintive sviluppate all’interno dell’area siano fonte di vantaggio comparato e che
leghino i diversi produttori a un comune destino. Ciò induce a pensare, e il tutto é
stato confermato da alcune interviste agli imprenditori locali, che l’azione prospettata
di promozione collettiva sarebbe considerata con interesse.
L’adesione delle imprese più conosciute a livello commerciale rappresenta la
chiave per il successo del marchio. Ovviamente non essendo un marchio
commerciale non interferisce con quello individuale dell’impresa bensì lo arricchisce.
Normalmente il sigillo dei calegheri viene impresso sulla suola e integrato con il
113
simbolo della vera pelle, per cui non compromette la visibilità del marchio aziendale.
La neutralità per il design della calzatura e, al contrario, il guadagno in termini di
immagine provocati dal marchio collettivo possono essere spiegati attraverso un
paragone proprio con il simbolo della vera pelle. L’apposizione di quest’ultimo in un
prodotto di pelle ne accresce il valore perché certifica la natura del materiale e
garantisce l’acquirente da possibili contraffazioni. Identico risultato lo si otterrebbe
con il marchio di qualità e di origine per le calzature della Riviera.
L’utilità dell’uso del marchio collettivo sussiste anche per le imprese che
fabbricano calzature su concessione o su disegno di grandi firme della moda
internazionale. Le case di moda concordano le caratteristiche della produzione
locale e pretendono una qualità all’altezza della loro immagine. Un’ulteriore
attestazione della qualità che specifichi la provenienza della calzatura (la Riviera del
Brenta é già riconosciuta dagli operatori del settore) non può compromettere
l’immagine di marca ma rinforzarne la garanzia sull’accuratezza costruttiva
dell’oggetto. Se le scarpe firmate, che hanno un forte impatto comunicativo e un alto
valore aggiunto, utilizzassero il marchio i benefici si ripercuoterebbero sull’intera
produzione distrettuale.
Un tentativo analogo di rafforzamento dell’immagine distrettuale grazie alle
imprese più conosciute lo sta intraprendendo la società consortile “Promozione e
Sviluppo dei Distretti del Ticino” in provincia di Novara. E’ un consorzio misto di
recente creazione, finanziato da fondi pubblici (Legge Regionale 24/1997) e privati.
La società consortile opera all’interno dei territori di Oleggio e Varallo Pombia, zone
produttive specializzate nel settore tessile (in particolare sul costume da bagno) e
riconosciute come distretti ufficiali dalla Regione. Il tessuto sociale e produttivo é
differente da quello descritto della Riviera del Brenta per una serie di caratteristiche.
Prima fra tutte la scarsa cooperazione fra i produttori locali che non ha mai condotto
alla progettazione di azioni collettive per lo sviluppo complessivo dell’area.
Senza addentrarsi troppo in una realtà complessa, meritevole di spiegazioni
accurate, é interessante il programma di lavoro del neo-costituito consorzio. Per il
momento le adesioni delle imprese distrettuali sono in numero ridottissimo, anche
114
perché non sono ancora state realizzate attività promozionali concrete che
dimostrino l’efficacia dell’organizzazione collettiva. Il programma consortile prevede,
oltre alla creazione di una banca dati distrettuale e di una pagina web su internet,
valide attività di promozione in termini di marketing territoriale. Una brochure
descrivente il distretto e le imprese sarà recapitata ai potenziali clienti e si
attueranno manovre promozionali specifiche in base ai risultati dei preliminari studi
di mercato e di posizionamento della produzione locale. Fra le diverse iniziative
anche quella, ricollegandomi così con il progetto di promozione collettiva del Brenta,
di proporre agli acquirenti un’immagine forte del distretto potendo vantare grandi
nomi dello stilismo italiano.
La presenza in loco di attività produttive di alta qualità di case di moda
affermate é un’implicita promozione dell’intero distretto, se, e solo se, tali produzioni
vengano riconosciute dagli acquirenti e dai distributori come originarie di Oleggio e
Varallo Pombia. Il distretto cioé deve puntare su un aumento della visibilità
internazionale e su una qualificazione generale delle imprese grazie all’avvio di un
nuovo centro servizi specializzato e alla sensibilizzazione degli imprenditori in
termini di Total Quality Management.
Dal breve confronto con l’esperienza piemontese, emergono i traguardi già
raggiunti e le potenzialità per lo sviluppo futuro nella Riviera del Brenta, che si può
senz’altro definire come un distretto evoluto. Il marchio collettivo dei Calegheri
rappresenterebbe l’esempio pratico della maturità del distretto e gli consentirebbe di
affrontare il mercato globale. La specificità del distretto sarebbe individuata e
distinta agevolmente dagli operatori e dai consumatori internazionali, qualificando
l’area locale con un’esclusività mondiale. Infatti il percorso di internazionalizzazione
consente la sopravvivenza delle forme produttive locali, tra cui il distretto industriale,
solo se queste si presentano alla competizione globale in modo coeso, sostenendo
e dimostrando la superiorità e la convenienza delle proprie produzioni.
