IL PROCESSO DI
UNIFICAZIONE
L'Italia unita e l'Europa
Dopo le sconfitte del 1848-49 l'Italia rimaneva divisa in
sei Stati: il Regno di Sardegna, il Ducato di Parma e
Piacenza, quello di Modena, lo Stato pontificio, il
Granducato di Toscana, il Regno delle Due Sicilie. Inoltre
Lombardia e Veneto fino a Trieste erano sotto il diretto
dominio dell'Austria, principale ostacolo all'unificazione e
all'indipendenza dell'Italia.
Nel giro di un ventennio questo assetto risultò
profondamente modificato. Nel 1861, dopo la seconda
guerra d'indipendenza e la spedizione dei Mille di
Garibaldi, il nuovo Parlamento poteva proclamare l'unità
d'Italia sotto la monarchia costituzionale di Vittorio
Emanuele II. Dopo la conquista del Veneto del 1866, nel
1870 la presa di Roma suggellava il processo di
unificazione nazionale.
L'unità d'Italia modificava profondamente il quadro
europeo inserendo un nuovo organismo statale in un
assetto politico-geografico consolidato da secoli. Salvo il
breve periodo della dominazione napoleonica — che
aveva contribuito a far germogliare le ipotesi unitarie —,
l'Italia era rimasta divisa dai tempi della caduta
dell'Impero romano. Anche se il ceto colto aveva
continuato a immaginare un'unità culturale, linguistica e
geografica dell'Italia, dalle Alpi alla Sicilia, e tutto il
movimento nazionale — e in particolare quello
democratico guidato da Mazzini — aveva raccolto e
rafforzato questa visione dando corpo a una risorta
identità italiana.
La presenza del nuovo Stato alterava gli equilibri tra le
potenze e nei sistemi di alleanze presenti sulla scena
europea e insieme suscitava, grazie alla sconfitta
dell'Austria, nuove aspettative tra i movimenti nazionali
dell'Impero asburgico, già attivi nel rivendicare la propria
autonomia.
I fattori dell'unificazione
Molti fattori avevano concorso a realizzare lo
straordinario successo politico dell'unificazione: una
dinastia come quella sabauda, orientata da secoli a
un'espansione dei propri territori verso la Pianura padana
da conseguire per via diplomatica e militare; un ceto
politico liberale sostenuto nei suoi progetti da un sistema
istituzionale rappresentativo sancito, in Piemonte, dallo
Statuto del 1848; la presenza di un abile e determinato
leader politico come il conte di Cavour, in grado di
guidare un processo di riforme economiche e politiche
che trasformarono il Piemonte in una piccola potenza
regionale; la sistematica sconfitta delle iniziative
mazziniane e lo spostamento di larga parte del movimento
nazionale al fianco del Regno di Sardegna; l'alleanza con
la Francia cercata e trovata da Cavour facendo leva sulle
ambizioni egemoniche sull'Italia di Napoleone III; le
vittorie sull'Austria del 1859 durante la seconda guerra
d'indipendenza e le sollevazioni in Emilia-Romagna e in
Toscana, seguite dalle rapide annessioni al Piemonte;
infine i successi di Garibaldi in Sicilia
e nel Meridione. L'abilità e determinazione di Cavour, il
rilancio dell'iniziativa democratica e l'audacia unita al
carisma di Garibaldi fecero si che questi fattori si
disponessero in una sequenza tutta positiva ottenendo, tra
il '59 e il '60, un risultato inizialmente impensabile e
insperato. Tanto più insperato date le difficoltà di
conciliare l'iniziativa politica e militare dall'alto del
Regno di Sardegna con l'iniziativa dal basso dei
democratici e dei garibaldini.
Decisiva era stata nel 1859 l'alleanza con la Francia nella
guerra contro l'Austria, come decisiva fu quella con la
Prussia nel 1866. Ed egualmente determinante fu la
vittoria della Prussia sulla Francia nel 1870 che diede via
libera alla conquista di Roma. L'unificazione italiana non
è separabile quindi dal contributo che le due grandi
potenze europee diedero al movimento nazionale a
conferma della capacità di Cavour e dei suoi successori di
cogliere tutte le opportunità che la situazione europea era
in grado di offrire.
I risultati dell'unificazione
Con l'unità prendeva avvio un processo di
modernizzazione complessiva del paese legato
strettamente alle istituzioni rappresentative e alla
connotazione laica e liberale del nuovo Stato. Aveva
anche inizio la graduale formazione di un mercato
nazionale, premessa indispensabile dello sviluppo
economico, mentre cospicui investimenti venivano
compiuti – col sostegno di un duro prelievo fiscale – nelle
grandi infrastrutture (ferrovie e strade) e
nell'alfabetizzazione dei cittadini.
L'unificazione italiana e la quasi coeva unificazione
tedesca (1871) rappresentarono la maggiore novità
politica europea della seconda metà dell'800
(sull'unificazione tedesca si tornerà più avanti.
