bibliografiaessenzialeQuaderni di Lotus n.10,Milano, 1989 N. COGNOME,Titolo libro, Luogo dataedizione, pp. xx
N. COGNOME, Titoloarticolo, in N. COGNOME,Titolo libro, Luogo dataedizione, pp. xx
N. COGNOME, Titolo libro,Luogo data edizione, pp.xx
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illustrazioni1Stintino, Casa per vacanze,vista
2Castellammare,Insediamento Fincantieri,prospettiva
3Faedis, Scuola elementaree media, sezione
4Otranto, Casa Miggiano,sezioni
5Milano, Casa Frea,particolare
saggia coscienza
l'esterno dell'esternoe l'interno dell'interno:incontro con Franco PuriniAlessandro Cariello, Donatella Chieco
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Sabato 22 maggio 2004, Roma,
Studio Purini
Per introdurre questa nostra conversazione sul rapporto
tra disegno e progetto, vorrei chiederle perché, in architettura,
è necessario disegnare?
Disegnare equivale a prefigurare il risultato dell’azione che si
vuole intraprendere prima che questa abbia inizio. Non tutte le arti
e le attività umane richiedono infatti una preventiva anticipazione
progettuale dell’opera. Il pittore può mettersi davanti alla tela ed
eseguire il suo quadro senza neanche aver fatto uno schizzo, seguendo
soltanto una sua immagine mentale: gli artisti dell’espressionismo
astratto americano, come Willem di Kooning o Franz Kline non
progettavano certo l’opera alla quale stavano dando vita, ma la
costruivano a partire dal primo gesto. A volte lo scultore si pone
davanti al blocco di marmo cercando quasi fisicamente l’idea,
aggredendo la materia alla ricerca di ciò che Michelangelo pensava
vi fosse imprigionato. Ci sono quindi alcune arti e alcune attività
umane che hanno bisogno di un progetto e altre che non lo hanno.
Nel cinema si verifica qualcosa di simile a ciò che avviene
nell’architettura: la sceneggiatura è in qualche modo ciò che il progetto
è per il costruire e anche lo story board, che il regista spesso prepara,
è un prezioso strumento di previsione. Il progetto produce un’entità
che si configura come un simulacro dell’opera futura, un simulacro
che nell’architettura è anche analogico. Riassumendo quanto detto
finora, possiamo affermare che per realizzare le sue opere l’essere
umano deve a volte progettarle non potendole semplicemente farle;
che questo progetto si invera in un simulacro, ovvero in un corpo
di scelte che è una sorta di doppio dell’opera; che nell’architettura,
a differenza ad esempio che nella musica, tale simulacro è analogico,
e cioè somiglia al risultato finale. Se disegniamo i profili di un
insediamento residenziale questi saranno pressoché identici a quello
che vedremmo dell’intervento costruito se lo osserviamo da una
certa distanza; una facciata disegnata equivale di fatto alle facciate
costruite quando si è lontani abbastanza da perdere il senso della
tridimensionalità. Quando si osserva la sezione ombreggiata delle
architetture disegnate in area Beaux Arts – sto pensando ad alcuni
spaccati del Pantheon o delle Terme – si può quasi ricavare
l’impressione di uno spazio reale, di una vera cavità colma di profondità
atmosferica. Rimane a questo punto da chiedersi perché alcune arti
e alcune attività umane hanno bisogno di un progetto. Vorrei prima
ancora, però, brevemente aggiungere che in architettura il disegno
è, nell’ordine, pensiero, conoscenza del mondo fisico, comunicazione,
memoria. Il disegno teorico che è una forma di disegno-pensiero,
è un disegno che espone visivamente determinati percorsi
logico/poetici dando a essi l’aspetto di teoremi formali, mentre
quello di classificazione concerne le modalità di restituzione dei
segni che costruiscono il paesaggio, la città, gli edifici e gli oggetti
d’uso.
Quindi c’è bisogno di una previsione?
In architettura la previsione progettuale è necessaria perché il
costruire è altamente costoso. Costoso al punto che non si possono
fare prove. Mentre un pittore può distruggere un quadro se non gli
sembra riuscito bene, un architetto non può abbattere il suo edificio
se questo non lo soddisfa. Inoltre un manufatto è, in quanto oggetto,
particolarmente complesso. È il frutto di un’azione in qualche modo
permanente di materiali diversi chiamati a collaborare, ciascuno
secondo la propria natura; è attraversato da una rete di canalizzazioni
che lo alimentano e che richiede l’esattezza di una macchina; il suo
funzionamento deve essere in grado di evolvere nel tempo. Anche
per questi motivi il progetto è assolutamente inevitabile. Tornando
per un attimo al problema del costo dell’architettura c’è da dire che
il parametro economico non va inteso nella sua sola espressione
finanziaria, ma soprattutto in quella relativa agli aspetti più autentici
e profondi del lavoro umano. Ciò significa che un progetto deve
prevedere per un verso un risparmio della fatica fisica per coloro
che costruiscono l’edificio, e per l’altro una loro possibilità di leggere
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che può ad esempio concernere una casa, un palazzo o una chiesa.
Il secondo livello è definibile come metaforico, e si riconosce nei
valori simbolici e narrativi che possono essere assegnati agli elementi
della rappresentazione. Osservando una tavola del trattato palladiano
è relativamente semplice cogliere tali aspetti nel disegno delle sue
ville, laddove il pronao sacralizza la casa iscrivendola in questo
modo nel paesaggio nella forma di un segno unificante e risolutivo.