CONCLUSIONI
115
6. Un possibile sviluppo dei distretti industriali veneti per il
terzo millennio
L’analisi fin qui proposta ha evidenziato i tratti salienti del passato e del
presente dei distretti industriali veneti consentendo a questo punto di abbozzare
alcune linee di sviluppo futuro. Premettendo che l’esercizio del vaticinio non rientra
fra le prerogative di un’analisi economica, si possono solo delineare delle possibili
tendenze, delle direzioni probabili che lo sviluppo distrettuale potrebbe seguire.
Non si può perciò affermare con assoluta certezza che aspetto avrà il futuro,
dato che l’economia veneta non sarà una semplice conseguenza dello statu quo
perché alcuni fra i principali fattori che ne hanno permesso lo sviluppo stanno
irrimediabilmente subendo processi di forte erosione e sono coinvolti in dinamiche
ad elevata discontinuità.
Nel mercato del lavoro, il raggiungimento di condizioni di quasi piena
occupazione, il miglioramento delle qualità dell’offerta, il benessere diffuso delle
famiglie, la nuova situazione demografica con conseguente attrazione di flussi di
manodopera straniera invertono le condizioni originarie esaurendo la risorsa lavoro
come fattore a basso costo.
La formula imprenditoriale alla base del successo delle piccole e medie
imprese venete sta mutando con l’avvento della seconda generazione ai vertici della
struttura organizzativa. Il passaggio generazionale inserisce a capo delle imprese
nuovi operatori economici, ispirati da una diversa etica del lavoro, i quali si trovano
ad affrontare problemi legati alla complessità del presente. La piccola impresa
veneta é portatrice di un modello individualistico di azione imprenditoriale che si é
retto su di un forte impulso all’autosufficienza e sul sapere pratico, informale,
posseduto per lo più dall’imprenditore stesso. Ora questo punto di partenza deve
116
essere integrato con l’accesso alle reti globali, sviluppando nuovi saperi che
potenzino le capacità intellettuali e comunicative delle imprese.
Le trasformazioni dell’economia internazionale richiedono nuovi strumenti di
problem solving strettamente correlati ai progressi dell’information technology e che
sappiano gestire gradi elevati di conoscenza. Quindi l’ambiente locale non fornisce
più tutte le risorse necessarie all’attività economica: anche le piccole imprese
distrettuali devono aprirsi ed entrare in simbiosi con il sistema globale. Lo stesso
ambiente esterno all’impresa é mutato nel senso di un cambiamento delle condizioni
d’uso del territorio, delle infrastrutture logistiche e di quelle sociali mettendo in
evidenza sempre più preoccupanti problemi di congestione. La produzione attuale
nei distretti si sta riqualificando verso un sempre maggiore livello di qualità; la logica
quantitativa non é più la predominante e, di conseguenza, anche l’ambiente di
riferimento deve orientarsi nella nuova direzione offrendo risorse specifiche.
I distretti industriali si trovano a fronteggiare un salto evolutivo epocale che
condiziona e determina il loro futuro. La capacità di ogni singolo distretto di auto-
organizzarsi in base alle necessità prodotte dalla competizione globale nell’era
dell’economia della conoscenza influenzerà l’intero panorama produttivo veneto.
Bruno Anastasia, in un articolo dal titolo Il Veneto alla fine del XX secolo:
esercizi divinatori di scenari possibili 1, ipotizza quattro linee evolutive della regione.
Un primo scenario vede un Veneto “dualista” o “americano” dove le imprese migliori
riescono ad agganciarsi all’internazionalizzazione, vengono premiate dallo stato e
auto-organizzano dei servizi privati concorrenti a quelli pubblici poco efficienti. In
questa prospettiva i distretti rischiano di scomparire perché l’individualismo egoistico
delle imprese leader prevale sulle tradizionali forme aggregative determinando un
netto dualismo sociale.
Un secondo scenario descrive una situazione ancora più negativa, dove
l’economia veneta prende le caratteristiche di quella inglese in declino. La posizione
strategica marginale dell’Italia, il suo scarso virtuosismo economico, l’inefficienza
allocativa pubblica, la frammentazione politica si rifletterebbero inesorabilmente
1 B. Anastasia (1993).
117
sulle virtù regionali scoraggiando gli slanci imprenditoriali locali. Le difficoltà
politiche si sommerebbero a quelle economiche generando un clima di sfiducia
inadatto anche a mantenere l’interesse dei capitali esteri verso il nostro paese. I
distretti subirebbero il trend negativo nazionale e soffrirebbero della scarsa
competitività internazionale perché non supportati da un forte sistema-paese.