Consapevole del suo nuovo ruolo, l'Italia, dopo una prima
fase di prudente realismo, avrebbe cercato di trovare una
sua collocazione tra le potenze ponendosi obiettivi spesso
superiori alle sue forze e con risultati inferiori alle sue
ambizioni, come si sarebbe visto nella politica di
espansione coloniale di fine secolo.
Il ritardo italiano e il divario tra Nord e Sud
Al momento dell'unificazione, l'Italia nel suo insieme
appariva, nel confronto con l'Europa più sviluppata, un
paese arretrato dal punto di vista economico e civile:
questa distanza era anche il frutto di secoli di sudditanza
straniera e della presenza dello Stato della Chiesa che
sanciva la divisione della penisola. Una presenza tutelata
dalle potenze cattoliche e dal ruolo cosmopolita di Roma
capitale religiosa del cattolicesimo e sede dei pontefici.
Questo ritardo e questa diversità sembravano riscattarsi
nella contemplazione di un passato glorioso e nelle tante
testimonianze di questo passato disseminate nelle città e
nel paesaggio italiano. Proprio questa dimensione
costituiva l'immagine prediletta dagli stranieri che
accorrevano in Italia nei loro viaggi di formazione
artistica e culturale, di scoperta dell'antico e del bello, ma
anche del caratteristico e del diverso, e che ora si
mostravano delusi di fronte alla inedita modernità italiana.
Ben più significativa era la spaccatura che l'unificazione
aveva creato in larga parte del paese tra i settori
politicamente e culturalmente più avanzati e i difensori
della tradizione e degli antichi sistemi di potere. Tra
questi primeggiavano le gerarchie ecclesiastiche e i
cattolici fedeli al pontefice cui era stato fatto divieto di
partecipare alle elezioni politiche con la formula del non
expedit ('non giova') che Pio IX pronunciò nel 1874
Consapevole dell'incompiutezza dell'unificazione e del
ritardo italiano, la classe politica avviò la costruzione del
nuovo Stato seguendo i principi di una forte
centralizzazione amministrativa da applicare in maniera
uniforme a tutto il paese, soprattutto nel tentativo di
colmare il divario Nord e Sud, che si palesava non solo in
termini di diverso sviluppo economico ma anche come
opposizione politica. Il brigantaggio meridionale e la
guerriglia contadina degli anni 1861-65, a sfondo sociale
e filoborbonico, ne furono l'esempio più evidente. Il
Risorgimento aveva visto come protagonisti del successo
lo Stato più moderno del paese – il Piemonte sabaudo – e
un'élite politica, liberale e democratica, certamente
ristretta ma sufficientemente ampia, diffusa nei ceti medi
e negli strati popolari urbani, in grado di dare un
contributo decisivo politico e anche militare, come nel
volontariato garibaldino, al raggiungimento dell'unità e
dell'indipendenza.
In seguito, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale,
la storiografia di ispirazione marxista – prendendo spunto
dalle tesi dell'intellettuale comunista Antonio Gramsci
(1891-1937) a lungo prigioniero del regime fascista – ha
accusato il movimento nazionale di non aver coinvolto i
contadini nella trasformazione del paese e di non aver
favorito quella rivoluzione agraria che avrebbe modificato
i rapporti sociali ed economici delle campagne. In realtà,
se le masse rurali fossero uscite dalla loro estraneità
politica, la divergenza radicale di obiettivi con le élite
risorgimentali avrebbe costituito un ostacolo e non già un
aiuto al compimento dell'unità: le masse contadine
avrebbero lottato per un obiettivo economicamente
arretrato come la divisione delle terre in piccole proprietà
indipendenti, allontanandosi diametralmente dal modello
moderno di azienda capitalistica perseguito dalle élite.
Da molti punti di vista l'unificazione rappresentava una
soluzione troppo avanzata per le condizioni civili, sociali
ed economiche del paese. Si trattava ora di coinvolgere la
maggioranza degli italiani nei valori di libertà e di
modernità a cui si era ispirato il Risorgimento e di
colmare le molte distanze e diversità che erano presenti
nel nuovo Stato nazionale: un'impresa difficile da
compiere in tempi brevi e che avrebbe lasciato, in parte
fino ad oggi, molti problemi irrisolti.
Il Piemonte liberale del conte di Cavour
Nel marzo 1861 fu proclamata a Torino l'unità d'Italia.
Questo risultato, imprevedibile dopo le sconfitte delle
rivoluzioni del '48-49, fu dovuto al successo dell'iniziativa
diplomatica e militare del Piemonte guidata dal conte di
Cavour e alle vittorie sul Regno borbonico della
spedizione dei Mille comandata da Garibaldi.
Il governo d'Azeglio e le leggi Siccardi
In Piemonte, dopo la sconfitta di Novara del '49, il re
Vittorio Emanuele II mantenne l'ordinamento
costituzionale e il sistema parlamentare definito dallo
Statuto del 1848 mentre il governo liberale moderato,
presieduto da Massimo d'Azeglio, continuò lungo la linea
di ammodernamento delle istituzioni avviata negli ultimi
anni di regno di Carlo Alberto. Una decisione di grande
rilievo fu quella di porre fine agli anacronistici privilegi di
cui il clero ancora godeva — tribunali riservati, diritto
d'asilo per le chiese e i conventi, censura sui libri —,
adeguando la legislazione ecclesiastica del Piemonte a
quella degli altri Stati cattolici europei. Nella battaglia
parlamentare per l'approvazione di queste norme, note
come "leggi Siccardi" dal nome del ministro della
Giustizia, emerse nelle file della maggioranza liberal-
moderata la figura di un nuovo e dinamico leader: il conte
Camillo Benso di Cavour, aristocratico e uomo d'affari,
proprietario terriero e giornalista, direttore di un
combattivo organo di stampa dal titolo «Il Risorgimento».