Il terzo livello è quello autonomo e si esprime nella pura e astratta
dimensione formale. È in questo livello che la rappresentazione si
configura come un’opera anch’essa autonoma. In molti casi sono
stati proprio disegni o progetti non realizzati a fare un passo
in avanti in architettura; il concorso per il Chicago Tribune
potrebbe essere un esempio?
Quanto appena detto si affianca anche ai risultati di quella celebre
competizione. Ai fini dell’evoluzione della ricerca architettonica il
progetto vincitore, che è stato realizzato, non ha avuto certo
l’importanza di molte altre proposte, prima fra tutte quella di Adolf
Loos. Ma in particolare stavo pensando al progetto di Michelangelo
per la facciata di San Lorenzo a Firenze. Se si vuole veramente
le fasi della costruzione come un insieme logico dei momenti
diversi, armonicamente collegati. Da qui la ripetizione degli elementi,
il loro numero che deve essere limitato al massimo, la loro precisione.
Lei nel libro Comporre l’architettura ci invita a trattare con
cautela il nostro eventuale talento artistico, anzi addirittura
a distruggerlo in nome di una ricerca paziente, memore
dell’insegnamento lecorbuseriano. Questa dedizione al
mestiere passa attraverso il lavoro del disegno. Può spiegarci
meglio la distinzione fatta tra disegno teorico e disegno di
classificazione?
Una cosa che va stabilita subito è che il disegno non è in prima
istanza uno strumento, pur se contiene aspetti strumentali. Il disegno
è innanzi tutto il luogo nel quale l’idea architettonica si dà come
tale, proponendosi appena dopo come lo sguardo dell’architetto sul
mondo, vale a dire come la modalità di elencare, classificare e studiare
l’intero ambiente fisico. Non si può dire di conoscere per davvero
un oggetto semplice come un tavolino se non lo si rileva. Dopo
questa valenza conoscitiva il disegno è comunicazione, e in questa
funzione, che consiste nel mostrare l’esito del progetto, esso acquista
una più evidente connotazione strumentale. Il disegno è infine
memoria, e cioè accumulazione di informazioni relative alle scelte
progettuali e ai modi con i quali si è pervenuti a esse. Le decisioni
si sono prodotte a volte lentamente e attraverso sedimentazioni
così varie e contrastanti da impedire di ricostruirne la genesi se non
ci fosse un sistema per ricordarle. Il fatto che la rappresentazione
architettonica non si esaurisca nei suoi contenuti strumentali comporta
una sua autonomia. Un disegno di architettura, se eseguito con
consapevolezza critica e con una precisa intenzionalità linguistica,
può senz’altro acquisire una dimensione estetica indipendente dai
suoi aspetti referenziali diretti, dai suoi ambiti documentari e
informativi. In altre parole la rappresentazione architettonica può
produrre opere che hanno un loro valore estetico, e che possono
per questo essere considerate in se stesse, per ciò che esse valgono
una volta sottratte, per così dire, al ciclo produttivo dell’architettura.
Ciò comporta anche che la storia dell’architettura non può essere
fatta solo a partire dalle opere realizzate, costruendosi anche
attraverso gli edifici rimasti sulla carta, ovviamente quando questi
- ma l’avvertenza vale anche per le stesse opere realizzate – presentano
un adeguato livello qualitativo. Per maggior chiarezza non è inutile
riassumere brevemente quali siano i livelli di contenuto di una
rappresentazione architettonica. Il primo si può definire il livello
della referenzialità diretta, e riguarda l’oggetto del disegno stesso,
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comprendere l’architettura del Rinascimento quel progetto, benché
non realizzato, costruisce un nodo fondamentale.
Anche San Giovanni dei Fiorentini?
Anche gli straordinari disegni michelangioleschi per San Giovanni
dei Fiorentini, assieme a tante altre architetture non realizzate,
dimostrano ampiamente che la rappresentazione architettonica non
è semplicemente uno strumento ma molto spesso architettura vera
e propria. Ma vorrei soffermarmi ancora un poco sulle differenze
tra disegno teorico e disegno di classificazione. Il disegno teorico
si propone come l’ambito di una riflessione sull’architettura che dà
vita a un mondo di forme in attesa: architetture che forse saranno
costruite e forse no, ma che, pur restando per sempre nello spazio
bidimensionale del foglio, sono architetture vere e proprie. I grattacieli
espressionisti di Ludwig Mies Van der Rohe, anche se non si sono
mai elevati con le loro superfici levigate sulla città reale, costituiscono
ancora oggi un repertorio pressoché inesauribile di idee. I primi
disegni di Aldo Rossi contengono anch’essi una carica sperimentale
e una forza inventiva che li rende essenziali per qualsiasi indagine
si voglia intraprendere sul linguaggio architettonico come esito di
un incrocio tra biografia e storia sotto il segno di una lucida
visionarietà. Il disegno di classificazione è invece, come ho già detto,
lo sguardo dell’architetto sul mondo. Il letterato può scrivere la
frase “cammino su un pavimento di pietra” ma l’architetto deve
sapere come è fatto questo pavimento e di cosa è fatto e in più
deve saperlo rifare. Il disegno di rilievo e il disegno dal vero, oggi
quest’ultimo, purtroppo, quasi del tutto marginalizzato, sono due
modalità del disegno di classificazione. Questo è l’insieme dei modi
attraverso i quali l’architetto campiona elementi del mondo fisico
costituendo una sorta di catalogo generale del costruito. Sto pensando
alle stagioni dei grandi manuali tecnici che tra la fine dell’Ottocento
e i primi decenni del Novecento ordinarono in complesse tassonomie
ogni tipo di manufatto, ma mi viene in mente anche Internet con
gli infiniti dettagli architettonici racchiusi nei suoi archivi. Ricordo
anche il grande lavoro documentario, acceso di sentimento poetico,
che Flora Borrelli svolse sul territorio reggino interrogato in tutte
le sue molteplici e storiche stratificazioni di segni.