Il Veneto potrebbe anche “nipponizzarsi”, nel senso di un’accentuazione della
neo-integrazione sociale. L’ideologia del lavoro, la subordinazione alle ragioni
dell’azienda, il valore del risparmio e la coesione socio-politica di stampo regionale
distanzierebbero sempre più il Veneto e le altre regioni virtuose dal resto d’Italia
attribuendo all’impresa un ruolo di integratore socio-economico. La classe politica
sarebbe delegittimata dalle sue funzioni di regolazione pubblica e si rimetterebbe
alle forze economiche. L’orgoglio regionale, non più l’amor patrio, e la percezione
del grado di benessere raggiunto spingerebbero verso una chiusura difensiva nei
confronti degli elementi destabilizzanti provenienti dall’esterno della regione. Lo
stato nazionale diverrebbe secondario e si prenderebbe come contesto di
riferimento l’Unione Europea. I sistemi produttivi locali sarebbero protagonisti di
questa evoluzione e aumenterebbero di numero e di forza configurando l’intera
regione come un unico distretto plurisettoriale.
Infine, il quarto scenario ipotizzato da Anastasia prefigura un Veneto virtuoso,
calato in una situazione nazionale promettente e integrata. I dati congiunturali
positivi permetterebbero di affrontare i problemi socio-economici con meno
allarmismo e preoccupazione, trovando la soluzione per l’integrazione degli
immigrati extra-europei, per le delocalizzazioni produttive in paesi a basso costo del
lavoro e per la riqualificazione dell’offerta pubblica e privata di servizi. Un sistema di
welfare smorzerebbe le situazioni sociali problematiche e i soggetti economici,
privati e pubblici, investirebbero in risorse umane internalizzando innovazioni e
nuove tecnologie.
Quest’ultima soluzione appare eccessivamente ottimistica e quindi
irrealizzabile, per quanto debba essere interpretata col significato che le é stato
attribuito dal suo autore: un mero esercizio divinatorio. Sulla base dell’obiettivo che
118
mi sono prefisso, ritengo che lo scenario probabile sia il risultato della combinazione
di elementi di ciascuno dei quattro prospetti con l’aggiunta di ulteriori osservazioni
(derivanti anche dai nuovi sviluppi occorsi dopo il 1993, anno di pubblicazione
dell’articolo di Anastasia).
Il distretto industriale va prima di tutto confrontato con la globalizzazione
dell’economia mondiale per capire quale sarà il suo ruolo e la sua forma di
interazione con l’esterno. Esso non potrà sopravvivere se si chiuderà all’interno dei
propri limitati confini con scopi difensivi perché non beneficerebbe dell’allocazione
internazionale delle risorse. Infatti alcuni distretti veneti stanno aprendo la propria
struttura a monte e nelle fasi intermedie del ciclo produttivo entrando così a far parte
della catena internazionale del valore. A seguito di questo passaggio, l’impresa si
focalizza maggiormente sulla fase del ciclo produttivo in cui gode di un vantaggio
comparato ed esternalizza le altre, ricorrendo poi all’out-sourcing.
L’internazionalizzazione non fa solo riferimento all’esportazione ma a tutte le
attività all’estero che non siano di natura occasionale, dalla delocalizzazione
produttiva agli accordi di distribuzione. I vari distretti hanno attuato percorsi di
internazionalizzazione differenti, più o meno spinti, anche a seconda della
specializzazione produttiva tipica. Nei distretti tessili, ad esempio, la produzione
labour-intensive non richiede specifiche abilità professionali per cui si presta alla
delocalizzazione in paesi con un costo del lavoro inferiore all’Italia. Un esempio
opposto é rappresentato dal distretto calzaturiero della Riviera del Brenta, dove le
calzature prodotte richiedono un forte sapere contestuale per raggiungere l’alto
livello di qualità che le contraddistingue, per cui risulta più conveniente mantenerne
la produzione in loco.
Nonostante i distretti si differenzino in termini di scelte strategiche, tutti sono
portati a internazionalizzarsi dal punto di vista della gestione della conoscenza. Nel
probabile successo dell’organizzazione internazionale, i nodi locali, quali potrebbero
essere i distretti, devono mantenere i rapporti fra di loro e con il centro attraverso
l’uso di sostanziali tecnologie di comunicazione. Paradossalmente, nello sviluppato
Veneto, dal lato dell’offerta di sistemi tecnologici di comunicazione c’è una carenza
119
di soluzioni specifiche per le realtà distrettuali, e dal lato della domanda é ancora
forte la diffidenza degli imprenditori nei confronti della dimensione virtuale del
lavoro. Nei servizi non-standard mirati all’internazionalizzazione deve esserci una
co-evoluzione di domanda e offerta e ciò complica il processo di creazione degli
stessi.