Cavour: politico e imprenditore
Liberalismo e intraprendenza borghese furono le due
componenti decisive nella formazione di Cavour. Il suo
era un liberalismo moderato dai tratti fortemente
pragmatici, molto lontano dai programmi della
democrazia ottocentesca. Cavour era infatti convinto che
l'ampliamento della partecipazione politica doveva essere
attuato con gradualità nell'ambito di un sistema
monarchico-costituzionale promotore di riforme e
trasformazioni: l'unico antidoto, a suo giudizio, contro la
rivoluzione e il disordine sociale. Alla concreta esperienza
di uomo d'affari e di imprenditore agricolo, Cavour univa
una buona conoscenza delle teorie economiche e vedeva
nello sviluppo produttivo la premessa indispensabile per il
progresso civile e politico: ammiratore del liberalismo
britannico, nutriva quella fiducia pressoché illimitata nella
libertà economica che era tipica della moderna cultura
borghese.
Il «connubio» e il sistema parlamentare
Cavour entrò a far parte del governo d'Azeglio nel 1850,
come ministro per l'Agricoltura e il Commercio. Due anni
dopo fu incaricato di formare un nuovo governo
(novembre 1852). Prima ancora di diventare presidente
del Consiglio dei ministri, Cavour si era reso protagonista
di un rovesciamento degli equilibri politici, promuovendo
un accordo fra l'ala più progressista della maggioranza
moderata, il cosiddetto «centro-destra», di cui egli stesso
era il leader, e la componente più moderata della sinistra
democratica, il «centro-sinistra» capeggiato da Urbano
Rattazzi. Dal «connubio» (come fu allora definito),
nacque una nuova maggioranza di centro, che emarginava
sia i clericali-conservatori sia i democratici più radicali. In
questo modo Cavour poté ampliare la base parlamentare
del suo governo e spostarne l'asse verso sinistra: il che gli
consenti non solo di far propria la politica patriottica e
antiaustriaca sostenuta fin allora dai democratici, ma
anche di rendere più incisiva la sua azione riformatrice in
campo politico ed economico. Negli stessi anni si affermò
in Piemonte un sistema di governo di tipo parlamentare
(analogo a quello britannico), che modificava nella prassi
lo Statuto albertino facendo dipendere il governo non più
esclusivamente dalla fiducia accordatagli dal sovrano, ma
anche e soprattutto dal sostegno di una maggioranza in
Parlamento.
I successi della politica economica
Cavour si adoperò per sviluppare l'economia del suo
paese e per integrarla nel più ampio contesto europeo.
Premessa essenziale fu l'adozione di una politica
decisamente liberoscambista: furono stipulati trattati
commerciali con Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna
e, fra il '51 e il '54, venne gradualmente abolito il dazio
sul grano. Notevoli progressi si registrarono anche nel
campo delle opere pubbliche: furono costruiti strade e
canali ma soprattutto venne sviluppato il sistema dei
trasporti ferroviari, favorendo l'espansione del commercio
e dell'industria meccanica. Alla vigilia dell'unità, dopo
dodici anni di regime liberale, il Piemonte poteva vantare
un'agricoltura in fase di espansione e di modernizzazione,
tanto da reggere il confronto con quella della Lombardia;
un'industria che poneva il Piemonte all'avanguardia degli
Stati italiani; un sistema creditizio potenziato intorno a
una banca centrale, la Banca nazionale; una rete di
trasporti efficiente e collegata con l'Europa tramite l'avvio
della costruzione del traforo del Fréjus; un volume di
scambi commerciali con l'estero che, rapportato alla
popolazione, era quasi il doppio di quello medio del resto
d'Italia.
Con il progresso economico e politico il Piemonte
divenne inevitabilmente il polo di attrazione di moltissimi
esuli politici e di intellettuali dal resto d'Italia. Gli
emigrati parteciparono alla vita politica del regno,
inserendosi nella classe dirigente piemontese che
diventava così sempre più rappresentativa dell'intero
paese.
La sconfitta dei repubblicani
I mazziniani e il Partito d'azione
L'attività cospirativa dei mazziniani, guidati dal loro
leader in esilio a Londra, prosegui nonostante le sconfitte
del '48-49. Ma la repressione austriaca ebbe la meglio
come nel drammatico caso delle nove impiccagioni
avvenute nella fortezza di Belfiore, presso Mantova, fra
la fine del '52 e l'inizio del '53. Allora Mazzini, sempre
convinto che l'unità d'Italia dovesse ottenersi attraverso
l'insurrezione di popolo, ritenne opportuno correggere la
sua strategia rafforzando gli aspetti organizzativi e
fondando nel 1853, a Ginevra, una nuova formazione
politica cui diede il nome di Partito d'azione, quasi a
sottolinearne il carattere di puro strumento di battaglia.