In merito al rapporto tra disegno e architettura cito due
sue frasi: Il fine primo dell’architettura è, tramite il secondo,
costruire il senso profondo dell’abitare dell’uomo sulla terra
e il disegno è la vera scienza di questa arte unica e necessaria,
il suo specchio sincero. Quindi, secondo lei, l’architettura è
un disegno che diventa vero?
Penso proprio di sì. Se non sbaglio queste frasi compaiono nel
mio libro L’architettura didattica. La prima vuol dire che l’architettura
è sì arte del costruire, ma questo costruire non è fine a se stesso.
L’architetto non ha come compito tanto il costruire quanto il
rappresentare la condizione umana per come questa è espressa
nell’abitare tramite il costruire, che si rivela così un fine secondo.
Il disegno misura proprio lo scarto tra il costruire come gesto
puramente tecnico e il costruire come atto architettonico, e la seconda
frase citata lo metteva in evidenza. Si tratta della differenza che
corre tra la struttura metallica progettata da un ingegnere e la
copertura della Convention Hall di Mies. Le soluzioni costruttive
sono praticamente le stesse ma il risultato è completamente diverso.
In quel qualcosa in più c’è l’architettura. Quel plusvalore si definisce
a partire dalla capacità del disegno di trasformare l’analiticità
descrittiva del costruire in una sintesi formale assoluta. Ecco come
la struttura di un hangar diventa un miracolo di spazio e di luce.
Ecco anche come i modelli astratti di Konrad Wachsmann si fanno
architettura concreta senza perdere nulla della tensione spirituale
che li anima.
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Mies va oltre il gesto del coprire…?
Certo, non solo il gesto del coprire, ma soprattutto il perché del
coprire. Costruire un tetto circoscrive uno spazio preciso rispetto
all’infinità circostante; istituisce un confine; ci indica un orizzonte
a partire da un interno. Ma, soprattutto, coprire una porzione della
superficie terrestre crea una polarità, chiama a sé il resto, materializza
un luogo. Stabilendo un riparo si risponde all’esigenza umana di
protezione e di identificazione del punto della terra dove si abita.
Un punto che è unico. Per questo costruire un tetto non significa
soltanto risolvere un problema tecnico, ma rappresentare la condizione
umana per quanto essa attiene rispetto all’esigenza profonda del
riparo e del bisogno di un luogo dove tornare e dal quale muoversi
per scoprire il mondo.
Per quanto riguarda la dimensione ludica da laboratorio
che lei individua nei suoi disegni, come da questa dimensione
s i passa a l l a fo rmaz ione e a l l o sv i l uppo de l l ’ i dea
architettonica?
La dimensione da laboratorio è quella tesa atmosfera mentale e
immaginativa nella quale, in un’ambigua e nativa indistinzione tra
disegno e scrittura, l’architetto sceglie gli elementi primari della
propria architettura. Egli seleziona accuratamente i segni e le loro
connessioni facendo molta attenzione a che questi elementi siano
ridotti di numero ma estremamente carichi di potenzialità generative.
Tra questi egli preleverà volta per volta quelli che gli sembreranno
più adatti al programma che deve realizzare. Sono convinto da
sempre che i veri architetti sono coloro che agiscono sulla base di
un simile a priori concettuale e formale, misurando rispetto a questo
orizzonte di riferimento le singole occasioni, in una costante dialettica
tra ciò che deve restare se stesso nel tempo e ciò che deve mutare.
La dimensione del laboratorio è in prima istanza uno spazio di
autocoscienza e poi un luogo della sperimentazione nel quale si
provano le mosse compositive, i processi di formalizzazione, le
soluzioni verso le quali ci si orienta, i materiali e i loro accostamenti.
Mi è capitato più volte di utilizzare nel mio lavoro motivi elaborati
dieci o vent’anni prima. Da quel disegno dietro di voi traggo ancora
oggi molta della mia architettura.
Ecco perché è messo lì?
È da qualche giorno appoggiato lì perché ne abbiamo provato una
stampa ma il suo posto abituale è nel mio archivio. Quella tavola
è nella mia mente da sempre, come un amico al quale si pensa
spesso. Città in costruzione l’ho eseguita nel 1966 e da allora ogni
mio progetto discende in qualche modo da quei segni e dal modo
con il quale sono messi assieme. Credo che molti architetti abbiano
un loro disegno che interrogano per tutta la vita. Ce n’è uno di
Guido Canella al quale egli tiene molto: è uno schizzo dal tono nervoso
e sintetico che mostra una sorta di tempio coperto da un grande
timpano. Quell’immagine - l’autoritratto architettonico del maestro
milanese – ispira pressoché tutti i suoi progetti.
Anche lei utilizza il computer nel suo lavoro. Qual è il ruolo
del computer nel processo di ideazione?
