ESAE Scuola Regionale per Operatori Sociali
P.zza Castello, 3 20121 MILANO
IL METODO GORDON:
Come Rendere più Efficaci le
Relazioni
Relatrice: Zanichelli Elena
Candidata: Frigerio Daniela
Anno Formativo 2002/2003
QUALIFICA di EDUCATORE PROFESSIONALE
2
Con profonda gratitudine e tanto affetto
Desidero ringraziare prima di tutto la mia relatrice, che mi ha accolto senza conoscermi, mi ha sostenuto e incoraggiato, mi è stata vicina con la sua competenza, la sua esperienza e con la massima disponibilità. Vorrei ringraziare tutte le persone, familiari ed amici, che mi hanno “sopportato” nei tre anni di studio e soprattutto nel periodo in cui ho lavorato sulla tesi. Un pensiero speciale per le mie colleghe che si sono sempre rese disponibili a cambiare i turni di lavoro per permettermi di frequentare i corsi e studiare e, in particolare, per Germana che mi ha prestato il suo portatile, strumento indispensabile nella complessità dei miei spostamenti. Un pensiero speciale anche per Pino, compagno di corso ed amico: senza i suoi richiami alla realtà e alla semplicità delle cose forse non sarei arrivata a questo traguardo.
3
Indice
INTRODUZIONE: perchè il metodo Gordon per un educatore…..……5
Cap. 1 THOMAS GORDON E IL SUO PENSIERO………......……..10 1.1 Cenni biografici………………………………………10 1.2 Il pensiero psicologico anteriore e contemporaneo…..14
1.2.1 La psicologia umanistica………………14 1.2.2 Rogers………………………………… 18 1.2.3 Gordon………………………………....23
1.3 Lo sviluppo del pensiero di Gordon e il suo Metodo...25 1.4 Il concetto di educazione in Rogers e Gordon……….30
Cap. 2 IL METODO GORDON COME TERZA VIA EDUCATIVA..34 2.1 Chiarimenti sulla terminologia………………………36 2.2 Il metodo democratico: alternativa educativa ai metodi
punitivo e permissivo……….……………………..43 2.3 Interpretazione di un approccio educativo…………..52
2.3.1 Coping e Modeling…………………….52 2.3.2 Conseguenze su salute e benessere…….56
Cap 3. IL METODO……………………………………………………60 3.1 Il presupposto: la relazione interpersonale………...61 3.2 Il fondamento: la soddisfazione dei bisogni……….69 3.3 La finestra del comportamento…………………….74 3.4 La responsabilità………….………………………..82
Cap 4. L’ASCOLTO ATTIVO……………………………………..….90 4.1 La relazione d’aiuto………………………………..91 4.2 L’abilità dell’ascolto attivo…….…………………..96 4.3 Utilità dell’ascolto attivo………....………………..99 4.4 Condizioni per l’utilizzo………………………….100 4.5 Errori da evitare……………………………….….104 4.6 Altri utilizzi dell’ascolto attivo…………………...106
4
Cap 5. L’AUTORIVELAZIONE………………………………….…108
5.1 I Messaggi in prima persona per l’area non problematica……...……....………………….....…..114
5.2 I Messaggi di confronto in prima persona per l’area problematica………………………………....……..117
5.3 Benefici e rischi dell’autorivelazione…...…………121
Cap. 6 IL CAMBIO DI MARCIA…......………………………….…126
Cap. 7 RISOLVERE I CONFLITTI……......………………………..129 7.1 Conflitti di soluzione……...……………………….131 7.2 Conflitti di valori……...………………………..….151 7.3 Aiutare l’altro a risolvere i propri conflitti…...……159
Cap. 8 IL METODO GORDON COME POSSIBILITA’ EDUCATIVA. 163
8.1 Gordon educatore…………..……………….……...163 8.2 Mezzi per acquisire le competenze Gordon…...…...167 8.3 Effetti educativi……………………………...……..170 8.4 Prospettive di utilizzo……………………...……….173
CONCLUSIONI……………………………………………………....182
APPENDICI A. Un credo per le mie relazioni con gli altri (Thomas Gordon)...185 B. La comunicazione efficace…………………………………….187 C. Glossario……………………………………………………….191 D. Gordon Training International…………………………………194 E. IACP…………………………………………………………...195
BIBLIOGRAFIA……………………………………………………..197
5
INTRODUZIONE: perché il metodo Gordon per un
educatore
Ci possono essere lunghe discussioni riguardo a cosa significa educare e
cosa significa essere educatore: in un certo senso tutto il percorso di
formazione del corso da noi intrapreso è stato un cammino che ha offerto
spunti e possibilità per approfondire, per guardare in sè stessi e negli altri
e trovare una risposta a queste domande.
Ci possono essere tanti punti di vista rispetto a come si deve educare, a
cosa deve fare un educatore, punti di vista che fanno riferimento a valori,
bisogni e aspettative diversi.
Ma, indipendentemente dai punti di vista e dai valori di riferimento, non
si può negare o discutere un “fatto assoluto”: l’educazione è per sua
natura legata alla relazione. Relazione prima di tutto fra “educando ed
educatore”1, ma anche relazione fra individui e contesto, fra individui e
gruppi.
Ed è proprio per la centralità che nel suo metodo Gordon attribuisce alla
relazione, che il metodo stesso, pur nato prima all’interno di
organizzazioni imprenditoriali e poi applicato alla relazione
1 In questa tesi userò i due termini senza attribuzione di valore, ma solo per indicare in modo conciso una qualsiasi relazione educativa, con una qualsiasi tipologia di utenza
6
genitore/figlio e insegnante/allievo, assume un significato ed apre una
possibilità per gli educatori professionali di impostare i propri interventi
in qualsiasi area questi si collochino.
Questa apertura del metodo a tutti gli ambiti educativi è implicita nella
tesi di Gordon: più importante del messaggio e dei contenuti che si
vogliono comunicare è il modo in cui gli stessi vengono trasmessi, è la
capacità di entrare in relazione con l’altro, è la qualità della relazione.
Infatti solo attraverso una buona relazione2 è possibile avere
un’influenza significativa, profonda e duratura sul destinatario
dell’azione educativa.
Il metodo Gordon è proprio una modalità di approccio, un sistema
strutturato di impostare una buona relazione e non una meccanica
sequenza di azioni o una “tecnica”.
C’è anche un’altra parola chiave nel Metodo di Gordon, che risulta
essere una parola chiave anche per l’educatore professionale, ed è
responsabilità.
2 Gordon definisce una buona relazione quella che presenta le seguenti caratteristiche:
Franchezza e Trasparenza, in modo che ciascuno possa essere del tutto sincero e leale con l’altro
Considerazione, perché ognuno sa di contare molto per l’altro Interdipendenza in quanto opposta alla dipendenza dell’uno dall’altro Distinzione, per permettere a ciascuno di crescere e svilupparsi nella propria
unicità, creatività e individualità Rispetto delle reciproche necessità, in modo che i bisogni dell’uno non siano
rispettati a spese dei bisogni dell’altro
7
Ogni educatore, che sia professionale o “naturale”, ritiene fondamentale
che la persona con cui ha una relazione educativa “diventi responsabile”.
Ognuno metterà in questo diventare responsabile i contenuti di volta in
volta appropriati al contesto, all’età ecc.., ma la questione non può essere
trascurata, a meno di voler tenere l’altro dipendente.
Si può dire che la struttura del Metodo Gordon si basa su di una corretta
attribuzione della responsabilità: responsabilità dei problemi e delle
soluzioni agli stessi, responsabilità delle emozioni e delle loro
conseguenze, responsabilità di se stessi e delle proprie azioni in rapporto
alle persone e all’ambiente circostanti.
Una volta attribuità la responsabilità a chi di competenza, il Metodo
suggerisce di volta in volta le modalità di comportamento e le azioni più
efficaci per far crescere la relazione, per arrivare alla soluzione dei
problemi, per arrivare alla risoluzione dei conflitti.
Fra le ragioni che possono portare un educatore a scegliere di operare in
riferimento al Metodo Gordon, vorrei infine porre l’accentro sulla
questione dei bisogni.
Nelle riflessioni più recenti, riguardo all’impostazione dei servizi
(sanitari, sociali...) e di conseguenza riguardo all’atteggiamento di chi in
questi servizi opera (come l’educatore professionale), si sta verificando
una svolta: da strutture che tendono a soddisfare le esigenze
8
organizzative dei servizi stessi, a strutture che prendono in
considerazione per prima cosa i bisogni di chi accede ai servizi, i bisogni
del cliente3.
Nel pensiero di Gordon la questione dei bisogni è strettamente legata alla
responsabilità e ai conflitti interpersonali: i conflitti nascono rispetto alla
soddisfazione dei bisogni che viene in qualche modo ostacolata
dall’esterno. Ma Gordon non pone l’accento esclusivamente sui bisogni
di chi offre un servizio o di chi vi accede, ma sui bisogni di entrambe le
parti, bisogni che hanno ugual valore all’interno di qualsiasi relazione
(anche di una relazione non paritaria come può essere quella fra
educatore ed educando). Ognuno ha la responsabilità della soddisfazione
dei propri bisogni e delle emozioni che derivano eventualmente dalla
loro frustrazione. Un atteggiamento franco ed onesto da parte
dell’educatore riguardo ai propri bisogni e all’esplicitazione degli stessi,
determinerà nell’altra persona una presa di coscienza e una maggiore
responsabilizzazione rispetto al proprio comportamento, come anche
un’analisi più approfondita dei propri bisogni. Tutto questo condurrà ad
una buona relazione, gratificante per tutte le parti e, a mio parere, anche
una riduzione dei problemi di burn out degli operatori.
3 Andrea Costa – Le nuove competenze dell’educatore. Da Luoghi & Professioni
9
Il metodo nella sua impostazione e nella sua “esecuzione” sconvolge chi
lo avvicina per la prima volta perchè sembra rivoluzionare un mondo di
concezioni, di azioni e reazione interiorizzate fin dall’infanzia.
In questo senso la scelta di ispirare la propria azione al Metodo Gordon
richiede la disponibilità a rimettersi in gioco totalmente e ad
“esercitarsi”.
Gordon ritiene che per ottenere i migliori risultati educativi si debba
cominciare ad utilizzare il Metodo il prima possibile (per i genitori
suggerisce fin dalla nascita dei bambini) e questo non solo per il bene
dell’educando, ma anche dell’educatore che piano piano “fa pratica”,
partendo dagli interventi più semplici per arrivare a quelli più complessi
implicati dallo svilupparsi e approfondirsi della relazione e dei bisogni
individuali e reciproci.
10
1. THOMAS GORDON E IL SUO PENSIERO
1.1 Cenni Biografici
Thomas Gordon è stato un rinomato psicologo clinico di orientamento
umanistico-esistenziale, che si è dedicato per gran parte della sua vita al
counselling psico-pedagogico.
Egli è anche riconosciuto come un pioniere nell’insegnamento delle
capacità comunicative e dei metodi di risoluzione dei conflitti.
Nato l’11 marzo 1918 a Paris nell’Illinois, alla fine degli studi superiori
ottenne una borsa di studio per frequentare la DePauw University
dell’Indiana, dove conseguì il B.A. (Bachelor of Arts, primo livello di
studi universitari in discipline umanistiche in genere). In questo periodo
sua madre fu ospitalizzata a causa di una depressione: questo fatto spinse
Gordon a desiderare di proseguire gli studi in ambito psicologico.
Si iscrisse pertanto alla Ohio State University (dove conseguì il M.A.
Master of Arts in discipline umanistiche), ma ben presto fu deluso del
tipo di argomenti che venivano presentati nei corsi. Si trattava
principalmente di storia della psicologia, di psicologia sperimentale e di
statistica: niente a che vedere con le persone.
11
L’arrivo di un nuovo professore, Carl Rogers, costituì una svolta
decisiva nella vita personale e professionale di Gordon. Rogers divenne
infatti per lui l’insegnate favorito, il maestro, l’amico.
La carriera universitaria di Gordon fu a questo punto bruscamente
interrotta dalla Seconda Guerra Mondiale. Infatti Gordon, che aveva già
una licenza di pilota civile, si offrì volontario per diventare istruttore di
volo nell’aeronautica militare e fu impegnato in questa posizione dal
1942 al 1946.
Finita la guerra, Gordon seguì Carl Rogers alla Chicago University dove
conseguì nel 1949 il Ph.D. (Philosophy Doctor, massimo titolo
accademico che si consegue dopo 3/5 anni di studi e ricerche). Nella
stessa Università egli divenne Assistente e collaborò alle ricerche di
Rogers.
Nello stesso periodo, cominciò a lavorare come consulente in Aziende
nelle quali insegnava a manager e supervisori il suo modello di
leadership centrata sul gruppo.
Gli ottimi risultati ottenuti in queste organizzazioni, in termini di
miglioramento del clima generale, della soddisfazione delle persone,
della collaborazione e della produttività, lo spinsero a lasciare
l’univeristà per dedicarsi a tempo pieno all’attività di consulente
accettando un’offerta presso una società a Pasadena, California.
12
Dopo tre anni, egli decise di diventare un consulente indipendente e di
dedicarsi anche all’attività di psicoterapista per bambini etichettati da
scuola o famiglia come emotivamente disturbati, nevrotici, disadattati o
predelinquenti.
Tutte queste esperienze portarono Gordon nel 1962 al suo primo Parent
Effectiveness Training (PET), che si perfezionò nel tempo e divenne nel
1970 un libro che fece scalpore. Tutte le più importanti emittenti
televisive e radiofoniche cominciarono a parlare delle sue idee e in
conseguenza sempre più genitori chiesero di frequentare i PET.
Sull’onda del successo di questi corsi, anche gli insegnanti chiesero una
formazione e così Gordon elaborò i Teacher Effectiveness Training
(TET). Inoltre, tornando ai suoi iniziali interessi per la leadership nelle
organizzazioni, Gordon trasformò i corsi, che già aveva effettuato nelle
Aziende, arrivando a definire i Leader Effectiveness Training (LET).
Tutti questi corsi erano finalizzati a garantire, nei diversi ambiti, una
corretta gestione del rapporto interpersonale, della relazione, interesse
fondamentale di Gordon.
Le idee e i metodi elaborati da Gordon e da lui proposti nei vari training
13
furono divulgati sia attraverso scritti4 che attraverso la fondazione di
specifiche organizzazioni5.
Gordon ha ricoperto numerose importanti cariche: presidente
dell’Effectiveness Training Institute e della California State
Psychological Association, consulente della Casa Bianca nel 1970, in
occasione della “Conferenza sui Bambini”, conferenziere per la White
House Fellows. E’ stato inoltre socio della American Psychological
Association e membro della sua divisione di Peace Psychology, membro
della National Peace Foundation e dell’Association of Humanistic
Psychology.
In conseguenza della sua opera ha ottenuto anche vari importanti
riconoscimenti quali: premio alla carriera dalla National Parenting
Association; medaglia d’oro per il suo “duraturo contributo alla
psicologia nel pubblico interesse” dalla America Psycholgical
Foundation; premio alla carriera dalla California Psychological
Association.
4 Gordon è stato autore di oltre 50 pubblicazioni relative alla leadership di organizzazioni, alla comunicazione, al counseling, alla disciplina, alla risoluzione dei conflitti e alla presa di decisioni democratica. Inoltre ha scritto nove libri, pubblicati in 28 lingue e che hanno venduto oltre 6 milioni di copie in tutto il mondo: Group-centered leadership (1955), Parent Effectiveness Training (1970), Teacher Effectiveness Trainig (co-autore Noel Burch – 1974), PET in Action (co-autore la figlia Judith Gordon Sands – 1976), Leader Effectiveness training (1977), Effectiveness Training for women (co-autore la moglie Linda Adams – 1985), Discipline that works (1989), Sales Effectiveness Training (co-autore Carl Zaiss – 1993), Making the patient your partner (co-autore W. Sterling Edwards – 1995) 5 Gordon è stato il fondatore dell’Effectiveness Training Associates e del Gordon Training International (GTI – vedi Appendice D) che si occupano, rispettivamente, della formazione di tutti coloro che lavorano con bambini e giovani e della preparazione di persone autorizzate a far conoscere nel mondo i programmi di training secondo il metodo Gordon.
14
E’ stato inoltre nominato per il premio Nobel per la Pace negli anni
1997, 1998 e 1999.
Thomas Gordon è morto il 26 Agosto 2002 a Solana Beach, California,
dove si trova la sede del Gordon Training International, oggi presieduto
dalla moglie Linda.
1.2 Il pensiero psicologico anteriore e contemporaneo
Fondamentali nella rielaborazione e nel pensiero di Gordon sono le idee
e i principi del suo “maestro”, cioè Carl Rogers, e del movimento della
psicologia umanistica, che Rogers stesso contribuì a fondare.
1.2.1 La psicologia umanistica
Nella prima metà del XX secolo, l’ambiente psicologico americano era
dominato da due scuole di pensiero: la psicoanalisi e il
comportamentismo.
Alla fine degli anni ’50, però, un gruppo di psicologi cominciò a
chiedersi come mai le correnti psicologiche dominanti non si
rapportassero alle persone come ad essere umani unici, non
considerassero i problemi reali della vita umana, non riconoscessero la
possibilità di studiare i valori, le intenzioni e i significati dell’esistenza
umana cosciente.
15
Su invito di Abraham Maslow e di Clark Moustakas, essi cominciarono a
riunirsi per fondare un’associazione professionale che partisse da punti
di vista più “umani”, puntando l’attenzione su temi quali: la
valorizzazione e il rispetto della persona nella sua libertà, responsabilità
e storicità, l’espressione - qui ed ora - dei sentimenti, l’autocoscienza,
l’autodeterminazione, la spontaneità, il divenire, l’individualità, la
creatività. Quale risultato nel 1961 fu fondata la American Association
for Humanistic Psychology.
Il movimento, rappresentato da tale Associazione, doveva costituire una
terza forza6 che proponesse un approccio concettuale ed esperienziale
più profondo di ciò che significava essere “persone umane”; che
sostenesse l’ipotesi, non seguita dalla psicologia di quel periodo, che
“non ha importanza come un individuo possa essere etichettato o
valutato, egli sarà prima di tutto e profondamente un essere umano”; che
si avvicinasse “ad ogni persona come ad una realtà unica ed irripetibile”
(Maslow).
6 Secondo la terminologia introdotta da Maslow, la psicologia umanistica era la terza forza che andava a contrastare le due forze preesistenti:
- la prima forza, cioè il comportamentismo, che sistematicamente escludeva il dato soggettivo della coscienza, la complessità e il divenire della personalità, in quanto inaccessibili allo studio scientifico inteso come analisi di dati quantificabili del comportamento.
- la seconda forza, cioè la psicoanalisi, che riteneva il comportamento umano determinato essenzialmente dall’inconscio escludendo l’apporto dei valori, della creatività, della capacità di ogni individuo di guidare il proprio percorso di sviluppo personale.
16
Gli esponenti principali della psicologia umanista degli inizi furono
Abraham Maslow, Carl Rogers e Rollo May.
Ognuno di loro apportò al movimento contributi specifici:
- Maslow propose di interpretare lo sviluppo umano come la
tensione verso il soddisfacimento di bisogni di ordine via via
superiore. Maslow ha rappresentato la gerarchia dei bisogni
attraverso una piramide di cinque livelli (partendo dalla base):
Sopravvivenza
Sicurezza
Ambito sociale e delle relazioni
Stima successo
Autorealizzazione
Egli ritenne che le persone autorealizzate sono quelle che hanno
riconosciuto e soddisfatto tutti i livelli di bisogni.
- Rogers concentrò la propria attenzione in ambito terapeutico
elaborando un nuovo tipo di rapporto terapista – cliente:
l’approccio centrato sulla persona (come trattato nel paragrafo
1.2.2)
- Rollo May rappresentò la corrente europea dell’esistenzialismo e
della fenomenologia ed enfatizzò, all’interno della psicologia
umanistica, gli aspetti tragici della condizione umana.
17
I contributi della psicologia umanistica alle scienze umane negli anni ’70
e ‘80, si possono condensare in tre grandi aree:
1. Visione della natura umana:
• ogni essere umano è unico e irripetibile,
• l’essere umano ha la capacità di sviluppare
competenze per autodeterminarsi e realizzarsi,
• l’intenzionalità e i valori etici sono forze psicologiche
potenti per orientare il comportamento.
Da queste premesse segue lo sforzo di migliorare le
qualità essenzialmente umane di capacità di scelta,
creatività, libertà, rispetto di se stessi, autoaffermazione
anche attraverso interventi che facilitino le abilità
personali e di interazione sociale, l’assunzione della
responsabilità di se stessi, in particolare durante
momenti critici e di transizione.
2. Metodi di indagine del comportamento umano: allargando
la visione dell’esistenza umana a più livelli (fisico, organico
e simbolico7), la psicologia umanistica pone l’accento sugli
approcci fenomenologici e clinici nello studio della natura
umana da aggiungere all’approccio (che solo viene
7 Per la psicologia umanistica, la dimensione simbolica della coscienza è quella esclusivamente umana dei valori, della cultura, della decisione e della responsabilità personale
18
considerato legittimo dal comportamentismo) costituito da
test sperimentali su dati quantificabili del comportamento.
Essa, inoltre, incoraggia a cercare nuovi approcci alla
ricerca volti ad approfondire la ricchezza della natura umana
stessa.
3. Psicoterapia: la prospettiva globale e multidimensionale
rispetto all’umanità ha generato uno spettro molto ampio di
approcci psicoterapici: psicologico, psicosociale,
psicosomatico. Inoltre, la psicologia umanistica ha proposto
che la psicoterapia fosse di valido aiuto non solo in caso di
difficoltà a vari livelli, ma anche per persone che, pur
essendo sane e competenti, volessero esplorare più
profondamente le proprie potenzialità.
Primo e più conosciuto approccio terapeutico della
psicologia umanistica è quello di Rogers.
1.2.2 Rogers
Carl Rogers nacque nel 1902 negli Stati Uniti. Al termini degli studi, egli
decise di impegnarsi nella ricerca8 e contemporaneamente fece
esperienza nell’ambito del colloquio clinico.
8 Significativo all’interno del suo pensiero, è il lavoro presso il dipartimento di studi sull’infanzia della Society for the Prevention of Cruelty to Children.
19
Nella sua prima opera importante (Counseling and psychotherapy –
1942) egli attaccò implicitamente le teorie a priori sulla personalità e, fra
queste, la psicoanalisi. Infatti Rogers riteneva che nessuno occupasse una
posizione migliore del soggetto nel conoscere quali fossero i suoi
problemi, di conseguenza suggeriva l’abbandono di tutti i preconcetti e
un ritorno “ingenuo” al reale umano.
Nel 1950, con Client-centered therapy9, egli precisò il metodo del
colloquio non direttivo centrato sul cliente. Egli introdusse questa nuova
parte della dicitura “centrato sul cliente” per evitare, come talvolta si
verificava, di scambiare “non direttività” con “non interventismo”, e
contemporaneamente per sottolineare l’importanze del ruolo attivo del
cliente all’interno del colloquio.
La posizione di Rogersrispetto ai movimenti a lui precedenti o
contemporanei lo vedeva:
- appartenere al movimento dell’antipsichiatria
9 Rogers ha deliberatamente introdotto il termine cliente al posto di paziente per denotare l’originalità di un nuovo tipo di relazione nella quale l’assistito sceglie di farsi aiutare senza però abbandonare nè la sua libertà, nè la sua responsabilità nella soluzione delle sue difficoltà. Il termine cliente assume cioè in Rogers una valenza positiva. Il cliente è una persona che ha:
diritto di rispetto libertà di esprimere la propria opinione libertà di decisione
20
- porsi come uomo di rottura rispetto agli psicologi di scuola, cioè
rispetto a coloro che si ponevano strettamente all’interno di una
linea interpretativa nel trattare ogni singolo caso10.
- essere psicologo umanista, cioè attento alla “persona umana”
- essere fenomenologo, cioè attento e interessato non tanto ai
paradigmi universali, quanto al caso singolo.
Alla base del pensiero di Rogers c’era la convinzione che ogni persona
fosse libera, potenzialmente attiva, buona, competente e che fosse in
grado di andare avanti in modo indipendente, se aiutata a superare
momenti critici 11.
Da tale base, egli identificò come premesse dell’intervento terapeutico:
al centro del problema deve essere posto il titolare dello stesso
il miglior conoscitore di un problema è la persona che ce l’ha
la soluzione, comunque elaborata, non ha significato se la persona
non la mette in pratica
L’approccio del terapista, secondo Rogers, doveva essere quello di
prendere in carico contemporaneamente il problema e la persona, il
10 Rogers non considerava nemmeno il colloquio non direttivo centrato sul cliente come l’unico modo per risolvere qualsiasi tipo di problema, riteneva invece che fosse opportuno integrare le varie metodologie. Per esempio, per eliminare delle dipendenze (da alcol, droga…) suggeriva l’utilità di impiegare, come primo passo, tecniche di ricondizionamento della persona. 11 Questa convinzione era condivisa da Maslow, ma non da tutti gli psicologi umanisti.
21
problema in quanto dato osservabile e la persona in quanto unico
conoscitore del vissuto rispetto al dato.
Il terapista, poi, doveva mettere in atto tre abilità (skills) fondamentali,
che da sole sarebbero state sufficienti a facilitare il cliente nella
risoluzione del suo problema:
1. accettazione incondizionata12
2. empatia13
3. congruenza14
Ciò che è essenziale puntualizzare è che per Rogers tali abilità non erano
“tecniche” codificate da impiegare, ma erano un modo di essere del
terapista, da lui definito counselor.
La comunità internazionale del tempo aveva contestato tale approccio,
asserendo che se una persona conosceva così bene il suo problema e
12 É la capacità dell’operatore di accettare il cliente senza giudicarlo, anche quando manifesta valori discordanti dai suoi, di lasciare all’individuo la libertà di scelta rispetto a quello che va emergendo nella terapia. 13 È la capacità dell’operatore di:
- sentire il mondo personale del cliente come se fosse il “suo”, senza però mai giungere ad una totale identificazione,
- trasporre e rimandare tale mondo a livello verbale. Questa capacità consente al cliente di sentirsi compreso fino in fondo e di riuscire a simbolizzare correttamente il sentimento provato, attraverso la competenza verbale del counselor. 14 Tale abilità richiede che “il terapeuta sia, nell’ambito della relazione, autentico e ben integrato,..., sia liberamente e profondamente se stesso e la sua esperienza reale sia fedelmente rappresentata nella coscienza. Non assume perciò in nessun caso atteggiamenti di circostanza” (Rogers e Kinget – 1965). Rogers suggerisce che il grado di difficoltà di questa abilità cresce con il livello di disturbo del cliente, ma essa è quella che apre il maggior numero di soluzioni creative all’interno della relazione.
22
aveva in sè le capacità di risolverlo, non si capiva perché dovesse
chiedere aiuto.
Rogers rispose che la questione si incentrava su di una momentanea
incapacità di azione del detentore del problema, conseguente
all’elaborazione di una modalità di interpretazione affettiva e cognitiva
del proprio sé come incapace (senso di impotenza appresa). Fornendo al
soggetto in difficoltà l’occasione di sentirsi accettato e accolto in modo
incondizionato, si modificava il quadro interpretativo del sé e si favoriva
un percorso con obiettivo “empowerment”, cioè con obiettivo la
riscoperta del proprio saper essere e saper fare.
Le tre conquiste fondamentali, che le scienze umane devono a Rogers,
conquiste che hanno rivoluzionato totalmente il pensiero psicologico,
psicoterapico ed educativo15, sono:
I. Spostamento di enfasi, nell’ambito di una relazione di aiuto, dal
ruolo dell’operatore/esperto al ruolo del cliente/persona portatore
del problema
II. Spostamento di enfasi dalle abilità tecnico procedurali, alle
cosiddette qualità umane, sopra elencate, dell’operatore di aiuto
15 Il modello educativo non direttivo è quello che, partendo dal principio di attualizzazione (= in assenza di ostacoli un soggetto si sviluppa naturalmente verso la maturità), prevede che l’educatore stabilisca con l’educando un rapporto di accettazione, considerazione positiva, sostegno, al fine di rilanciare le capacità di sviluppo autonomo del soggetto (vedi § 1.4).
23
III. Spostamento dell’attenzione verso il processo di aiuto in quanto
tale, inteso come oggetto epistemologico in sé, del quale è
importante studiare le “condizioni interne” di efficacia.
Attraverso la sua attenzione al qui e ora di una relazione di aiuto, Rogers
ha minato la tendenza opposta a sovrastimare l’importanza dei grandi
sistemi teorici della psicologia, dai quali si pretendeva di far derivare
rigide regole procedurali per l’intervento o la terapia (Es. psicoanalisi).
Secondo Rogers, la situazione pratica contiene in se stessa una
complessità che la rende unica e, come tale, oggetto di studio.
Grazie a Rogers, la scarsa rilevanza delle teorie sovraordinate è
attualmente largamente accettata nelle psicoterapie: tutte le scuole di
pensiero possono funzionare, è determinante invece la presenza di
coerenti abilità di relazione nei terapeuti.