Nel contempo intensificò i suoi sforzi per crearsi una base
fra gli artigiani e gli operai delle città del Nord: molte fra
le società operaie di mutuo soccorso nate in questo
periodo, soprattutto in Piemonte e in Liguria grazie alla
libertà di associazione garantita dallo Statuto, furono
infatti controllate dai mazziniani.
L' ipotesi socialista
Nel frattempo tra i democratici si diffondeva il dissenso
sulla fallimentare strategia mazziniana: vi era chi riteneva
ormai necessario evitare un atteggiamento intransigente e
puntare su una più ampia collaborazione con tutte le forze
interessate al conseguimento dell'unità e chi pensava che
si dovesse mirare invece a un programma socialista aperto
ai problemi sociali e alle esigenze delle classi subalterne.
Nel 1851 due libri — La Federazione repubblicana del
milanese Giuseppe Ferrari e La guerra combattuta in
Italia negli anni 1848-49 del napoletano Carlo Pisacane –
introdussero il tema del socialismo nel dibattito interno al
movimento risorgimentale. Sostenevano entrambi che la
lotta per l'indipendenza nazionale avrebbe potuto aver
successo solo se avesse saputo legare a sé le classi
popolari, identificandosi con la loro lotta per
l'emancipazione economica e sociale. In particolare
Pisacane pensava che l'Italia meridionale offrisse, per le
sue caratteristiche di paese arretrato con una borghesia
ancora debole, il terreno più adatto per la rivoluzione. Si
trattava in realtà di una visione utopistica e velleitaria,
come si vide quando cercò di mettere in atto il suo
progetto insurrezionale.
Il fallimento della spedizione di Sapri e la
Società nazionale
Nel giugno del 1857 Pisacane si imbarcò a Genova con
alcuni compagni su un piroscafo di linea, se ne impadronì
e con esso fece rotta verso l'isola di Ponza, sede di un
penitenziario borbonico. Accresciuta da circa 300 detenuti
liberati dal carcere, la spedizione si diresse verso le coste
meridionali della Campania e sbarcò a Sapri, iniziando la
marcia verso l'interno. Ma qui i rivoluzionari furono
rapidamente sbaragliati dalle truppe borboniche subendo
anche la violenza dei contadini che li trattarono come
briganti. Pisacane, ferito, si uccise per non cadere
prigioniero.
Il fallimento della spedizione di Sapri coincise con la
nascita di un movimento indipendentista filopiemontese
promosso da Daniele Manin – il capo del governo
repubblicano di Venezia nel '48-49 – che puntava
all'unione di tutte le correnti, moderate e democratiche,
intorno all'unica forza in grado di raggiungere l'obiettivo
dell'unità: la monarchia di Vittorio Emanuele II. Alla
proposta di Manin, oltre a numerosi esponenti democratici
emigrati in Piemonte aderì anche Giuseppe Garibaldi,
rientrato in Italia nel '55 dal Sud America. Nel luglio 1857
il movimento si diede una struttura organizzativa e
assunse il nome di Società nazionale. L'associazione
dichiarava nel suo manifesto costitutivo di anteporre la
causa dell'unità ad ogni altro obiettivo e di ritenere
indispensabile il «concorso governativo piemontese»: di
appoggiare quindi la monarchia sabauda per
l'affermazione della causa italiana.
L'alleanza con la Francia e la seconda
guerra di indipendenza
La politica estera di Cavour
Inizialmente la politica estera di Cavour rimase legata agli
obiettivi tradizionali della monarchia sabauda: ampliare i
confini del Piemonte verso l'Italia settentrionale, a scapito
dei domini austriaci. Cavour, però, persegui questa
strategia con insolita abilità e spregiudicatezza ottenendo
risultati imprevedibili, al di là delle sue originarie
intenzioni. Sfruttando al massimo le ambizioni politiche
di Napoleone III, riuscì a trascinare la Francia in una
guerra contro l'Austria a tutto vantaggio per il Piemonte.
Questo esito fu ottenuto attraverso alcuni passaggi
decisivi. Il primo fu quello di inviare un contingente
militare in Crimea al fianco della Gran Bretagna e della
Francia impegnate a difendere l'Impero ottomano
dall'espansionismo russo, che rischiava di alterare
l'equilibrio tra le potenze e minacciava gli interessi inglesi
e francesi in quella zona. In questo modo il Piemonte poté
partecipare come Stato vincitore al congresso di Parigi del
1856. In quella sede Cavour sollevò la questione italiana,
protestando contro la presenza militare austriaca nelle
Legazioni pontificie e denunciando il malgoverno dello
Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie come
causa di tensioni rivoluzionarie e, dunque, come minaccia
alla pace. A questo punto Cavour poté puntare sulle
ambizioni egemoniche di Napoleone III, desideroso di
riprendere la politica italiana del primo Napoleone, e
anche sulla paura suscitata in lui dalle agitazioni
mazziniane. Questi timori sarebbero stati confermati,
infatti, nel gennaio del 1858 dal fallito attentato contro di
lui compiuto dal repubblicano romagnolo, Felice Orsini,
reduce dalla difesa di Roma. A quel punto Napoleone III
era già convinto della necessità di una iniziativa francese
in Italia per soppiantare l'egemonia austriaca, eliminando
al tempo stesso un pericoloso nucleo di tensione
rivoluzionaria.