Per tutta una serie di ragioni il disegno digitale è oggi il nuovo
spazio discorsivo della rappresentazione architettonica, l’ambito di
una potenziale universalità del linguaggio grafico. Esistono in sostanza
tre modi di intendere i l r icorso al le tecniche elettroniche
nell’architettura. Il disegno digitale infatti permette di fare meglio
ciò che si faceva manualmente e in questo senso può quindi essere
considerato come un semplice ampliamento del disegno tradizionale;
esso può invece essere utilizzato come uno strumento nel quale i
blocchi conoscitivi relativi al progetto sono organizzati in nuclei già
in qualche modo formalizzati, e ciò può senza dubbio facilitare il
lavoro compositivo; il disegno digitale può infine essere vissuto
come il luogo di un nuovo immaginario che consente di pensare
spazialità fino a poco fa letteralmente impensabili, che vedono
prevalere la continuità avvolgente e potenzialmente infinita delle
superfici. In questo nuovo immaginario il microcosmo e il macrocosmo
si fondono in figure complesse e metamorfiche. Il computer non è
comunque un’ent i tà completamente nuova che i rrompe
improvvisamente sulla scena dell’architettura. Esso rappresenta
nello stesso tempo un punto di arrivo di una lunga evoluzione storica
e un punto di partenza per esplorazioni di territori in gran parte
sconosciuti. Il disegno digitale eredita il disegno antico con alcune
trasformazioni fondamentali, prima tra queste la discontinuità della
linea. Ciò apparentemente significa poco, ma in realtà conta
moltissimo perché implica uno spostamento concettuale riguardante
la stessa idea di distanza, ora tradotta in una sequenza di frammenti
metrici, di corpuscoli separati che si collocano in uno spazio compresso
e distorto. L’unità base del disegno digitale è il pixel, una sorta di
atomo figurativo in cui nulla accade. In esso non c’è temporalità
in quanto non c’è variazione. Tale carattere contraddice radicalmente
una delle basi ontologiche del disegno manuale, ovvero l’essere
funzione plurale del tempo. Inoltre il computer fa venir meno, almeno
apparentemente, l’essenza autografica del gesto. Tuttavia, anche
se non c’è più il gesto, ci accorgiamo comunque che due disegni al
computer fatti da due architetti sono diversi. Indizio, questo, che
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Penso proprio di si.
Piranesi, attraverso le sue visioni prospettiche con molteplici
punta di fuga può essere il tramite tra la visione statica
monoculare del quattrocento del Brunelleschi e quella
dinamica ottenuta oggi al computer, tenendo conto della
d imens i one t empora l e che i l c ompu te r o f f r e a l l a
rappresentazione?
Giovan Battista Piranesi è un teorico, un architetto, un artista, la
cui opera straordinaria e profetica ha provocato una vera e propria
rivoluzione dello sguardo sul mondo, una rivoluzione che, pur
riguardando lo spazio e il linguaggio architettonico, ha travalicato
largamente i confini dell’architettura stessa per divenire universale,
come ci ricorda il grande numero di saggisti non architetti che ne
hanno esplorato il mondo teso e allucinato. Il grande incisore
veneziano ha ottenuto questo risultato ricomponendo in una sintesi
inedita gli elementi e i materiali visivi che si erano sviluppati a
partire dall’invenzione della prospettiva nel Quattrocento. Nelle sue
tavole c’è la terribilità michelangiolesca con la relativa iperbole
dimensionale; c’è la corsa infinita delle fughe borrominiane di San
in realtà l’essenza autografica persiste, pur se in altre forme.
Quindi anche nel computer c’è autografia del disegno?
Sono convinto che anche nel computer c’è spazio per l’autografia,
anche se si tratta di un’autografia molto diversa, da ricercare oltre
l’indubbia omologazione del linguaggio grafico che il disegno digitale
produce. Non c’è certo l’autografia che troviamo sulle superfici di
una scultura di Michelangelo, segnate in modo inconfondibile dalla
gradina; negli splendidi disegni a matita di Francesco Borromini;
nei taccuini di Le Corbusier, percorsi da segni veloci ma estremamente
densi di informazioni. Il computer esclude questi valori, ma ne fa
nascere sicuramente altri. Tra questi ad esempio il linguaggio delle
trasparenze; accelerazioni prospettiche prima difficili da ottenere;
spazi confluenti e compenetrati.
Ma la genesi di un progetto di Franco Purini nel ’68 è rimasta
invariata o il computer ha invaso anche questo tavolo?
Un mio progetto nasce sempre da uno schizzo il quale, rendendo
visibile un’immagine interiore, la fa nello stesso tempo nascere. Lo
schizzo è l’irruzione improvvisa, nel mondo, di una decisione che
prende forma dopo un’elaborazione lenta e misteriosa. Come
attraversata da una scarica elettrica la mano, in una identità assoluta
con la mente, traccia sul foglio alcuni segni che sono né più né
meno che l’idea. Un’idea che molto difficilmente potrà essere
modificata nei suoi tratti fondamentali. Io continuo a cercare le idee
in questo modo, ricordando che tali idee sono già virtualmente
presenti in quell’a priori inverato in disegni teorici di cui ho parlato
in qualche risposta precedente. Il disegno digitale interviene dopo
e per me è un disegno integralmente storico. Sono molto distante
dagli architetti che vedono nel computer, come dicevo poco fa, un
nuovo immaginario, architetti come Greg Lynn e Hani Rashid,
progettisti di quegli blob ject che Bruce Sterling, assieme a William
Gibson, il più importante scrittore di storie cyberspaziali, ha
recentemente dichiarato sorpassati. L’opera dei due architetti è in
ogni modo centrale per comprendere la complessità quasi inestricabile
delle relazioni tra reale e virtuale. Questa ultima parola non indica
semplicemente ciò che prima o poi diventerà reale – cosa che può
anche avvenire – riguardando più esattamente una sfera di spazi
e di architetture che possono vivere solo nella dimensione della
rappresentazione, solo nello spazio specifico delle immagini. Da
questo punto di vista non esisterebbe tanto una competizione tra
rea le e v i r tua le quanto un vero e propr io para l le l i smo.
Parliamo quindi di architetture ideate per rimanere al
computer?