1.2.3 Gordon
Fra i concetti più importanti che Gordon riprende dal pensiero che lo
precede, si possono evidenziare:
- Il qui ed ora della psicologia umanistica: Gordon valorizza e
carica di significato all’interno di una relazione il qui ed ora dei
sentimenti, provati ed espressi, dell’interazione e della
comunicazione.
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- La Piramide dei bisogni (Maslow): come già si è accennato
nell’introduzione e come verrà illustrato dettagliatamente in
seguito, il concetto di bisogno è alla base di tutto il Modello di
Gordon
- Le qualità personali del Counselor (Rogers), che Gordon
rielabora passando da un ambito terapeutico ad un ambito
educativo, giungendo a definire: a partire dall’empatia e
dall’accettazione incondizionata la tecnica dell’Ascolto Attivo e a
partire dalla congruenza il concetto di Autorivelazione.
Gordon ritiene che chiunque possa imparare il suo metodo purchè sia
disposto:
- ad accettare di avere in sè dei bisogni e, quindi, ad accettare di
riconoscerli di fronte a se stesso e agli altri
- a crescere nelle qualità proprie di chi si impegna in una relazione
di aiuto
Tale disponibilità è la premessa alla messa in discussione di se stessi
richiesta dal suo Metodo.
25
1.3 Lo sviluppo del pensiero di Gordon e il suo Metodo
Se come visto nel paragrafo precedente, la riflessione di Gordon si fonda
sulle conquiste di pensiero di Rogers e della psicologia umanistica, essa
comunque si sviluppa attraverso varie tappe.
Infatti, essendo il risultato di tale riflessione, cioè il cosiddetto Metodo
Gordon, non tanto una procedura, una tecnica, quanto piuttosto un
sistema di pensiero, un approccio globale alle relazioni e in particolare
alle relazioni educative, il percorso che ha portato Gordon ad elaborare
tale sistema è stato necessariamente il percorso di una vita di esperienze,
osservazioni, incontri significativi, studi e riflessioni.
Una precoce esperienza che ha segnato il pensiero di Gordon è stato
l’incontro con Miss Grace Cox, insegnante di una scuola domenicale.
Ella riusciva a creare in classe un clima che faceva sentir bene gli
studenti, riusciva a fare in modo che ad essi piacesse imparare, aveva un
modo speciale di condurre la classe, riuscendo a trasferire ai bambini la
responsabilità della gestione della classe stessa. Di conseguenza essi si
erano creati gli spazi per eleggere i propri responsabili, per formare delle
commissioni con compiti specifici, per prendere decisioni riguardo gli
argomenti che volevano discutere. I bambini avevano addirittura
cominciato ad assumersi a turno, nelle varie domeniche, il compito di
leaders o di facilitatori.
26
Anni dopo Gordon comprese che Miss Cox aveva una percezione
profonda della gestione partecipata, dell’insegnamento centrato sullo
studente, della direzione democratica: aveva imparato che un vero leader
potenzia (empowerment) le persone che gli sono sottoposte.
Il secondo incontro fondamentale è stato, come si è già detto, quello con
Carl Rogers.
In modo simile a Miss Cox, Rogers/insegnate teneva seminari che erano
centrati sul gruppo e nei quali ogni partecipante sceglieva il proprio
progetto e lo esponeva al gruppo.
La collaborazione con Rogers/ricercatore, vedeva Gordon studiare
presso il Counseling Center della Chicago University i diversi approcci
terapeutici. I risultati delle ricerche mostrarono che, utilizzando il
reflective listening16 e vivendo un atteggiamento di accettazione e
fiducia nelle capacità del cliente di risolvere i propri problemi, si
verificavano nello stesso dei cambiamenti positivi e duraturi. E questo in
contrasto con l’approccio terapeutico in cui al cliente veniva detto quello
che non andava in lui e come fare per risolvere i suoi problemi.
16 Il reflective listening è un metodo in cui il terapista dà al proprio cliente un feed back dei contenuti e dei sentimenti espressi. Questa metodologia comunica al cliente che il terapista ha capito quello che quest’ultimo sta dicendo e offre, se necessario, allo stesso la possibilità di correggere. Inoltre il reflective listening consente al cliente di entrare meglio in contatto con i propri sentimenti, dal momento che gli vengono “restituiti” dalle parole del terapeuta.
27
Le ricerche dimostravano cioè che attraverso il reflective listening e
l’accettazione, il terapeuta offriva al cliente uno spazio in cui potersi
esprimere liberamente senza timore di sentirsi giudicato e che questo
spazio era curativo.
Da qui la convinzione di Gordon che non bisogna risolvere i problemi al
posto dell’altro, ma bisogna facilitare l’altro nell’utilizzare le proprie
risorse per giungere alle soluzioni migliori per se stesso.
L’esperienza come istruttore di volo nell’esercito fu di fondamentale
importanza per consentire a Gordon di cogliere quello che sarebbe stato
l’interesse professionale della sua vita: sviluppare corsi per aiutare le
persone a migliorare le proprie relazioni.
Gordon percepì che le altissime percentuali di fallimento (intorno al 65%
di abbandoni) dei corsi di addestramento erano dovuti alla brutalità con
cui gli addestratori trattavano gli allievi: urlare e rimproverare non
produceva apprendimento, anzi talvolta conduceva ad incidenti.
Egli allora convinse i superiori a consentirgli di sperimentare un nuovo
programma di addestramento nel quale si cambiava semplicemente il
modo in cui gli istruttori trattavano gli allievi piloti e si stabiliva, di
conseguenza, un clima in cui la paura non costitutisse un elemento di
distrazione. L’esperienza dimostrò che gli studenti riuscivano a superare
28
i test di volo e a volare in sicurezza. Le percentuali di successo
divennero quelle che prima erano di insuccesso
Anche la tappa professionale di consulente di un’azienda, durante la
quale ebbe la possibilità di applicare le teorie del modello di direzione
centrata sul gruppo, gli consentì di vedere come il pensiero elaborato nel
campo dell’apprendimento e del setting terapeutico, potevano essere
generalizzati: arrivò così a definire un training di leadership partecipata
per manager d’azienda.
Un momento di grande riflessione per Gordon fu anche quello in cui
operò come Psicoterapeuta per ragazzi definiti “difficili”.
Gordon fu colpito dal fatto che nel corso dei colloqui, che lui conduceva
“ascoltando”, tali ragazzi apparivano normali, sani, non disturbati. Essi
riuscivano a parlare liberamente dei conflitti e delle liti all’interno della
famiglia e a descrivere le situazioni nelle quali si erano sentiti trattati
ingiustamente. Molti di loro ritenevano che erano i genitori o gli
insegnanti ad avere problemi e riferivano che genitori e insegnanti non li
ascoltavano e non li capivano. Un commento ricorrente era: “Non posso
mai parlare con i miei genitori come parlo con te”.
D’altra parte, ascoltando i genitori, essi ritenevano di non avere problemi
o necessità di terapia. In effetti anche alla valutazione psicoterapica essi
29
erano persone efficaci dal punto di vista del funzionamento sociale, ma
esprimevano il disagio di “non essere ascoltati” dai propri figli.
Il pensiero di Gordon arrivò ad una svolta quando si rese conto che il
problema non era negli individui, ma nelle loro relazioni, nel loro modo
di comunicare. Di conseguenza pensò che le abilità che potevano
migliorare le relazione in un ambiente di lavoro potevano con opportune
contestualizzazioni essere trasferite anche in famiglia.
Il passaggio concettuale dal problema particolare (lavorativo, familiare,
di insegnamento) all’ambito delle relazioni interpersonali, impegnò
Gordon in un lungo periodo, ma rese il suo pensiero e il suo approccio
uno strumento flessibile a situazioni diverse e sempre allargabili, dal
momento che comunque la relazione è la base di ogni aspetto della vita
umana.
Di conseguenza i vari training elaborati da Gordon nel corso degli anni,
per genitori (PET) per insegnanti (TET), per leaders (LET), trasmettono
conoscenze e strumenti che vanno al di là dello specifico ambito, per
comunicare un approccio generale alle relazioni interpersonali,
approccio che rende le persone e i gruppi più efficaci nelle relazioni
stesse e nella soluzione di problemi e conflitti.
30
1.4 Il concetto di educazione in Rogers e Gordon
Naturalmente il Metodo Gordon, essendo un metodo che può essere
considerato educativo sia nelle sue finalità, cioè per i destinatari della
sua azione, che per le persone che intendono applicarlo, sottintende un
preciso concetto di educazione. Tale concetto presuppone le conquiste
della psicologia umanistica e di Rogers, oltre al personale contributo di
Gordon.
L’educazione umanistica parte dai seguenti assunti:
- la società si cambia attraverso al valorizzazione e il rispetto dei
singoli
- Ogni persona ha la capacità di gestire il proprio processo di
sviluppo e autorealizzazione
- le persone non si limitano a reagire all’ambiente, ma sono attive,
creative e dinamiche; hanno la capacità di rispondere in modo
intenzionale ai condizionamenti genetici, biologici, psicologici e
sociali
Di conseguenza essa sottolinea che la responsabilità dei singoli e della
collettività è quella di comprendere, rispettare e facilitare i processi di
sviluppo e maturazione delle persone.
31
La convinzione di Rogers (non condivisa da tutti gli psicologi umanisti)
nella sostanziale positività delle persone e del loro processo di
attualizzazione, lo portò a vedere l’educazione come un processo
essenzialmente autogestito, centrato sull’impegno personale, sulle
capacità di iniziativa e di autovalutazione dell’educando. In tale
processo, la persona si apre all’interazione con l’altro se percepisce che
la sua personale modalità di crescita e autorealizzazione è garantita e
rispettata.
Per Rogers, quindi, la condizione educativa ideale è quella in cui
l’educatore, persona genuina e reale, entra con empatia nel mondo
dell’altro e riesce a creare un clima di rispetto, fiducia e libertà che
facilita il processo di crescita personale.
Egli ritiene che l’empatia sia di per sè agente educativo, perchè rilassa,
dà conferma, tranquillizza, comunica accettazione: in tale condizione la
persona può evolvere in qualsiasi direzione, ma di fatto spesso sceglie
strade costruttive e positive.
Per Rogers il processo educativo è molto fluido, aperto a qualunque
proposta e attività “accettabile” per il soggetto; è un itinerario molto
personale, perchè ogni persona ha un suo modo migliore di funzionare.
Per questo motivo Rogers ha scarsa fiducia nelle metodologie strutturate.
32
Gordon ritiene invece che sia possibile mantenere fede ai principi
umanisti e rogersiani dell’educazione pur agendo in un setting
strutturato, in cui le “tecniche” di programmazione e realizzazione dei
processi abbiano un valore simbolico alla luce dei principi sottostanti.
L’educatore attraverso tali tecniche dovrà facilitare un processo che resta
essenzialmente autogestito, dovrà aiutare la persona ad educare se stessa.
L’educatore sarà prima di tutto “una persona” che incentrerà la sua
attenzione sulla qualità della relazione e che promuoverà l’espressione
delle idee, dei sentimenti e dei bisogni,
La soddisfazione dei bisogni è per Gordon il punto di partenza in ambito
educativo. Egli ritiene infatti che qualsiasi comportamento sia motivato
dal desiderio di soddisfare un bisogno.
La svolta concettuale e personale dell’educatore consiste, quindi, nel
rinunciare a giudicare i comportamenti come buoni o cattivi, ma ad
analizzarli per scoprire il bisogno sottostante, perchè è la conoscenza di
questo bisogno che guida l’educatore e l’educando insieme a cercare un
comportamento più accettabile e/o più funzionale alla soddisfazione del
bisogno stesso.
In pratica, per Gordon l’educazione è protesa a favorire negli individui la
capacità di:
33
• soddisfare i propri bisogni, cercando di non frustrare quelli degli altri
• gestire e risolvere i conflitti, nel momento in cui i modi dei diversi
individui di soddisfare i bisogni interferiscono.
Una società che soddisfa i propri bisogni e quelli dei singoli, è una
società sana e costituita da individui sani, una società che promuove il
benessere di tutti.
Questo è il risultato che Gordon ritiene di poter garantire con la sua terza
via educativa.
34
2. Il Metodo Gordon come terza via educativa
Il problema della disciplina e dell’utilizzo dei metodi “forti” per
stabilirla era tornato di grande attualità in America negli Anni ’80 a
seguito dell’attentato a Reagan e di una serie di studi che portavano alla
ribalta dell’opinione pubblica la questione della violenza, del vandalismo
e della delinquenza nelle scuole.
La soluzione che veniva proposta a tutti i livelli era quella di tornare
“alla disciplina vecchia maniera” (da un discorso di Reagan), di
ricordare che “le punizioni corporali nei confronti dei bambini
recalcitranti sono da molto tempo un metodo accettabile per promuovere
un buon comportamento e infondere i concetti di responsabilità e decoro
nella testa birichina degli scolari” (una sentenza della Corte Suprema
degli Stati Uniti), di ricordare ai genitori che dovevano tenere i propri
figli sotto controllo per il loro bene, per fare in modo che non
diventassero delinquenti, che rimanessero sottoposti all’autorità (che di
volta in volta poteva essere la loro, della scuola, dello Stato o di Dio).
Certamente la questione della disciplina, dell’uso dei metodi coercitivi
trovava Gordon molto sensibile ed attento, anche grazie alle sue
esperienze di vita, prima di tutto quella con la disciplina imposta in
35
modo violento nell’esercito, e ai risultati di ampi studi sulla violenza in
famiglia che dimostravano quanto quest’ultima fosse diffusa, anche in
termini che andavano oltre la punizione occasionale, per giungere a
lesioni gravi.
Gordon riteneva che nell’America di quel periodo determinate
affermazioni risultassero ben accette al mondo adulto in quanto si
inserivano in un modo di pensare assorbito fin dall’infanzia, prima subìto
e poi riprodotto. Riteneva, però, che nel presentare un ritorno ai metodi
vecchia maniera non si presentassero anche le conseguenze negative che
da essi derivavano o si cadeva per reazione nell’atteggiamento opposto,
ma comunque nocivo, del permissivismo.
Queste stesse convinzioni profonde, per quanto espresse in modo meno
duro e assolutistico, sono riconoscibili nel parlare quotidiano di molti:
una sberla non ha mai fatto male a nessuno, una pacca ogni tanto ci
vuole perché il bambino impari….
E se in Italia, diversamente da molti stati degli USA, a livello di
istituzioni (scuola e altri ambiti educativi) l’uso della violenza fisica è da
tempo bandito per legge, c’è da chiedersi se altre forme di coercizione e
violenza più sottili non siano comunque portati avanti sulla base di
queste convinzioni profonde, per esempio attraverso parole “violente”
36
(insulti, svalutazioni), ricatti o minacce (se ti comporti bene, se ti
comporti male, allora...)
Gordon affermava con chiarezza che qualsiasi forma di coercizione
aveva le medesime conseguenze e si doveva eliminare. Affermava anche
che tante diverse forme di coercizione sono presenti nei nostri
comportamenti e nel nostro modo di esprimerci di tutti i giorni, senza
che ce ne rendiamo conto.
In questo senso, un discorso sulla disciplina imposta tramite punizioni,
che per un educatore può sembrare superfluo perché escluso per
principio, non è poi così inutile perché la riflessione sul proprio utilizzo
di metodi coercitivi resta un momento significativo precedente
all’applicazione del Metodo di Gordon.
Infatti, fra gli scopi di tale metodo c’è anche quello di aiutare le persone
ad eliminare la violenza e l’uso del potere da tutti gli ambiti di vita, cioè
di fare in modo che le strategie impiegate in ambito educativo e/o per la
risoluzione dei conflitti non siano strategie che tendano a fare qualcosa
all’altro (= concettualmente una forma di coercizione) bensì a fare
qualcosa con l’altro.
2.1 Chiarimenti sulla terminologia
Nella parte iniziale di questo capitolo sono stati utilizzati termini, quali
disciplina, potere, metodi coercitivi, che è importante precisare insieme
37
ad altri termini che verranno utilizzati in seguito, per non incorrere in
fraintendimenti.
Il trovare accordo riguardo la disciplina e la necessità di indurre un altro
ed essere disciplinato può dipendere dal significato preciso che si
attribuisce a questi termini.
Il sostantivo disciplina può evocare ordine, organizzazione,
collaborazione, il conoscere e seguire norme e procedure. Può evocare
inoltre un riguardo per i diritti degli altri. In tal senso molti sarebbero
d’accordo nel ritenere che la disciplina in un individuo sia qualcosa di
auspicabile e che vale la pena di trasmettere a bambini e ragazzi.
Molto più suscettibile ad essere messo in discussione sarebbe il verbo
disciplinare perché potrebbe essere inteso sia nel senso di educare,
istruire che nel senso di tenere sotto controllo, dirigere, contenere, tenere
a freno, limitare; e a nessuno piace essere diretto o limitato, tanto meno
ai ragazzi.
In un certo senso si potrebbe dire che esista un sostanziale accordo sul
fine che si vuole raggiungere, ma non sui mezzi da utilizzare per
raggiungerlo.
Il concetto di disciplina porta ad un’ulteriore riflessione: quella sui limiti.
I limiti in sé sono qualcosa di funzionale alla convivenza sociale.
38
Qualsiasi educatore, genitore, insegnante sa che è importante per i
ragazzi capire che ci sono delle limitazioni al proprio comportamento per
il proprio benessere e per il benessere di chi sta loro vicino.
Quello che spesso non viene abbastanza preso in considerazione è chi
deve stabilire tali limitazioni e come: ancora una volta la differenza fra
fini e mezzi. Se il disciplinare è inteso come forzare sull’altro dei limiti
non condivisi, per quanto tali limiti siano giusti e ragionevoli, allora si
stanno usando mezzi coercitivi, anche se magari non violenti, per
controllare l’altro.
Sempre legati a disciplina e limiti, entrano in gioco altri due concetti,
quelli di controllo e influenza. Fra essi esiste una differenza
fondamentale: se la disciplina del tipo informare/educare è volta ad
influenzare, quella del tipo dirigere/limitare è sempre volta a tenere sotto
controllo. Il passaggio fra influenza e controllo è, però, molto sensibile e
talvolta può succedere che nello sforzo di comunicare ad un altro un
valore positivo, nel tentativo di influenzarlo positivamente, si cada in
buona fede nel tentativo controllarlo con atti di tipo coercitivo.
In realtà è importante tenere presente che un’influenza reale su di
un’altra persona si ottiene in modo inversamente proporzionale all’uso
del controllo e di mezzi coercitivi (quali possono essere punizioni o
minacce).
39
In particolare per un educatore a contatto con bambini, Gordon
suggerisce che egli “acquisirà maggiore influenza sui bambini quando
rinuncerà ad utilizzare il suo potere per tenerli sotto controllo”17.
Si inserisce quindi a questo punto l’ultima fondamentale differenza:
quella fra potere ed autorità.
Gordon ritiene che spesso le persone utilizzano questi due termini come
se fossero sinonimi, non avendo riflettuto sul fatto che esistono quattro
tipi di autorità. Una schematizzazione di questi quattro tipi è molto
importante per un educatore, che spesso si vede confrontato nel lavoro
quotidiano con la necessità di essere autorevole18 e con la necessità di
chiarire a se stesso cosa questo termine implichi.
1. Autorità basata sulla competenza (autorità C): essa è spesso
definita come autorità conquistata, è quella cioè che deriva dalla
conoscenza e dall’esperienza di una persona, dai sui studi, dalle
sue capacità, dalla saggezza riconosciuta. Esempi: nella mia
famiglia allargata l’autorità di mia mamma a smacchiare qualsiasi
cosa, in una scuola la competenza di un insegnante rispetto alla
propria materia…
17 Tale argomento sarà approfondito nel terzo capitolo. 18 La questione è sollevata anche dal Codice Deontologico dell’Educatore, proposto dall’ANEP: nel capitolo che riguarda i doveri dell’educatore nei confronti dell’utente, il codice impone di non utilizzare “tecniche di costrizione o manipolative”, ma suggerisce di intervenire con “autorevolezza e determinazione” nell’ambito di una programmmazione interdisciplinare.
40
2. Autorità basata sulla posizione o designazione (autorità L =
lavoro): essa può anche essere definita autorità designata o
legittima ed è correlata a mansioni lavorative, doveri, funzioni,
responsabilità di una persona, che siano ben chiari e codificati.
Quest’ultima caratteristica è la chiave per fare sì che tale autorità
funzioni nei rapporti umani: le persone coinvolte devono
veramente accettare, approvare e sottoscrivere il diritto di un
individuo “dotato di autorità” a dirigere alcuni dei loro
comportamenti.
L’autorità L diventa uno strumento di straordinaria potenza
nell’influenzare il comportamento quando i doveri e le
responsabilità sono resi legittimi attraverso il coinvolgimento delle
parti in un processo decisionale di gruppo che si conclude con una
soluzione accettabile per tutti. Questa precisazione è di
fondamentale importanza per un educatore: egli vedrà riconosciuta
più facilmente la sua autorità di ruolo professionale, se partirà nel
suo intervendo dalla definizione di regole condivise.
3. Autorità basata sui contratti informali (autorità I = impegni e
intese): essa è il risultato di numerosi accordi, intese e contratti
che le persone stipulano nelle loro interazioni quotidiane. Questo
tipo di autorità trae la sua potente influenza dall’impegno
personale che implica. Riferendosi alla relazione educatore-
41
educando (o, in modo analogo, genitore-figlio, manager-
subalterno) essa diventerà effettiva solo se ritenuta vincolante da
entrambe le parti: se per esempio un genitore si impegna a fare
una determinata cosa per il figlio e poi se ne dimentica, allora allo
stesso modo il figlio non manterrà il proprio contratto in una
occasione successiva. Per un educatore il mantenere un impegno
preso con il proprio utente può implicare la necessità di tenerne
memoria scritta, così che anche il resto dell’equipe ne sia a
conoscenza e lui stesso non se ne dimentichi.
4. Autorità basata sul potere (autorità P): essa deriva dal fatto che
una persona detiene un potere su di un’altra, potere di comandare,
dominare, costringere, piegare al proprio volere, far fare agli altri
quello che non vogliono fare. Ad essa, di solito, si fa
implicitamente riferimento quando si parla di genitori e insegnanti
che devono far rispettare l’autorità, quando si pensa che i bambini
devono essere ubbidienti, quando si parla di “gerarchia di autorità”
nelle organizzazioni.
Questo è il tipo di autorità che un educatore utilizza quando
impronta il proprio metodo educativo al potere delle ricompense e
delle punizioni. E questo stesso è il tipo di autorità che si perde
quando la “presa” sull’educando delle stesse ricompense e
punizione viene meno con l’evoluzione della persona.
42
Gordon ritiene che non pensare all’autorità in termini di questi quattro
tipi può generare problemi nelle relazioni.
Infatti, in generale le persone, adulti o minori che siano, accettano le
autorità C, L ed I (con le precisazioni indicate per ciascuna) e di
conseguenza l’utilizzo di tali tipi di autorità non logora le relazioni, anzi
può generare delle influenze reciproche positive.
Quasi mai, invece, le persone rispettano chi detiene un’autorità di tipo P,
anche se magari lo temono. In una relazione, però, la paura per il potere
di solito determina, in chi è soggetto a tale potere, azioni di rivalsa,
opposizioni, ribellioni, oltre a sentimenti di risentimento o addirittura
odio verso chi detiene il potere stesso. In questo modo la relazione è
deteriorata, e gli effetti sono di controllo esterno, ma non di influenza
profonda e di conseguente controllo interno.
L’aver puntualizzato i termini precedenti ha un riscontro sia “teorico”
all’interno del sistema di pensiero di Gordon, che “pratico” in termini di
approcci e di obiettivi educativi (il voler ottenere disciplina imposta
dagli altri o autodisciplina, controllo esterno o controllo interno, buone
relazioni o relazioni improntate alla lotta del potere fra chi tenta di
imporlo e chi si ribella, ecc..) così come si cercherà di illustrare nel
prosieguo di questa tesi.
43
2.2 Il metodo democratico: alternativa educativa ai metodi
punitivo e permissivo
Gordon distingue tre diversi approcci educativi. Potremmo distinguere
tali approcci in base all’attribuzione del potere:
Metodo punitivo: potere all’educatore
Metodo permissivo: potere all’educando
Metodo democratico: nessuno ha potere sugli altri
Il metodo punitivo
Tale metodo potrebbe anche essere definito autoritario, secondo la
notazione adottata da Diana Baumrind in un suo studio sui
comportamenti genitoriali (1971). Secondo la Baumrind, un genitore, ma
naturalmente il principio resta lo stesso per qualsiasi educatore che adotti
tale metodo, risponde principalmente alle seguenti caratteristiche:
- cerca di plasmare, controllare e valutare il comportamento, gli
atteggiamenti del’educando, sulla base di criteri assoluti
- dà valore prioritario all’obbedienza, al rispetto per l’autorità, al
lavoro, alla tradizione e al mantenimento dell’ordine
- scoraggia l’interscambio dialettico
- scoraggia l’indipendenza e l’individualità dell’educando
44
Il metodo educativo punitivo utilizza tre strumenti: la punizione, la
ricompensa19 e la lode20. E’ importante puntualizzare che tali strumenti
devono essere intesi in senso lato: per esempio una punizione può non
essere solo corporale, ma anche psicologica.
E’ possibile che molti siano d’accordo sul fatto che le punizioni non
producano effetti positivi e quindi non siano da utilizzare. Gli stessi,
però, potrebbero pensare che ricompense e lodi siano utili in una
relazione, in particolare se educativa, e determinino il miglioramento
della qualità della relazione stessa, l’apprendimento e la crescita
dell’educando, perché soddisfano bisogni “concreti e psicologici” (i
rinforzi primari e secondari del comportamentismo).
19 Ampi studi hanno dimostrato che, perché ricompense e punizioni funzionino come metodo educativo, è richiesta una padronanza specifica delle condizioni per il loro utilizzo nonché degli effetti collaterali non desiderati che possono verificarsi. I risultati di tali studi suggeriscono che, in realtà, ricompense e punizioni sono veramente incisivi solo nelle mani di esperti e in situazioni strutturate (vedi tecniche comportamentali) 20 La lode può essere definita come un messaggio verbale che comunica una valutazione positiva di una persona, di un suo comportamento, di un risultato da lei ottenuto. Già nella definizione è presente un nodo critico di questo strumento: la valutazione. Una valutazione, positiva o negativa, è comunque un giudizio espresso da una persona che, implicitamente, si considera e viene considerata “superiore” per capacità, grado, esperienza..., nei confronti di una persona “inferiore”. Ed è proprio la percezione di essere stati sottoposti ad un giudizio, che può generare nell’educando risposte impreviste da chi ha creduto di lanciare un messaggio incoraggiante, accettante e positivo e che molto assomigliano alle reazioni di chi ha subito un’”aggressione”. Tali risposte di volta in volta possono essere diverse e modulate sulle sfumature del messaggio che è percepito come sottostante alla lode:
- tentativo di manipolazione di una lode espressa in continuazione o ritenuta falsa o non meritata
- critica per confronto rispetto a situazioni in cui tale lode non è stata esplicitata - insincerità dell’educatore, se la valutazione espressa non coincide con
l’autovalutazione (con consenguente blocco della comunicazione perchè non ci si sente capiti)
- stimolo alla competizione per meritare la lode. Fra le conseguenze indesiderate più gravi, c’è la “dipendenza dalla lode”, la lode cioè può diventare motivazione estrinseca che va a sostituire quella intrinseca. Come si vedrà in seguito, Gordon suggerisce due alternative alla lode: l’ascolto attivo e il messaggio in prima persona.
45
Gordon invece dimostra, attraverso studi su situazioni reali, che i tre
strumenti sono concettualmente dello stesso tipo. Essi tendono a negare i
bisogni delle persone a cui sono rivolti o a soddisfarli a condizione; essi
tendono a mantenere l’altro sotto il controllo e il giudizio di un
“superiore”. Tale superiore è colui che decide quali sono i
comportamenti da ritenere accettabili e quali no, decide le punizioni, le
ricompense, le lodi (cioè decide quali siano i bisogni dell’educando e
quali di essi possano essere soddisfatti e quali no): egli cioè ha un potere
assoluto.
Il destinatario del metodo educativo punitivo vivrà una condizione
interiore che è contemporaneamente presupposto e conseguenza del
funzionamento di tale metodo.
Strumento Condizione interioredel destinatario
Ricompensa Dipendenza
Punizione Paura
Lode Inferiorità
46
Il metodo punitivo, inoltre, induce nell’altro reazioni diverse, che
possono essere raggruppate in tre tipologie21:
1. fuga = danneggia in modo permanente la relazione educatore –
educando e può sfociare in dipendenze (alcol, droga, cibo)
2. contrattacco = può presentarsi come ritorsione violenta verso il
controllante e/o verso il sociale e può sfociare in aggressività,
vandalismo, comportamento delinquenziale. Tale reazione
induce l’educatore ad imporre punizioni sempre più severe
3. apatia / sottomissione = è il tipo di reazione che è devastante
per il rapporto con i pari. In particolare i bambini che adottano
questa strategia di risposta sono spesso ridicolizzati, derisi e
rifiutati dai coetanei.