L'alleanza con la Francia
La strada era ormai aperta per la conclusione di
un'alleanza franco-piemontese, che fu definita in un
incontro segreto fra l'imperatore e Cavour svoltosi nel
luglio 1858 nella cittadina termale di Plombières. Gli
accordi ipotizzavano una nuova sistemazione dell'intera
Penisola italiana, che avrebbe dovuto essere divisa in tre
Stati: un regno dell'Alta Italia comprendente, oltre al
Piemonte, il Lombardo-Veneto e l'Emilia-Romagna, sotto
la monarchia sabauda, che in cambio avrebbe ceduto alla
Francia i territori di Nizza e della Savoia; un regno
dell'Italia centrale formato dalla Toscana e dalle province
pontificie; un regno meridionale liberato dalla dinastia
borbonica. Al papa, che avrebbe conservato la sovranità
su Roma e dintorni, sarebbe stata offerta la presidenza
della futura Confederazione italiana. I guadagni territoriali
erano prevalentemente a vantaggio del Piemonte in
cambio di un'ipotetica egemonia esercitata dalla Francia
sulla nuova sistemazione italiana. Ma per raggiungere
questi obiettivi era indispensabile la guerra contro
l'Austria. Anzi, era necessario che la guerra apparisse
provocata dall'Impero asburgico perché l'alleanza con la
Francia potesse diventare operativa.
La guerra del 1859
Il governo piemontese fece il possibile per far salire la
tensione con lo Stato vicino: particolare effetto
suscitarono le manovre militari al confine e l'armamento
di corpi volontari, i Cacciatori delle Alpi, comandati da
Garibaldi. E il governo asburgico finì col cadere nella
provocazione inviando, nell'aprile 1859, un duro
ultimatum al Piemonte, respinto da Cavour. Scoppiata la
guerra (la seconda guerra d'indipendenza), le truppe
franco-piemontesi sconfissero gli austriaci a Magenta,
aprendosi la via per Milano. Un successivo contrattacco
austriaco fu respinto, il 24 giugno, nelle due
contemporanee, sanguinose battaglie di Solferino e San
Martino, dove le vittime francesi furono il doppio di
quelle italiane.
A questo punto, nonostante la vittoria, Napoleone III,
impressionato dai costi umani della guerra, timoroso delle
reazioni ostili dell'opinione pubblica francese e del
possibile intervento della Confederazione germanica, offrì
un armistizio agli austriaci che fu accettato e firmato a
Villafranca, presso Verona, l'11 luglio. Con questo
accordo l'Impero asburgico rinunciava alla Lombardia e la
cedeva alla Francia che l'avrebbe poi «girata» al
Piemonte, mantenendo il Veneto e le fortezze di Mantova
e Peschiera. Per il resto d'Italia, il trattato prevedeva il
ripristino della situazione precedente lo scoppio della
guerra: tra aprile e giugno, infatti, una serie di insurrezioni
nelle regioni centro-settentrionali della penisola – a
Modena, a Bologna, in Romagna e Toscana – aveva
costretto alla fuga i vecchi sovrani. La notizia
dell'armistizio suscitò lo sdegno dei democratici italiani e
colse di sorpresa lo stesso Cavour, che rassegnò subito le
dimissioni.
Le annessioni dell'Italia centro-settentrionale
A differenza di quanto era accaduto nel '48, i moti della
prima vera del '59 furono saldamente controllati dai
moderati e dagli uomini della Società nazionale, e i
governi provvisori che subito si costituirono si
pronunciarono per l'annessione al Piemonte. Di fronte a
questa situazione, dopo alcuni mesi Napoleone III decise
di accettare il fatto compiuto capendo che la nuova
situazione nell'Italia centro-settentrionale vanificava il
progetto definito a Plombières. Cavour, tornato a capo del
governo nel gennaio 1860, poté così negoziare la cessione
alla Francia di Nizza e della Savoia – cui il Piemonte non
era più tenuto dopo Villafranca – in cambio dell'assenso
francese alle annessioni del Granducato di Toscana, dei
Ducati di Modena e di Parma, delle Legazioni pontificie.
Nel marzo dello stesso anno, le popolazioni di Emilia,
Romagna e Toscana, chiamate a scegliere, nella forma del
plebiscito, fra l'annessione al Piemonte e la creazione di
regni separati, si pronunciarono a schiacciante
maggioranza per la soluzione unitaria.