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Giovanni in Laterano, con la profondità atmosferica che sfuma
le volte e le membrature rendendole immateriali; c’è il vedutismo
analitico del Canaletto; ci sono le accelerazioni spaziali dei Bibiena,
risolte nell’ambigua illusorietà delle vertiginose quinte prospettiche.
Questi elementi e materiali visivi confluiscono nelle Carceri dove
trovano la loro sublimazione. Le Carceri, soprattutto nella seconda
versione, prefigurano la spazialità moderna come entità frammentata,
plurale, disarticolata e sconfinata. A differenza di quanto sostiene
Bruno Zevi lo spazio moderno non vede la distruzione della prospettiva;
non è, in altre parole, antiprospettico. Come il cubismo dimostra
ampiamente ciò che avviene non è il superamento della prospettiva
ma la moltiplicazione dei punti di vista. La stanza prospettica viene
messa in crisi nel la sua unicità ma nel lo stesso tempo, e
contraddittoriamente, essa viene confermata proprio attraverso la
sua proliferazione. La cellula prospettica permane anche
nell’architettura digitale, pur tra vigorosi torsioni spaziali e incessanti
metamorfosi topologiche.
Lei ritiene che le campate spaziali rimangono intatte?
Si, certo, non c’è dubbio. Anche nell’architettura decostruttivista
più estrema la prospettiva rimane lo strumento ordinatore dello
spazio, anche in questo caso riverberata, amplificata e per molti
versi contraddetta dal sommarsi di punti di vista divergenti. Ciò che
sembra prodursi in questo tipo di ricerca non è tanto il superamento
della prospettiva, quanto la piegatura del piano che seziona la piramide
visiva. Accartocciando questa superficie le linee si spezzano, le
distanze si alterano, i volumi subiscono una serie di deformazioni.
Lo spazio piegato eisenmaniano è una derivazione di ciò
che lei sta dicendo?
Penso di si. Oltre le suggestioni derivanti da La piega di Gilles
Deleuze e da letture derridiane c’è sicuramente, nell’attività
compositiva eisenmaniana, la componente prospettica di cui sto
parlando. Le conquiste dello sguardo, in questo caso lo sguardo
prospettico di matrice rinascimentale, integrato dalla successiva
scienza proiettiva e poi coinvolto dalla frammentazione cubista e
dalla serialità discontinua la cui matrice è nel montaggio filmico, le
acquisizioni teorico-visive, dicevo, non vengono accantonate via
via che si profilano nuove scoperte ma si sommano nel tempo creando
una sorta di visualità stratificata come un testo storico. Nell’architettura
moderna possiamo riconoscere una visione prospettica, nella quale
ha un grande peso la frontalità; si identifica subito dopo la prospettiva
rinascimentale, spinta successivamente dal Barocco fino alle vertigini
dell’infinito e a un’inarrestabile concitazione dinamica; superata
l’età barocca è possibile riconoscere la cristallizzazione neoclassica
dello spazio; con le avanguardie si constata la compresenza conflittuale
di questi sguardi particolari, ciascuno dei quali viene per così dire
esasperato alla ricerca dell’eccesso figurativo e di una didatticità
dimostrativa che finisce con l’assumere una esemplarità ideologica;
nell’attuale età digitale è possibile ritrovare tutto ciò che nei precedenti
modelli costruiva la continuità dello spazio al fine di generare
l’impressione di una fluidità assoluta delle forme architettoniche. Il
complesso delle visioni precedenti si configura in qualche modo
come necessaria. A proposito del disegno digitale vorrei sottolineare
una particolarità che mi sembra molto significativa: a differenza
del disegno tradizionale, che è costruito per favorire la penetrazione
visiva dentro l’immagine, in quello elettronico la rappresentazione
si rifiuta di essere attraversata, opponendo allo sguardo una superficie
resistente. A tale opposizione all’accesso si affianca una apparenza
visiva aggressiva e spesso ultimativa, un’apparenza graficamente
e cromaticamente complessa fino all’indecifrabilità. Osservando le
immagini digitali è come se fossimo sottoposti a una violenza visiva
che non si fa in alcun modo dominare; una violenza dionisiaca che
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sconcerta almeno quanto affascina. Nel lo smalto del le
rappresentazioni elettroniche c’è un versante organico nella sua
vitale e fluida proliferazione ma c’è nello stesso tempo un aspetto
inorganico, una durezza minerale che si pone in esplicita
contraddizione con le carnose e lucide parvenze dell’aliena materia
dei blob. I disegni digitali propongono così un universo organico e
inorganico, naturale e artificiale, credibile e incredibile, unitario e
frattale, un universo permeato come dicevo prima dell’aura di Dioniso.
Sono stato invitato a un convegno organizzato da Carmine
Gambardella a Capri, isola dionisiaca per eccellenza. Purtroppo non
potrò andarci. Avrei affrontato come tema La Scudo di Achille e la
realtà virtuale. Questo oggetto mitico, emblema di una frontalità
terrorizzante, è una splendida rappresentazione dell’intero cosmo
che contiene più cose di quella che potrebbe realmente accogliere.
Per questo esso può vivere solo nello spazio della parola, uno spazio
nel quale lo spazio reale può essere dilatato, sconvolto e contraddetto.
Con la descrizione di quell’oggetto miracoloso Omero ha dimostrato
di saper vedere molto, ma molto lontano.
Come quello dipinto dal Caravaggio con la testa di Medusa?