In generale (e lo si può vedere anche negli Stati totalitari) i rapporti
basati su un potere ineguale sono instabili, transitori e fomentano le
reazioni contrarie che, con il tempo, scardinano e indeboliscono il potere
del controllante.
Di conseguenza si arriva sempre ad un momento (per i bambini spesso è
il passaggio all’adolescenza) in cui gli strumenti utilizzati per mantenere
il potere non funzionano più. Nel frattempo il rapporto fra le parti si è
deteriorato: ciò rende impossibile il passaggio da una modalità di
21 Ogni persona reagisce utilizzando preferibilmente una di queste tre possibilità
47
relazione basata sul potere ad una di relazione basata sull’influenza
dell’educatore sull’educando.
Il metodo permissivo
L’utilizzo di tale metodo può nascere per reazione ai metodi punitivi che
sono stati subiti o sulla base della convinzione, talvolta esplicitata da
educatori, insegnanti, genitori permissivi, che non si devono “tarpare le
ali” allo sviluppo libero dell’altro.
La “colpa” del permissivismo viene fatta risalire al Dottor Benjamin
Spock, celebre pediatra e autore di diversi libri sull’argomento. Spock,
attraverso la condivisione della sua esperienza pediatrica, spingeva i
genitori a ridurre le proprie ansie nei confronti dei figli, infondeva in loro
maggiore fiducia e li spingeva ad aumentare la propria accettazione nei
confronti dei comportamenti dei figli, riducendo il numero di
comportamenti che avrebbero considerato problematici e non accettabili.
Secondo Gordon, tale impostazione, che favoriva relazioni più piacevoli
ed affettuose fra figli e genitori, era stata travisata, dimenticando che
Spock affermava anche che: “il modo di far fare ad un bambino ciò che
deve fare o per impedirgli di fare ciò che non deve fare è di essere chiari
e precisi tenendoli d’occhio finché non obbediscono”.
48
Dall’iniziale errore di interpretazione, si era giunti a teorizzare una
metodologia educativa, definita comunemente permissiva, in cui
consapevolmente l’educatore rinunciava a porsi come termine di
confronto per il comportamento dell’educando.
Una scelta di questo tipo inconsapevolmente opta per condizioni in cui,
nella relazione, è offerta all’educando la possibilità di esercitare il potere
dal momento che l’educatore non si assume la responsabilità delle
proprie convinzioni e dei propri sentimenti.
Di fronte a qualsiasi comportamento agito dall’altro, infatti, ciascuna
persona:
• percepisce tale comportamento come accettabile o non accettabile
• prova, nei confronti dello stesso, un determinato sentimento.
Il negare a se stessi e all’altro le proprie risposte interne, porta a quella
che Gordon definisce “falsa tolleranza”.
L’educatore in tale situazione manda dei segnali ambigui (egli infatti
molto difficilmente riuscirà a limitare i messaggi non verbali che
esprimono i suoi veri sentimenti): i diversi linguaggi comunicativi
dicono cose diverse. In questo modo comunica implicitamente un
messaggio educativo: non importa quali conseguenze o quali reazioni si
inducano nell’altro con la propria azione, ciascuno può agire in qualsiasi
momento come crede.
49
Un atteggiamento permissivo, ponendo la persona in situazioni e
relazioni destrutturate, destruttura la personalità stessa dell’educando.
La falsa tolleranza fa sì che l’educando non impari che fra i bisogni che
percepisce c’è una gerarchia. Per esempio, per un bambino, aver fame,
non è la stessa cosa che voler mangiare una certa merendina; per un
ragazzo, aver bisogno di avere un mezzo per andare a scuola, non è la
stessa cosa che volere una determinata marca di motorino.
La mancanza di un termine di confronto per il proprio comportamento
rende l’educando una persona individualista, che non è in grado di
prendere in considerazione i bisogni dell’altro e non è in grado di
accettare la frustrazione dei propri bisogni da parte dell’altro, sia come
incapacità ad accettare la negazione che come incapacità a differirne la
soddisfazione.
Ma la vita non è migliore per l’educatore: nel gruppo, nella famiglia,
nella classe condotti in modo permissivo regna di solito la confusione, in
essi è difficile mantenere l’attenzione e l’interesse su qualsiasi
argomento, è difficile creare un atmosfera di condivisione. Inoltre,
siccome all’interno della relazione gli educatori sono i perdenti, essi
possono provare quei sentimenti che nel metodo punitivo sono propri
degli educandi: risentimento, rabbia, sentirsi privati di qualcosa che
spetta di diritto.
50
I risultati educativi di tale metodo, comunque, non rispondono nemmeno
all’aspettativa di massima espressione nella liberta della personalità
dell’educando. Anzi, proprio una situazione priva di limiti, di regole, di
messaggi chiari pone la persona a disagio, la confonde, non le consente
di comprendere ed esprimere le proprie reali potenzialità e i propri reali
bisogni (potenzialità e bisogni che, peraltro, nessuna persona e nessuna
situazione richiedono di provare a cercare).
Forse la libertà vera viene concessa ad una persona quando le si offrono
gli strumenti e la si pone nelle migliori condizioni per operare delle
scelte e per prendere delle decisioni consapevoli; quando, con le dovute
modalità, le si propone “qualcosa” e non il semplice “astensionismo
educativo”.
Il metodo democratico: la terza via
E’ questo il metodo, la “terza via” elaborata e offerta da Gordon.
Essa parte dal presupposto che entrambe le impostazioni precedenti
siano distruttive perché entrambe si basano su di uno squilibrio di potere
fra le parti.
Per Gordon il problema di essere rigorosi o indulgenti è uno pseudo-
problema in quanto non esiste un aut-aut fra le due alternative
precedenti. Non bisogna scegliere fra le due strade obbligate, la scelta da
51
fare è solo quella di abbandonare il linguaggio del potere per parlare una
nuova lingua: quella democratica.
Gordon rappresenta il cambiamento di mentalità che è richiesto dalla
terza via, dal suo metodo educativo, proprio attraverso il cambiamento
del linguaggio educativo che si verifica in chi pratica tale via. Si passa da
termini quali: correggere, controllare, dirigere, punire, minacciare, porre
dei limiti, mantenere l’ordine, dettare legge, essere intransigente,
rimproverare, sgridare, ordinare, esigere... a termini quali: risoluzione
dei conflitti, influenzare, confrontarsi, collaborare, cooperare, prendere
decisioni in comune, stringere patti con gli altri, andare c’accordo,
mediare, rispondere alle esigenze, ottenere dei risultati....
L’educatore che sceglie di utilizzare queste modalità relazionali
democratiche esprime responsabilmente la propria assertività, vissuta
interiormente non come esercizio di potere, ma come facilitazione di un
processo.
La terza via trasforma il modo in cui un educatore percepisce
l’educando, nonché il modo in cui lo tratta.
Questa tesi è incentrata proprio sulla presentazione di questa terza via.
52
2.3 Interpretazione di un approccio educativo
All’educatore professionale, nel suo percorso di formazione, vengono
presentati teorie e modelli educativi diversi. Di conseguenza, prima di
intraprendere la propria attività egli ha la possibilità di riflettere su quale
ritiene essere l’approccio educativo più efficace e significativo rispetto
alle diverse tipologie di utenza ed anche più rispettoso del proprio modo
di essere e dei propri valori.
Tale opportunità di fare una scelta consapevole del metodo educativo da
seguire non è altrettanto evidente per altre categorie di persone (es.
genitori) o professionisti (es. insegnati, manager di azienda...) che
comunque vivono e operano con finalità educative a vari livelli.
Ma una scelta consapevole è fondamentale perchè è da essa che
dipendono gli obiettivi educativi22 che si vogliono raggiungere, ma anche
una serie di “effetti collaterali” positivi o negativi con i quali bisogna
fare i conti.
2.3.1 Coping e modeling
Nel momento in cui si decide quale metodo educativo si ritiene più
idoneo seguire, bisogna per prima cosa tenere contro di due meccanismi
22 Si noti che sempre quando si agisce una relazione educativa si perseguono degli obiettivi. Se però tali obiettivi non sono esplicitati dall’educatore prima di tutto a se stesso, egli rischia di non ottenere i risultati che desidera o di ottenerne altri che non si desidera.
53
psicologici che si innescano quando una persona “subisce” l’azione di
un’altra: coping e modeling.
coping = le reazione, i comportamenti con cui una persona
risponde ad una azione, fa fronte ad una situazione
modeling = il riproporre con il proprio comportamento l’azione
subita
Se poi l’azione subita è continuativa nel tempo, come può essere nel caso
di un approccio educativo, i due meccanismi possono trasformarsi in
modalità di comportamento che entrano a far parte della persona o che
possono degenerare diventando patologiche.
Per esemplificare in riferimento al metodo educativo punitivo quanto
sopra definito, si possono classificare le reazioni di coping in tre tipi:
fuga, lotta e sottomissione, come già illustrato nel paragrafo precedente.
Durante i suoi training, Gordon raccoglieva dalle esperienze dei
partecipanti esempi di tali reazioni. Per citarne qualcuna:
reazioni di lotta
- ribellarsi, disobbedire, rispondere male
- compiere ritorsioni, contrattaccare, compiere atti vandalici
- non rispettare regole e leggi
- essere ostili e combattivi
- competere, aver bisogno di vincere
54
- fare i prepotenti, intimorire gli altri
reazioni di fuga
- fantasticare, sognare ad occhi aperti
- fuggire da casa, saltare le lezioni a scuola
- non parlare, ignorare gli altri, stare in silenzio
- mangiare troppo o troppo poco
- bere, far uso di droghe
reazioni di sottomissione
- mentire, nascondere la verità
- accusare gli altri, spettegolare
- adulare, lusingare
- rinunciare, sentirsi sconfitti, non fare niente
- diventare timidi, timorosi, restii a parlare chiaro, esitanti di fronte
ad esperienze nuove
- ricercare costantemente rassicurazioni e approvazione
Invece, le reazioni di modeling possono comprendere
- il diventare ricattanti (per un ragazzo dire per esempio ai genitori:
studio se mi compri il motorino...)
55
- diventare violenti23 sia verso l’educatore (ritorsione contro il
controllante) che in contesti sociali in genere
- ritenere che la violenza verso una persona vicina affettivamente
sia lecita (ti punisco per il tuo bene)
Se si pensa invece al caso del metodo permissivo si possono citare come
reazioni di coping:
- esercitare il potere sugli altri, specie sulle figure investite di
qualche autorità formale
- individualismo
- mancanza di attenzione e di capacità di riflessione
- disinteresse per gli altri
- sfruttamento di persone e situazioni a proprio vantaggio
e come reazioni di modeling:
- non prendere posizione
- non saper riconoscere e dare un nome ai propri bisogni e ai propri
sentimenti24
23 Non è ancora del tutto chiaro come le punizioni corporali sui bambini preparino il terreno ad una comportamento violento che più tardi può degenerare in delinquenziale, ma è probabile che concorrano più fattori:
modeling reazione frustrazione-aggressione ostilità reattiva proiettata verso le figure di autorità bisogno di vendicarsi disperazione e impotenza per la sensazione di mancanza di controllo sul proprio
destino 24 Per Rogers, saper ricononscere e dare un nome a ciò che avviene dentro è presupposto di salute mentale
56
- non sapere cosa si vuole, seguire il gruppo e le mode in modo
compulsivo
- non avere valori di riferimento
2.3.2 Conseguenze su salute e benessere
Gli “effetti” sopra illustrati, derivanti dal modello educativo che si
subisce, sono indicatori di un malessere psicologico, con possibili serie
ricadute sulla salute.
Per parlare con la terminologia di Gordon, se un metodo educativo
impedisce alla persona di soddisfare i propri bisogni, la pone in una
situazione di stress e frustrazione, con conseguenze in termini di
sofferenza psicologica, sofferenza fisica (malattie psicosomatiche,
stanchezza...) e quindi di “malessere”.
Per riferirsi all’esempio del metodo punitivo, studi hanno dimostrato che
i bambini sottoposti a disciplina severa e punitiva, evidenziano più
facilmente degli altri:
- tendenze all’autopunizione,
- inibizioni e nevrosi
- mancanza di autostima
- mancanza di competenze sociali
- mancanza di indipendenza psicologica
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- locus of control esterno, cioè mancanza di autocontrollo e
autodisciplina a vari livelli
- sensazione di incapacità di controllare il proprio destino
- sentirsi strumenti per la realizzazione dei desideri altrui
Ma forse la conseguenza più grave del metodo punitivo o certamente
quella che nessun educatore, qualsiasi metodo applichi, auspica, è
rilevata dagli studi di Stanley Milgram degli anni ’60, rispetto ad autorità
ed obbedienza. Milgram stesso così enuncia: “La scomparsa del senso di
responsabilità è la conseguenza di più lunga portata della sottomissione
all’autorità”.
Ma proprio la sottomissione all’autorità, il rendere obbedienti è uno degli
obiettivi primari, più o meno esplicitamente riconosciuto, del metodo
punitivo.
Per riferirsi invece al caso del metodo permissivo, si possono indicare fra
le problematiche psicologiche indotte negli educandi:
- senso di colpa per averla sempre vinta
- dubbio rispetto all’affetto dell’educatore, perché il loro
comportamento inadeguato non li rende “degni” di tale affetto
58
- dubbio rispetto alla sicurezza25 che l’educatore offre, perchè egli
cede sempre
- incapacità di stabilire legami con i pari, perché questi ultimi
vengono trattati con la stessa modalità di imposizione del proprio
volere utilizzata con gli adulti
- desiderio, per reazione, di una situazione molto rigida (per
esempio il caso di un figlio di genitori permissivi che alla fine
delle scuole superiori ha scelto di entrare nell’Aeronautica
militare).
Ancora si potrebbe dire che gli atteggiamenti psicologici indotti da un
metodo educativo possono favorire il verificarsi di pericolose situazioni
concrete.
Per esempio, l’obbedienza all’autorità sopra menzionato, secondo quanto
affermato da ricerche, gioca un ruolo importante nella violenza sessuale
sui bambini: l’abitudine all’obbedienza verso l’adulto, determinata dallo
squilibrio di potere implicito nel metodo punitivo, può generare nella
vittima la sottomissione senza resistenza e la seguente reazione di “far
finta che niente sia successo”
25 I bambini educati con un metodo permissivo, definiti dalla neuropsichiatra Giuliana Ukmar Bambini Onnipotenti, uniscono alla sensazioni di avere un potere assoluto l’angoscia determinata dal percepire che se dovessero aver bisogno di aiuto non saprebbero a chi rivolgersi, dal momento che l’adulto non offre sufficienti garanzie di sicurezza, protezione e contenimento.
59
Altro esempio potrebbe essere il seguente: l’incapacità di autocontrollo
che si esprime in una guida spericolata, con conseguenze dannose per il
soggetto e la comunità.
Tutto quanto sopra esposto vuole essere uno stimolo ad una riflessione
seria che non si lasci condizionare da risultati facili, ma transitori. Può,
infatti, succedere che un metodo induca un soggetto a rispondere al
momento come l’educatore si apetta, ma poi a non mantenere tale
risposta nel tempo e/o a presentare “effetti indesiderati e imprevisti”.
In psicologia si parla in questo caso di “validità di facciata”
Secondo Gordon, la riflessione in tal senso si nutre di esempi presi dalla
vita reale che lui stesso fornisce e stimola a cercare. Man mano che si
procede nell’illustrazione del Metodo Gordon, si condurrà lo stesso tipo
di riflessione.
60
3. IL METODO
Il Metodo è lo strumento che Gordon offre a qualsiasi educatore,
affinché egli possa contribuire, in qualità di facilitatore, al processo
attraverso cui gli educandi, imparando a riconoscere gli altri, se stessi e
quello che hanno dentro, si auto-educano.
Gordon, però, afferma la necessità che l’educatore, mentre impara ad
utilizzare le varie tecniche del Metodo (espressione pratica di un
pensiero filosofico, pedagogico ed educativo), si apra alla disponibilità di
mutamenti interiori.
Primo, quello di imparare non a fare, ma ad essere: essere, all’interno
del processo educativo, una persona autentica e congruente, che
promuove l’espressione dei bisogni, delle idee, delle emozioni dell’altro,
che è con l’altro in modo funzionale al suo progredire, svilupparsi e
apprendere.
Secondo, quello di liberarsi dalla paura di perdere il potere sull’altro e
dalla tentazione di delegare il potere all’altro: il potere, come si è
affermato in precedenza, logora tutte persone e le loro relazioni.
L’educatore, dimenticando le lotte di potere, dimenticando di chiedersi
nelle varie situazione cosa richiede il suo ruolo e se deve essere
61
autoritario o permissivo, imparerà attraverso il Metodo a diventare una
persona assertiva.
Ed è proprio attraverso l’essere una persona accogliente, ma anche
assertiva, che l’educatore riuscirà a capovolgere le logiche inefficaci e/o
deleterie degli altri metodi educativi, riuscirà per esempio a:
- favorire l’autocontrollo, senza controllare
- far trovare all’educando le proprie motivazioni intrinseche, senza
offrirgliene di estrinseche
- favorire l’autodeterminazione e la responsabilità personale, senza
elaborare per l’altro progetti di sviluppo precostituiti
Ma, soprattutto, sostituirà la logica del vinci/perdi con la logica del
vincere insieme, logica che consente a tutte le parti di soddisfare le
proprie esigenze e di stabilire relazioni costruttive e durature.
Il Metodo diventa, così, uno strumento educativo potente.
3.1 Il presupposto: la relazione interpersonale
La relazione interpersonale è parte dell’esistenza di ogni persona, in
quanto l’essere umano è un essere sociale.
L’educazione (o l’autoeducazione, secondo il principio umanista) è
quindi, in quanto percorso umano, inscindibilmente legata alla relazione.
Di conseguenza, per l’educatore professionale, compagno e facilitatore
di tale percorso individuale, la relazione diventa uno strumento di lavoro,
62
forse lo strumento di lavoro per eccellenza, dal quale partire e del quale
essere consapevole in ogni momento.
Gordon, come si è visto nel capitolo 1, attraverso esperienze diverse in
ambienti diversi (università, esercito, scuola, famiglia, lavoro), è riuscito
a dare una svolta alla sua riflessione quando ha capito che i problemi
umani spesso non risiedevano nelle persone singole, ma nelle loro
relazioni.
Per Gordon, infatti, punto di partenza, presupposto della riflessione e
dell’elaborazione del suo metodo educativo, è la relazione e il suo
miglioramento. La qualità della relazione è la chiave educativa che apre
le porte alla collaborazione nelle diverse situazioni, ad un clima rilassato
e affettuoso, ma soprattutto all’apprendimento.
E non si intende qui semplicemente l’apprendimento di una specifica
materia scolastica, ma di ogni cosa. Ciascuno di noi apprende
continuamente nel corso della propria vita, apprende concetti,
informazioni, apprende come vivere, apprende come stare con gli altri,
ad avere con loro rapporti buoni e costruttivi, “apprende come
apprendere”. Ciascuno di noi, apprendendo, si auto educa:
l’apprendimento risulta quindi inscindibilmente legato all’educazione.
Dall’altro lato dell’apprendimento c’è ovviamente l’insegnamento: i due
processi sono distinti e separati, ma perché funzionino è necessario
63
attivare fra i due dei collegamenti, delle connessioni. Per Gordon le
connessioni devono essere stabilite dall’educatore, non tanto con un
trasferimento di conoscenze, qualunque esse siano, quanto piuttosto
attraverso una relazione di qualità, la quale, nel rispetto delle esigenze
delle parti e, di conseguenza, nella riduzione dei meccanismi di difesa
reciproci, favorisca il processo educativo.
Se la relazione è il presupposto educativo, essa diventa per quanto sopra
esposto oggetto di studio in sé: Gordon ha dedicato la sua intera opera in
questo senso in quanto, come si è già detto, con il suo Metodo egli non
vuole rendere “efficaci” le persone in determinati ruoli (genitori,
insegnanti, manager..), ma vuole rendere efficaci le relazioni e, in
conseguenza, rendere efficace e naturale il processo di autoeducazione e
autorealizzazione dei singoli individui.
Una vita di esperienze, ha confermato a Gordon la fondatezza di questa
impostazione, tanto è vero che nel 1999 diceva ad un collega: “Il metodo
cooperativo è infallibile! L’ho visto applicare per anni in contesti sociali
e culturali diversissimi e tutti mi confermano che funziona! Comincio a
pensare che ci sia una base universale su cui poggiano le relazioni umane
e che noi stiamo esplorando e definendo con sempre maggiore chiarezza
ed evidenza”
64
Le tecniche, proposte da Gordon nel suo Metodo per favorire relazioni di
qualità, sono essenzialmente di tipo comunicativo, coinvolgono
principalmente il dialogo.
Il dialogo, attraverso i messaggi che comunica, può essere costruttivo o
distruttivo in questo senso: quando si dice ad una persona qualcosa che
la riguarda direttamente, si rivela ciò che di lei si sta pensando e tale
messaggio, in particolare in ambito educativo, contribuisce a definire ciò
che la persona pensa di se stessa.
Questo implica la necessità di porre un’attenzione particolare a come si
comunica. Gordon distingue due tipi fondamentali di linguaggio
attraverso i quali passa la comunicazioni: dell’accettazione e del rifiuto.
Il linguaggio dell’accettazione è quello tipico del Metodo (e verrà
analizzato nei paragrafi seguenti). La chiave della sua positività risiede
proprio nel fatto che comunica accettazione e approvazione.
L’approvazione degli altri è un importante fattore di aiuto nell’instaurare
rapporti attraverso i quali crescere e svilupparsi, operare dei mutamenti
costruttivi, imparare a risolvere problemi, conquistare benessere
psicologico, diventare più creativo e realizzare pienamente le proprie
potenzialità.
65
Il sentirsi accettati così come si è significa anche sentirsi amati e tale
sensazione è un contributo potente all’autostima e all’accettazione di sé,
ad una migliore crescita fisica e psicologica, alla risoluzione di eventuali
problemi psicologici.
Ma perché l’accettazione, che ha origine dall’interno di un individuo,
abbia tali effetti sulle altre persone, è necessario che venga attivamente
comunicata o dimostrata.
Gli psicologi parlano in questo senso di “comunicazione terapeutica”
proprio perché certi tipi di messaggi hanno effetti terapeutici o salutari
sulle persone.
Gli educatori, quindi, dovranno imparare a comunicare attraverso il
linguaggio dell’accettazione (e questo è uno degli scopi di Gordon e del
suo metodo), disimparando il linguaggio che automaticamente e, talvolta
inconsapevolmente, essi utilizzano, cioè quello del rifiuto.
Il linguaggio del rifiuto centra la propria negatività, come è già
implicito nella sua definizione, nella non accettazione. Non accettazione
che nel, vissuto della persona cui il linguaggio si rivolge, si trasferisce
dalla questione specifica che viene rifiutata (scelta, comportamento,
problema…) alla persona stessa.
66
Il sentirsi non accettati, indurrà una barriera alla comunicazione e, di
conseguenza, alla possibilità di uno scambio educativo fra le parti.
Gordon identifica dodici possibili barriere alla comunicazione26, generate
da dodici diversi tipi di messaggi di rifiuto, il cui utilizzo è
particolarmente negativo se la relazione si trova in una situazione di
difficoltà.
1. Ordinare, comandare, esigere. Inducono resistenza attiva, rabbia
e ribellione in conseguenza alla sensazione di essere considerati
inadeguati ad affrontare al propria situazione.
2. Avvertire, minacciare. Inducono paura, sottomissione oppure,
come nel caso precedente, risentimento e ribellione nel tentativo di
“verificare” le conseguenze della minaccia.
3. Far la predica, rimproverare, dire cosa si deve o non si deve
fare. Creano un obbligo imposto dai sensi di colpa e comunicano
mancanza di fiducia nel senso di responsabilità del soggetto. In
conseguenza egli può reagire radicandosi nelle sue posizioni.
26 Gordon raggruppa le barriere illustrate di seguito in tre gruppi:
- messaggi direttivi (dall’1 al 5): essi sembrano il metodo più rapido per ottenere una modificazione del comportamento. In realtà contengono messaggi che tradotti in un linguaggio crudo possono suonare come: “sei talmente stupido che nemmeno capisci come aiutarmi”, “io sono il capo, quindi cambi perchè te lo dico io”. Tali messaggi inducono reazioni ostili: l’educando non capisce cosa disturbi l’educatore, in quanto quest’ultimo con un messaggio in seconda persona non dice niente di sè, e, in conseguenza, trae conclusioni errate (Es. l’educatore è insensibile, ha dei problemi, è nervoso e ingiusto).
- Messaggi repressivi (dal 6 all’11): feriscono perchè contengono valutazioni, giudizi e bollano il soggetto come problematico. Tali messaggi possono essere rifiutati o interiorizzati.
- Messaggi indiretti (11 e 12): e Tali messaggi appaiono non chiari e l’educatore che li utilizza appare ambiguo.
67
4. Consigliare, offrire soluzioni o suggerimenti. Oltre a far sentire il
soggetto non in grado di risolvere i suoi problemi, gli impediscono
di riflettere sulla questione, di creare alternative personali e di
sperimentarle. Possono indurre dipendenza o, al contrario,
resistenza
5. Discutere, cercare di persuadere, fare argomentazioni logiche.
Incutendo un senso di inferiorità e inadeguatezza, tali messaggi
sollecitano, per reazione, posizioni difensive, contro
argomentazioni o ritiro dalla comunicazione.
6. Giudicare, disapprovare, criticare, biasimare. Sono messaggi che
possono essere accettati ed interiorizzati col significato di “io sono
sbagliato” o che possono indurre una critica di ritorno
sull’educatore. In ogni caso essi spingono gli educandi a
nascondere i propri sentimenti per non correre rischi.
Particolarmente deleteria è la critica ricorrente perchè riduce
l’autostima e spinge il soggetto a sentirsi inutile e indesiderato.
7. Apprezzare, assecondare, dare valutazioni positive. Attraverso
questi messaggi, l’educando può percepire da parte dell’educatore
alte aspettative, ma anche un controllo costante della sua
adeguatezza rispetto alle aspettative stesse. Di conseguenza egli
può sentirsi sotto pressione. Può, in alternativa, vivere i messaggi
68
in modo paternalistico, come tentativi di manipolazione,
soprattutto se ritiene gli apprezzamenti immeritati.
8. Definire, stereotipare, ridicolizzare. Possono essere messaggi
devastanti dell’immagine di sé e possono indurre rappresaglie
verbali
9. Interpretare, analizzare, diagnosticare. Bloccano la
comunicazione per la paura del soggetto di non essere compreso o
di essere scoperto e smascherato. Possono essere anche interpretati
come minacciosi
10. Rassicurare, mostrare comprensione, consolare, incoraggiare.
Portano l’individuo a sentirsi incompreso (a nessuno piace sentirsi
dire che sta esagerando, che non vede le cose come stanno in
realtà...). Per questo suscitano forti sentimenti di ostilità o di
ritorsione: “sei tu a non capire quanto è brutta la realtà”
11. Fare domande, indagare, mettere in dubbio, controinterrogare.
Le domande tese ad indagare portano in sé sempre una minaccia
rispetto principalmente al perché vengono fatte. Generalmente
esse inducono la persona a dire il meno possibile. Inoltre,
guidando la conversazione, limitano la libertà del soggetto di
parlare di ciò che realmente gli preme.
12. Eludere, distrarre, fare del sarcasmo, fare dello spirito, cambiare
argomento. Messaggi di questo genere possono comunicare
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l’impressione che ciò che riguarda l’altro sia puerile o irrilevante.
Per il meccanismo di modelling, possono anche suggerire che le
difficoltà della vita vanno evitate piuttosto che affrontate.
Caratteristiche costanti di queste dodici barriere, pur nelle varie
sfumature, sono:
a. Ostacolare la comunicazione sia come disponibilità all’ascolto
dell’educatore sia come apertura nei suoi confronti
b. avere un’influenza deleteria sull’autostima.
3.2 Il fondamento: la soddisfazione dei bisogni
La soddisfazione dei bisogni è, nel pensiero di Gordon, la chiave
interpretativa del comportamento umano e, di conseguenza, il
riferimento di tutta l’azione del metodo educativo
Gordon, infatti, ritiene che alla base del metodo democratico ci sia
proprio il tendere verso una situazione in cui siano soddisfatti i bisogni
di tutti, così che le relazioni interpersonali possano vedere, nel rispetto
delle reciproche esigenze, l’evoluzione delle tensioni e dei conflitti
interni ed esterni e sperimentare lo sviluppo del massimo potenziale
individuale, cioè l’autorealizzazione.
70
Gordon ha il suo riferimento culturale nella Piramide dei bisogni di
Maslow.
Nel suo studio Maslow era partito dalla domanda: “Come l’essere umano
può esprimere il suo massimo potenziale di sviluppo”.
Analizzando i casi di persone di grande successo, aveva identificato delle
caratteristiche comuni: entusiasmo per la vita, energia creativa, senso
dell’umorismo e frequenti esperienze di alto significato esistenziale, e
aveva chiamato il possesso di queste caratteristiche autorealizzazione.