I Mille e la conquista dei Mezzogiorno
L'organizzazione della spedizione in Sicilia
Con la cessione alla Francia dei suoi territori d'oltralpe –
in particolare della Savoia, terra di origine della casa
regnante, ma abitata da popolazioni di lingua francese – e
dopo le annessioni della Lombardia, dell'Emilia-Romagna
e della Toscana, lo Stato sabaudo aveva posto le premesse
di uno Stato nazionale italiano. Questi risultati
sollecitarono i democratici a rilanciare l'iniziativa
rivoluzionaria nel Mezzogiorno e nello Stato della Chiesa.
Esclusa l'opportunità di un'azione nei confronti di Roma,
protetta da truppe francesi, si ripropose l'idea di una
spedizione di volontari nel Regno delle Due Sicilie dove,
nel maggio del '59, era salito al trono il giovane Francesco
II. Furono due mazziniani siciliani esuli in Piemonte,
Francesco Crispi e Rosolino Pilo, a concepire il progetto
di una spedizione in Sicilia come prima tappa di un
movimento insurrezionale che avrebbe dovuto estendersi
al continente. I due cercarono da una parte di organizzare
una rivolta locale prima dello sbarco dei volontari,
dall'altra di assicurarsi un'efficiente guida politica e
militare e di garantirsi nel contempo un qualche appoggio
del governo piemontese.
Ai primi di aprile del 1860, un'insurrezione popolare
scoppiava a Palermo. Mentre Pilo accorreva in Sicilia per
assumere la direzione del moto, che fu sanguinosamente
represso nel capoluogo ma si estese alle campagne dando
luogo a una diffusa guerriglia contadina, Crispi riuscì a
convincere un esitante Garibaldi ad assumere la guida
della spedizione.
Il ruolo di Garibaldi
Garibaldi era non solo il capo militare più prestigioso di
cui disponesse il movimento nazionale, ma anche l'unico
leader capace di unificare attorno a sé le diverse
componenti dello schieramento unitario, dai democratici
intransigenti ai moderati filocavouriani. Quando accettò di
capeggiare la spedizione in Sicilia, Garibaldi era l'unico
fra i leader democratici in grado di assicurare qualche
possibilità di riuscita all'impresa, ritenuta estremamente
rischiosa. Cavour, che temeva le complicazioni
internazionali e vedeva nella spedizione un'occasione di
rilancio per i mazziniani, la avversò pur senza far nulla
per impedirla. Vittorio Emanuele II, che guardava invece
con favore al tentativo di Garibaldi, non poté intervenire
concretamente in suo aiuto.
La spedizione dei Mille
La spedizione fu così preparata in fretta, con scarso
equipaggiamento e pessimo armamento. Nella notte fra il
5 e il 6 maggio 1860, poco più di mille volontari,
provenienti da diverse regioni – ma in maggioranza
settentrionali – e di varia estrazione sociale (borghese-
intellettuale, operaia o artigiana), in larga parte veterani
delle campagne del '48 e del '59, partirono da Quarto
presso Genova, dopo essersi impadroniti di due navi a
vapore, il Piemonte e il Lombardo. Pochi giorni dopo,
eludendo la sorveglianza della flotta borbonica, i volontari
sbarcavano a Marsala, nell'estremità occidentale della
Sicilia e penetravano nell'interno, accolti con entusiasmo
dalla popolazione.
Il 15 maggio, a Calatafimi, le colonne garibaldine,
accresciute da poche centinaia di insorti siciliani,
nonostante l'inferiorità numerica, riuscirono a battere un
contingente borbonico. Galvanizzati dal successo, i
volontari puntarono su Palermo e la raggiunsero dopo una
difficile marcia fra le montagne. All'arrivo delle
avanguardie garibaldine, la città insorse contro i Borbone.
Alla fine di maggio, dopo tre giorni di combattimenti, le
truppe governative furono costrette ad abbandonare la
città dove Garibaldi – che appena sbarcato in Sicilia aveva
assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II –
proclamò la decadenza della monarchia borbonica.
Mentre nell'isola si formava un governo civile provvisorio
sotto la guida di Crispi e si tentava di mettere in moto un
primo processo di riforma sociale (riduzione del carico
fiscale, assegnazione di terre ai contadini combattenti
nelle file garibaldine), nell'Italia settentrionale si
raccoglievano uomini e mezzi da inviare in Sicilia: fra
giugno e luglio sbarcarono a Palermo quasi 15 mila
volontari. Col loro apporto, Garibaldi poté muovere
all'attacco delle truppe borboniche e sconfiggerle, il 20
luglio, a Milazzo, costringendole a rifugiarsi sul
continente.
Nel giro di poche settimane, l'impresa garibaldina aveva
assunto le dimensioni di una vera e propria epopea, cui
gran parte dell'opinione pubblica europea guardava con
simpatia e ammirazione.
La rapidità con cui era stato abbattuto il regime borbonico
in Sicilia aveva inoltre colto di sorpresa la diplomazia
delle grandi potenze e aveva costretto Cavour e i moderati
italiani a rivedere la loro strategia e a immaginare
un'ulteriore politica di annessioni.