L’effetto è proprio quello. Nella mitica opera forgiata da Vulcano
il grandissimo numero dei particolari, la loro disposizione, il loro
movimento avrebbero dato vita a una presenza visiva letteralmente
insostenibile dallo sguardo umano. Anche la Medusa caravaggesca
è una immagine che non può essere contemplata direttamente ma
solo colta lateralmente, di sfuggita, potendo rubare, di quel volto
spaventoso, che ci annullerebbe, solo un impressione rapida e
scorciata.
Su questo rapporto tra disegno e società contemporanea,
vorrei tornarci dopo. Invece vorrei rimanere su questo legame
tra disegno e spazio. Lei afferma che il disegnatore non può
occuparsi della sensazione dello spazio, ma è piuttosto: lavoro
sulla pagina, sulla manipolazione e straniamento di immagini
celebri, lavoro sullo spazio prospettico e sui meccanismi di
lettura dei disegni, analisi di temi figurativi. Ma come tutto
questo le consente di prendere le distanze dalle categorie
che lei ha definito del visivo e che un po’ condanna?
Il problema che pongo da tempo è che il lavoro dell’architetto è
un lavoro che ha a che fare con la materia e i materiali: noi costruiamo
idee con gli oggetti. Se in un film lei deve mostrare un tavolo ha
bisogno di un tavolo vero, e quindi rappresenterà un tavolo con un
tavolo. In ciò consiste quella che Pier Paolo Pasolini chiamava l’essenza
metonimica del cinema. Per noi è in qualche modo la stessa cosa:
se dobbiamo costruire una parete in mattoni usiamo il mattone,
definendo così l’idea del mattone attraverso il mattone stesso, e
non tramite la sua astrazione. Parallelamente, anche nel disegno
non ci dobbiamo sempre riferire alla concretezza costruttiva, pur
se questa è per così dire tradotta in segni e in simboli grafici. Per
questo non possiamo occuparci di sensazioni, ma delle cose che le
provocano. Bisogna stare molto attenti a non fare letteratura, filosofia,
psicologia o socio-antropologia: noi architetti dobbiamo esprimerci
con i materiali veri dell’architettura e non con i loro simulacri verbali.
Potremmo affermare che la matrice dell’architettura è
iconica, è testuale o è una v ia d i mezzo tra le due?
È una matrice fisica la quale, attraverso le case, le materie e i
materiali di cui queste sono fatte e i contesti precisi nelle quali esse
sono inserite risale alle idee, alle astrazioni. L’a priori ideale di cui
ho parlato deriva anch’esso dalla natura concreta dell’architettura.
Quando affermo che il fine primo dell’architettura è quello di esprimere
tramite il mio fine secondo, il costruire, il senso dell’abitare dell’uomo
sulla terra rimando sempre alla dimensione reale dell’architettura.
Una piccola digressione sull’architettura disegnata. Esiste
una differenza tra architettura disegnata e architettura
progettata?
A mio avviso questa differenza non esiste. Si può benissimo
rappresentare una casa senza che si debba costruire. Quando
un’architettura disegnata è buona è sempre architettura, possedendo
di questa la concretezza logica e la densità espressiva. Pensiamo
agli acquerelli di Massimo Scolari: non c’è niente di più reale di
quelle immagini, una volta che si entri per davvero nella loro idealità
interrogandoli nella complessità dei loro contenuti. Le opere di
Scolari sono concrete come è concreta la vera poesia, che non è
mai vaga e indistinta ma sempre precisa e circostanziata. La poesia
è un concentrato potente di frammenti conoscitivi, di illusioni
emozionali e di sondaggi nell’oscurità umana che si nutrono della
più diretta verità dalla vita. L’architettura disegnata e l’architettura
progettata coincidono perfettamente.
A proposito di frammenti di architettura derivata da quella
classica, se pensiamo a Boulleè, Ledoux, questo filone ad
esempio è costituito da composizione paratattiche. Il suo
disegnare per certi versi può essere paragonabile a questo
procedimento paratattico?
Si. Il procedimento paratattico informa di sé tutta la composizione
moderna. Come ha scritto Emil Kaufmann esso nasce dalla crisi
definitiva del principio di gradazione barocco intervenuta a metà
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del Settecento. Un principio di coordinamento gerarchico di tutti
gli elementi di un edificio al quale si sostituisce il procedere per
accostamento delle parti del manufatto. Si tratta di una modalità
che anticipa nella autonomia degli elementi componenti la ripetizione
seriale tipica del comporre moderno. Leon Nicolas Louis Durand è
uno dei grandi teorici di questa nuova concezione della composizione
architettonica. Una concezione la quale incorpora una certa rigidezza
meccanica capace però di conferire al risultato un carattere del
tutto particolare, che interpreta perfettamente la segmentazione
moderna del tempo e dello spazio, tradotti in frammenti didattici
da leggere in una simultaneità di inquadrature diverse coordinate
da un montaggio quasi cinematografico. Io mi riconosco integralmente
nel procedere paratattico, che condivido ad esempio con altri architetti,
segnatamente con Vittorio Gregotti. Anche la composizione di Aldo
Rossi si muove nell’ambito di un rapporto quasi magnetico tra pezzi
e parti, entità che vivono di calibrati intervalli in una esatta metrica
serrata, indagata magistralmente da Ezio Bonfanti in un suo celebre
saggio.
Nell’architettura classica i mezzi di controllo di queste parti
magari ideate e poi accostate era la proporzione. Per lei quali
sono i paradigmi di controllo di quest’invenzione paratattica?
M a g a r i l ’ a c c o s t a m e n t o d i i m m a g i n i s c a r p i a n o ?