Naturalmente ogni educatore non può che desiderare che tutte che le
persone che gli sono affidate raggiungano tale traguardo, o ci si
avvicinino il più possibile.
Al contrario, Maslow si rese conto che le persone che hanno problemi di
crescita e di sviluppo “mancano” di qualcosa: egli definisce cioè in
termini di privazione, di bisogni, tale situazione di non realizzazione
personale.
Maslow definì una gerarchia di bisogni: ogni persona sente la necessità
di soddisfare i bisogni di un certo livello solo quando avrà soddisfatto
quelli dei livelli inferiori.
LIVELLO 1 Bisogni di sopravvivenza. Si riferisce alla sopravvivenza
biologica. Quando una persona ha una deprivazione a questo livello è
disposta a sacrificare tutto il resto per soddisfare le sue esigenze
71
primarie. Per un educatore sarà quindi necessario tener presente che
nessun intervento verrà recepito in un momento in cui il soggetto ha un
bisogno fisiologico: sonno, fame…
LIVELLO 2 Bisogni di sicurezza. Soddisfatte le necessità biologiche,
si fanno strada negli individui i bisogni di sicurezza fisica (es. essere
protetti dalle aggressioni…) e psicologica (es. sapere che le persone
importanti della propria vita ci saranno oggi come domani, essere liberi
dalla minaccia del ridicolo, dell’imbarazzo, delle valutazioni e delle
critiche severe..). La deprivazione a questo livello determina la paura.
Qualsiasi apprendimento o intervento educativo è bloccato in presenza di
tale sentimento, perché ogni sforzo della persona è teso a diminuire la
paura.
Per un educatore, una considerazione molto importante a questo punto è
la seguente: per essere in grado di aprirsi all’apprendimento e
all’autoeducazione, la persona deve necessariamente soddisfare i bisogni
dei primi due livelli, ma la soddisfazione degli stessi non è sinonimo di
“stare bene”: essa lascia comunque un senso di incompiutezza, che può
essere colmata solo ai livelli successivi.
72
LIVELLO 3 Bisogni sociali. Essi sono fondamentali in quanto l’uomo è
un essere sociale. Tra i bisogni di relazione si possono evidenziare quelli
di:
appartenenza ad un gruppo, una famiglia, una confessione
religiosa,
accettazione e comprensione, cioè di sentire che gli altri accettano
quello che ciascuno è,
affetto e amore,
intimità, cioè di condividere il proprio mondo interiore con
trasparenza, in un clima di fiducia e calore.
Una persona deprivata a questo livello vive sensazioni di sfiducia in se
stessa, solitudine, tristezza, emarginazione, noia. Un intervento secondo
il Metodo Gordon può essere molto efficace a questo livello, proprio
perché incentra l’azione a livello del miglioramento delle relazioni.
LIVELLO 4 Bisogni di stima. In quanto la stima è legata ai concetti di
valore e merito, i bisogni di questo livello si traducono nell’esigenza di
sentirsi produttivi, di avere successo nelle attività che si intraprendono e
in particolare nelle attività lavorative. L’educatore dovrà tenere conto di
questo livello di bisogni sotto vari aspetti:
i. esso induce una motivazione intrinseca forte nell’educando verso
il conseguimento di risultati. L’attenzione, però, dovrà essere
focalizzata non tanto su tali risultati, quanto piuttosto sulle
73
modalità con cui raggiungerli, sui significati che essi possono
rivestire per l’educando a livello di autostima.
ii. Se un’attività determina nel soggetto un aumento della propria
autostima, in quanto richiede abilità al di sopra della norma, essa
non sarà abbandonata per il solo fatto che essa non sia funzionale
alla convivenza sociale o sia addirittura illegale (es. far ridere i
compagni in classe in continuazione, borseggiare, rubare nei
supermercati…)
LIVELLO 5 Bisogni di autorealizzazione. Maslow si rese conto che
nel soddisfare i bisogni dei primi quattro livelli le persone erano spinte
da una forza tendente all’autorealizzazione (tendenza attualizzante di
Rogers). Solo le persone pienamente capaci di esprimere le proprie
potenzialità soddisfano tale bisogno.
Gordon, seguendo il pensiero di Maslow e rifacendosi a questa
schematizzazione, ritiene che qualsiasi comportamento, sia da pensare
come uno sforzo per soddisfare attraverso l’azione un bisogno. Quindi
un comportamento non deve essere giudicato come buono o cattivo, ma
solo come il modo che una persona ha trovato in un determinato
momento per soddisfare un particolare bisogno.
Anzi, in questo senso ogni comportamento dovrebbe essere giudicato
come “buono”, perché indica che la persona si sta attivando per fare
74
qualcosa che le serve, indica che la persona è “sana”: infatti si definisce,
comunemente “malata”, una persona che sia cronicamente
impossibilitata a soddisfare i propri bisogni e, di conseguenza, sia
frustrata, delusa, si senta perdente, sviluppi sentimenti di rabbia, ostilità
e aggressività verso gli altri.
Ma se non si può definire un comportamento cattivo, come è possibile
porsi di fronte ad un comportamento disturbante?
3.3 La finestra del comportamento
Per rispondere alla domanda sopra scritta bisogna prima di tutto spiegare
cosa si intende per disturbante.
Posta in questi termini e tenendo conto che un comportamento per il
soggetto che l’agisce è funzionale alle sue necessità, disturbante è un
aggettivo che si riferisce al vissuto di chi subisce l’azione: per esempio il
bambino che fa capricci al supermercato disturba il genitore; l’utente che
torna ubriaco in casa di accoglienza disturba l’educatore.
Per la precisione saranno le conseguenze di un comportamento ad essere
percepite come disturbanti o meno, “buone o cattive”: secondo l’esempio
precedente del supermercato sarà l’imbarazzo causato dai capricci a
disturbare il genitore.
75
Questo significa che disturbante è una valutazione personale di chi
subisce l’azione e non ha niente a che vedere con chi l’agisce, persona
che in quel momento non è magari consapevole degli effetti che sta
inducendo nell’altro.
E significa anche che è necessario distinguere fra il bisogno “buono”,
che spinge ad agire per la sua soddisfazione, e il tipo di comportamento
scelto, comportamento che può essere non funzionale all’ambiente
circostante (e magari nemmeno al reale bisogno della persona).
Ne consegue che l’educatore dovrà disporsi internamente a tre cambi di
prospettiva:
1. deve guardare alla persona e al comportamento agito come a due
entità concettualmente distinte, presupponendo sempre, sulla scia
della psicologia umanistica, che la persona sia essenzialmente
buona e attiva
2. deve cercare di considerare un comportamento descrivendolo e
non valutandolo27 (e, quindi, a maggior ragione evitando di
valutare la persona che agisce il comportamento)
27 Per esempio in un gruppo strutturato in CAG, l’educatore può giudicare un ragazzo: “Andrea è irrispettoso delle attività già iniziate” o descrivere i comportamenti: “Luca arriva in ritardo al gruppo, saluta tutti ad alta voce e rovescia rumorosamente gli attrezzi sul suo tavolo”.
76
3. dal momento che per soddisfare un determinato bisogno ci sono
molti modi, non deve limitarsi a censurare il comportamento
antisociale, ma deve accompagnare la persona nell’identificazione
del suo bisogno e verso la consapevolezza della inaccettabilità
sociale del suo comportamento, perché lo possa soddisfare in un
modo più funzionale ed efficace per tutti.
Questo cambio di prospettive induce, nell’esperienza di chi l’ha
accettato, prima di tutto un alleggerimento psicologico: poter supporre
che l’educando sia buono, potersi esimere dal giudicare quello che fa, è
meno faticoso, porta con sé meno sensi di colpa rispetto all’azione
educativa precedente. Ma soprattutto crea un clima più disteso e
affettuoso, perché dispone tali sentimenti prima di tutto “dentro”
l’educatore.
Gordon, per facilitare la messa in pratica di quanto sopra esposto, ha
suggerito un metodo grafico di analisi della situazione: la finestra del
comportamento.
La finestra è un semplice rettangolo all’interno del quale si deve
immaginare di porre tutti i possibili comportamenti di un soggetto per
quanto piccoli e insignificanti: nulla di ciò che egli possa dire o fare deve
restare escluso.
77
Oppure si può pensare la finestra proprio come una “finestra”, punto di
osservazione unico e solo rispetto a tutto il mondo dell’educando.
Osservando il mondo dell’altro e indipendentemente dal fatto che
l’educatore legga i comportamenti alla luce dei bisogni che li
determinano, egli proverà nei confronti di tali comportamenti dei
sentimenti che lo porteranno a classificarli come per lui accettabili o
inaccettabili.
Analogamente che per l’aggettivo disturbante, il classificare un
comportamento in uno dei due gruppi è un’operazione che fa riferimento
strettamente al vissuto dell’educatore e non dell’educando:
- comportamento accettabile = quello che non interferisce con i
bisogni dell’educatore e le sue funzioni,
- comportamento inaccettabile28 = quello che impedisce
all’educatore di soddisfare un suo bisogno (bisogno che può essere
personale - fisiologico, psicologico, emotivo- o legato ai suoi
valori e alle sue convinzioni) o gli impedisce di adempiere alle sue
funzioni.
28 In questo caso l’educatore dovrà risolvere il suo problema prima di riprendere lo svolgimento del suo intervento.
78
La finestra del comportamento risulterà allora suddivisa in due parti da
una linea di separazione. Tale linea, come si vedrà di seguito, non si
trova necessariamente a metà della finestra né è da pensarsi fissa,
immobile
Comportamenti accettabili
Comportamenti non
accettabili
La finestra del comportamento è uno strumento molto importante di
consapevolezza dell’educatore rispetto a se stesso, all’altro, alla
relazione educativa e a come quest’ultima deve essere agita in un
determinato momento.
Sono necessarie però alcune precisazioni prima di passare ad utilizzarla.
Prima di tutto, la finestra del comportamento di uno stesso individuo può
presentare una suddivisione diversa (o si potrebbe anche dire una
posizione diversa della linea di separazione) a seconda dell’educatore
che la disegna: ciascuno infatti, a secondo dei propri valori, del proprio
79
carattere, del proprio livello di tolleranza29, si dimostrerà più o meno
accettante.
Uno stesso educatore, poi, potrà accettare o non accettare uno stesso
comportamento (cioè porlo sopra o sotto la linea di suddivisione) in
dipendenza da tre fattori:
i. cambiamenti nell’educatore, a seconda cioè delle sue condizioni
fisiche (stanchezza, salute…) ed emotive (preoccupazioni o
tranquillità, tristezza o allegria…).
ii. cambiamenti dell’educando, cioè lo stesso comportamento agito
da persone diverse può essere vissuto in modo diverso. Questo
perché, anche se un educatore per principio vuole operare
eliminando le “differenze”, queste nella vita reale esistono.
iii. cambiamenti nel contesto, secondo il detto “ogni cosa a tempo
debito”
Ma se l’accettazione o la non accettazione di un comportamento è
qualcosa di così variabile fra persona e persona e in una stessa persona,
29 Ciascun educatore, pur accettando il proprio modo di essere, dovrà essere consapevole del proprio livello di tolleranza e prestare attenzione a come gestirlo. Infatti non può dimenticare che la persona che viene sottoposta a critica continua, che vede non accettati i propri comportamenti, si sentirà a disagio e in ansia e, di conseguenza, sarà meno aperta alla possibilità di cambiare, apprendere e svilupparsi. In generale una persona tendenzialmente accettante riuscirà a stabilire relazioni migliori e in maggior numero, rispetto ad una che si dimostri rigida su ciò che ritiene “giusto o sbagliato”.
80
ci si potrebbe chiedere come si fa a suddividere i comportamenti nella
finestra in modo “giusto”.
Se l’educatore si pone tale domanda, significa che la sua risposta partirà
da teorie e preconcetti e il risultato sarà il crearsi nella finestra dell’area
che Gordon definisce della Falsa Tolleranza, cioè di un’area nella quale
si trovano i comportamenti rispetto ai quali l’educatore sperimenta il
contrasto fra l’idea di ciò che pensa debba essere e il suo vissuto
emotivo.
Comportamenti accettabili
Falsa tolleranza
Comportamenti non
accettabili
La falsa tolleranza può esprimersi in due modi:
- l’educatore agisce come se certi comportamenti fossero
accettabili, mentre li sente inaccettabili,
- l’educatore non accetta, sulla base delle impostazioni del gruppo
di lavoro o per pressioni esterne, comportamenti che ritiene
accettabili.
81
Il problema che si propone in queste situazioni è analogo a quello già
illustrato per il metodo educativo permissivo (§ 2.2): siccome i messaggi
verbali possono essere controllati, mentre quelli non verbali (mimica del
viso, postura del corpo…) difficilmente riescono a mascherare i veri
sentimenti, il messaggio educativo risultante è contraddittorio e quindi
genera ambiguità e confusione.
Gordon ritiene che, in una situazione che potrebbe collocarsi nell’ambito
della falsa tolleranza, sia molto più corretto dal punto di vista educativo
mandare messaggi che comunichino il vissuto dell’educatore, che
spieghino quello che egli sta provando. E questo andando oltre ciò che
secondo Gordon impedisce agli educatori di essere “persone vere”, cioè i
preconcetti e le loro stesse inibizioni riguardo al proprio ruolo.
Da tutto questo segue che per Gordon il modo giusto di definire una
finestra del comportamento sarà quello che esprime il “qui ed ora” dei
sentimenti, quello che viene spontaneo ad un certo educatore, in un certo
momento, in una certa situazione.
Questo però non deve significare lasciarsi andare alle ingiustizie e ai
cambiamenti di umore incontrollati.
82
Per quanto possa essere difficile, significa accettare in se stessi di sentirsi
incoerenti o mutevoli, di sentire che una persona è più simpatica di
un’altra, di percepire e agire delle differenze fra gli educandi.
Significa, quindi, riconoscere che il problema presente nella relazione
appartiene a sé e non all’altro (o non solo all’altro).
Questa accettazione di sé come “essere non perfetto”, rende la persona
autentica e genuina, come Gordon suggerisce di essere all’interno della
relazione educativa.
Un educatore che vive questa relazione con sé, viene sentito dall’altro
come meno incoerente e mutevole, meno ingiusto, come una persona che
offre un modello di auto accettazione e di coerenza, fra ciò che chiede a
sé e all’altro30.
3.4 La responsabilità
Una volta definita la finestra del comportamento e la sua struttura, si può
passare al suo utilizzo all’interno del Metodo.
La finestra richiama prima di tutto il concetto di responsabilità.
La responsabilità che ognuno ha, o che deve imparare ad avere, rispetto
30 Gordon suggerisce anche, come spunto di riflessione rispetto alla coerenza dell’azione educativa, di prestare attenzione al fatto che in certi ambienti educativi possono essere tradizionalmente proposti modelli diversi di comportamento per educatori ed educandi: es. i primi possono fumare i secondi no….
83
alla propria persona può essere declinata su tre aree principali:
responsabilità della propria condizione interiore. Come già
detto nel paragrafo precedente, tale responsabilità implica tre
passi:
a. ascolto dei propri sentimenti e delle proprie reazioni
b. riconoscimento e accettazione degli stessi
c. condivisione con l’altro di tale riconoscimento
responsabilità dei propri bisogni. Talvolta un educatore, sia
naturale che professionale, può essere indotto dall’alto valore che
attribuisce al proprio compito, dall’affetto che nutre per
l’educando, dalle motivazioni che vive dentro a “sacrificare” le
proprio necessità per quelle dell’altro. Gordon spinge a liberarsi da
tali preconcetti, perché anche un educatore è un essere umano e se
vive in sé frustrazioni, deprivazioni, non può essere una persona
vera, autentica ed efficace.
Responsabilità dei propri problemi. Chi ha un problema ha il
dovere di assumersi la responsabilità:
o della valutazione del problema e delle possibili soluzioni
allo stesso,
o del controllo del proprio mondo interiore rispetto al
problema,
84
o delle conseguenze che tale problema induce sull’ambiente
circostante.
Operativamente la finestra del comportamento si inserisce a livello
dell’attribuzione della responsabilità di un problema a chi di pertinenza.
Di chi è il problema?
Gordon ritiene che padroneggiare il concetto di appartenenza di un
problema è condizione necessaria per mantenere dei rapporti costruttivi
fra le persone in generale e fra educando ed educatore in particolare.
Infatti, la persona che si vede giudicata e considerata problematica per
qualcosa che per lei non è un problema, nella migliore delle ipotesi non
capisce perché l’altro si scaldi tanto. Oppure può reagire ritorcendo il
giudizio di problematicità.
Quando si commette l’errore contrario, cioè si colloca un
comportamento nell’area dei problemi dell’educatore, mentre il
problema è dell’educando, si crea in quest’ultimo la dipendenza.
Infatti l’educatore che si prende una responsabilità che non gli compete
come primo passo comunica utilizzando le dodici barriere, viste nel
paragrafo 3.1.: questo interrompe la comunicazione e intacca
85
l’autostima, l’indipendenza e la fiducia dell’educando nei propri
sentimenti e nelle proprie capacità. Sentendosi incompreso, sentendo che
la sua privacy e la sua libertà sono state violate, l’educando tende a
chiudersi e a ridurre il rischio di essere criticato adottando il
comportamento indotto dagli altri, diventando cioè dipendente.
Probabilmente un po’ tutti possono riconoscersi in questo modo di
attribuire la responsabilità “al contrario”31. Forse questo succede perché
è più difficile occuparsi dei propri problemi, implica senso di
inadeguatezza rispetto alla causa del problema, paura di non riuscire a
risolverlo. Occuparsi dei problemi degli altri invece non coinvolge fino
nel profondo, l’altro resta comunque tale, e consente di porsi dal punto di
vista della superiorità, l’io competente che aiuta l’altro che non lo è, e
dell’auto-gratificazione, l’io bravo che aiuta.
Gordon dice no a questa situazione, che distrugge i rapporti, chiude la
comunicazione, fa alzare difese reciproche, particolarmente perché fa
31 Nella vita quotidiana si constata già fra i bambini questa attribuzione della responsabilità “invertita”: riproducendo quello che vedono fare agli adulti, essi si assumono la responsabilità dei problemi degli altri e scaricano sugli altri la responsabilità dei loro. Ad esempio può succedere che in una classe degli alunni rispondano a nome dei compagni ai quali l’insegnate rivolge una domanda per avere informazioni su comportamenti verbali o non verbali che esprimono un problema. Viceversa può succedere che gli stessi, quando hanno bisogno di informare l’insegnante su un loro problema o su un loro bisogno, chiedano ai compagni di riferirlo al loro posto. In riferimento a questo comportamento, Gordon chiede all’educatore non solo di essere capace di discernere a chi appartiene un problema, ma anche di aiutare gli educandi ad acquisire essi stessi questa competenza.
86
sentire tutti deprivati della soddisfazione dei propri bisogni e invasi
dall’esterno.
Attraverso la finestra del comportamento, egli indica la strada per
restituire il problema al “legittimo proprietario”32.
Ripartendo dalla finestra vista nel paragrafo precedente
Comportamenti accettabili
Comportamenti non
accettabili
Gordon ritiene che l’area dei comportamenti ritenuti inaccettabili
dall’educatore, coincida con l’area dei problemi che gli compete
affrontare e risolvere.
Per quest’area, Gordon suggerisce opportune abilità per intraprendere
l’azione appropriata che riesca a modificare il comportamento
dell’educando senza danneggiare la relazione (vedi paragrafo 5.2 –
Messaggi di confronto in prima persona per l’area problematica)
32 Quanto segue rispetto all’utilizzo della finestra del comportamento, come tutto il metodo Gordon, può applicarsi a qualsiasi relazione fra due persone.
87
L’area dei comportamenti ritenuti accettabili viene divisa da Gordon in
due parti. Infatti, fra i comportamenti che non collidono con i bisogni e
le funzioni dell’educatore:
a. alcuni non sono un problema nemmeno per l’educando: siamo qui
nell’area non problematica
b. altri invece rappresentano una situazione di deprivazione di un
bisogno per l’educando.
L’area non problematica33 è quella in cui la costruzione delle relazioni,
l’educazione e l’apprendimento possono essere realmente efficaci.
Anche in questo caso, il Metodo suggerisce abilità specifiche per
ottimizzare tale opportunità di sviluppo e ampliare l’area stessa (vedi §
5.1 – Messaggi in prima persona per l’area non problematica).
Per l’area b., Gordon suggerisce all’educatore l’utilizzo di abilità che
aiutino l’educando ad assumersi la responsabilità dei propri problemi
(vedi § 4.2 – L’abilità dell’ascolto attivo).
Punto cruciale in questo caso è il lavoro che l’educatore deve fare su se
stesso per non utilizzare le barriere alla comunicazione e per lasciare la
responsabilità all’altro.
33 Scopo del Metodo è di riuscire ad ampliare il più possibile quest’area di qualsiasi relazione fra due persone o in un gruppo.
88
Questo “lasciare” non sempre è facile. Può sembrare più pratico, più
operativo risolvere i problemi al posto dell’altro. Ma così facendo,
agendo cioè un atteggiamento protettivo e paternalistico, si causano
all’altro tutta una serie di altri problemi quali per esempio:
- dipendenza
- impossibilità di imparare ad affrontare le conseguenze delle
proprie azioni34
- impossibilità ad apprendere autodisciplina e autocontrollo
- mancanza di stimoli e di abitudine a ricercare il proprio potenziale
creativo nell’elaborazione di soluzioni personali alle varie
situazioni.
34 In merito alle conseguenze delle proprie azioni, Gordon ritiene che se è deleterio per un educatore punire, cioè far vivere conseguenze negative “indotte” per un comportamento non adeguato (per le ragioni già illustrate nel § 2.2), è altrettanto deleterio smorzare le conseguenze negative “naturali” che possono derivare da tale comportamento (per esempio picchiare lo spigolo su cui un bambino piccolo ha battuto la testa). Secondo Gordon, infatti, da tali conseguenze l’educando può imparare senza che sia intaccato il clima della relazione educatore/educando.
89
Riassumendo graficamente quanto sopra esposto:
Area problematica per l’educando
Competenze per aiutare l’altro ad
aiutarsi da sé
Comportamenti accettabili
Area non problematica
Competenze e criteri per
migliorare il rapporto
Comportamenti non accettabili
Area problematica per l’educatore
Competenze per assumere la
responsabilità e l’iniziativa di risolvere un
problema legato alla relazione
Nei paragrafi successivi si analizzeranno le abilità specifiche da
applicare in ogni area.
90
4. L’ascolto attivo
Quando una persona è frustrata, perché non ha avuto successo nel
risolvere i suoi problemi e nel soddisfare i suoi bisogni, più facilmente
agirà dei comportamenti dannosi per sé e/o per gli altri e inaccettabili per
l’educatore.
L’ascolto attivo è lo “strumento principe” da mettere in pratica di fronte
a tali comportamenti, anche se poi può essere utilizzato efficacemente in
altre situazioni.
Gordon ritiene che tradizionalmente si sia impostata l’educazione
sull’idea che la privazione di un bisogno fortifichi il carattere, mentre la
sua soddisfazione lo indebolisca. Al contrario, egli afferma che il
risolvere con successo i propri problemi, il riuscire a soddisfare i propri
bisogni siano gli ingredienti fondamentali per ottenere individui
collaborativi, responsabili, premurosi e dotati di autodisciplina, cioè per
ottenere gli individui nei quali ogni educatore vorrebbe veder sviluppare
i propri utenti.
Per questo Gordon attribuisce grande importanza alle abilità che
l’educatore dovrebbe possedere per accompagnare gli educandi nella
risoluzione dei loro problemi.
91
La sua osservazione delle situazioni educative quotidiane e professionali
lo ha indotto a ritenere che talvolta, nonostante gli sforzi e le buone
intenzioni degli educatori, i loro tentativi di essere di aiuto sono
fallimentari e percepiti come tali dagli educatori stessi. Da parte degli
educandi, poi, c’è la sensazione di non essere ascoltati, di non essere
capiti e, di conseguenza, di non essere aiutati nella soluzione di un
problema.
4.1 La relazione di aiuto
Nella ricerca di strumenti capaci di rendere gli educatori in grado di
offrire reale aiuto, Gordon parte dall’ipotesi che la prima cosa che li
rende inefficaci è il non essere consapevoli (o l’esserne consapevoli, ma
il non metterlo in pratica) di un fatto basilare: una persona può essere
aiutata anche semplicemente ascoltandola. Gli educatori invece tendono
a fare al posto di.
Per Gordon, invece è chiaro che la situazione rappresentata nell’area
problematica per l’educando sia quella tipica della relazione di aiuto35 e
35 Con relazione di aiuto si intende un rapporto in cui almeno uno dei protagonisti cerca di promuovere nell’altro lo sviluppo, la maturazione, il funzionamento ottimale e la capacità di affrontare la vita. Può essere applicata a varie forme di interazioni che si dividono in due gruppi:
- relazioni a due (educatore/educando, counselor/cliente, insegnante/alunno… - relazione individuo-piccolo gruppo (leader/staff, insegnate/classe,
educatore/gruppo…)
92
come tale vada gestita, cioè secondo l’approccio centrato sulla persona di
Rogers.
Qui si inserisce il personale contributo di Gordon, rispetto al maestro
Rogers: egli trasferisce l’approccio dall’ambito terapeutico all’ambito
educativo e così facendo lo modifica adattandolo alle nuove necessità e
alle nuove sfide.
Secondo Gordon, le competenze di aiuto e di facilitazione rivelatesi
fondamentali per i terapeuti professionisti nel corso degli studi da lui
effettuati con Rogers ed altri colleghi all’Università di Chicago, lo sono
anche per gli educatori.
Le abilità richieste da Rogers al terapeuta sono i modi di essere già visti:
congruenza, accettazione ed empatia. Nella rielaborazione di Gordon, le
abilità richieste all’educatore vengono così riformulate:
1. Congruenza: è la capacità di riconoscere, chiamandolo per nome,
qualunque sentimento, emozione, bisogno si stia provando. La
congruenza è percepita dall’altro come rassicurante e la persona
congruente come degna di fiducia e affidabile.
2. Trasparenza: comunicazione senza ambiguità della persona che
l’educatore è. Per far questo è necessario che egli si liberi
dalla paura di doversi interrogare su se stesso,
dalla paura di perdere la fiducia dell’altro
93
dai preconcetti di ruolo
e che stia in continuo contatto con ciò che gli avviene dentro per
non generare confusione e disagio nell’altro.
3. Indipendenza: consapevolezza di essere abbastanza forte come
persona da restare indipendente e distinto da coloro che si desidera
aiutare. Tale consapevolezza implica il rispetto dei sentimenti e
dei bisogni propri, oltre che di quelli dell’altro. Ne consegue una
maggiore capacità di accettazione dell’altro, perché non si ha più
paura di “perdersi” nel suo mondo e nei suoi sentimenti.
4. Accettazione positiva e incondizionata: è il paradosso di
constatare che le persone accettate così come sono, desiderano
svilupparsi, crescere e cambiare per essere al meglio di ciò che
sono in grado, per mettere in atto tutte le proprie potenzialità. E’
importante per un educatore chiedersi in qualsiasi momento se è
davvero in grado di accettare il tutto della persona che ha di
fronte. Un’accettazione “condizionata”, infatti, impedirà all’altro
di sviluppare o cambiare gli aspetti di sé “rifiutati”, in quanto
rispetto a tali aspetti percepirà una minaccia proveniente
dall’educatore. D’altra parte, un educatore non è in grado di
accettare un aspetto di una persona se si sente minacciato dallo
stesso. La minaccia verso l’educando può essere eliminata,
sospendendo la tendenza al “giudizio”, positivo o negativo che sia.
94
La minaccia percepita dall’educatore può essere neutralizzata
nella consapevolezza della propria indipendenza36.
5. Empatia: la capacità di entrare nell’universo dei sentimenti e
delle concezioni dell’altro, vedendole dal suo stesso punto di vista.
Affinando tale capacità si perde sempre di più la tendenza a
valutare e giudicare.
6. Processo di cambiamento: la capacità di guardare all’altro come
ad un essere in sviluppo con modalità uniche e originali, diverse e
indipendenti da quelle dell’educatore.
La relazione di aiuto in ambito educativo si discosta da quella terapeutica
anche in quanto la persona non necessariamente si rapporta all’educatore
manifestando una richiesta di aiuto.
Quindi l’educatore, prima di intervenire, deve essere in grado, leggendo
eventuali segnali inviati dall’educando, di “diagnosticare la presenza” di
problemi37 che covano dentro e che possono andare da turbamenti
momentanei a difficoltà gravi e profonde.
Tali segnali possono essere:
non verbali: azioni, suoni, tono della voce, espressioni del volto,
aspetto fisico, cura di sé, abbigliamento…
36 Cioè l’indipendenza e l’accettazione incondizionata sono abilità strettamente correlate. 37 E’ ovviamente controproducente intervenire in assenza di problemi.
95
verbali: quello che viene detto, che però difficilmente comunica in
modo esplicito il vero stato d’animo e la vera condizione interiore.