I contrasti con i contadini in Sicilia
Il clima di entusiastica concordia che aveva accolto i
garibaldini al loro sbarco in Sicilia si era dissolto quando i
contadini avevano intravisto la possibilità di liberarsi non
solo dal malgoverno borbonico, ma anche dal secolare
sfruttamento cui li condannava una struttura sociale
ancora semifeudale: era tosi scoppiata una serie di
violente agitazioni. Dal canto loro, Garibaldi e i suoi
collaboratori avevano cercato di venire incontro alle
esigenze dei contadini, ma senza mettere in discussione il
quadro dei rapporti di proprietà. Nacque così un contrasto
insanabile, sfociato in episodi di dura repressione: il più
noto si verificò ai primi di agosto nella cittadina di
Bronte, ai piedi dell'Etna. Dopo alcuni giorni di rivolta,
incendi e saccheggi, e il massacro di alcuni notabili, i
supposti capi dei ribelli furono sommariamente processati
e fucilati per ordine di Nino Bixio, braccio destro di
Garibaldi. Intanto i proprietari terrieri, spaventati dalle
agitazioni agrarie, guardavano sempre più all'annessione
al Piemonte come all'unica efficace garanzia per la tutela
dell'ordine sociale.
La conquista di Napoli
Fino a tutta l'estate del 1860, l'iniziativa restò nelle mani
di Garibaldi che riuscì a sbarcare in Calabria e poi risali
rapidamente la penisola senza che l'esercito borbonico,
ormai in via di disgregazione, fosse in grado di opporgli
un'efficace resistenza. Il 6 settembre, Francesco II
abbandonò la capitale per rifugiarsi nella fortezza di
Gaeta. Il giorno dopo Garibaldi fece il suo ingresso
trionfale a Napoli. Cavour si trovò ancora una volta
battuto sul tempo. Napoli liberata rischiava di trasformarsi
in un quartier generale dei democratici – dove giunsero
anche Mazzini e Cattaneo – e di diventare la base per una
spedizione nello Stato della Chiesa. Un'impresa che
avrebbe provocato l'intervento francese e che, se avesse
avuto successo, avrebbe potuto mettere in discussione
l'assetto monarchico e moderato dello stesso Regno
sabaudo.
L'intervento militare piemontese e i plebisciti
Non restava, per il governo piemontese, altra scelta se non
quella di prevenire l'iniziativa garibaldina con un
intervento militare. In di annessione settembre – dopo che
Cavour ebbe ottenuto l'assenso di Napoleone III,
impegnandosi a non minacciare Roma e il Lazio – le
truppe regie invasero l'Umbria e le Marche e sconfissero
l'esercito pontificio nella battaglia di Castelfidardo. Ai
primi di ottobre, mentre Garibaldi batteva i borbonici
nella grande battaglia campale del Volturno, l'esercito
sabaudo iniziò la marcia verso il Sud. Pochi giorni dopo,
il Parlamento piemontese approvò quasi all'unanimità una
legge proposta da Cavour, che autorizzava il governo a
decretare l'annessione, senza condizioni, di altre regioni
italiane allo Stato sabaudo, purché le popolazioni
interessate esprimessero la loro volontà in tal senso
mediante plebisciti. L'iniziativa tornava così – e questa
volta definitivamente – nelle mani di Cavour e dei
moderati.
Il 21 ottobre, in tutte le province del Mezzogiorno
continentale e in Sicilia – e, due settimane dopo, anche
nelle Marche e in Umbria – si tennero plebisciti a
suffragio universale maschile nella forma voluta da
Cavour: agli elettori non veniva lasciata altra scelta che
quella di accettare o respingere «in blocco» l'annessione
allo Stato sabaudo con la sua forma di governo, i suoi
ordinamenti, le sue leggi. Molto ampia (75-80%) fu
l'affluenza alle urne e addirittura schiacciante – tanto da
giustificare qualche sospetto sulla regolarità delle
operazioni di voto e di scrutinio – la maggioranza dei
«sì».
A Garibaldi non restò che attendere l'arrivo dei
piemontesi – l'incontro con Vittorio Emanuele II avvenne
a Teano, presso Caserta, il 25 ottobre – per cedere loro
ogni responsabilità nel governo delle province liberate.
Mentre Garibaldi si ritirava sull'isola di Caprera in
volontario isolamento rinunciando a ogni progetto di
liberare Roma e Mazzini partiva per l'ennesimo esilio,
l'esercito sabaudo eliminava le ultime resistenze
borboniche.
L'unità d'Italia: caratteri e limiti
Il Regno d'Italia
Il 17 marzo 1861, il primo Parlamento proclamava
Vittorio Emanuele II re d'Italia «per grazia di Dio e
volontà della nazione». L'Italia era ormai uno Stato
unitario, con capitale Torino, ma al suo completamento
territoriale mancava tutto il Veneto (il confine con
l'Austria correva lungo il lago di Garda e il fiume Mincio)
e il Lazio con Roma.
