Mariateresa Sartori, You are the music while the music lasts,
Galleria Michela Rizzo, Venezia
"o una musica sentita così profondamente che non è affatto sentita, ma voi siete la musica finché la musica dura" T.S.Eliot, The Dry Savages, In: Four Quartets I disegnatori, video, loop, 2013 Mi è capitato di farmi ritrarre dai miei allievi di disegno. E sono rimasta così colpita dal loro sguardo: improvvisamente non si è più percepiti in quanto persona, con il proprio ruolo e carattere, ma si diventa puro spazio, un mero fenomeno fisico. Lo sguardo dei disegnatori è uno sguardo misuratore, al di là del giudizio morale ed estetico. Il video è costruito in modo tale da far vivere allo spettatore la stessa esperienza: da qualsiasi punto lo si guardi si ha l’impressione che i disegnatori stiano guardando te, e che stiano disegnando proprio te. Ogni allievo ha un proprio ritmo di sguardo sul foglio e sul soggetto. Il ritmo soggettivo di ogni singola persona che alza e abbassa lo sguardo va a formare nel suo insieme una specie di contrappunto visivo ritmico.
Un minuto e 15 secondi di sguardo dei disegnatori Pennarello su carta da lucido 21 x 29,7 cm 2013
Dopo aver ripreso gli allievi mentre disegnavano (vedi video I disegnatori) ho analizzato il ritmo del loro sguardo che va alternativamente sul foglio e sul soggetto. Ho ingrandito ogni singolo volto a grandezza naturale e ho appoggiato un foglio trasparente sullo schermo del computer. Poi ho seguito con un pennarello per un minuto e 15 secondi il movimento di ogni occhio. In questo modo ho registrato in modo piuttosto fedele il ritmo di sguardo di ogni disegnatore. Fedele quanto lo consente l’umana percezione, ovvero i miei occhi e la mia mano. Ho utilizzato un mezzo altamente tecnologico come il computer in modo strettamente meccanico, facendo passare la registrazione dei dati attraverso la mia percezione. Nella dimensione di esperimento empirico a me così congeniale ho scoperto una serie di cose: indipendentemente dal momento (le riprese video sono state fatte in mesi differenti) e indipendentemente dal soggetto che stavano disegnando, ogni persona mostrava una specie di impronta digitale ritmica. Le configurazioni ritmiche che possono risultare dallo sguardo di ogni singolo allievo sono certamente infinite, ma saranno riconducibili tutte a un certo pattern tipico di quella specifica persona, come si può ben vedere dall’immagine che segue in cui ci sono 4 disegni di due diversi allievi. La seconda scoperta è sullo sguardo di chi è portato o meno per il disegno. Conosco bene i mie allievi e so chi per natura ha questo dono. Nella seconda immagine si può vedere una persona non particolarmente portata, ( la quale comunque raggiunge risultati notevoli, partendo però svantaggiata, non potendo sfruttare una dotazione di base.) Nell’ultima immagine si può vedere lo sguardo di una persona particolarmente portata. Come si può ben vedere nel primo caso il pattern ritmico occupa uno spazio molto maggiore e segnala interferenze e dispersioni. Nel secondo caso invece lo sguardo diventa una specie di scanner, la persona intera si potrebbe dire si fa sguardo, sguardo puro, senza interferenze.
1 Minuto e 15 secondi di sguardo dei disegnatori 600 cm x 155 cm
135 disegni, 21 x 29,7 cm Pennarello su carta da lucido Galleria Michela Rizzo Venezia 2013
1 Minuto e 15 secondi di sguardo dei disegnatori 600 cm x 155 cm 135 disegni, 21 x 29,7 cm Pennarello su carta da lucido Galleria Michela Rizzo Venezia 2013
Il Progressivo. La Quarta Sinfonia di Brahms Il titolo (Il Progressivo) viene dalla definizione che Schoenberg dà del processo compositivo di Brahms: da un nucleo tematico si sviluppano le possibili variazioni; i temi quindi non sono in opposizione: ogni passaggio musicale è una variazione del tema di partenza, ogni passo genera il successivo, ogni nuova variazione genera la variazione successiva. Per rappresentare questo processo ho scelto la struttura a diramazione per due ragioni differenti. Da sempre ascoltando la Quarta di Brahms, alberi nordici, come pini e abeti, si sono imposti in modo netto come immagini mentali. Inoltre la diramazione come struttura mostra il proprio processo di sviluppo: ogni ramo genera il successivo e ogni forma determina quella accanto, in un processo autogenerativo in cui la progressione è principio costitutivo. Due quindi sono i livelli: su un piano soggettivo, ciò che quella musica particolare suggerisce a me, e più oggettivamente invece la traduzione di quel principio compositivo in un codice visivo universalmente riconoscibile.