Pertanto può essere necessario leggere fra le righe, ponendo
attenzione in particolare alla presenza nel discorso:
- di espressioni che comunicano resistenza ostile sia in modo
palese che in modo nascosto,
- delle cosiddette “domande che contengono un codice
insolito”38, cioè di quelle domande che si riferiscono a
qualcosa di ovvio, che sembrano fuori luogo o discordanti
rispetto a quello che si sa dell’educando, che sorprendono
per l’incongruenza. Esempi di tali domande possono essere
durante una lezione a scuola: ma dobbiamo proprio studiare
questa roba? la matematica è più importante della
letteratura? Ma bisogna studiare tanto per andare
all’università? Ma cosa si prova a morire…
Di fronte ai segnali dell’educando, l’educatore potrà rispondere
ascoltando sé stesso (di solito attivando risposte sullo stile delle dodici
barriere alla comunicazione – vedi § 3.1) o ascoltando l’altro. Solo in
quest’ultimo caso però sarà in grado di cogliere nell’altro l’esistenza di
38 Possono presentarsi anche sotto forma di constatazioni o affermazioni.
96
un problema e di disporsi interiormente ad applicare le abilità suggerite
da Gordon in questa situazione, cioè l’ascolto attivo.
4.2 L’abilità dell’ascolto attivo
Di fronte alla presenza nell’altro di un problema, l’educatore dovrà
prima di tutto disporsi in silenzio ad osservare e ad ascoltare.
La prima tecnica suggerita da Gordon è quella del Non intervento.
Essa consiste in una scelta consapevole di non intervenire in quello che
l’altro sta facendo, scelta che comunica accettazione in quanto evita di
mandare messaggi di disapprovazione rispetto alle azioni intraprese dalla
persona. In questo modo la persona potrebbe anche da sola riuscire a
trovare una soluzione alla propria difficoltà o potrebbe elaborare una
richiesta di aiuto spontanea ed esplicita.
Un passo in avanti è rappresentato dall’ascolto passivo o silenzio. Esso
comunica attenzione, attraverso i messaggi non verbali: contatto oculare,
posizione del corpo… Grazie all’accettazione veicolata dal silenzio e
dall’attenzione, la persona potrà esprimersi liberamente seguendo il
proprio pensiero.
Nel momento in cui la persona dovesse “bloccarsi” l’educatore potrebbe
intervenire con cenni di attenzione o espressioni facilitanti: che ne diresti
97
di parlarne? vorresti dirmi qualcosa di più rispetto a questo problema?
sono molto interessato a quello che stai dicendo! è interessante, continua.
Ma la tecnica per eccellenza nell’aiutare una persona a risolvere i propri
problemi è quella dell’ascolto attivo.
Ciò che caratterizza l’ascolto attivo, rispetto alle tecniche sopra indicate,
è il feed back (o riflessione del sentimento): esso consiste nella
riformulazione e nella restituzione di ciò che la persona ha detto per
consentirle :
- di percepire che non solo è stata ascoltata e accettata, ma è
stata anche capita,
- di chiarire meglio il suo pensiero a sé e all’altro, se ritiene
di non essere stata capita.
Un feed back completo dovrà comprendere contenuti e sentimenti39 ed
essere espresso in un tono di voce che comunica empatia. Esso inoltre
sarà formulato in seconda persona per dimostrare che ciò che si stava
ascoltando erano i sentimenti dell’altro e non i propri (centratura sul
cliente).
39 Pur esprimendo sia contenuti che sentimenti, la centratura dell’attenzione del feed back, come di tutto l’ascolto attivo, è sullo stato d’animo più che sulla situazione concreta in sé.
98
I passi dell’ascolto attivo possono essere sintetizzati come segue.
L’educatore:
I. Osserva e ascolta
II. Fa un’ipotesi
III. Comunica la sua impressione
IV. L’altro conferma (ed eventualmente approfondisce) o corregge
I primi due passi dell’ascolto attivo devono essere agiti nella
consapevolezza di come si svolgono i processi di comunicazione.
La persona emittente ha un sentimento, un bisogno da comunicare e li
codifica in un messaggio, che viene trasmesso attraverso i canali verbali
e non verbali.
Il ricevente decodifica il messaggio facendo un’ipotesi riguardo alla
situazione emotiva dell’emittente, ipotesi che risponde alla domanda:
cosa voleva farmi sapere veramente chi mi ha inviato il messaggio? Tale
domanda secondo Gordon implica un ascolto fatto con l’orecchio
interiore.
Fermandosi a questo punto, non c’è certezza né per l’emittente di essere
stato capito, né per il ricevente di aver capito: l’aggiunta dello sforzo di
feed back da parte del ricevente completa una comunicazione da ritenersi
effettivamente efficace in quanto consente, attraverso la conferma o la
99
rettifica da parte dell’emittente, la perfetta comprensione reciproca e
predispone all’approfondimento della comunicazione stessa.
4.3 Utilità dell’ascolto attivo
Se il mantenimento di una comunicazione efficace con l’educando è già
per l’educatore un risultato di notevole valore visto che la relazione è lo
“strumento di lavoro” di quest’ultimo, ovviamente ci sono altri
importanti risvolti positivi.
Primo fra tutti quello per cui l’ascolto attivo è stato introdotto: il favorire
nell’educando l’assunzione di responsabilità nella soluzione dei suoi
problemi.
Ripercorrendo ciclicamente i quattro passi dell’ascolto attivo, l’educando
chiarisce prima di tutto a se stesso la sua situazione. Il clima accettante
poi lo rende libero di esplorare alternative di soluzioni, per arrivare a
quella che sente più adatta a sé.
Sempre grazie all’ascolto attivo (e grazie all’assunzione di responsabilità
della propria situazione che ne deriva) la persona acquista anche:
fiducia in se stessa e nelle proprie capacità di affrontare la vita,
indipendenza,
capacità di analisi e di approfondimento,
100
capacità di entrare in contatto con i propri sentimenti, di esprimerli
e viverli come naturali,
disponibilità “di ritorno” ad ascoltare l’educatore e a collaborare
alla soluzione dei problemi di quest’ultimo40,
disponibilità alla relazione, grazie al clima di cura reciproca, di
affetto, di rispetto e di condivisione profonda.
4.4 Condizioni per l’utilizzo
L’ascolto attivo deve rispettare alcuni principi orientativi
• per non essere utilizzato a sproposito, aggravando i problemi e
compromettendo i rapporti,
• per non diventare una “tecnica” fredda e meccanica, cosa che gli
farebbe perdere la sua profondità a livello emotivo, la sua forza nella
condivisione di sentimenti e pensieri e, di conseguenza, la sua
efficacia.
Un educatore ricorrerà consapevolmente all’ascolto attivo quando:
ci sono segnali precisi che l’altra persona ha un problema o un
bisogno insoddisfatto
40 Questa disponibilità sarà fondamentale all’interno delle modalità suggerite all’educatore per risolvere i propri problemi (vedi § 5.2).
101
desidera sinceramente essere d’aiuto a quella precisa persona e in
quel preciso momento, ha la possibilità di farlo, in termini di
tempo a disposizione, tranquillità dell’ambiente…
sente di poter accettare completamente la persona, i suoi problemi
e i suoi sentimenti
sente di non desiderare di cambiare i sentimenti dell’altro e di
poter mantenere sempre la consapevolezza che i sentimenti
espressi sono transitori. Anzi, proprio l’ascolto attivo consente alla
persona di transitare fra stati emotivi.
è in grado di dedicare tutta la propria attenzione all’altro, senza
pensieri pressanti esterni alla questione da trattare
ha fiducia che l’altro abbia le capacità per risolvere il suo
problema
riesce a vedere l’altro come a se stante, riesce ad essere con l’altro
mentre vive il suo problema, senza però sentirsi responsabile nei
suoi confronti
sente di essere abbastanza distaccato dal problema da poter
accogliere qualsiasi soluzione la persona elabori
desidera comprendere con empatia come l’altro si vive dal suo
punto di vista.
102
Al contrario sarebbe molto controproducente se l’educatore cercasse di
utilizzare l’ascolto attivo quando:
fosse troppo coinvolto nell’altro o nel suo problema
fosse in qualche modo infastidito, irritato, ferito dal
comportamento o dai sentimenti dell’altro
vivesse una situazione personale di deprivazione di un bisogno41.
percepisse dentro di sé il desiderio di spingere la persona verso la
“soluzione giusta”
si accorgesse di cercare di reprimere i veri sentimenti che in quel
momento prova per l’altra persona
Stabilito che l’ascolto attivo è da usarsi in quel determinato momento, è
possibile introdurlo o, comunque, favorirlo utilizzando una serie di frasi.
Quando si è abbastanza sicuri della propria percezione e l’altro sembra
ricettivo, frasi tipo le seguenti possono essere utili ad introdurre l’ascolto
attivo. Si noti che sono tutte espresse in seconda persona per centrare
l’attenzione sull’altro.
o ti senti…
o dal tuo punto di vista…
41 Siccome comprendere un’esperienza rende possibile reinterpretare la propria, ascoltare opinioni molto discordanti da quelle personali può essere destabilizzante.
103
o nelle tue condizioni…
o a te sembra…
o mi stai dicendo…
o mi pare di capire che tu…
o vuoi dire che
Quando la situazione non appare del tutto chiara o l’altro non sembra del
tutto ricettivo all’ascolto attivo, si possono introdurre invece delle frasi
come le seguenti. Si noti che esse sono espresse in prima persona o in
modo impersonale, per non attribuire la “non chiarezza” all’altro:
o potrebbe essere che…
o mi chiedo se…
o non so se ho capito, ma…
o correggimi se sbaglio, ma…
o mi sembra che tu stia dicendo…
o non è che magari…
o vediamo se ho capito…
E’ molto importante non utilizzare le frasi di facilitazione in modo
prestabilito, per non infastidire l’altro dandogli l’impressione che si stia
“recitando un copione”.
104
Gordon è molto preciso in tal senso: l’ascolto attivo deve essere portato
avanti in modo sincero, autenticamente empatico, congruente con i
propri sentimenti; le frasi devono essere scelte e utilizzate dall’educatore
in modo spontaneo nel corso dell’ascolto, così da essere percepite come
coerenti e naturali in quel preciso momento.
L’ascolto attivo NON è una tecnica meccanica e non deve essere
percepita come tale42.
4.5 Errori da evitare
Come tutto il metodo Gordon, anche l’ascolto attivo richiede un po’ di
esercizio per essere utilizzato in modo opportuno ed efficace.
E’ possibile talvolta compiere degli errori che, secondo Gordon, sono
causati essenzialmente dall’incapacità di restare in contatto con i
sentimenti immediati dell’altro o dall’incapacità di tenere separati i
propri sentimenti dal messaggio ricevuto, introducendo di conseguenza
in qualche modo nel feed back interpretazioni personali.
Partendo come esempio, da un messaggio di un ragazzo del tipo: “Non
riesco a capire perché Andrea vuole sempre vincere, qualsiasi gioco si
faccia”, fra gli errori di feed back più comuni si possono evidenziare:
42 Si noti come sempre Gordon puntualizzi l’importanza non solo di ciò che l’educatore percepisce al suo interno, ma anche di come comunicare questo stato interiore in modo esplicito, inequivocabile e coerente.
105
esagerare ampliando l’intensità dell’emozione espressa. Sei molto
arrabbiato con Andrea!
aggiungere ampliando o generalizzando il senso di quanto
espresso. Andrea ti è proprio antipatico
anticipare prevenendo i pensieri dell’altro. Vorresti che non
giocasse più nel tuo gruppo
analizzare interpretando le motivazioni sottostanti. Forse sei
arrabbiato perchè nemmeno tu sopporti di perdere.
ridimensionare diminuendo l’intensità delle emozioni espresse.
Ma dai, non è poi così fastidioso!
omettere riducendo o ignorando parte dei fatti. Non hai voglia di
giocare oggi.
restare indietro non stando al passo con la comunicazione
dell’altro. Già, me lo dicevi prima che oggi va tutto storto
ripetere a pappagallo ridicendo quasi parola per parola il
messaggio dell’altro. Non capisci perchè Andrea voglia sempre
vincere.
Un rimando di ascolto attivo potrebbe essere: Ti sembra proprio che
Andrea voglia sempre vincere qualunque gioco facciate?
106
4.6 Altri utilizzi dell’ascolto attivo
A parte introdurre l’ascolto attivo allo scopo di aiutare una persona a
risolvere i propri problemi o a soddisfare i propri bisogni, tale ascolto
può essere efficace anche per gestire altre situazioni specifiche, quali:
1. la necessità di aiutare l’educando a fronteggiare forti emozioni, in
quanto l’ascolto attivo favorisce il transitare fra stati d’animo
attraverso una specie di liberazione catartica (come si è accennato
in precedenza).
2. alternativa efficace alla lode. Come si è visto paragrafo 2.2,
Gordon sconsiglia l’utilizzo metodico della lode. Invece
rispondere con l’ascolto attivo, in una situazione in cui l’educando
ha fatto qualcosa di positivo o magari chiede un parere rispetto
alla propria azione, consente alla persona di sostituire la
valutazione esterna con la propria e, in conseguenza, di andare a
ricercare le motivazioni intrinseche di un’azione anziché quelle
estrinseche.
3. il mediare conflitti fra educandi, offrendo un modello di ascolto
attento e rispettoso delle esigenze dell’altro.
4. il fronteggiare le resistenze all’apprendimento. Tali resistenze
possono assumere una forma che va dalla totale passività, al
palese rifiuto di collaborare. In quanto le resistenze
all’apprendimento di solito sono indice di un problema irrisolto, si
107
può ricondurre la situazione all’area della finestra del
comportamento problematica per l’educando.
5. il favorire nelle persone dipendenti il cammino verso
l’indipendenza. Infatti mettendo al centro dell’attenzione la
persona, offrendole l’opportunità di sperimentarsi, facendole
sentire la fiducia nelle sue capacità di affrontare la vita e i
problemi, le si offre la possibilità di aumentare l’autostima, di
migliorare la fiducia nei propri sentimenti.
108
5. L’autorivelazione
L’autorivelazione è lo “strumento principe” che Gordon suggerisce di
utilizzare per gestire le situazioni nelle quali l’educatore ha dei problemi
a causa del comportamento dell’educando.
In modo analogo all’ascolto attivo, anche l’autorivelazione può essere
efficacemente impiegata in altri ambiti oltre a quello sopra indicato,
ambiti che non devono però rientrare nell’area della finestra del
comportamento problematica per l’educando.
L’assunto di fondo del Metodo è che un educatore efficace è un
educatore assertivo, cioè una persona sincera ed onesta nella
comunicazione e nell’azione, una persona che dà valore alla propria
persona e ai propri bisogni e che per soddisfare tali bisogni prende
l’iniziativa.
In tal senso, l’assertività é un valore positivo, perché solo un educatore
che abbia soddisfatto i propri bisogni, può darsi all’altro veramente e
condividere con lui risorse, energie ed esperienza. Ne consegue che
assertività e capacità di aiuto procedono di pari passi, in modo
interdipendente.
La chiave dell’assertività è l’autorivelazione: non solo è necessario
conoscere i propri valori, bisogni e desideri, ma è essenziale comunicarli
109
e condividerli con gli altri. La soddisfazione delle nostre esigenze,
infatti, nella maggior parte dei casi passa attraverso le relazioni
interpersonali, attraverso la comprensione e la collaborazione degli altri.
Si può definire l’autorivelazione come una comunicazione che descrive
l’Io di chi parla, le sue esperienze interiori, i suoi pensieri, le sue
reazioni, le sue idee, i suoi sentimenti, cioè come una comunicazione che
fa sapere agli altri quello che la persona prova e in quale situazione si
trova.
Per il fatto di essere costituita da messaggi che espongono il proprio
mondo interiore, quello che “si è veramente”, l’autorivelazione è tanto
più difficile, quanto più c’è la possibilità di andare incontro alla
disapprovazione altrui43.
Certamente però è altrettanto vero, e ognuno lo può osservare
nell’esperienza di tutti i giorni, che le persone assertive sono spesso
molto amate e ricercate, proprio perché sentite come “persone che ci
sono”, chiare, oneste, affidabili, che non riservano brutte sorprese.
43 Per i rischi e i vantaggi dell’autorivelazione si veda il § 5.3
110
I messaggi di autorivelazione sono definiti da Gordon Messaggi in
Prima Persona (MPP). Essi sono messaggi:
- autentici, onesti e congruenti, in quanto rivelano la vera natura e
l’intensità dei pensieri e dei sentimenti
- chiari, comprensibili e pertinenti, non mascherati da un linguaggio
indiretto o vago
In quanto dichiarazioni esplicite, i MPP aiutano gli altri a conoscere
meglio chi parla, a capire il suo modo di vivere. Aiutano anche a capire
che l’altro non è un “ruolo”, ma un essere umano con desideri, speranze,
bisogni: tale consapevolezza in un educando è molto utile perchè lo
rende più disponibile al dialogo e alla verbalizzazione del suo mondo
interiore, cioè lo rende più disponibile ad una relazione profonda e
significativa con l’educatore.
Dal punto di vista del linguaggio, una dichiarazione, una rivelazione del
Sé non può che essere espressa in prima persona: come nella relazione
d’aiuto si doveva usare il Tu, per centrare l’attenzione sull’altro e per
lasciare all’altro la propria responsabilità, in questo caso si usa l’Io per
centrare l’attenzione su di sé e per prendersi le proprie responsabilità.
I MPP sono anche detti messaggi di responsabilità, infatti la persona
che li esprime:
111
si assume la responsabilità della propria situazione e del proprio
stato d’animo, facendone un’analisi ed esprimendo all’altro
sinceramente i risultati di tale analisi;
non scarica sull’altro colpe o meriti, attraverso le dodici barriere
alla comunicazione (espresse in seconda persona!),
lascia all’altro la propria parte di responsabilità, cioè quella di
modificare il proprio comportamento per venire incontro alle
esigenze espresse, e il tempo di pervenire alla maturazione di una
decisione interiore, cioè il tempo per riuscire ad esercitare
l’autoregolazione. In questo modo l’altro, invece di sentirsi
risentito o arrabbiato come succede con i messaggi in seconda
persona, si sente considerato e utile e di conseguenza più
disponibile e collaborativo. In questo processo di crescita
educativa, il divieto o la sanzione si collocano nella responsabilità
dell’educatore di porre limiti a comportamenti che danneggiano
anche l’intera comunità, ma non sono l’ultima parola perché la
porta dell’ascolto del disagio dell’altro non viene mai chiusa.
La struttura di un buon MPP comprende tre parti:
112
1. Descrizione del comportamento dell’altro. Tale descrizione
deve essere un rapporto obiettivo dei fatti44. Purché non si cada in
interpretazioni o giudizi, questa parte del messaggio può essere
espressa con il “tu”, in quanto è il comportamento dell’altro che si
sta illustrando.
2. Descrizione dell’effetto tangibile e concreto di un
comportamento su chi lo subisce. E’ importante che gli effetti
siano “concreti e tangibili”45, in quanto l’altro ha bisogno di
comprendere esattamente nella “pratica” quali siano le
conseguenze delle proprie azioni. Infatti le conseguenze
“teoriche”, che riguardano i concetti di giusto o sbagliato, che
riguardano genericamente il vissuto di chi subisce l’azione,
possono essere messi in discussione e non condivisi. Il MPP perde
così la sua capacità di colpire nel segno.
Di conseguenza, l’educatore che deve imparare a costruire questa
parte dei MPP, deve necessariamente imparare a distinguere i
comportamenti che non hanno effetti tangibili su di lui, da quelli
44 Si presti attenzione a quelli che si possono definire “messaggi in seconda persona camuffati”, cioè a quei messaggi che pur espressi in prima persona comunicano valutazioni. Es: “quando scopro che non posso fidarmi di certe persone…” 45 Si può ritenere che un comportamento abbia degli effetti tangibili su di una persona quando:
costa in termini di tempo, energie, denaro impedisce di fare qualcosa che si desidera o che si deve fare procura malessere fisico provoca perdita parziale o completa di un oggetto importante dal punto di vista
economico o sentimentale
113
che li hanno, perché il MPP stesso ha senso solo per questi ultimi.
3. Descrizione dei sentimenti di chi subisce l’azione. In questa
parte del messaggio si dichiarano i sentimenti, conseguenti
all’effetto tangibile e concreto del comportamento. Qui sta il nodo
cruciale: la sequenza comportamento-effetto-sentimento centra
l’attenzione sul comportamento e non sulla persona, per cui anche
se il messaggio dovesse riferirsi ad un comportamento non
accettabile, la disapprovazione verrà recepita come solo
riguardante il comportamento stesso e non la persona46.
Nonostante la sequenza logica sopra indicata sia importante, è possibile
formulare un MPP ponendo le tre parti in qualsiasi ordine o omettendone
una. Il MPP resta comunque un messaggio che ha una forte probabilità di
essere recepito come una dichiarazione aperta e sincera, che apre la
strada alla conoscenza reciproca ed è pertanto da preferirsi ai messaggi
in seconda persona o indiretti.
I MPP possono essere raggruppati in quattro tipologie, da utilizzare in
situazioni diverse:
1. positivi
2. dichiarativi
46 Al contrario di quanto succede con il linguaggio del rifiuto (§ 3.1, pag. 65)
114
3. preventivi
4. di confronto
5.1 I messaggi in prima persona per l’area non
problematica
I primi tre MPP sopra indicati si utilizzano nell’area non problematica.
Il loro scopo è quello di estendere l’area stessa, riducendo la possibilità
di conflitti e tensioni nella relazione.
MPP dichiarativi
E’ la forma più elementare di autorivelazione e consiste semplicemente
di una “dichiarazione” agli altri di opinioni, idee, valori, preferenze ed
avversioni, sentimenti, pensieri, reazioni, atteggiamenti....
L’utilità è quella di offrire agli altri una conoscenza “profonda” di chi
parla.
MPP preventivi
Attraverso tali messaggi:
si mette l’altro al corrente di bisogni il cui soddisfacimento
richiederà in futuro la sua collaborazione, il suo sostegno o la sua
azione diretta
115
si anticipa quello che si desidera fare o che si desidera venga fatto
dall’altro.
Lo scopo di tali messaggi è ovviamente quello di prevenire l’insorgere di
conflitti e problemi, in quanto l’esplicitazione delle esigenze future rende
più probabile che l’altro modifichi i propri programmi o i propri
comportamenti in modo da non ostacolare chi le esprime.
Gordon naturalmente suggerisce di includere nel messaggio le ragioni
del bisogno espresso, per aumentare la disponibilità dell’altro e per non
sembrare aggressivi, pretenziosi e autoritari.
I MPP preventivi hanno anche altri effetti positivi, prima di tutto per la
persona che li esprime. Infatti essi consentono all’emittente di:
- mantenere la consapevolezza e il controllo dei propri bisogni e
sentimenti,
- assumersi nel presente la responsabilità dei progetti futuri.
Invece essi consentono al destinatario di:
- prepararsi psicologicamente ad eventi e azioni future,
- modellare le abilità comunicative verso la verbalizzazione dei
propri progetti futuri, cosa che consente di chiarirli prima di tutto
a se stesso.
116
MPP positivi
Gordon sottolinea l’importanza per gli educatori di esprimere non solo i
sentimenti di non accettazione (cosa che viene anche troppo spontanea!),
ma anche quelli di accettazione utilizzando i MPP positivi.
L’autorivelazione di sentimenti di accettazione, quali apprezzamento,
amore, approvazione, piacere, affetto, arricchisce notevolmente i
rapporti, li rende più piacevoli, affettuosi e collaborativi, consente
all’altra persona di aumentare l’autostima e la fiducia in se stessa.
Questo è tanto più vero nel caso di MPP positivi diretti dall’educatore ai
bambini più piccoli. Questi ultimi, infatti, con la loro fragile autostima e
il loro desiderio di “aiutare” sembrano trarre particolare vantaggio da tali
messaggi.
Per essere credibili ed efficaci, i MPP positivi devono essere
spontanei e autentici, non devono cioè essere pianificati, ma
devono esprimere il “qui ed ora” dei reali sentimenti che si
provano,
devono riflettere un’accettazione incondizionata,
devono essere privi di motivazioni nascoste, cioè non devono
essere espressi nell’intento di cambiare l’altra persona. In tale caso
infatti, essi sarebbero percepiti come ambigui e la persona che li
esprime come non sincera.
117
I messaggi positivi possono sostituire efficacemente la lode: per
l’educando è significativo sentirsi dire chiaramente i sentimenti positivi
dell’educatore nei suoi confronti, senza sentirsi nello stesso tempo
giudicato o invitato, più o meno esplicitamente, a cambiare.
E il paradosso è che l’educando si sente più stimolato a cambiare e
migliorarsi proprio grazie alla fiducia e al rispetto che gli sono
dimostrati.
5.2 I Messaggi in prima persona per l’area problematica
Come si è visto, l’area dei comportamenti non accettabili per l’educatore
consiste di situazioni in cui egli ha dei problemi a causa degli effetti che
i comportamenti stessi provocano su di lui.
In tali situazioni egli rileverà in sé gli stessi sintomi che cerca di
individuare negli educandi per capire se questi ultimi hanno dei problemi
e cioè noia, frustrazione, risentimento, rabbia, distrazione, irritazione,
tensione, mal di testa… L’educatore dovrà allora assumersi la
responsabilità dei sintomi rilevati e prendere l’iniziativa per risolvere i
problemi che li causano. Può agire in tre direzioni, cioè modificare:
1. se stesso, valutando che la non accettazione di un comportamento
deriva da un suo problema interno
118
2. l’ambiente, ridefinendo lo spazio fisico e il tempo della relazione
educativa a seconda del tipo di intervento educativo, della
personalità dell’educando, o delle caratteristiche del gruppo.47
3. il comportamento indesiderato
In questo paragrafo viene analizzata la terza opzione.
Il cercare di modificare un comportamento altrui non significa giudicare
l’altro e dargli degli ordini, ma significa mettere in atto con l’altro un
confronto.
Il confronto è un atto coraggioso e responsabile con cui una persona dice
ad un’altra che il suo comportamento sta interferendo con i propri diritti
e le proprie esigenze legittime. Tale atto è motivato dall’esigenza di
autodifesa e autoconservazione.
In quanto atto libero di iniziativa personale, il confronto deve avvenire
attraverso un messaggio in prima persona, nel quale la persona si prende
la responsabilità di far rispettare i propri bisogni e lascia all’altro la
responsabilità di decidere se e come rispettare tali bisogni.
Tale messaggio ha la struttura tipica dei MPP illustrata all’inizio di
questo capitolo ed è detto MPP di confronto.
47 La modifica dell’ambiente verà trattata in modo più approfondito nel § 8.4. Tale tecnica infatti è particolarmente utile con i bambini e nella scuola.
119
Particolare attenzione deve essere data in questo caso nello strutturare la
comunicazione, per non cadere nei messaggi in seconda persona
camuffati o per non veicolare messaggi valutativi, di tipo accusatorio, di
scarico di responsabilità.
Oltre alle comuni caratteristiche delle tre parti del messaggio, sarà quindi
essenziale ricordare anche quanto segue:
1. Fatti: è necessario illustrarli utilizzando quando e se, perché è
particolarmente importante in questo caso che l’educando capisca
che è un suo particolare comportamento a non essere accettato e
non tutta la sua persona.
2. Effetti del comportamento: devono essere esplicitati in modo
preciso: una disapprovazione generica lascia l’altro
nell’incertezza, nell’impossibilità di capire da dove cominciare per
venire incontro ai bisogni di chi parla.
3. Sentimenti: prima di essere espressi devono essere analizzati in
modo dettagliato per identificare quali fra essi siano i sentimenti
primari determinati dal problema.
Fra i sentimenti, la collera necessita di una trattazione a parte.
Ovviamente se la collera viene espressa in un messaggio in prima
persona (es. quando fai…sono arrabbiato…perché…), tale messaggio
viene comunque recepito come valutazione negativa sulla persona e
interpretato come: “sono arrabbiato con Te”, “Tu mi hai fatto
120
arrabbiare”. La collera infatti è una manifestazione di solito piuttosto
intensa, che può spingere a desiderare di vendicarsi sulla persona origine
del disagio, scaricandole la colpa o in qualche modo ferendola.
Gordon suggerisce di imparare a controllare la collera, imparando a
risalire al sentimento primario che l’ha generata.
La collera, infatti, è un’emozione secondaria, derivante da sensazioni
varie: paura, delusione, frustrazione, sensazione di ingiustizia…
La collera può anche essere vista come difesa della persona rispetto alla
difficoltà di mettersi in discussione e di assumersi le sue responsabilità in
rapporto al comportamento non accettato.
In ogni caso, Gordon afferma che quello che deve essere espresso nel
MPP di confronto è il sentimento primario, cioè l’unico sentimento
realmente coerente con gli effetti concreti di un comportamento e il solo
veramente credibile agli occhi di chi agisce tale comportamento.
Il sentimento primario, essendo fra l’altro meno intenso della collera,
consente di vedere la situazione problematica nella giusta prospettiva e
consente di assumersi la propria parte di responsabilità nella ricerca di
una soluzione.