Come è noto la proporzione viene condannata a morte da Charles
Perrault. Secondo l’architetto e trattatista francese non esisteva
alcun fondamento antologico per la teoria proporzionale. Ciò sembra
essere vero per ciò che concerne la sfera trascendente che legittima
il ricorso a tale teoria, ma non appare del tutto giustificabile dal
punto di vista fisiologico. Il nostro occhio percepisce determinati
rapporti dimensionali come entità razionali che presentano una
particolare qualità armonica. Discende da questa semplice
constatazione che nell’architettura ci sarà sempre l’esigenza di
proporzionare elementi e parti della composizione, anche se le
relative tecniche non saranno più sostenute da apparati esoterici,
da conquistare tramite adeguate iniziazioni. Per quanto mi riguarda
trovo che il rapporto 1:2 esprime una spazialità magica e piena più
della sezione aurea, a mio avviso eccessivamente estetizzante, anche
se in natura essa gioca un indiscutibile ruolo strutturale. Considero
anche la figura del quadrato come l’emblema stesso della proporzione,
anche se esistono molti modi per destabilizzare e dinamizzare la
sua geometria perfetta. L’assolutezza dei solidi platonici, che tanto
piacevano a Costantino Dardi, è anch’essa l’esito di una insuperabile
ed eterna proporzione metafisica. Anche nel comporre di Carlo
Scarpa esistono accurate corrispondenze metriche e ispirate
collimazioni prospettiche unite a un senso poetico del frammento
come inquietante polo iconico, punto di accumulazione di tensioni
spaziali e di vibrazioni materiche.
Oggi sembra consolidata la corrente di un’architettura che
mutua la sua espressività da tendenze mediatiche. Rispetto
a questa architettura del consenso è possibile che i suoi
disegni indichino i fondamenti per un recupero della disciplina
e per una sua rifondazione?
Mi auguro di si, perché i miei disegni esprimono proprio il tentativo
di contrastare l’attuale deriva mediatica che impone all’architettura
di comunicare istantaneamente i suoi contenuti, con il risultato di
consumarli altrettanto velocemente. Io non credo nell’effimero ma
sono convinto al contrario che sia connaturata all’architettura la
lunga durata, pur con tutte le curvature temporali e le distorsioni
relativiste che la nostra attuale condizione comporta. Schiacciare
l’architettura sul piano della comunicazione, che ne rappresenta
senz’altro un aspetto importante, ma non certo determinante, è
per me un grave errore. L’architettura identifica il suo scopo principale
non tanto nel rendere espliciti i suoi portati conoscitivi e i suoi valori
figurativi quanto nello stare nello spazio fisico con un’acuta e
permanente impressione di necessità: essa costruisce un luogo pur
attraverso ogni anonimato insediativo e ogni entropia urbana. A
questo fine concorrono i materiali di cui è fatto un edificio e gli spazi
che esso contiene. Stare implica il radicamento – e all’opposto il
dislocarsi – come il valore stesso del costruire in quanto mezzo per
esprimere il senso dell’abitare dell’uomo sulla Terra. Da questo
punto di vista è facile comprendere la mia grande distanza
dall’architettura della comunicazione e la mia scelta opposta per
una comunicazione differita, disturbata e ostacolata. Vorrei insistere
un po’ su questo argomento, affrontandolo in modo diverso.
Concentrare l’interesse sugli aspetti comunicativi dell’architettura
equivale a identificare la bellezza del corpo umano nel solo volto
tralasciando la sua struttura complessa, il suo movimento, il suo
portamento, la maniera di dominare con la propria energia lo spazio
circostante. Tutte manifestazioni, queste, più della dimensione
interiore che anima il corpo che della sua apparenza esterna.
Ma questa architettura dell’interiorità cosa significa per
noi che ci accingiamo a questo “mestiere”?
Ciò che sostengo è che l’architettura, come ogni altra arte, nasce
da una dialettica, che può essere anche insistita e violenta, tra
interiorità e esteriorità, vale a dire tra la costruzione interna di
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razionalità si inverte nel suo oscuro contrario. Ho scritto più volte
che se Pier Paolo Pasolini avesse conosciuto quell’opera l’avrebbe
probabilmente scelta come gelida scenografia del suo film-testamento
Le centoventi giornate di Sodoma. Quello immaginato e realizzato
dal grande architetto è uno spazio della crudeltà nel senso che a
questa parola ha dato Antonin Artaud. Ma anche gli esperimenti
teatrali di Jerzy Grotowsky, nei quali il corpo viene spinto fino al
suo limite, avrebbero potuto trovare nel candido cubo contenuto
nella Casa del Fascio la loro sede ideale. Questa architettura è colma
di una pietas senza salvezza, una pietas ultimativa e testimoniale.
Tonalità simili, pur con una intensità forse minore e con qualche
cedimento alla retorica della profondità, si ritrovano in edifici di altri
architetti quali Saverio Muratori, Aldo Rossi, Giorgio Grassi, Antonio
Monestiroli, Francesco Venezia.
Louis Kahn come si pone in relazione a tale poetica della
profondità?
Anche Louis Kahn, soprattutto nell’ultimo decennio della sua attività,
presenta nelle sue architetture, peraltro di grande forza evocativa,
una percepibile inclinazione alla profondità come un plusvalore
convinzioni, di temi, di motivi e la apertura a ciò che è altro della
nostra coscienza e dei nostri orientamenti più soggettivi. L’architettura
non può essere espressione della pura introversione dell’architetto,
né può nascere da una sua estroversione totale. Occorre saper
uscire da se stessi avendo un se stesso dal quale muovere per
affrontare ciò che c’è fuori. La dimensione interiore è fondamentale
e ce lo ricordano i grandi romanzieri della modernità come James
Joyce, Marcel Proust, Robert Musil, Alberto Moravia. Il flusso interiore
della coscienza, il portare il mondo dentro per poi portare il dentro
fuori in uno scambio incessante costruisce un’identità intermedia
e oscillante. Quanto detto è valido anche per gli edifici. Essi possiedono
un modo di essere aperti e disponibili, permeabili alla vita, ma hanno
anche un’interiorità più riposta e protetta: all’interno ci sono stanze
riparate, stanze forse belle e forse brutte; ci sono scale, a volte
misteriose; la luce entra ed esce creando silenziose coreografie.