Il Progressivo. La Quarta Sinfonia di Brahms Graffito su smalto, 370 x 440 cm, Galleria Michela Rizzo
In Sol Maggiore/In Sol Minore
Video durata: 5' 21'' colori sonoro 2013 E' un lavoro sulla potenza pervasiva della musica, su quanto questa influenzi non solo i nostri sentimenti ma anche la nostra percezione visiva: arriviamo a deformare l'immagine pur di adattarla al ritmo e all'andamento di ciò che stiamo ascoltando. A livello consapevole prevale la sensazione che l'immagine catturi tutta la nostra attenzione e tutti i nostri sensi, in realtà, e nostro malgrado, è la musica a dettare tirannicamente sensazioni, sentimenti, percezioni, plasmando e dirottando i nostri pensieri a suo piacimento. E' un lavoro esemplificativo che utilizza quindi grandi esempi: dal mondo della musica Vivaldi e Mozart, per le immagini Heimat di Edgar Reitz.
Il concerto del mondo Video, 7’, b/w, sonoro Musica di Stefano Codin Il concerto del mondo è il concerto delle lingue del mondo: l’intrinseca musicalità di ogni lingua è sottolineata dalla traduzione in note di quella particolare conversazione che è caratterizzata da una certa lingua, da un certo timbro di voce, un certo ritmo. In relazione a tutti questi aspetti insieme al musicista Stefano Codin abbiamo scelto di volta in volta lo strumento musicale più adatto.
Il concerto del mondo, Galleria Michela Rizzo, Venezia 2013
Studio n.10 in Si minore op.25 Omaggio a Chopin Video, 7'40'' b/w sound 2010 ”…you are the music While the music lasts” T.S. Eliot La relazione tra musica e linguaggio è sancita dal brano di Chopin che esalta il valore emozionale della comunicazione, universalmente condiviso, mentre ne occulta il contenuto specifico.
Mariateresa Sartori www.mariateresasartori.it
Dell’arte come conoscenza Raffaele Gavarro Nel 1960, durante una dolce estate trascorsa in Provenza, Maurice Merleau–Ponty scrisse il saggio “L’occhio e lo spirito”*, rispondendo all’invito di André Chastel che voleva un suo contributo per il primo numero di Art de France. Com’è noto quella fu l’ultima estate di Merleau-‐Ponty, che morì d’infarto l’anno successivo e quello rimase il suo ultimo saggio. Naturalmente vi starete chiedendo perché inizio queste riflessioni sul lavoro di Mariateresa Sartori partendo da uno dei testi più noti e amati del secolo scorso -‐ tra l’altro principalmente dedicato alla pittura, anzi meglio alla visione, anzi meglio all’occhio, anzi meglio al corpo, anzi meglio alla profondità, anzi meglio alla conoscenza e ai modi limitati o meno, comunque diversi, con cui si realizza nella scienza, nella filosofia e nell’arte? La risposta è essenzialmente in una frase di quel saggio che non mi ricordavo neppure fosse in quel saggio e che mentre Meri mi parlava tentava di venire fuori dalle nebbie del tempo. Così mentre cercavo senza cercare, ascoltando la quarta sinfonia in Mi minore di Johannes Brahms, con una certa sorpresa ho ritrovato quella frase e il molto altro che non ricordavo così necessario, e non solo per l’occasione. Eccola: “Che cosa sarebbe la visione senza il movimento degli occhi, e come potrebbe questo movimento non confondere le cose, se fosse lui stesso riflesso o cieco, se non avesse le sue antenne, la sua chiaroveggenza, se la visione non fosse già prefigurata in lui?”. “Lo sguardo dei disegnatori” è naturalmente il lavoro che ha cavato dalla memoria quella riflessione e tutto il saggio di Merleau-‐Ponty. Si tratta di un esperimento nel quale la Sartori, Meri, dopo aver posizionato un foglio trasparente sul monitor, per un minuto e quindici secondi segue con un pennarello lo sguardo, il movimento degli occhi della persona impegnata a disegnare, tirandone fuori un tracciato vibrante, inquieto e naturalmente doppio. Nel registrare questo fenomeno, si assume a propria volta il ruolo di un imperfetto sismografo di quelle vibrazioni che dagli occhi si trasmettono alla mano e viceversa, in quel momento di massima concentrazione