Formulare i MPP di confronto nei termini sopra descritti, equivale a
mandare all’educando delle richieste di aiuto, che
121
- non scaricano su di lui la responsabilità della situazione, ma la
mantengono dalla parte dell’adulto
- lo fanno sentire attivo e utile in quanto unico depositario della
possibilità di fare qualcosa per far stare meglio l’educatore
- lo fanno sentire uguale all’educatore: due esseri umani, entrambe
con le proprie esigenze, che si possono aiutare reciprocamente.
In questo stato d’animo, l’educando sarà più disponibile a cambiare il
proprio comportamento nella direzione desiderata dall’educatore, a
mettere in campo e a sperimentare tutte le sue capacità creative in tal
senso.
Da un punto di vista teorico, prevedere tale disponibilità significa
presupporre che la persona sia naturalmente buona, attiva, cooperante
(psicologia umanista). Da un punto di vista pratico, tale disponibilità sarà
tanto maggiore, quanto più l’educatore si sarà mostrato accettante nei
confronti dell’educando in tutte le situazioni, ma particolarmente in
quelle problematiche per quest’ultimo (vedi nota 6, Capitolo 4)
5.3 Benefici e rischi dell’autorivelazione
Nei paragrafi precedenti, sono stati di volta in volta illustrati i benefici
dei diversi MPP.
In generale si può affermare che i benefici per l’educando sono:
- aumento dell’autostima
122
- responsabilizzazione
- interiorizzazione delle conseguenze delle proprie azioni48
- fiducia nelle proprie capacità
- considerazione dell’educatore come di una persona e, di
conseguenza, maggiore disponibilità ad una relazione profonda
con lui
- modelling: cioè l’educando impara ad autorivelarsi attraverso i
MPP avendo appreso un modello di:
comportamento: è legittimo dire di desiderare qualcosa,
comunicazione: è possibile esprimere i propri sentimenti
senza colpevolizzare, minacciare o mortificare l’altro
Ma i benefici dei MPP sono prima di tutto per l’educatore che li esprime.
Egli infatti utilizzandoli si accorge che:
- le sue esigenze sono più facilmente rispettate e nello stesso tempo
il suo intervento è più efficace per la crescita e lo sviluppo
dell’educando,
- la sua autostima aumenta, perchè egli si sente migliore, come
persona e come professionista, ed anche più forte e responsabile,
grazie alla sua maggiore apertura, chiarezza e sincerità,
48 La consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni porta a sviluppare autodisciplina e autocontrollo.
123
- la consapevolezza di sè aumenta. Infatti l’educatore, attraverso
l’espressione del proprio essere agli altri, entra maggiormente in
contatto con se stesso, con i propri sentimenti, valori opinioni,
esigenze e, di conseguenza, con la propria capacità di tolleranza e
di apertura all’altro.
- l’esprimere i sentimenti invece di reprimerli ha su di lui lo stesso
effetto catartico che l’ascolto attivo ha sull’educando,
- la relazione educativa migliora perché l’autorivelazione:
consente agli altri una migliore comprensione dell’educatore
stesso, delle sue opinioni, dei suoi sentimenti, dei suoi
pensieri e valori, prevenendo, di conseguenza, anche i
conflitti,
favorisce l’intimità della relazione educativa stessa, la
fiducia e il rispetto reciproci49.
Come in tutte le scelte, la decisione di utilizzare i MPP oltre ai benefici
può però comportare dei rischi: ciò che conta quindi è valutare se i
benefici potenziali per sé, per gli altri e per le relazioni, valgono il
rischio che si corre.
49 Grazie al fatto, citato sopra come modelling, che la sincerità e la congruenza dell’autorivelazione diventano un modello per l’altro, sono per così dire “contagiose”.
124
In questo caso, a fronte di benefici sia per l’educatore che per
l’educando, i rischi sono per lo più per l’educatore.
Il rischio principale per quest’ultimo è, soprattutto all’inizio, quello di
esporsi. Tale rischio è legato alla possibilità del rifiuto dell’altro, tanto
più dolorosa in quanto ciò che viene eventualmente rifiutato è il Sé più
profondo e autentico.
Un altro rischio è quello della messa in discussione di se stesso:
l’autoanalisi necessaria per essere e per esprimere il Sé autentico, può
portare alla consapevolezza di doversi e/o volersi modificare50. In questo
caso si potrebbe anche vivere il rischio come opportunità di crescita
personale, che però, come ogni fase di sviluppo, porta con sé la sua
sofferenza e le sue incognite rispetto al risultato.
Un altro rischio è quello che un messaggio di confronto può, per il
meccanismo di modelling, essere in un'altra situazione rivolto
all’educatore stesso: egli cioè deve sentirsi disposto ad accettare “sulla
sua pelle” la possibilità di questo confronto. Rispetto a questo rischio è
messa in discussione la congruenza dell’educatore e della sua scelta del
Metodo di Gordon come metodo educativo.
50 In questo modo l’educatore mette in atto contemporaneamente due delle possibilità di azione viste sopra per risolvere una situazione per lui problematica: la modifica del comportamento dell’altro e la modifica di se stesso.
125
L’essere disposti a correre i tipi di rischi sopra esposti, dipende
essenzialmente
- dalla fiducia che si sente di poter riporre nell’altro
- dalla possibilità reale che il rischio si traduca in un qualcosa che
avvicini all’obiettivo educativo che ci si pone.
Se tutto quanto sopra esposto in termini di benefici conseguenti
all’utilizzo dei MPP, sembra spingere nella direzione di accettare in
generale il rischio, Gordon comunque precisa che di volta in volta, nelle
diverse occasioni, l’educatore dovrà “fare quello che gli sembra
opportuno” per sé e per la realtà circostante.
Gordon cioè risponde alla domanda “bisogna sempre dire quello che si
pensa a tutti e in qualsiasi occasione?”, con una regola empirica:
se un MPP avvicina allo scopo educativo che ci si prefigge, allora
bisogna esprimerlo,
se non avvicina, non si deve esprimerlo,
se si ha un dubbio, conviene comunque rischiare confidando che
l’onestà e l’umanità dimostrati riescano a smuovere qualcosa
nell’altro.
Il correre il rischio vale la pena, secondo Gordon, perché i MPP sono sì
efficaci abilità di comunicazione, ma sono anche e soprattutto qualcosa
di più: sono la nuda verità dei fatti e quindi un valore potente da
incarnare per se stessi e per gli altri.
126
6. Il cambio di marcia
Nel paragrafo precedente si sono dati per scontati due fatti, in quanto di
solito essi si verificano come conseguenza di una comunicazione
efficace tramite i MPP di confronto:
L’altro non si risente del MPP
L’altro può e vuole cambiare il proprio comportamento per venire
incontro alle esigenze di chi parla
Talvolta però può succedere che anche il miglior MPP di confronto causi
all’altro dispiacere, sorpresa, imbarazzo oppure può succedere che il
comportamento che si richiede di cambiare sia per l’altro in qualche
modo importante.
Di conseguenza un educatore, quando invia un MPP di confronto, deve
prestare attenzione ai messaggi di risposta dell’altro: se tali messaggi
indicano in modo più o meno esplicito resistenza, reazioni di polemica,
atteggiamenti di difesa, di colpa, di diniego, di malessere o offesa, può
essere controproducente inviare MPP sempre più forti che finirebbero
per creare tensione nella relazione e risentimento. Infatti, in tale
situazione i MPP potrebbero essere vissuti dall’educando allo stesso
modo dei messaggi in seconda persona, cioè come costrizioni o
imposizioni mascherate. La resistenza che ne seguirebbe potrebbe invece
127
essere vissuta dall’educatore come disinteresse, mancanza di
disponibilità nei suoi confronti.
Se l’educatore legge nell’altro sintomi di disagio, deve secondo Gordon
cambiare marcia, cioè, rendendosi conto che l’educando ha dei
problemi a causa del MPP, deve mentalmente spostare la situazione
nell’area della finestra problematica per quest’ultimo ed applicare
l’abilità del caso, cioè l’ascolto attivo: in questo modo l’atteggiamento
dell’educatore passerà da invio/assertività ad ascolto/comprensione.
In un dialogo, il passaggio fra MPP e ascolto attivo può avvenire più
volte. Tale passaggio fa capire all’altro che l’educatore
non è lì per soddisfare il suo bisogno a spese dei bisogni degli
altri
capisce ed accetta le reazioni altrui
capisce ed accetta la difficoltà del cambiamento
Il cambio di marcia di solito dissolve i sentimenti di resistenza al MPP di
confronto e, consentendo all’altro di risolvere il suo problema, favorisce
il pervenire a quella che può essere definita una soluzione di
compromesso, cioè ad una soluzione soddisfacente per tutte le parti.
E’ importante sottolineare il fatto che si pervenga ad una soluzione che
comunque risolve i problemi di tutti: l’educatore prende in
128
considerazione il problema dell’altro abbandonando per un attimo la
soluzione del proprio, ma questo non significa che cade nel
permissivismo, significa che accetta di percorrere una strada diversa.
Se però nemmeno il cambio di marcia è sufficiente a risolvere i problemi
di tutte le parti, ci si trova allora in una situazione di conflitto.
Il prossimo capitolo è dedicato alla soluzione di tali situazioni.
129
7. Risolvere i conflitti
In base al modello di rapporto interpersonale adottato da Gordon, con
conflitto si intende uno scontro, un contrasto tra due o più persone che
può verificarsi in due forme:
a. il comportamento di uno interferisce con le esigenze dell’altro in
modo tangibile e concreto
b. i valori dei singoli individui sono discordanti.
I conflitti fra le persone in tutti gli ambiti sono esistiti ed esisteranno
sempre, perché sono inevitabili. Anzi una relazione che non presenti mai
conflitti, può suggerire che per qualche motivo una delle parti sia troppo
spaventata per sfidare l’altra.
Non si può d’altra parte pensare che la causa del conflitto sia da
attribuire ad una sola delle parti in relazione: il conflitto è un problema
comune perché coinvolge entrambe le parti. La sua causa vera è da
cercare nel fatto che ciascuno è convinto che ciò che l’altro fa o non fa
gli rende la vita difficile, non rispetta le sue esigenze.
Secondo Gordon, di per sé un conflitto non è dannoso: ciò che lo può
rendere distruttivo è il metodo usato per risolverlo o il non risolverlo
affatto.
130
Una soluzione che abbia come scopo la vittoria di una parte sull’altra,
renderà la relazione sempre più difficile, perché la parte perdente vivrà
sentimenti di frustrazione, risentimento e rabbia nei confronti dell’altra.
Al contrario una soluzione che si basi sulla collaborazione conseguente
alla consapevolezza che il problema è di tutti creerà un’atmosfera in cui
il conflitto possa manifestarsi, ma anche essere risolto in modo creativo
ed efficace per tutti.
A partire dalle osservazioni sopra riportate, Gordon non si è prefissato
di eliminare il conflitto, cosa impossibile, ma di:
ridurlo
definire un modo sano, costruttivo e democratico di gestirlo
L’utilizzo dell’ascolto attivo e dei MPP contribuisce a ridurre le
possibilità di conflitto sia risolvendo in modo “preventivo” alcune
difficoltà che potrebbero insorgere51, sia creando un clima di apertura
reciproca, di condivisione, di affetto, di fiducia.
Invece per gestire i conflitti, Gordon suggerisce processi diversi a
seconda della forma in cui i conflitti stessi si presentano.
51 Cioè queste abilità ampliano l’area non problematica
131
7.1 Conflitti di soluzioni
Pensando ad una situazione di conflitto fra educatore ed educando,
l’immagine che automaticamente si visualizza è quella dell’educatore
che, non condividendo le idee dell’educando, cerca di contrastarle e
dell’educando che si oppone al volere dell’educatore52.
Secondo Gordon, la situazione reale non è in questi termini: il conflitto
non riguarda, le idee, il volere, in una parola i bisogni, delle due parti,
ma riguarda le soluzioni che le due parti hanno trovato per soddisfare i
propri bisogni.
Come già visto in precedenza, uno stesso bisogno può essere soddisfatto
in modi diversi: sono questi modi che entrano in conflitto.
Se ciascuno si attacca al proprio modo: “voglio fare a modo mio e ho
intenzione di lottare per riuscirci”, se ciascuno vive il conflitto come una
questione di principio, il conflitto diventa una lotta di potere e, di
conseguenza, non può aver soluzione, se non quella che una delle due
parti utilizzi il suo potere sull’altra. Succede così che uno vince e uno
perde
Al contrario secondo Gordon, se le due parti si confrontano sui rispettivi
bisogni che hanno motivato la scelta delle soluzioni conflittuali, possono
scoprire che questi sono sempre compatibili, cioè che è sempre possibile
escogitare insieme una soluzione che rispetti i bisogni di ciascuno. Non è
132
necessario che la soluzione trovata abbia valore universale, è sufficiente
che essa sia soddisfacente per le parti in causa: essa sarà cioè una
soluzione personale e creativa.
In pratica succede che l’accettazione dei bisogni personali compatibili,
andando a sostituire la non accettazione delle soluzioni incompatibili,
crea il clima e le premesse per l’elaborazione della soluzione.
Ma se la soluzione va bene per tutti, allora tutti vincono insieme e
nessuno perde.
Questo è proprio il concetto ispiratore del Metodo di Gordon: tutti hanno
il diritto di soddisfare i propri bisogni, cioè tutti devono vincere e
nessuno deve perdere.
Nella pratica della soluzione dei conflitti, i concetti teorici sopra esposti
si traducono secondo Gordon in tre metodi:
Metodi I e II53: metodi basati sul potere, sulla logica del vinci e
perdi. Per abitudine, le persone ritengono che tali metodi siano le
uniche due strade percorribili in presenza di un conflitto.
Metodo III: metodo basato sulla cooperazione, sulla presa di
decisioni democratiche, sulla logica del vincere insieme. Alle
52 Quest’immagine può ovviamente essere estesa al conflitto fra due persone qualsiasi. 53 Tale notazione viene utilizzata da Gordon per sostituire i termini, talvolta ambigui per l’uso e l’abuso, di autoritario e permissivo
133
persone deve essere detto, spiegato che esiste questa terza via e in
cosa differisce dalle predenti54.
Metodo I
Quando si verifica un conflitto, l’educatore che applichi questo metodo
ha una sua soluzione “vincente”, che spera sia accettata dall’educando.
Se questo oppone resistenza, l’educatore prima cerca di convincere, poi
minaccia l’uso del potere o lo usa effettivamente, per imporre sull’altro
la soluzione rispetto a cui non è d’accordo.
La situazione può essere schematizzata come segue
Flusso di risentimento
54 Gordon, nel corso della propria esperienza di formatore, si è reso conto che poche persone sono consapevoli di applicare un “metodo” ben preciso mentre risolvono un conflitto: esse di solito applicano il metodo I o II perché così hanno visto fare, così è stato fatto con loro. E’ raro inoltre che esse riconoscano che il comportamento dell’altro all’interno del conflitto possa essere direttamente connesso al metodo da loro usato per risolvere il conflitto stesso. Per questi motivi è importante spiegare gli effetti dei primi due metodi: tale spiegazione secondo Gordon assume il ruolo di una rivelazione che apre la strada alla comprensione del significato del Metodo III.
educatore
educando
Soluzione accettabile per
l’educatore
134
Le conseguenze sull’educando saranno, da un punto di vista psicologico
(sentimenti, reazioni, coping modelling…), le stesse che si verificano
con il metodo educativo punitivo.
Si può aggiungere in particolare rispetto alla soluzione del conflitto:
- scarsa motivazione dell’educando a metterla in pratica perché non
la condivide o comunque la sente come imposizione
- necessità per l’educatore di continuare a utilizzare il potere per far
sì che la sua decisione sia rispettata, con conseguente perdita di
tempo ed energie, deterioramento progressivo della relazione
educativa
- trasgressione da parte dell’educando non appena la soglia dell’uso
del potere si abbassa (es. in assenza dell’educatore).
E’ comunque possibile che in determinate situazioni l’uso di questo
metodo sia l’unica strada percorribile:
situazioni di emergenza (es. butta immediatamente quel
coltello!)
quando si ha a che fare con moltissime persone (La festa è
finita, tutti a casa)
Bisogna tenere conto però che in qualsiasi caso il perdente proverà
risentimento ed ostilità verso il vincitore
135
Metodo II
Anche l’educatore che applichi questo metodo ha una sua soluzione
“vincente”. Tutto si svolge come per il Metodo I: se l’educando non
accetta la soluzione, l’educatore cerca di convincere e a questo punto si
invertono i ruoli: l’educando minaccia e l’educatore cede.
Le minacce dell’educando possono essere diverse: andarsene, smettere di
studiare, non mangiare, fare qualcosa che sa essere disapprovato
dall’educatore…
La situazione può essere schematizzata come segue
Flusso di risentimento
Secondo Gordon, l’educatore che di fronte alla resistenza e alle minacce
dell’educando rinuncia è falsamente attento ai bisogni di quest’ultimo e
sacrifica in modo sbagliato e improduttivo i propri bisogni: in questo
modo tutti vengono privati della soddisfazione dei propri reali bisogni e
si favorisce lo svilupparsi nell’educando di tutte le conseguenze
educando Soluzione
accettabile per l’educando
educatore
136
psicologiche, emotive e comportamentali viste per il metodo educativo
permissivo.
In modo particolare, la gestione dei conflitti secondo il Metodo II,
“obbliga” l’educando ad utilizzare il potere, imparando ad utilizzare
quali strumenti: scatti d’ira, dire cose cattive, urlare, piangere, essere
lamentoso fino all’esasperazione, imparando in pratica a fare sentire in
colpa l’educatore.
Quest’ultimo poi pagherà l’utilizzo di questo metodo in termini di
frustrazione e risentimento nei confronti dell’educando vincente.
I due metodi sopra esposti bloccano la relazione educativa in un clima
di:
- competitività
- ostinazione
- mancanza di riguardo e rispetto per le esigenze dell’altro
- mancanza di affetto reciproco
- mancanza di collaborazione.
Oscillazione fra i Metodi I e II
Può succede che un educatore nella risoluzione dei conflitti utilizzi
alternativamente i due metodi sopra esposti, spesso in questi termini:
ritiene opportuno il Metodo II, finché ad un certo punto non ce la fa più,
137
la situazione diventa talmente ingestibile, che opera interventi secondo il
metodo I (sentendosi poi in colpa per averlo utilizzato).
Di fronte a questo modo di comportarsi dell’educatore, l’educando è
disorientato, è costretto a stare sempre in guardia, perché non gli è chiaro
quali siano i limiti e le regole da rispettare all’interno della relazione e
delle varie situazioni.
Metodo III
I metodi precedentemente descritti utilizzano il potere e si basano, di
conseguenza, sull’ipotesi che nella relazione una delle sue parti abbia
maggior potere dell’altra. Se invece le due parti avessero lo stesso
potere, i due metodi porterebbero ad una situazione di stallo, in cui
nessuno ha l’intenzione di cedere.
Il Metodo III parte invece dall’ipotesi di rinunciare alle lotte di potere: si
prevede che le parti coinvolte collaborino per trovare una soluzione al
conflitto che sia accettabile per tutti, senza costringere nessuno a subire
il potere dell’altro.
All’interno della relazione educativa, sarà l’educatore che, valutando di
trovarsi in presenza di un conflitto, inviterà l’educando a partecipare alla
ricerca di soluzioni accettabili per entrambi.
138
Ciascuno, in tale ricerca, metterà in gioco la propria disponibilità ad
accettare le esigenze dell’altro, la propria creatività, la propria Autorità I
(impegni e intese reciproche). Non ha importanza poi chi troverà la
soluzione adatta, l’importante è che essa rispetti i bisogni di ciascuno
Questa impostazione, come visto sopra, traduce in pratica la filosofia del
vincere insieme e trasforma il conflitto in un evento positivo, occasione
per conoscersi meglio, per migliorare nell’interazione le personali
capacità di soluzione dei problemi. Essa inoltre sostituisce la
competizione dei Metodi I e II con la cooperazione.
La situazione può essere schematizzata come segue.
Sentimento di rispetto
Comunicazione nei due sensi
Soluzione accettabile per entrambe
educatore
educando
139
Il Metodo III è un processo e, in quanto tale, non fornisce una soluzione
immediata, bensì presuppone una serie di interazioni, di aggiustamenti
reciproci.
Il processo definito da Gordon si rifà al metodo in sei fasi per la
risoluzione dei problemi individuali proposto da John Dewey. Gordon
applica questo “metodo scientifico” alla soluzione dei conflitti tra
individui e tra gruppi, egli cioè intende il conflitto come problema da
risolvere.
Secondo Gordon, le fasi sono le seguenti:
0. definire il contesto
1. definire il problema
2. escogitare le possibili soluzioni
3. valutare le soluzioni
4. scegliere le soluzioni accettabili per entrambi
5. attuare le soluzioni
6. verificare le soluzioni
dove la fase 0. può essere intesa come “fase di riscaldamento” e come
area di sicurezza cui tornare se il processo dovesse bloccarsi nel corso
delle fasi successive.
140
Prerequisiti
Prima di utilizzare il Metodo III un educatore deve essere padrone delle
altre tecniche del Metodo di Gordon:
- l’ascolto attivo: deve saper ascoltare l’altro, le sue esigenze, le sue
proposte di soluzioni
- i messaggi in prima persona: deve saper esprimere chiaramente le
proprie esigenze non svalutando o minimizzando i propri
sentimenti, ma anche cercando di non drammatizzarli55.
Inoltre deve essere sicuro che il conflitto e il problema che lo sottintende
si trovino nella sua area di libertà, cioè si tratti di una questione che sia
di competenza sua e non invece di altri soggetti (es. superiori, strutture
pubbliche….).
Gordon, basandosi sulla propria esperienza nell’applicazione e
nell’insegnamento del Metodo, suggerisce anche di:
non utilizzare il Metodo III per la prima volta all’interno di una
certa relazione educativa, allo scopo di risolvere un conflitto
precedentemente risolto con il Metodo I o, se è necessario farlo,
prestare attenzione a :
ridiscutere la situazione dalla base
55 Drammatizzare eccessivamente può spaventare l’educando o renderlo scettico rispetto alla sincerità del sentimento espresso dall’educatore. In questo modo il MPP può essere vissuto come tentativo di manipolazione, con conseguente riduzione della disponibilità e dell’interesse a partecipare al processo di soluzione del conflitto.
141
ridefinire in modo democratico regolamenti e regole
condivise
annullare tutte le decisioni precedenti, in riferimento alle
nuove regole
evitare assolutamente nel corso di tutto il processo, l’utilizzo di
messaggi in seconda persona
coinvolgere esclusivamente le persone che hanno a che fare con il
conflitto o che siano direttamente toccate dalla decisione finale. se
il processo viene utilizzato per risolvere un conflitto di gruppo
Fasi
0. Questa fase permette di creare le condizioni favorevoli per lo
svolgimento del processo di soluzione vero e proprio.
Per prima cosa l’educatore deve accertarsi che ci sia sufficiente
tempo per completare una o più fasi: interrompere una fase a metà
sarebbe molto controproducente, perché lascia una sensazione di
incompiutezza e il discorso deve essere completamente rifatto
nella sessione successiva.
Inoltre, fondamentale per la riuscita del Metodo III è che tutte le
parti siano disponibili ad applicarlo: questo significa che
l’educatore deve prima spiegare che ci sono dei modi con cui è
possibile risolvere un conflitto (Metodi I e II) in modo non
142
soddisfacente per qualcuna delle parti e che, per evitare questo,
egli ha intenzione di applicare un metodo del tutto diverso
(Metodo III) attraverso il quale pervenire ad una soluzione il più
possibile rispettosa delle esigenze di tutti.
Una volta completata la spiegazione, tramite l’ascolto attivo
l’educatore deve:
accertarsi che gli educandi abbiano ben compreso quello
che si sta per intraprendere e che siano disponibili in tal
senso,
accogliere eventuali scetticismi (il metodo non è un trucco
per raggirare l’altro) o malintesi e cercare di risolverli,
ribadire che non si tornerà ad utilizzare i Metodi I e II.
Questa fase è fondamentale le prime volte che si applica il metodo
e, come accennato sopra, ci si può tornare in situazioni di stallo
delle fasi successive. Una volta che il Metodo III sia diventato la
modalità abituale di risoluzione dei conflitti all’interno di una
certa relazione, tale fase non sarà più necessaria
1. Questa è la fase fondamentale del processo di problem-solving:
Gordon afferma che se il Metodo III non funzione si è certamente
sbagliato qualcosa in essa. Insieme le parti dovranno definire il
problema in modo che la formulazione dello stesso non contenga:
accuse o giudizi,
143
soluzioni desiderate
Rispettando tale schema, l’educatore esprimerà con precisi MPP i
propri bisogni e utilizzerà l’ascolto attivo per aiutare l’altro ad
esprimere i suoi bisogni in modo corretto56. E’ molto importante
che l’ascolto attivo non si rivolga esclusivamente ai “fatti
concreti”, ma anche all’espressione dei sentimenti e
particolarmente all’eventuale rabbia e chiusura iniziali.
Prima di procedere alla fase successiva è fondamentale accertarsi
che la definizione del problema sia espressa in termini di bisogni
piuttosto che di soluzioni incompatibili, sia condivisa ed accettata
da tutti e che i bisogni di tutti siano espressi fedelmente. Se le
esigenze sono numerose, può essere utile scriverle.
Talvolta, un’interruzione del processo di problem solving a questo
punto può consentire di lasciar decantare le emozioni e di riflettere
sulle esigenze espresse dagli altri
2. Questa è la fase creativa del processo di soluzione. Inizialmente
può essere utile che l’educatore
esprima frasi facilitanti la messa in moto della verbalizzazione
delle possibili soluzioni (es. Vediamo quante idee riusciamo a
proporre..),
56 Aiutare l’altro a distinguere i propri bisogni dalla soluzione desiderata è fondamentale perché egli riesca ad affrontare il conflitto come conflitto di soluzioni e non di bisogni.
144
faccia in modo che siano gli educandi i primi a proporre idee e
le accolga tramite l’ascolto attivo
esprima liberamente le proprie idee solo in un secondo tempo.
E’ importantissimo che tutte le idee siano prese in considerazione
senza valutazioni o critiche (di pertinenza della fase successiva):
in questa fase conta il numero di soluzioni collezionate. Bisogna
quindi incoraggiare anche le opzioni più strane e bizzarre e trovare
un modo per non perderne nessuna. Per esempio si possono
scrivere le proposte oppure si può registrare il dialogo.
Conta molto anche la velocità della discussione, per non rallentare
la “pazzia creativa” (brainstorming). Se invece il flusso di idee
dovesse languire si possono inviare frasi stimolanti (es. ci sono
certamente altre soluzioni che possiamo proporre!) o si può
riprendere la definizione del problema, come ottenuta nella fase
precedente.
Se il conflitto in esame è pertinenza di un gruppo, l’educatore
dovrà avere anche l’attenzione di incoraggiare ciascuno ad
esprimersi, senza insistere eccessivamente e senza nominare
pubblicamente nessuna persona specifica.
3. Questa fase va avviata con espressioni facilitanti quali: che ne
pensate di queste idee? E’ arrivato il momento di dire quali
soluzioni vi piacciono e quali no.
145
L’educatore stesso dovrà esprimersi con MPP chiari e autentici e
dovrà, nel caso stia conducendo un gruppo, incoraggiare tutti a
dare il proprio parere, utilizzando eventualmente farsi del tipo:
“Non mi sembra di aver sentito l’opinione di tutti e sono curioso di
sapere cosa ne pensa ciascuno”. Inoltre egli dovrà porre attenzione
ai messaggi non verbali di soddisfazione e insoddisfazione, così da
permetterne la presa di coscienza e la verbalizzazione.
Tutte queste attenzioni sono motivate dal fatto che la massima
sincerità da parte di tutti è essenziale per la buona riuscita del
problem solving: non si può permettere infatti che sia adottata una
soluzione che non sia veramente accettata da ciascuno, perché
altrimenti ci sarebbe poca motivazione a metterla in pratica (cade
così il senso del Metodo: la condivisione, la cooperazione,
l’impegno reciproco). Una volta espresse le critiche e una volta
che l’educatore tramite l’ascolto attivo si sia accertato che tutti
abbiano compreso le opinioni e i sentimenti degli altri, è
importante anche che ciascuno difenda con argomentazioni
appropriate la propria soluzione. Attraverso le valutazioni e
l’analisi delle soluzioni trovate, infatti, è possibile trovarne delle
nuove non pensate in precedenza, è possibile migliorare quelle già
trovate: bisogna tenere conto che un difetto di valutazione in
146
questa fase aumenterà la probabilità di raggiungere una soluzione
mediocre, che non verrà portata avanti con serietà.
4. Lo scopo di questa fase è di determinare fra le soluzioni proposte
quella che è ritenuta da tutti la migliore o che perlomeno tutti sono
disposti a provare.
Se le fasi predenti sono state svolte correttamente, questa fase è
semplice, anzi talvolta può essere saltata in quanto nel corso del
processo può essere già emersa una soluzione ovviamente migliore
delle altre.