I servizi complessi non possono essere sviluppati e mantenuti all’interno di
una piccola impresa, per cui l’attore collettivo, pubblico o privato, deve garantirne
l’erogazione. Da qui l’importanza dell’autoregolazione distrettuale in termini di
associazioni, consorzi e alleanze fra imprese. L’attore collettivo distrettuale possiede
la massa critica per affrontare livelli superiori di complessità e di distribuirne i
risultati fra le imprese locali. Le logiche cooperative, strutturali per un distretto
industriale, hanno fatto registrare a tal proposito importanti successi che gettano le
basi per l’evoluzione futura. Nel caso specifico della Riviera del Brenta,
l’associazione locale (ACRiB) e i consorzi ad essa collegati rappresentano il
successo dell’azione collaborativa fra gli imprenditori locali. I servizi offerti si sono
evoluti con il cambiamento dei bisogni delle imprese e attualmente hanno raggiunto
una gamma diversificata che va dall’assistenza tributaria a quella commerciale.
Ciò costituisce la tendenza di sviluppo più chiara e diffusa all’interno dei
distretti veneti. Ovviamente, creare un organismo collettivo non significa dotare il
sistema locale di una testa pensante, ma di implementare nel territorio l’offerta di un
sapere codificato specifico. Le associazioni o i consorzi distrettuali costituiranno
anche i soggetti intermediari fra la realtà produttiva locale e quella regolativa
pubblica. Spetterà a tali organizzazioni colmare la carenza attuale di servizi specifici
per la specializzazione produttiva del distretto. Infatti, dalle interviste ad alcuni
imprenditori della Riviera del Brenta, è emerso sia l’interesse per le potenzialità
della funzione di marketing (internazionale, in questo caso, visto l’alto tasso di
esportazione) sia la consapevolezza che le proprie ridotte dimensioni non ne
consentono uno sviluppo interno all’impresa. La soluzione appare quindi la
cooperazione fra le imprese per dotare gli organismi collettivi di sempre maggiori
competenze nel marketing internazionale. A ciò occorre aggiungere un altro compito
120
specifico, la promozione collettiva dell’intero distretto, che dovrebbe rendere visibili
e riconoscibili le realtà locali in quanto zone tipiche per una determinata produzione,
dotate di risorse specifiche e di competenze professionali e tecnologiche mirate.
In questa prospettiva si inserisce il progetto di un uso sistematico del marchio
collettivo, non commerciale, e che permetta di identificare il distretto. Nella Riviera
del Brenta esiste un margine di sviluppo nel senso di un utilizzo del sigillo storico
della Confraternita dei Calegheri come marchio che certifichi la qualità (testata) e
l’origine delle calzature. Il marchio apposto sul prodotto certificato rappresenterebbe
così un mezzo comunicativo rapido che codifica il risultato finale del dispiegamento
dei saperi contestuali e ne consente un’agevole circolazione nel mercato mondiale.
I distretti così qualificati possono entrare come attori economici autonomi
nella competizione globale, ma devono essere sostenuti da un ambiente locale in
continua evoluzione, che fornisce sempre più intensi fattori di vantaggio2. Le
imprese non scelgono più la loro localizzazione in base ai vantaggi della sola
contiguità spaziale all’interno di un distretto, ma valutano la scelta del territorio che
più si confà al complesso delle loro esigenze economiche.
In conclusione, il territorio veneto è stato oggetto in passato di una
industrializzazione “dolce” che ha permesso l’imprenditorializzazione dell’ambiente
e la creazione di nuclei produttivi locali, evolutisi in moderni distretti industriali. Oggi,
perché le imprese venete, nel processo di internazionalizzazione, mantengano la
loro sede all’interno dei distretti originari, il territorio deve essere competitivo rispetto
agli altri contesti localizativi offrendo alle aziende le risorse necessarie alla
riproduzione del successo ottenuto. Siamo agli inizi di un processo di
terziarizzazione dell’economia veneta, che, se procede senza fratture, consentirà ai
distretti industriali di sviluppare al loro interno, tramite gli attori collettivi, le tecniche
e le forme per un’efficiente gestione della conoscenza. Se il globale mira a una
divisione più ampia possibile della conoscenza, al locale spetta sviluppare quella
contestuale. Questa complementarietà di forme della conoscenza è il motivo che
2 M.Porter (1990).
121
può rendere i distretti industriali nodi di una rete che trova nei diversi ambienti
un’indispensabile fonte di originalità e di innovazione.
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