Grazie alle annessioni l'Italia unita si presentava come il
risultato dell'ampliamento di uno Stato regionale
rivelatosi forte e dinamico al punto da poter assorbire
territori di gran lunga più ampi e popolazioni molto più
numerose rispetto al suo nucleo originario, imponendo
all'intero paese il proprio sovrano e le proprie istituzioni,
leggi e ordinamenti. A questo risultato si era arrivati non
solo per l'iniziativa militare e diplomatica del Piemonte o
per l'azione di un uomo politico geniale come Cavour, ma
anche per l'ampia mobilitazione di un'opinione pubblica
che coinvolgeva gli strati sociali più attivi e più dinamici
d'Italia, seppur minoritari: intellettuali, studenti, ceti
popolari urbani politicizzati e soprattutto una borghesia
produttiva desiderosa di creare quel mercato nazionale
che era considerato una premessa indispensabile allo
sviluppo economico. Per quanto minoritaria nel paese,
questa opinione pubblica era largamente disseminata
anche per la presenza degli innumerevoli centri urbani,
grandi e piccoli, che da secoli caratterizzavano l'Italia e
che ospitavano élites illuminate e favorevoli al
risorgimento nazionale.
I caratteri dell'unificazione
In Italia, dunque, lo Stato nazionale nacque dalla
combinazione di un'iniziativa dall'alto – la politica di
Cavour e l'egemonia del Piemonte sabaudo – e di
un'iniziativa dal basso – le insurrezioni nell'Italia centrale
e la spedizione garibaldina nel Sud. E l'esito dei plebisciti,
per quanto forzati dagli avvenimenti e solo parzialmente
rispettosi dei reali orientamenti delle popolazioni
coinvolte, rappresentò un omaggio all'idea della sovranità
popolare. Nell'incontro fra la componente democratica e
la componente moderata e dinastica, quest'ultima alla fine
risultò nettamente vincente: ma senza le rivoluzioni
democratiche che l'avevano preceduto, l'esito dell'unità
non sarebbe stato possibile. Un ruolo decisivo ebbero
anche i fattori internazionali: in primo luogo l'intervento
della Francia di Napoleone III, che combatté nel '59 una
guerra a totale beneficio del Piemonte, a cui si aggiunsero
l'isolamento del Regno delle Due Sicilie e dello stesso
Impero asburgico, e, infine, la sostanziale neutralità della
Gran Bretagna.
Vincitori e vinti
Se dunque la mobilitazione risorgimentale aveva riportato
un indiscutibile successo proprio in virtù dell'intreccio
positivo delle sue due principali componenti, una parte
consistente degli italiani aveva subito o si era adattata di
malavoglia al nuovo corso. In primo luogo il
cattolicesimo organizzato della Chiesa romana e delle
istituzioni ecclesiastiche, che avrebbero visto di lì a poco
(1866-67) la requisizione e la vendita delle loro proprietà
a vantaggio delle finanze del nuovo Stato. Incombeva
inoltre la conquista di Roma, acclamata capitale italiana
dal Parlamento già il 27 marzo 1861, il che avrebbe
segnato la fine di quel che rimaneva dello Stato pontificio
e del secolare potere temporale dei papi. Tra gli sconfitti
vanno ricordati anche tutti i nostalgici degli antichi regimi
assolutisti e i difensori delle dinastie abbattute: tra questi
si contavano molti nobili, ufficiali e funzionari, ma anche
strati di popolo minuto e di contadini, legati alla
monarchia borbonica.
Le campagne erano rimaste in tutta Italia, come sappiamo,
sostanzialmente estranee al movimento nazionale.
Quando le agitazioni contadine, spesso violente, esplosero
in Sicilia alimentate dalle speranze che il cambiamento
legato alla spedizione garibaldina favorisse il recupero
delle terre comuni usurpate dalla nobiltà e dalla borghesia,
la repressione apparve giustificata e inevitabile, non solo a
Bronte, come abbiamo visto, ma anche in altre località del
catanese. Del resto persisteva un'estraneità incolmabile tra
le agitazioni sociali ed economiche di quella parte del
mondo contadino — così diversa dal resto d'Italia — e il
programma politico di moderati e democratici volti a
realizzare l'obiettivo primario della loro azione, l'unità e
l'indipendenza. A ciò si aggiungeva il timore del possibile
ripetersi di rivolte sociali nelle campagne (come era già
accaduto in Sicilia nel 1820 e nel 1848) col rischio di una
loro evoluzione reazionaria e filoborbonica, mentre
andava evitata accuratamente una cesura con le classi
dirigenti locali.
L'Italia in Europa
Per l'Italia unita cominciava allora a porsi il problema di
un confronto con il resto d'Europa, innanzitutto per
garantire la continuità del nuovo Stato unitario, per
trovare un proprio ruolo tra le potenze e per ottenere
senza troppi contrasti il completamento dell'unità.
Rispondere alle ambizioni, spesso dense di retorica
nazionale, di un paese politicamente giovane si sarebbe
rivelato meno agevole del previsto, mentre duratura e
spesso radicale rimase la divisione tra i vincitori e gli
sconfitti del Risorgimento.
L'unità rappresentò in ogni caso una decisiva svolta
modernizzatrice per l'Italia, tanto sul piano delle
istituzioni politiche quanto su quello delle prospettive
economiche, anche se la costruzione del nuovo Stato
avrebbe richiesto scelte difficili e altri momenti
conflittuali.
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