Se al contrario fosse necessaria una discussione, Gordon,
suggerisce all’educatore di:
prestare attenzione prima di tutto ad ogni tipo di messaggio
di consenso e dissenso
non spingere verso una soluzione ritenuta “perfetta”
dall’educatore stesso
non accelerare i tempi della discussione per arrivare ad una
soluzione
verificare le soluzioni proposte, cioè chiedere all’altro di
immaginare come potrebbe funzionare una certa soluzione
se fosse scelta. Per stimolare tale verifica, l’educatore
potrebbe inviare domande quali: questa soluzione
risolverebbe il nostro problema? ci sono dubbi a riguardo?
147
precisare bene che la scelta di una particolare soluzione non
è una decisione irrevocabile, tale scelta può cioè essere
cambiata in qualsiasi momento se si rivela insoddisfacente.
In particolare se l’educatore si trova a condurre un gruppo, Gordon
suggerisce di:
verificare eventuali situazioni di consenso generale
non fare mai delle votazioni: la votazione infatti per sua
natura determina dei vincenti e dei perdenti, a meno che ci
sia unanimità
fare eventualmente delle pseudovotazioni, cioè farsi un’idea
degli orientamenti rispetto a ciascuna soluzione in termini di
numero di persone pro, contro, indifferenti
scrivere la soluzione, una volta concordata, ed
eventualmente chiedere di firmarla, come se fosse un
contratto reciproco. Richiedere la firma consente di
verificare il reale consenso rispetto alla soluzione. Se infatti
qualcuno dovesse esitare, significa che non è del tutto
convinto57: sarà allora necessario utilizzare l’ascolto attivo
per verificare lo stato d’animo.
Tutti i suggerimenti precedenti sono orientati dall’obiettivo di
questa fase, e cioè l’ottenimento del massimo consenso possibile
148
rispetto ad una soluzione, consenso che solo garantisce l’impegno
dei singoli nell’attuazione della soluzione prescelta.
5. Tutto il processo di problem solving può concludersi in
frustrazione, se gli accordi presi non riescono ad essere messi in
pratica. Per questa ragione appena si è raggiunta una decisione,
bisogna discutere della sua attuazione pratica, in particolare
bisognerà stabilire chi fa cosa e a partire da quando. Per innescare
questo fase, potrebbero essere utili frasi del tipo: cosa può servire
per mettere in atto la nostra decisione? chi se ne prende la
responsabilità?…. E’ inoltre opportuno precisare dei modelli di
riferimento per le azioni decise: per esempio se si stabilisce in una
comunità che ciascuno deve tenere pulita la propria stanza,
precisare cosa si intende per camera pulita.
Secondo Gordon, non è consigliabile a questo punto minacciare
punizioni o sollevare la questione di cosa fare se non ci si attiene
agli impegni pratici presi di comune accordo. L’atteggiamento più
costruttivo in proposito è quello della fiducia nell’onestà dell’altro.
Se poi le decisioni dovessero essere disattese, l’educatore dovrà
rispondere con MPP di confronto o con suggerimenti che facciano
riferimento al progetto comune58. Mai comunque l’educatore
57 Può infatti accadere che qualcuno subisca la pressione del gruppo e vi si sottometta. 58 Secondo Gordon tali suggerimenti sono fondamentali con i bambini: l’età, infatti, può influire sulla capacità di agire comportamenti tenendo sempre presenti gli impegni presi.
149
dovrà cedere alla tentazione di sorvegliare e rimbrottare
continuamente: tale atteggiamento infatti non favorisce lo
svilupparsi del senso di responsabilità nei confronti degli impegni
presi, induce al contrario dipendenza e risentimento (si percepisce
la mancanza di fiducia).
Gordon segnala che per educandi abituati al Metodo II nella
risoluzione dei conflitti, può essere difficoltoso, soprattutto
all’inizio, rispettare con attenzione agli impegni presi: sarà
opportuno allora che l’educatore esprima dei MPP di confronto
finché non venga ben compreso che l’inadempienza non può
essere accettata.
6. Per evitare continui e disturbanti richiami al “contratto
sottoscritto”, vale la pena di indicare direttamente nel corso del
problem solving momenti prestabiliti in cui fare il punto della
situazione, tenersi in contatto con i sentimenti e le impressioni
proprie e dell’altro.
D’altra parte è a priori previsto dal Metodo III che una decisione
che non si riveli soddisfacente possa essere modificata o sostituita.
Sarebbe allora opportuno, in previsione di questa possibilità o
anche in previsione del sopraggiungere di condizioni nuove o
impreviste, che siano stabiliti in partenza dei criteri di misurazione
150
dell’efficacia della soluzione (primo fra tutti ovviamente la
scomparsa del conflitto) e della soddisfazione delle parti.
Nei momenti di verifica, l’educatore presterà attenzione in
particolare a:
valutare se gli impegni presi nell’entusiasmo del processo di
problem solving siano effettivamente sostenibili e non siano
troppo gravosi
sottolineare che, se la soluzione non funziona, potrebbero
essere sorte delle difficoltà rispetto alla soluzione stessa o
alla sua attuazione non prevedibili a priori. Questo per non
far perdere fiducia nel Metodo.
E’ utile comunque fare valutazioni occasionali anche delle soluzioni che
funzionano, per non far sembrare le decisioni irrevocabili in previsione
di successivi processi di problem solving.
Il Metodo III ha ovvi vantaggi legati:
- alla compliance rispetto alla soluzione
- alla riduzione delle reazioni avversive alle soluzioni nei vari
soggetti coinvolti
- allo svilupparsi di sentimenti di complicità e fiducia reciproca
- al modelling, cioè all’acquisizione di un prassi di comportamento
basata sulla cooperazione e sul rispetto dei bisogni personali
151
In particolare questi ultimi due vantaggi, fanno propendere per un
precoce utilizzo del Metodo III con i bambini: l’acquisizione del modello
di comportamento esercita un’azione “preventiva” dei conflitti in quanto
l’altro non è percepito come avversario, ma come amico, fonte di aiuto e
collaborazione. In questo modo, ogni disaccordo che può sorgere viene
automaticamente gestito nel confronto dei bisogni e risolto di
conseguenza.
Inoltre l’abitudine al problem solving consente col passare del tempo di
affrontare con maggiore esperienza, fiducia e padronanza di sé le
difficoltà personali o relazioni che diventano con la crescita sempre più
complesse.
7.2 Conflitti di valori
Ripensando alla finestra del comportamento, si può dire che si è fin qui
trattato il Metodo di Gordon in riferimento all’area problematica per
l’educando e all’area non problematica. Rispetto poi all’area
problematica per l’educatore si sono analizzati i problemi risolubili
attraverso una modificazione dell’educatore stesso, dell’ambiente e del
comportamento dell’altro.
Si è visto poi che i problemi che rimanevano irrisolti potevano
configurarsi come conflitti.
152
Rispetto alla definizione di conflitto enunciata all’inizio del paragrafo, si
si è trattato il Metodo III per la risoluzione dei conflitti rientranti nel
primo caso, cioè di quei conflitti in cui il disaccordo si riferisce a
comportamenti di un soggetto aventi effetti concreti e tangibili, effetti
che un altro soggetto vive come ostacolo alla possibilità di soddisfare i
propri bisogni.
Nonostante tutto restano dei conflitti che le tecniche fin qui utilizzate
non possono risolvere, come è indicato nella tabella seguente.
Finestra del comportamento
Metodo
Area problematica per
l’educando
→
Ascolto attivo
Area non problematica
→
Ascolto attivo
MPP Messaggi in seconda persona
→ Modifica di se stesso → Modifica dell’ambiente → MPP di confronto
Area problematica
per l’educatore → Metodo III
Conflitti irrisolti → ?
Tali conflitti si riferiscono a divergenze che possono riguardare:
- opinioni
- convinzioni
- ideali
- credenze
153
- gusti
- modi di vivere
Gordon riunisce quanto sopra elencato in una parola: valore. Un valore è
un comportamento (espressione o azione) agito da un soggetto e che non
condiziona direttamente e in modo tangibile un altro soggetto, né
interferisce con i bisogni fondamentali di quest’ultimo.
Le persone, bambini o adulti che siano, in generale sono disposti sulla
base dell’empatia a modificare un comportamento che si rendono conto
interferire con le esigenze dell’altro. E’ come se modificando il proprio
comportamento essi dicessero: so quello che provi e desideri perché i
miei bisogni e sentimenti sono simili ai tuoi.
Viceversa, difficilmente le persone sono disposte a mettere in
discussione i loro valori, prima di tutto perché non vedono quale
“interesse” l’altro possa avere rispetto a tali valori, non vedono in pratica
quali difficoltà creino all’altro, e secondo perchè un valore è sentito
come un diritto e, in quanto diritto, come non negoziabile.
Questo atteggiamento nei confronti dei propri valori, fa sì che, nella
risoluzione di un conflitto, strumenti quali il MPP di confronto e il
Metodo III perdano a priori la propria efficacia (non ci sono effetti
tangibili e concreti cui fare riferimento, non c’è empatia o disponibilità
154
in cui avere fiducia) anzi, l’utilizzo di tali strumenti da parte di un
educatore può essere vissuto da un educando come un’intromissione
indebita nella sua sfera di libertà. In conseguenza, quest’ultimo può
chiudersi nelle proprie posizioni e rovinare in tal modo anche il clima
dell’area non problematica.
Siccome non si può utilizzare il Metodo III e nello stesso tempo non si
può far finta di niente, Gordon suggerisce per anche questa situazione
specifiche modalità di intervento. Ma se egli assicura l’efficacia del
Metodo III, una volta che esso sia ben applicato nei suoi casi di
pertinenza, rispetto a tali modalità non inganna con falsi ottimismi: come
in tutte le situazioni qualcosa può sempre essere fatto, ma la risoluzione
dei conflitti di valore è complessa, a volte è impossibile. All’educatore
potrebbe restare solo la strada della “saggezza di saper accettare ciò che
non può essere cambiato”,
Naturalmente il prerequisito per l’utilizzo delle tecniche appropriate alla
gestione dei conflitti di valore è quello di essere sicuri di avere di fronte
una situazione di questo tipo.
I “sintomi” che devono essere rilevati durante un eventuale confronto sui
valori sono:
155
l’educatore è in difficoltà nel definire un effetto tangibile e
concreto da esprimere nei MPP di confronto
l’educando mostra sorpresa e incredulità, non sembra capire il
senso del confronto stesso
l’educando lancia messaggi verbali e non verbali che indicano che
non è il caso di discutere dell’argomento
l’educando risponde con un giudizio sui valori dell’educatore.
I “sintomi” nella percezione dell’educatore sono invece:
quel comportamento è al di sotto della mia linea di accettazione
probabilmente l’educando non crede che il suo comportamento mi
condizioni
secondo me l’educando ha un problema che lo danneggia, ma lui
non crede di avere tale problema
Una volta stabilito di trovarsi in presenza di una collisione di valori, per
l’azione Gordon suggerisce otto opzioni, con gradi diversi di rischio per
la “salute” della relazione educativa.
L’utilizzo di tali opzioni è secondo Gordon subordinato ad una pre-
analisi dell’educatore: egli dovrà chiedersi nelle situazioni specifiche
quanto sia importante che le parti della relazione educativa si uniformino
su determinati valori e quanto invece è possibile convivere rispettandosi
nella diversità.
156
Di seguito sono elencate le opzioni, a partire da quella meno rischiosa
per la relazione alle ultime due che Gordon non ritiene consigliabili, ma
che include nell’elenco perché potrebbero rendersi necessarie in
situazioni disperate
1. cambiare se stessi: dopo la pre-analisi, l’educatore può ritenere
che il valore che determina il conflitto non valga il costo del
confronto con l’educando. Opta così per la modifica di se stesso,
alzando il suo grado di accettazione, prendendo atto della
differenza esistente, modificando i propri valori (per esempio
imparando ad apprezzare certi tipi di musica...)
2. dare l’esempio: i valori degli educandi possono essere
influenzati dal modo di vivere degli educatori, dai valori che
questi ultimi esprimono a parole e coi fatti. Questa opzione può
essere considerata anche “preventiva” rispetto al conflitto di
valori: essa infatti “lavora nel tempo” e dovrebbe iniziare con
l’inizio della relazione educativa.
3. trasmettere vantaggi: una persona segue un valore perchè lo
ritiene giusto e importante. Di solito però lo persegue anche
perchè da esso ne trae una utilità, utilità che può essere sia
concreta che morale (sentirsi bene, gratificato, accettato dal
gruppo dei pari o dall’ambiente ...). Esplicitare all’educando
quali vantaggi derivano dal perseguire un determinato valore,
157
quali bisogni vengono soddisfatti, può aumentare la sua
motivazione ad aderire spontaneamente al valore stesso.
4. usare il confronto/ascolto attivo: può succedere che il confronto
possa influenzare un valore, soprattutto se il valore è in fase di
elaborazione o è relativamente superficiale. In questo caso
l’educatore condurrà il confronto attraverso MPP che
comprendano le tre parti seguenti:
a. il comportamento/valore che sembra inaccettabile
b. gli effetti concreti e tangibili, ma ipotetici che si potrebbero
avere sull’educando
c. la forza dell’interesse e dei sentimenti dell’educatore, nei
confronti dell’educando
Il MPP in questa forma ha effetti positivi sull’educando in
quanto comunica che l’educatore è consapevole che esiste un
problema e lo affronta non come una questione personale, bensì
dimostrando attenzione per l’altro e disponibilità ad impegnarsi
in un dialogo costruttivo sui valori. Quest’ultimo punto è
fondamentale perché apre la strada dell’ascolto attivo, all’interno
del quale si può accompagnare l’educando
alla presa di coscienza del bisogno sottostante l’adesione
al valore (bisogno di sentirsi grande e autonomo, di
158
sentirsi considerato dal gruppo, bisogno di stima e di
autostima)
alla ricerca di quali altri comportamenti assumere per
soddisfare il bisogno stesso.
5. dare consulenza: gli educandi potrebbero essere disponibili,
all’interno di una buona relazione, ad accogliere l’influenza della
saggezza e dell’esperienza degli educatori e dei loro valori. In
tale caso gli educatori assumono un ruolo di “consulenti”, ma in
quanto tali devono, secondo Gordon, attenersi alle “regole
d’oro” dei consulenti professionisti:
non imporsi, ma aspettare di essere consultati. In
pratica: accertarsi di essere stati assunti
identificare il problema reale e comunicare solo le
informazioni appropriate, magari documentandosi
prima (es. tatuaggi, sostanze stupefacenti...)
lasciare la responsabilità delle scelte all’altro, non
insistere, non assillare o controllare
non usare mai messaggi in seconda persone o le
barriere alla comunicazione
6. ricorrere al problem solving: può succedere che un educando,
per non avere ripercussioni negative, sia disposto a modificare il
comportamento senza però rinunciare al valore (es. non usare un
159
certo tipo di linguaggio in determinati contesti, ma continuare ad
usarlo al di fuori di essi). Per arrivare a questo tipo di
compromesso si può utilizzare il Metodo III.
7. minacciare di ricorrere alla forza: da utilizzarsi tenendo
presenti tutti gli effetti collaterali e, in particolare, che se si
minaccia continuamente, ma non si mette mai in atto la minaccia
stessa si perde di credibilità.
8. ricorrere alla forza: da utilizzarsi solo in occasioni quali il
sentirsi moralmente tenuti a salvare la vita, fisica o psicologica,
dell’educando
7.3 Aiutare l’altro a risolvere i propri conflitti
Naturalmente l’educando può vivere delle situzioni problematiche o di
conflitto, che non coinvolgono direttamente l’educatore.
In tali casi, la prima cosa che quest’ultimo deve fare è distinguere se il
problema:
è solo dell’educando: per esempio un bambino ha il problema di
unirsi ad un gruppo e tenta di risolverlo irrompendo con violenza
e facendo male agli altri bambini. In questo caso, l’educatore
utilizzerà l’ascolto attivo per aiutare il bambino a risolvere il suo
problema, cioè come rapportarsi agli amici
160
è nella relazione fra due o più educandi: in questo caso
l’educatore può porsi come mediatore e facilitatore nella
risoluzione del conflitto.
Se il primo caso rientra nella trattazione precedente dell’area della
finestra del comportamento problematica per l’educando, il secondo
pone l’educatore in un ruolo importante, ma molto delicato.
Egli dovrà prima di tutto evitare assolutamente di:
- farsi risucchiare dal conflitto
- schierarsi con una delle parti
- fare da giudice, definire chi ha ragione e chi torto, dare delle
punizioni
Se l’educatore cade in una delle trappole precedenti59, il suo intervento
non solo non sarà efficace, ma sarà addirittura deleterio: il conflitto finirà
solo per complicarsi, coinvolgendo una persona in più.
Soprattutto sarà la relazione educativa ad essere danneggiata.
Per evitare tali trappole, l’educatore tenendo ben presente:
a) di chi è il problema
59 I bambini in modo particolare tendono a coinvolgere l’educatore nei loro conflitti facendo la spia, facendo la vittima o facendo scenate.
161
b) chi ha la responsabilità di risolverlo60
cercherà di incoraggiare le parti a parlarsi direttamente e non ad
utilizzarlo come veicolo di rimostranze, rivolgerà l’ascolto attivo a tutte
le parti, in riferimento sia ai contenuti che ai sentimenti, utilizzerà il feed
back per chiarire a tutte le parti i sentimenti espressi61.
Se l’ascolto attivo non fosse sufficiente, l’educatore potrà porsi come
guida nell’applicazione del Metodo III per la risoluzione dei conflitti.
In quanto guida all’applicazione del metodo, egli non deve entrare nel
merito dei contenuti, bensì attenersi all’identificazione delle varie fasi e
alla loro dinamica. L’ascolto attivo è fondamentale anche in questo caso
per capire quando l’educando è pronto a passare da una fase all’altra.
L’educatore dovrà inoltre prestare attenzione a :
o contrastare l’eventuale tendenza di una delle parti a cedere
(Metodo II)
o non accettare che le parti si facciano salvare da una
soluzione imposta dall’esterno
o fare in modo che le parti diano modo alle forti emozioni di
decantare.
60 Deve cioè ricordare che le uniche persone in grado di risolvere un problema di relazione sono quelle implicate nella relazione stessa. 61 Nel caso tali sentimenti fossero già stati espressi in modo chiaro, manterrà un’attenzione silenziosa.
162
Il grado di coinvolgimento dell’educatore nel processo di problem
solving dipenderà ovviamente dall’età degli educandi (ricordando
sempre che il Metodo Gordon può essere applicato fin dalla più tenera
età) e dalla loro esperienza nell’utilizzo del Metodo.
L’obiettivo deve comunque essere sempre quello di mantenere il minimo
livello di coinvolgimento possibile, favorendo il percorso dell’educando
verso l’indipendenza.
Il favorire la soluzione dei conflitti fra educandi offre dei vantaggi anche
all’educatore:
a. soluzione del problema contingente
b. acquisizione di sempre maggior competenza
nell’applicazione del Metodo
c. aumento del rispetto reciproco in tutte le relazioni in gioco
(educativa e fra pari)
163
8. Il Metodo Gordon come possibilità educativa
Quanto fin qui esposto ha a mio parere evidenziato che anche se Gordon
non ha mai parlato esplicitamente di una figura specifica chiamata
“educatore professionale”, in realtà la “teoria” e la “pratica” che egli ha
elaborato si riferiscono intrinsecamente all’educatore e rivelano che
Gordon stesso era un educatore.
8.1 Gordon educatore
Come si è visto nel primo capitolo, Gordon si muove nel campo
educativo62: egli fa sua la rivoluzione operata dal maestro Rogers in
ambito terapeutico e ne rielabora le conquiste trasferendole e adattandole
all’ambito educativo.
Il centro di interesse di Rogers era la persona:
la persona del cliente, fulcro e artefice del percorso terapeutico
la persona del terapeuta, che attraverso le sue qualità individuali
facilita il percorso terapeutico
Rogers era cioè essenzialmente un terapeuta, teorizzatore di un modo di
essere In Gordon il centro di interesse diventa la persona e la
62 Gordon stesso indica il 1950 quale anno per la nascita della sua “missione educativa”, anno in cui ha progetto presso l’Università di Chicago un breve corso di formazione per leader in ambito educativo e religioso.
164
metodologia: egli è cioè essenzialmente un educatore, teorizzatore e
realizzatore di un modo di agire, di un modo di essere vicino
all’educando nella vita di tutti i giorni, di un modo di entrare in relazione
e accompagnare l’educando nel suo percorso di auto-educazione.
Egli è un educatore perché il suo pensiero si struttura in visioni ben
precise riguardo:
1) la filosofia sull’uomo
2) la figura dell’educatore
3) il metodo educativo che dà importanza a
a) relazioni e processi di comunicazione
b) responsabilità
c) tecniche
4) gli obiettivi educativi
5) il modello educativo
6) l’obiettivo ultimo: una società sognata
La “filosofia” di riferimento è, come già detto, quella umanistica che
vede la persona dotata di tutte le potenzialità necessarie per evolversi
autonomamente. Rispetto a questo processo di auto-educazione
l’educatore si pone come il facilitatore del processo stesso attraverso la
165
realizzazione di un setting educativo adeguato, come il negoziatore della
soddisfazione delle esigenze e dei bisogni di ciascuno e dell’ambiente.
Il training di formazione dell’educatore è di conseguenza improntato ad
apprendere un metodo per gestire le relazioni, per rendere la
comunicazione più efficace, per rispettare i bisogni di ciascuno (suoi,
dell’educando, dell’ambiente), per sapere attribuire a ciascuno le proprie
responsabilità, per “classificare” le situazioni e i problemi rispetto alle
responsabilità.
L’educatore deve apprendere anche un linguaggio costituto da termini
definiti in modo operativo, cioè definiti attraverso le cose che devono
essere fatte, le tecniche che devono essere utilizzate per tradurre nella
pratica di ogni giorno i termini stessi. Tecniche che non sono la
ripetizione di un copione, quanto piuttosto un modo di “ricordare nel
concreto” i principi ispiratori sottostanti e gli obiettivi educativi.
Viste le premesse, gli obiettivi educativi non possono che essere prima di
tutto l’autonomia dell’educando dall’educatore e, in conseguenza,
l’autocontrollo, l’autodisciplina, l’autostima, l’autodeterminazione,
l’autocritica, il senso di responsabilità e la creatività rispetto al proprio
percorso educativo.
Il prefisso auto ricorda ancora una volta la centralità dell’educando,
questa volta non nel processo bensì nei risultati: la sua libertà, il rispetto
delle sue esigenze, l’espressione del suo modo di essere unico e
166
irripetibile, il perseguimento del suo percorso di vita, in una parola
l’autorealizzazione.
Tali risultati possono essere molto diversi dai desideri dell’educatore, dai
suoi valori, dai suoi principi, ma l’educatore li accetta perché ha
rinunciato a porre il centro di interesse in sé, nel proprio desiderio di
ottenere una clonazione di se stesso e di esercitare il suo potere.
In questo modo, Gordon va oltre la definizione di un metodo educativo,
ma fa riferimento ad un modello, uno stile di conduzione e gestione dei
vari ambiti educativi che significa prima di tutto prevenzione e solo in
un secondo tempo riparazione delle situazioni problematiche.
Questo è il modello democratico63, che rinuncia all’utilizzo del potere e
si fonda sul principio di partecipazione delle parti di una relazione nella
- definizione delle regole di comportamento all’interno della
relazione stessa
- conduzione del rapporto
- cura reciproca
In questo modello il potere non serve per far rispettare le regole: esse
sono rispettate sulla base dell’autorità I, cioè sulla base degli impegni
presi reciprocamente in modo condiviso; la differenza di potere non
63 In Gordon, il modello democratico fa riferimento alla Gestione partecipata dell’America delle grandi aziende. Questo stile di conduzione aumenta il coinvolgimento del dipendente nell’assunzione delle decisioni che lo riguardano. Le esperienze hanno dimostrato che questo tipo di gestione porta dei benefici materiali all’azienda, ma ancora di più determina dei benefici per le persone in termini di sviluppo personale, di star bene sul posto di lavoro, di autostima e sicurezza, di percezione di controllo sulla propria vita.
167
esiste perché le parti sono uguali, sono persone ciascuna con i propri
sentimenti e bisogni, persone che possono aiutarsi a vicenda.
Il modello diventa così la realizzazione di un obiettivo più complessivo:
la costruzione di una società sognata, democratica e senza lotte di potere,
lotte che risultano essere per le persone una fonte di “malessere”64 e
talvolta di veri e propri disturbi emotivi e psicologici.
8.2 Mezzi per acquisire le competenze Gordon
Gordon è educatore anche nel senso che attraverso il suo Metodo forma
gli educatori.
Nel tempo egli infatti si è reso conto che il modello democratico di
gestione dei diversi ambiti educativi e di vita (dalla famiglia, alla scuola
ecc…) può essere insegnato ed appreso.
In tal senso egli ha scelto di operare utilizzando dei training brevi65 e
interattivi. Gordon strutturava i corsi:
trasmettendo i principi del Metodo e le tecniche da utilizzare
facendo rielaborare66 ai partecipanti la propria storia personale di
educando e la propria esperienza in termini di ruolo educativo.
64 Studi psicologici hanno affermato che le maggiori fonti di stress e frustrazioni per le persone implicano generalmente una qualche forma di eccesso di potere. 65 Per dove seguire tali training si vedano le Appendici D ed E, oltre naturalmente alla possibilità di documentarsi attraverso gli scritti di Gordon. 66 I risultati e gli esempi derivanti da tale rielaborazione sono diventati materiale di riflessione per Gordon, sono citati nei suoi scritti e sono entrati a far parte dei training stessi.
168
I training elaborati da Gordon (e poi dai successori del GTI) sono vari e
orientati a figure diverse. Essi hanno la medesima impostazione, sono
cioè orientati a migliorare le relazioni umane e a migliorare l’efficienza
della comunicazione. Le tecniche poi vengono di volta in volta adattate
ai diversi contesti di riferimento: famiglia (PET), scuola (TET), ambiente
di lavoro (LET), giovani (YET)...
Secondo quanto espresso da Gordon stesso, i suoi training vanno oltre
l’insegnamento specifico, per diventare un modello di ruolo e, ancora
più in generale, di interazione quotidiana dei singoli in tutti i loro
contesti di vita.
Da varie parti viene espresso scetticismo rispetto:
a) alla possibilità di insegnare all’educando ad essere autonomo
utilizzando un metodo rigorosamente strutturato.
b) alla possibilità di imparare in corsi così brevi (di durata intorno
alle 30 ore) la filosofia e le abilità necessarie per applicare il
Metodo
Rispetto all’obiezione a), si può affermare che il problema è
effettivamente complesso: di volta in volta l’educatore, a seconda della
169
situazione, può optare67 per privilegiare il bisogno delle persone di
autonomia o il bisogno di struttura e sicurezza.
La cosa fondamentale resta però il verificare se l’educatore, quando
utilizza le varie abilità, continua ad ancorarle, secondo le intenzioni di
Gordon, ai valori profondi ed originari di cui esse sono l’espressione
visibile (valore simbolico delle tecniche) o lascia che le stesse
acquisiscano un valore autonomo di capacità di influire sui processi di
sviluppo delle persone e dei gruppi (valore assoluto delle tecniche).
Comunque nel corso dei training, così come nei testi di riferimento,
viene ricordato continuamente di tenere presente il valore simbolico
delle tecniche, quando si svolge un intervento educativo, e di far sempre
riferimento alla situazione contingente interna ed esterna all’educatore.
Rispetto all’obiezione b) si può precisare che comunque alla fine di ogni
training vengono lasciate indicazioni e griglie che suggeriscono agli
educatori di effettuare momenti di verifica personale o con i colleghi
rispetto
al mantenimento degli apprendimenti derivanti dai corsi
al miglioramento dell’abilità di applicazione degli apprendimenti
stessi.
67 D’altra parte Gordon stesso non impone in modo “assoluto” (come succede invece nel comportamentismo) se e come applicare le varie tecniche, ma spesso fa riferimento al buon senso rispetto alla situazione concreta (fenomenologia).
170
Per Gordon, infatti, l’esperienza è parte fondamentale dell’applicazione
del Metodo stesso (come è stato più volte ricordato nel corso del
presente lavoro): il percorso formativo, breve o lungo che sia, resta
limitato nel tempo, l’esperienza continua e si arricchisce sempre.
8.3 Effetti educativi
Gli effetti educativi positivi del Metodo e delle varie abilità che lo
compongono sono stati via via illustrati nel corso di questa tesi: essi
possono essere riassunti in:
per l’educatore: aumento della consapevolezza di sé e degli
“strumenti professionali” che intende usare,
per l’educando: sviluppo verso l’autonomia, l’indipendenza e la
responsabilità,
per tutti: aumento della soddisfazione personale all’interno della
relazione
Si vogliono ora mettere in evidenza gli effetti positivi di
un’impostazione democratica degli ambienti educativi e delle relazioni.
Gordon nei suoi testi riporta di studi fatti negli USA sui figli di famiglie
impostate sui tre tipi di metodi educativi: autoritario, permissivo e
democratico.
171
Gli effetti di tali metodi sono stati valutati in termini di : salute fisica,
salute psicologica, abilità sociali, quoziente di intelligenza (QI).