Direi, citando Peter Handke, che tutto ciò è l’esterno dell’interno
e l’interno dell’esterno. Ma c’è anche un esterno dell’esterno e un
interno dell’interno. Anche nella misura, ad esempio. Basta pensare
a certi passaggi crudeli e stridenti delle composizioni di Antonio
Vivaldi e alle note cupe che spesso scavano nel tessuto già fortemente
interiorizzato della sonorità mozartiana caverne del significato, abissi
insondabili di un’interiorità ulteriore. Non solo occorre dunque essere
coscienti del versante interiore dell’architettura, ma bisogna anche
rappresentarlo. Una volta che lo si è rappresentato tale aspetto può
anche restare inesplorato, ma ciò non ci riguarda più. Sul mio libro
Comporre l’architettura ho scritto che questo è il problema più
rilevante tra quelli con i quali gli architetti che pensano devono
misurarsi. Debbono farlo senza però diventare a ogni costo profondi:
la dimensione interiore è tanto più autentica quanto più è presente
in modo implicito e trattenuto; quanto più è tessuta nel progetto
come un filo rosso che non appare ma che assicura la tenuta del
discorso come un sommesso leit motiv.
Lei quindi ci suggerisce ci caricare l’architettura di un
significato che però deve essere celato?
Nell’opera di Giuseppe Terragni, il più grande architetto italiano
del Novecento, l’interiorità della scrittura architettonica acquista,
nonostante la luminosità degli spazi e delle membrature, una risonante
tragicità. Aggirandosi nelle nitide cavità della Casa del Fascio di
Como si avverte un sottofondo inquietante che smentisce il purismo
analitico delle bianche superfici. La luce metafisica che pervade
come un magico liquido l’interno non descrive in alcun modo un
ambiente pacificato ma al contrario uno spazio angoscioso dove la
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auratico che spesso finisce con il depositare sulle sue architetture
un velo di compiaciuto accademismo. L’idea del fondamento non
può essere ignorata ma, come insegna Baldassarre Castiglione,
deve essere dissimulata attraverso la sprezzatura, vale a dire un
interno understatement che attenua e relativizza i momenti alti
della scrittura. Un altro grande teorico di questa premeditata
lontananza dalla propria opera è Charleas Baudelaire, che nello
Spleen di Parigi allude più volte alla necessità di un’asciuttezza della
scrittura come una regola dalla quale non si può transigere.
Lei come riesce nei suoi progetti e realizzazioni ad essere
coerente con questa ricerca della interiorità senza cadere
nella retorica?
Io non so se e come la mia interiorità, ammesso che esista, sostenga
i miei disegni e le mie architetture. Sicuramente tengo molto presente
la necessità di conferire ai miei risultati compositivi una sorta di
capacità dialogante, di dotarli di un’attitudine discorsiva: spesso è
attraverso l’errore calcolato che si può ottenere un plusvalore narrativo.
Si riferisce all’incidente tettonico ad esempio?
Sicuramente l’incidente tettonico, questo si accompagna a una
acce l e raz i one t i po l og i ca , va l e a d i r e da una pa r te a
un’estremizzazione quasi didattica dello schema tipologico, dall’altro
a un suo forte straniamento, può consentire con una certa facilità
di ottenere come esito formale un’aggressiva problematicità linguistica
e costruttiva, risolta in un particolare episodio spaziale. Occorre
stare attenti però che ciò a cui si dà vita non si trasformi in qualcosa
di troppo spettacolare, in un’espressione mediatica che brucia se
stessa nella sola dimensione visiva. Al contrario si tratta di far sì
che la composizione si duplichi, per così dire, in una realtà apparente
e in una realtà più nascosta, che emerge lentamente ma che permane
più a lungo nel tempo. Quando si osserva ad esempio una tela di
Jackson Pollock occorre superare l’aspetto esteriore del quadro
sottraendosi in qualche modo allo scatenamento energetico del
segno, impegnato in infiniti e imprevedibili andirivieni, per cogliere
oltre questo vorticare di linee e di colori una struttura più stabile
e resistente.
Bisognerebbe prima imparare a non sbagliare e poi tornare
un attimo indietro?
Certo, imparare a non sbagliare – io direi a non sbagliare troppo
– per pervenire poi alla consapevolezza della necessità che in una
composizione architettonica si debbono esprimere livelli più interni
e raccolti del significato, potrebbe essere una buona norma di
comportamento. Frank O’Hara ha parlato a proposito delle opere
di Pollock di fregi classici, di festoni drappeggiati come irruenti ma
esatti dispositivi di misurazione poetica dello spazio. Anche in ogni
architettura che sia veramente tale possiamo e dobbiamo scorgere
oltre quella più evidente una realtà più importante che in essa soggiace
come un messaggio urgente. Il disegno, sia quello manuale sia il
disegno digitale, sono i luoghi in cui questa anima necessaria di un
edificio si rende manifesta agli occhi e alla mente dell’architetto
prima di affrontare, nella costruzione, il mondo esterno come un
segno di felicità e di speranza.
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