della visione che richiede l’atto della riproduzione sul piano di ciò che si vede nella realtà. Meri annota che il tracciato di uno stesso disegnatore si ripete quasi uguale nel tempo, e forse riuscirete a notarlo anche voi guardando con attenzione, e questo a prescindere da quale sia l’oggetto guardato e che si riproduce. Si potrebbe infatti pensare che lo sguardo segua il contorno della cosa che si disegna, risultando quindi di volta in volta differente. Invece lo sguardo, come dice Merleau-‐Ponty, ha le sue proprie antenne, la sua chiaroveggenza e la visione è già prefigurata in lui. Deve essere proprio così. Inoltre questo esperimento mostra senza dubbio la doppia natura in cui siamo, quella per la quale siamo al contempo “vedenti e visibili”. I disegnatori, gli allievi di Meri che imparano a disegnare e pazienti a volte si prestano alla conoscenza ulteriore che consegue al loro stesso imparare, sono il paradigma visibile di questo doppio stato. Un enigma, come dice sempre Merleau-‐Ponty, molto complesso e affascinante nel quale oltre a vedere ed essere visti, possiamo anche guardarci e riconoscerci. Tutto il lavoro di Meri procede sulla scarnificazione analitica dei paradossi che contiene questa riflessione, sull’essere tra le cose e stare al di fuori di esse per vederle e capirle, in una visione che ci comprende appunto. È una condizione che comporta uno stare tra l’analisi scientifica e il significato metafisico che inevitabilmente ne consegue. Sempre Merleau-‐Ponty nel saggio citato: “Tutta la storia moderna della pittura, il suo sforzo per liberarsi dall’illusionismo e per acquisire dimensioni sue proprie, ha un significato metafisico. Ciò non può essere oggetto di dimostrazione.”. Perché essa, la metafisica, è parte integrante della realtà e della storia e quindi non dissociabile dall’esperienza stessa del mondo. Mentre disegna il movimento degli occhi dei suoi allievi che disegnano, Meri compie il riconoscimento non solo dell’altro come identità, ma anche dell’altro come mondo separato e al tempo stesso compreso nel mondo in cui lei stessa e noi, che a nostra volta guardiamo, stiamo. Le linee descrivono uno stato di operatività, ma anche uno stato d’animo, e nondimeno sono la dimostrazione di un’espressività diversa, autonoma e generata da una visione ulteriore. Quei segni partono da un’empatia e ne producono un’altra in uno sviluppo circolare di espansione in linea di principio infinita. Una condizione che trovate in molti lavori di Meri, dai video come “Quelli che vanno quelli che restano” del 2009, “Homage to Chopin” del 2011, alle installazioni sonore come “Il suono della lingua” del 2008, in cui il sistema di relazioni non è mai confinato
all’interno dell’immagine, del visibile che si offre in visione, ma appunto ci immette in esso con una circolarità includente e che in alcuni casi diventa ipnotica e straniante dalla realtà così com’è offerta dalla stessa rappresentazione. In alcuni casi questa modalità crea un meccanismo narrativo-‐temporale che è di una perfezione perversa proprio grazie alle anomalie sulle quali è costruito. È il caso del video “In Sol maggiore/in Sol minore” del 2013, dove una relazione non coincidente tra immagini e suoni crea un’inquietante diacronia tra le stesse immagini, la musica e i sentimenti che entrambe inducono. La ripetizione di una scena presa dalla trilogia di “Heimat” di Edgar Reitz (Heimat 1935-‐43; per la precisione l’episodio è tratto da Reichshoehenstrasse – Via delle Alture del reich, 1938), diventa il metronomo di uno scorrere del tempo circolare e ipnotico. Ma man mano che il cerchio si forma e si ripete, la musica di Vivaldi e Mozart -‐ appunto il concerto in Sol minore del primo e quello in Sol maggiore del secondo -‐ cambia le nostre aspettative. Sappiamo che in quel momento lui e lei si guarderanno ma il senso dello sguardo cambia, la scena si ripete uguale ma non è più la stessa. Noi però la