Salute fisica: è stato rilevato che figli di madri autoritarie,
dominanti, propense ad essere critiche e rifiutanti nei confronti dei
comportamenti dei figli, presentavano, rispetto ad un gruppo di
controllo e indipendentemente da predisposizione genetica,
un’incidenza maggiore di malattie psicosomatiche quali asma,
artrite, colite ulcerosa, ulcera peptica e eczema atopico.
Salute psicologica: i figli di famiglie democratiche erano
psicologicamente più sani, presentavano cioè rispetto ai figli di
famiglie permissive o autoritarie:
meno comportamenti aggressivi e atti vandalici
meno tendenze autodistruttive o suicide
maggiore autostima
un locus di controllo maggiormente interno
meno depressioni e crisi di pianto
meno ansie e senso di colpa
rapporti affettivi più soddisfacenti
Abilità sociali: i figli di famiglie democratiche facevano registrare
negli anni scolastici notevoli progressi nella socializzazione, erano
benvoluti, emotivamente sicuri e capaci di iniziativa sociale, meno
irascibili, più disponibile ad accettare le persone nuove.
172
Quoziente di intelligenza: l’evoluzione del QI dei singoli individui
è stato uno dei risultati più sorprendenti delle ricerche. Nei figli di
famiglie autoritarie esso diminuiva, in quelli di famiglie
permissive restava stabile, in quelli di famiglie democratiche
aumentava notevolmente. Questo fu fatto risalire all’atmosfera
delle famiglie democratiche caratterizzata da libertà, stimoli
emozionali ed intellettivi; atmosfera che favoriva l’originalità, la
capacità di programmazione, la costanza, la curiosità e
l’immaginazione.
Gordon spiega i risultati di questi studi ricordando che un sistema
punitivo e autoritario genera per sua natura, anzi si potrebbe dire che
questo è il fondamento della sua “efficacia”, privazione e umiliazione
con conseguente stress e frustrazione.
Rinunciando alla punizione e al potere per una gestione democratica, si
diminuisce lo stress, si genera meno rabbia e ostilità, meno paura con
conseguente aumento della percezione di controllo sul proprio destino
che in cascata determina minore necessità di meccanismi di difesa,
maggior benessere, maggiore sicurezza e autostima, maggiore
responsabilità ed autocontrollo e tutti i vantaggi fin qui ricordati.
173
8.4 Prospettive di utilizzo
Se il Metodo Gordon, basandosi sul miglioramento delle relazioni può
essere utilizzato in ogni ambito educativo, con le dovute attenzione a
contestualizzarlo alle diverse situazioni, i miei interessi e le mie
riflessioni mi portano in questa sede a proporne l’utilizzo in due casi:
burn out degli operatori sociali (fra cui naturalmente l’educatore) e
scuole per la prima infanzia (asili nido e scuole materne)
Burn out
L’utilizzo del Metodo Gordon da parte di un educatore può essere
considerato come preventivo di possibili burn out in quest’ultimo.
Se invece un educatore si trovasse già in situazione di burn out, la
riabilitazione personale e il ripartire nella professione possono a mio
parere aver luogo tramite l’apprendimento dell’approccio educativo del
Metodo.
Le ragioni di quanto affermato risiedono nel fatto che il metodo,
attraverso la classificazione delle situazione e le abilità correlate, ricorda
costantemente a chi lo applica di tenere presente se stesso all’interno
dell’intervento educativo.
174
Prima di tutto la finestra del comportamento insegna a collocare la
responsabilità dei problemi. Questo significa che:
a. l’educatore non si sovraccarica con problemi di pertinenza degli
altri, mantenendo da essi una distanza “interna” pur operando per
facilitare all’altro la ricerca della soluzione. Questo significherà
anche minore frustrazione dovuta alle reazioni negative dell’altro
di fronte ai tentativi dell’educatore (fatti con le migliori
intenzioni) di risolvere i problemi al suo posto.
b. viceversa l’educatore affronta i propri problemi, non li nasconde a
se stesso, non li scarica sull’altro. In questo modo non si genera
una spirale fra il problema interno irrisolto e le conseguenze che
tale problema determina sull’esterno, conseguenze che
amplificano ulteriormente il problema di partenza.
Il metodo ricorda poi all’educatore di leggere le proprie reazioni, i propri
sentimenti, di farsene carico: in questo modo non gli passeranno
inosservati i primi eventuali sintomi di burn out. Si sa infatti che i
sintomi presi in tempo non degenerano.
Altra cosa fondamentale è il fatto che il metodo ricorda che prima di
essere un ruolo, l’educatore è una persona. Egli deve imparare ad
accettare se stesso come essere non infallibile e non perfetto non solo
nella sua vita privata, ma anche quando sta svolgendo la sua professione.
175
Egli non deve dimenticare i propri bisogni e le proprie necessità, sulla
base di un improduttivo “sacrificio al bisogno dell’altro”: tale sacrificio
sarebbe infatti deleterio per tutte le parti.
In pratica, seguendo le indicazioni del Metodo, l’educatore diventa
realmente congruente, egli cioè agirà con se stesso e con l’altro nella
consapevolezza e nel rispetto di ciò che gli accade dentro.
Restare in contatto con il proprio Sé è sinonimo di salute psicologica e di
efficacia nelle relazioni, cioè è sinonimo per un educatore di successo e
soddisfazione nella propria professione.
Scuola per l’infanzia
L’importanza di applicare il Metodo fin dai primissimi mesi di vita è
affermata da Gordon come auspicabile perché:
consente alle parti di crescere insieme nell’esperienza e nell’abilità
di utilizzo del Metodo stesso
stabilisce un modello di comportamento personale e reciproco, che
entra a far parte della relazione come modalità naturale
fa sì che non si creino difese reciproche derivanti da errate
interazioni e che non si instaurino modalità relazionali “non
buone” e difficili da modificare.
176
Gordon ritiene che l’utilizzo precoce del Metodo non solo sia
auspicabile, ma sia anche possibile, una volta che le abilità da applicarsi
siano adattate alle capacità comunicative proprie delle varie età.
In un’ipotesi di percorso a partire dall’asilo nido, mi immagino un
intervento che prenda in considerazione:
il bambino
la famiglia68
Se la famiglia collabora con la scuola utilizzando il medesimo modello
relazionale democratico, lo sviluppo del bambino sarà ovviamente più
coerente e meno disorientante: egli cioè non imparerà ad agire le
situazioni e ad utilizzare le persone a seconda del proprio tornaconto
(magari mettendo gli uni contro gli altri).
Con il Bambino
All’interno di un’impostazione che è comunque
democratica, che rifiuta cioè le lotte di potere,
assertiva, che rifiuta cioè le punizioni e le ricompense, ma che
nello stesso tempo non si pone come permissiva,
Gordon suggerisce una graduatoria fra i tipi di intervento, a partire da
quello meno invasivo della di libertà dell’altro, da mettere in pratica in
presenza di un comportamento del bambino ritenuto inaccettabile
177
dall’educatore. L’ipotesi di partenza resta sempre quella che già si è
enunciato all’inizio del presente lavoro: qualsiasi comportamento un
bambino agisca è la risposta che il bambino stesso trova per risolvere un
suo bisogno. Da questa ipotesi l’educatore dovrà partire affinchè tale
bisogno venga soddisfatto, ricordando che più piccolo è il bambino,
meno possibilità ci sono per quest’ultimo di capire e soddisfare
autonomamente tale bisogno.
1. Il primo tipo di intervento è costituito proprio dalla soddisfazione
del bisogno. Tale soddisfazione sarà cercata ed eseguita
direttamente dall’educatore per tentativi se il bambino è molto
piccolo, verrà invece portata avanti in modo condiviso con il
bambino attraverso il riconoscimento e l’esplicitazione del
bisogno se questo è più grande ed è in grado di verbalizzare.
2. Il secondo metodo69 non basato sul potere e non invasivo della
libertà dell’altro è quello dello scambio. Riconoscendo un bisogno
nel bambino si può cercare un modo alternativo di soddisfarlo che
non disturbi l’educatore. Per esempio se il bambino sta strappando
dei fogli nuovi, si può provare a dargli carta usata.
68 Ovviamente l’intervento sulla famiglia dovrà attenersi alla sua sfera di pertinenza, cioè al trasmettere le modalità relazionali ed educative del Metodo Gordon. 69 Questi primi due metodi sembrano ovvi, ma la loro significatività risiede nel fatto che devono essere applicati in ogni occasione, mai sostituiti dai metodi autoritari o permissivi più sbrigativi (che risolvono il problema obbligando il bambino a fare ciò che vuole l’educatore o lasciandolo fare ciò che lui vuole). Tali metodi diventano così il modello di un modo di ragionare ed affrontare le situazioni, entrano a far parte del comportamento naturale di tutti.
178
3. Il terzo metodo consiste nella modifica dell’accettazione
dell’educatore. Egli cioè può guardare in se stesso e valutare
quanto il comportamento in questione gli sia di effettivo disturbo e
quanto invece esso non vada a toccare nessuno dei suoi reali
bisogni. In questo secondo caso sarà sufficiente da parte sua
aumentare il suo livello di tolleranza.
4. Il quarto metodo consiste nella modifica dell’ambiente. Questo
metodo è fondamentale con i bambini, perché esperienze e studi
hanno dimostrato che spesso comportamenti inadeguati possono
essere eliminati con una “modifica o una riorganizzazione
preventiva” dell’ambiente (per esempio quando un bambino non
vuole dormire la sera, riducendo gli stimoli).
A seconda delle necessità e degli obiettivi che ci si propone, le
modifiche all’ambiente possono consistere in:
• Aggiunta di materiali e stimoli che aumentino l’attenzione e
la creatività
• Sottrazione / riduzione degli stimoli o degli strumenti fisici
che innescano comportamenti non adeguati
• Modifica dell’ambiente per favorire comportamenti più
autonomi ed efficaci (es. mettere in evidenza, mettere a
portata del bambino, segnalare percorsi....)
179
• Semplificazione dell’ambiente: spesso infatti, se ci sono
troppe regole da rispettare (non toccare questo e quello, non
salire, non scendere…), i bambini trovano difficile
ricordarsi di tutto
Gordon sottolinea l’importanza di pensare alle modifiche
dell’ambiente in modo creativo ricordando oltre ai parametri fisici
e strutturali, anche quelli di gestione del tempo e delle varie
attività.
5. Altra possibilità è quella dei MPP. Rispetto ad essi, Gordon
ricorda che anche con i bambini più piccoli il messaggio verbale è
sempre importante perché il parlare con loro li aiuta nello sviluppo
del linguaggio e perché, comunque, non è detto che questi non
riescano a capire. Il messaggio verbale non è però sufficiente: è
necessario che l’educatore impari a combinarlo con un messaggio
non verbale, quale un’azione (allontanare il bambino da un
pericolo con mano ferma), un’espressione del viso (esprimere
dispiacere con gli occhi) o della voce (ferma o dolce…)
Secondo Gordon, i MPP di confronto sono molto efficaci con i
bambini perché essi sono profondamente autentici e congruenti,
privi delle inibizione della “buona educazione” e non hanno di
conseguenza problema ad accettare le esigenze esplicitate degli
altri, odiando fra l’altro non vedere riconosciute le proprie. Inoltre
180
Gordon ricorda che i bambini sono tendenzialmente molto
volenterosi e desiderosi di “aiutare” l’altro
6. Ultima possibilità è il problem solving. Utilizzando questo
processo l’educatore dovrà prestare attenzione alle limitate
possibilità di un bambino nel seguire i vari passaggi: sarà quindi
fondamentale per l’educatore ascoltare il bambino, cercando di
leggere quando questo è pronto ad affrontare le varie fasi.
Con la famiglia
Rispetto all’intervento sulla famiglia, mi immagino prima di tutto dei
momenti di presentazione del Metodo Gordon sul quale è impostata la
scuola, degli obiettivi educativi, delle modalità per conseguirli. Un
genitore che iscrive il figlio deve essere consapevole dell’approccio che
verrà usato, lo deve condividere, preferibilmente lo deve utilizzare.
Inoltre prevedrei dei momenti di verifica in cui il genitore dà un feed
back del comportamento e degli apprendimenti del figlio, delle proprie
abilità nell’utilizzo del Metodo.
Per i singoli casi, poi, riterrei opportuno che:
- l’educatore osservi il bambino e le sue interazione con genitori e
familiari in genere in momenti quali: inserimento del bambino,
ingresso/uscita dalla scuola, giornate aperte alle famiglie
181
- vengano effettuati colloqui personali con i genitori,
- si prevedano consulenze su richiesta rispetto alla relazione
genitore/figlio, a problemi specifici che dovessero sorgere,
all’utilizzo del Metodo Gordon in famiglia.
182
CONCLUSIONE
Nell’introduzione avevo anticipato il fatto che, per applicare il Metodo
Gordon, l’educatore doveva essere disponibile a mettersi in gioco e a
rivoluzionare il suo modo di reagire, pensare ed agire. Doveva anche
essere pronto ad esercitarsi, a “fare i compiti”, per riuscire ad applicare il
Metodo in modo sempre più adeguato ed efficace.
Credo che l’illustrazione del Metodo Gordon abbia confermato tale
anticipazione; anzi credo che abbia aggiunto qualcosa: il Metodo è
impegnativo e per certi aspetti rischioso per l’educatore.
Spero però anche di essere riuscita a dimostrare che i risultati educativi
positivi che il Metodo riesce ad ottenere valgano la pena dell’impegno e
del rischio.
L’impegno e i rischi comportati dal Metodo fanno percepire
indirettamente che l’educazione è una cosa seria per la quale bisogna
prepararsi, che non deve essere lasciata al caso.
Naturalmente questo è ovvio per un educatore, ma l’apertura del metodo
ad altri ambiti (ad esempio il luogo di lavoro) può rendere consapevoli
tutti coloro che a qualsiasi titolo hanno delle responsabilità su altri
individui, che è possibile agire (anzi sarebbe bello che pensassero che
devono agire) in termini educativi.
183
Lo stesso si potrebbe dire rispetto alla relazione: il Metodo la mette al
centro e afferma con forza che la relazione è importante, va tutelata e
curata a tutti i livelli, essa non deve passare in secondo ordine rispetto
alle attività obiettivo della relazione stessa (per esempio, sul posto di
lavoro, rispetto alla produttività).
Nella pratica, l’attenzione alla relazione risulterà essere per il bene:
- delle persone
- dell’attività stessa
Un educatore può allora agire a vari livelli: può porsi come obiettivo di
lavorare sull’ambiente e con le persone che hanno responsabilità su altri
per diffondere, attraverso il Metodo Gordon, una società basata su di un
sistema realmente democratico, per diffondere un clima nei vari ambiti
di vita che faccia stare bene le persone.
Il benessere delle persone e la prevenzione delle situazioni
problematiche sono dopo tutto due punti fondamentali dell’intenzionalità
educativa di un educatore professionale.
A conclusione di tutto vorrei comunicare una piccola riflessione, che mi
è venuta spontanea studiando il Metodo Gordon, rispetto a:
congruenza, parola chiave del modo di essere di un educatore che
applica il Metodo
184
paradosso, che sembra all’improvviso presentarsi utilizzando il
Metodo Gordon. Il paradosso di vedere che se si accetta una
persona così com’è, essa proprio per il fatto di sentirsi accettata si
apre più facilmente ad uno spontaneo desiderio di cambiare e
migliorarsi. Il paradosso di vedere che quando non si cerca di
controllare e cambiare l’altro, egli nella sua libertà personale
sembra più disposto a prendere in considerazione e a lasciarsi
influenzare da valori e modi di essere.
Congruenza e paradosso suonano, dal punto di vista del significato
letterale, come due termini inconciliabili.
Forse però, se si è realmente congruenti con se stessi, ciò che ad una
mentalità influenzata dalle regole della “buona educazione” e dei
preconcetti di ruolo sembra essere un “paradosso”, diventa una
“conseguenza congruente”. Una normale conseguenza del “non fare agli
altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, del ricordare che ciascuno è
un essere distinto, unico, libero, autonomo e attivo.
185
APPENDICI
A. Un credo per le mie relazioni con gli altri
Quasi a ulteriore dimostrazione della centralità delle relazioni
interpersonali nella sua vita e nella sua opera, Gordon ha steso un Credo,
una sorta di manifesto programmatico del suo pensiero, una base di tutta
la struttura della sua azione.
Tu ed io siamo in relazione, cosa a cui io do valore e che desidero
mantenere. Nonostante ciò ciascuno di noi è una persona diversa con
bisogni specifici e con il diritto di soddisfare tali bisogni.
Quando tu sperimenterai dei problemi nel soddisfare i tuoi bisogni, io ti
ascolterò con accettazione sincera così da facilitarti il trovare le tue
soluzioni invece di dipendere dalle mie. Inoltre rispetterò il tuo diritto di
scegliere le tue convinzioni e di sviluppare i tuoi valori, per quanto
questi possano essere diversi dai miei.
Comunque, quando il tuo comportamento interferirà con quello che devo
fare per soddisfare i miei bisogni, ti dirò apertamente e onestamente
come il tuo comportamente influisca su di me, fiducioso che tu
186
rispetterai le mie esigenze e i miei sentimenti abbastanza da cambiare il
comportamento che non è accettabile per me. Allo stesso modo, in
qualunque momento il mio comportamento non sarà accettabile per te,
spero che me lo dica apertamente e onestamente così che io possa
cambiarlo.
Quando dovesse accadere che uno di noi non possa cambiare per venire
incontro alle necessità dell’altro, ammettiamo di avere un conflitto e
impegnamoci a risolverlo senza che nessuno ricorra all’uso del potere
per vincere sull’altro, ponendolo nella condizione di chi perde. Rispetto
i tuoi bisogni, ma devo rispettare anche i miei. Per cui sforziamoci
sempre di trovare una soluzione che sia accettabile per entrambi. I tuoi
bisogni, come anche i miei, saranno soddisfatti – nessuno dei due
perderà, entrambe vinceremo.
In questo modo ciascuno di noi, attraverso il soddisfacimento dei propri
bisogni, potrà continuare a svilupparsi come persona. In questo modo la
nostra sarà una buona relazione, nella quale entrambi ci sforzeremo di
diventare ciò di cui siamo capaci. E potremo continuare a relazionarci
con rispetto e affetto reciproci e in pace.
187
B. La Comunicazione efficace
(ispirato ad uno scritto di Thomas Gordon)
Gli studiosi di scienze sociali affermano che la comunicazione efficace è
una caratteristica degli “individui psicologicamente sani”, dei gruppi che
funzionano efficacemente, e delle organizzazioni che prosperano e si
sviluppano.
L’esperienza di Gordon formatore aggiunge a questa premessa la
constatazione che se i singoli, i gruppi, le organizzazioni vogliono
diventare efficaci nel conseguimento dei loro obiettivi, devono imparare
a comunicare in modo sempre più adeguato.
Per il singolo, la salute psicologica può essere definita come la “capacità
di parlare con se stessi in modo chiaro e congruente”, cioè come la
consapevolezza dei propri sentimenti, atteggiamenti, valori e opinioni.
Per il gruppo, la salute passa attraverso la comunicazione reciproca. Essa
infatti consente la risoluzione dei problemi, perché ne facilita
l’identificazione70.
Per la salute delle organizzazioni, vale la stessa considerazione espressa
per i gruppi: di conseguenza molti esperti di sistemi organizzativi, nei
70 Un gruppo che non comunica ha spesso dei “programmi occulti” sui quali i membri non hanno mai comunicato. Tali programmi inducono un clima nel quale il singolo si chiude nel silenzio e nella passività o si limita a comunicare cose superficiali e insignificanti.
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loro interventi per risanare un’organizzazione, concentrano l’attenzione
sull’abbattimento delle barriere alla comunicazione sia orizzontale che
verticale.
Se la comunicazione è così importante a tutti i livelli, è allora
fondamentale migliorarla, partendo da un’analisi volta all’identificazione
e al superamento delle barriere che la rendono inefficace.
Un modo di studiare una comunicazione efficace è quello di considerarla
un processo che implica due momenti:
1. invio chiaro o espressione efficace
2. ricezione accurata o impressione efficace
Ognuno di questi momenti comporta delle difficoltà che, per chi vuole
comunicare in modo efficace, significano rischi che bisogna essere
disposti a correre.
1. L’efficacia che una persona può raggiungere nell’inviare messaggi
è aumentata da alcuni fattori:
• parlare ad alta voce
• utilizzare parole familiari al ricevente (conoscenza del
codice)
• inviare un solo messaggio per volta (alcuni aspetti del
messaggio possono essere dimenticati se il mittente riempie
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la comunicazione di supposizioni, osservazioni di scarso
rilievo, ipotesi, fatti, argomentazioni, esempi…).
Il fattore decisivo risulta comunque essere il grado di congruenza
del mittente, cioè la coerenza fra ciò che la persona comunica e
ciò che essa pensa e prova all’interno. Questo fattore è decisivo
perché di solito il ricevente è molto “sensibile” al grado di
congruenza del messaggio ricevuto: valuterà di conseguenza il
mittente aperto, diretto e onesto oppure falso e ambiguo.
Naturalmente una comunicazione congruente espone a dei rischi:
per il mittente:di essere conosciuto per quello che è
e di esporsi alle critiche dell’altro
per il ricevente: di restare male per l’opinione che
l’altro ha di lui
per entrambe: della congruenza stessa, infatti
alcune persone sono spaventate da essa.
2. La ricezione efficace significa utilizzare l’ascolto attivo.
Anch’esso implica dei rischi, che in questo caso sono
essenzialmente per il ricevente. Quando infatti una persona mette
in pratica l’ascolto attivo per capire esattamente l’altro, i suoi
sentimenti e il suo punto di vista, corre il rischio di assistere alla
trasformazione delle proprie opinioni e dei propri atteggiamenti.
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In altre parole le persone cambiano attraverso ciò che capiscono
veramente, attraverso l’apertura all’esperienza dell’altro71.
Il prendere questi rischi dipende secondo Gordon dalla sicurezza
interiore, dall’autostima e dal coraggio personale.
71 Vale anche il viceversa: la persona che è sulla difensiva, che non vuole esporsi al confronto con idee e opinioni diverse dalla sua, è una persona che non sarà mai in grado di ascoltare veramente l’altro.
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C. Glossario
Ci sono dei termini chiave nell’illustrazione del sistema concettuale di
Gordon che vale la pena di puntualizzare, anche se in modo conciso.
Le definizioni che seguono sono prese dal sito del Gordon Training
International.
Active listening (ascolto attivo) = Una modalità di ascolto nella quale
viene riflessa da parte di chi ascolta la sua comprensione di ciò che una
persona ha detto. Lo scopo è duplice:
- confermare alla persona che chi ascolta ha compreso il messaggio
- offrirle la possibilità di correggere nel caso in cui il suo messaggio
non sia stato compreso correttamente
Ma ancora più importante è il fatto che questo tipo di ascolto comunica
l’accettazione dei pensieri e delle emozioni della persona.
Behaviour window (finestra del comportamento) = tutte le relazioni,
in un momento o in un altro sperimentano dei problemi. Gordon ha
escogitato uno strumento grafico, la Finestra del Comportamento, per
aiutare le persone a definire accuratamente i problemi, “a chi”
appartengono e come risolverli. La comprensione e l’utilizzo di questa
finestra aiuta a stabilire quale abilità comunicativa utilizzare, quando e
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come utilizzarla. La finestra consente anche di prevenire l’utilizzo di
azioni disciplinari e di eliminare la necessità di inquadrare la tipologia di
personalità della persona che sta di fronte.
I-Message (messaggi in prima persona) = Il messaggio in prima
persona è uno strumento per influenzare gli altri a modificare un
comportamento che interferisce con la possibilità di soddisfare i propri
bisogni. Esso consiste in una descrizione non-colpevolizzante e non-
giudicante di un comportamento considerato non accettabile, di come
esso influenza e fa sentire, degli effetti tangibili che esso ha su chi
subisce tale comportamento.
L’efficacia di tale messaggio risiede nel fatto che si affronta il
comportamento, ma non si attacca la persona. Come conseguenza, gli
altri sono più disponibili a cambiare il loro comportamento non
accettabile.
No-lose Conflict Resolution (Soluzione dei Conflitti senza Perdenti)
= E’ un metodo a sei passi per risolvere i conflitti in modo che tutte le
parti in causa siano soddisfatte dalla soluzione. Quando si invitano tutte
le parti a partecipare alla soluzione di un problema, di solito si ottengono
soluzioni di migliore qualità. Inoltre, è più probabile che le soluzioni
trovate e concordate dalle parti siano attuate.
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L’efficacia di tale metodo si spiega semplicemente con il Principio di
Partecipazione: le persone sono più motivate ad adeguarsi a decisioni
che hanno contribuito a definire.
Principle of Participation (Principio di Partecipazione) = E’ un
principio che deriva dal buon senso e che sottolinea il fondamento del
modello Gordon. Semplicemente il principio sostiene che le persone che
sono invitate a partecipare nel prendere decisioni e nello stabilire regole
che li riguarda sono più disponibili a rispettarle e a mantenere fede alla
propria parte del contratto.
A tutti, infatti, piace sentire che le proprie opinioni sono prese in
considerazione.
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D. Gordon Training International
Il Gordon Training International (GTI) fu fondato da Gordon nel 1962,
con sede in Solana Beach (California), per offrire possibilità di
formazione nelle relazione umane.
I training elaborati e tenuti da Gordon furono quelli per genitori (PET),
per insegnanti (TET) e per manager d’azienda (LET). Per questi corsi
Gordon offrì anche dei contributi scritti: i suoi libri, tradotti in ben 28
lingue, e degli audiovisivi (specifici per genitori).
Attualmente il GTI è diretto dalla moglie di Gordon: Linda Adams, che
nel tempo ha fortemente contribuito a sviluppare altri tipi di corsi ispirati
al Metodo Gordon. Fra i corsi offerti dal centro, si possono indicare
quelli per: la risoluzione dei conflitti per manager, l’efficacia personale e
professionale, la leadership per studenti universitari, la mediazione fra i
pari, la risoluzione dei conflitti a scuola.
Informazioni sul GTI, si possono trovare in internet al sito
www.thomasgordon.com
In esso vengono presentati tre dipartimenti: Lavoro, Famiglia e Scuola.
Il GTI ha rappresentanti e enti con licenza di offrire i corsi Gordon in
vari paesi, compresa l’Italia dove l’ente autorizzato è lo IACP (Istituto
dell’Approccio Centrato sulla Persona)
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E. IACP
L’Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona in Italia è stato fondato
da Rogers e da due suoi stretti collaboratori: Charles Devonshire e
Alberto Zucconi, attuale presidente. Esso ha sede a Roma.
L’Istituto è un organismo internazionale senza fini di lucro dedito alla
ricerca sul comportamento umano, all’aggiornamento e alla formazione
di specifiche competenze professionali attraverso l’Approccio Centrato
sulla Persona.
Le aree principali di attività sono:
La scuola e l’educazione
La promozione della salute
La psicologia interculturale
Le professioni di aiuto
Il managment e lo sviluppo organizzativo
La psicologia clinica e la psicoterapia
Rispetto al Metodo Gordon, lo IACP ha l’esclusiva per l’Italia per lo
svolgimento di:
corsi brevi di formazione sulla relazione interpersonale
indirizzati a tutti coloro che svolgono attività di supporto
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sociale e individuale e, comunque, a tutti coloro che
desiderano migliorare la propria capacità di comunicare,
corsi di formazione specifica orientati a genitori, insegnanti,
giovani,
corsi indirizzati alla formazione manageriale e a tutti coloro
che hanno responsabilità nella gestione delle risorse umane.
Lo IACP ha inoltre l’esclusiva per la formazione dei formatori72 del
Metodo Gordone garantisce la qualità dei corsi tenuti da questi ultimi.
Per informazioni sullo IACP si può consultare il sito www.iacp.it.
Per informazioni particolari rispetto al Metodo Gordon, si può contattare
l’ufficio di coordinamento di Roma all’indirizzo e-mail: [email protected]
72 La formazione dei formatori consiste in un training di due anni nell’Approccio Centrato sulla Persona con lo IACP e di un training per diventare istruttori dei corsi Gordon, con formatori abilitati dallo stesso IACP.
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BIBLIOGRAFIA
1. Thomas Gordon Nè con le buone, nè con le cattive Edizioni La Meridiana
2. Thomas Gordon
Genitori efficaci Edizioni La Meridiana
3. Thomas Gordon
Leader efficaci Edizioni La Meridiana
4. Thomas Gordon Insegnanti efficaci Ed. Giunti
5. Mucchielli
Apprendere il counselling Ed Erickson
6. R. Carkhuff L’arte di aiutare Ed Erickson
7. IACP Insegnanti efficaci Quaderno di lavoro
8. Giuliana Ukmar Se mi vuoi bene, dimmi di no Franco Angeli – Le Comete
9. Codice Deontologico Stesura Luglio 2002 A cura dell’Associazione Nazionale Educatori Professionali
10. www.iacp.it
11. www.thomasgordon.com
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12. http://ahpweb.org (Association for Humanistic psychology)
13. www.anep.it
14. www.educare.it
15. www.psyconline.it
16. www.geagea.it
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