riconosciamo come identica e questo crea quasi un rifiuto ad assecondare la musica. Ad un certo punto attendiamo, desideriamo, un’uscita liberatoria da quel loop insensato e sfinente, ma la musica ce lo impedisce, trattenendoci all’interno del movimento delle immagini. Certo non è un caso che Meri abbia lavorato su questo tema della relazione tra il tempo circolare e il senso di quello che vi accade all’interno, scegliendo il capolavoro di Reitz, che vale la pena ricordare ha una durata complessiva di circa cinquantatré ore distribuite in quasi altrettante puntate televisive. Un’opera complessa, ambiziosa, che racconta la storia di un tempo, quello del Novecento, fatto di salti improvvisi in avanti e di ritorni inevitabili, in cui appunto la circolarità del tempo è un elemento che trova il compimento finale nel ritorno a casa del protagonista nell’ultimo capitolo della trilogia. Ma vorrei tornare ancora sulla questione del segno, della linea, che ha assunto qui, intendo nella mostra “You are the music while the music lasts”, un ruolo decisivo. E con ciò mi riferisco sia al grande disegno dell’abete che è stato ispirato dal suono della quarta di Brahms, che continuo doverosamente ad ascoltare mentre scrivo, sia alla frammentazione segnica di scotch che ricopre la parete formando un trama di luci e ombre sottili e brulicanti. Non c’è niente di più semplice di una linea tanto nell’idea che nella sostanza della rappresentazione, e non c’è niente che sia più distante dal reale di una linea, come al contempo niente che ne possa di più e meglio determinare la forma. La linea non è solo un’astrazione ma è un paradosso irrisolvibile, almeno fino al momento in cui entra in relazione con la realtà, essendo appunto dotata di un’essenza metafisica che le consente di essere compresa proprio in quel momento. Come ho diligentemente scoperto, la quarta sinfonia fu composta nelle due estati del 1884 e del 1885 a Mürzzuschlag in Stiria, un boscoso Land del sud est dell’Austria. Sono quattro movimenti che vanno da un primo Allegro non troppo ad un secondo Andante moderato, passando per un terzo Allegro gioioso fino ad arrivare all’ultimo Allegro energico, culmine dell’intera composizione. Questo finale rappresenta l’esempio migliore di quella tecnica brahmsiana che Schönberg definì della “variazione sviluppante”. Per la precisione si tratta di trenta variazioni che sviluppano in un crescendo di sonorità e di drammatica emozione, che mostrano uno sviluppo compositivo decisamente libero e che appunto caratterizza la tecnica compositiva di Brahms. Da parte mia ho imparato che la quarta è un capolavoro e ascoltandola, come ho già detto, a lungo, ho cercato di individuarne i momenti di passaggio più significativi. Soprattutto nella ritmicità crescente e nella variazione sviluppante ho cercato i segni e le linee realizzate da Meri, che mentre l’ascoltava ha immaginato boschi di conifere e li ha disegnati riducendoli a graffi che salivano e si espandevano sulla carta stesa sulla parete, in un’ipotesi di progressione infinita che anche qui assume una forza ipnotica. Di quella linea che non imita più il visibile ma “rende visibile” parlava sempre Merleau-‐Ponty ne “L’occhio e lo spirito”, riprendendo il pensiero di Paul Klee e le parole di Henri Michaux, ma soprattutto centrando inequivocabilmente la questione dell’arte sulla visione come conoscenza. Da questa idea, o forse dovrei dire convinzione, che trova molte e nuove conferme oggi, parte una complessa e necessaria riflessione su quale sia il senso attuale dell’arte e la sua funzione in questo nostro tempo. Domande e questioni necessarie non solo alla comprensione dell’opera, ma appunto decisive per la stessa conoscenza del mondo in cui siamo.
• Maurice Merleau-‐Ponty, “L’occhio e lo spirito”, SE edizioni, Milano, 1989; Titolo originale: L'œil et L'esprit, Èditions Gallimard, Paris, 1964.
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