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ANDREA MASCARETTI
Presidente del Comitato Scientifico del Salone Internazionale della Ricerca,
Innovazione e Sicurezza Alimentare
EXPO 2015: DALLE ORIGINI ALLA LEGACY
Nel (lontano) 2006 parte la sfida di Expo 2015, Milano si appresta a sfidare
Smirne e l’Italia a conquistare la manifestazione universale.
La scelta del tema “nutrire il Pianeta, energia per la vita” riassume paure e
speranze dell’umanità. Stili di vita insostenibili e il previsto aumento
demografico, pongono i decisori politici del Pianeta di fronte a grandi
responsabilità. L’Expo del 2015 rappresenta la possibilità per intraprendere la
strada giusta per sfamare il pianeta in modo sostenibile.
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AMINA CIAMPELLA
Presidente dell’ordine dei tecnologi alimentari delle Regioni Lombardia e
Liguria
ASPETTI MATERIALI E IMMATERIALI DELLA QUALITA’ DEL CIBO
L’universo della qualità alimentare si presenta come un sistema di requisiti, sia
materiali che immateriali, relativi al prodotto in sé, al contesto di produzione, al
sistema prodotto-packaging, al sistema prodotto – mercato ( Peri, 2005) . Ogni
alimento possiede sue caratteristiche: chimiche, fisiche, strutturali,
microbiologiche, genetiche, di contesto . In relazione ad esse, la qualità si
esprimere con una serie di performances, quali: sicurezza, nutrizione,
sensorialità, funzionalità, esteticità, eticità, convenience. In questo ampio
contesto è contenuto non solo quello che il consumatore si attende, ma anche
quello che dobbiamo favorire per un sviluppo sostenibile del sistema produttivo
agroalimentare.
3
ALFREDO VANOTTI
Dipartimento Salute nutrizione e benessere, L.U.de.S. Lugano (CH);
Dipartimento di Scienze della Salute UNIMIB
FRAGILITÀ NUTRIZIONALE
Primi risultati di un intervento informativo-formativo in Lombardia (2013-2014)
La malnutrizione per difetto (d’ora in avanti definita semplicemente
malnutrizione, come nell’accezione comune ormai consolidata) è una forma di
squilibrio energetico piuttosto diffusa in tutto il mondo. Nonostante tale
patologia costituisca un grave problema endemico nelle popolazioni in via di
sviluppo, essa si riscontra con notevole frequenza anche in diverse fasce della
popolazione nei paesi occidentali industrializzati.
Si stima che i costi sanitari relativi alla malnutrizione, nella nostra società,
siano superiori ai costi dell’obesità. Essa rappresenta, infine, un problema
spesso non diagnosticato o, addirittura, non trattato.
L’identificazione di fattori di rischio della malnutrizione, modificabili con
appositi interventi, rappresenta un primo importante passo nella prevenzione di
questa patologia.
Da sempre, gli interventi individuati e proposti per combattere la malnutrizione
si sono concentrati sul trattamento specifico e terapeutico di tale condizione
una volta verificatasi, mentre, negli ultimi anni, sono state suggerite nuove
modalità di screening per l’identificazione precoce di situazioni di rischio di
malnutrizione (o rischio nutrizionale), in particolare nel contesto ospedaliero e
socio-sanitario.
Tali modalità sono state ideate ed elaborate tenendo proprio conto del fatto
che la situazione di rischio nutrizionale (intesa come quella situazione in cui è
in atto un iniziale squilibrio energetico negativo, frequentemente recuperabile
4
col semplice ripristino della correttezza della dieta) non è spesso riconoscibile
attraverso sintomi evidenti.
Tuttavia, numerosi studi dimostrano come tali procedure di screening siano, ad
oggi, ancora scarsamente applicate. Inoltre, raramente, in letteratura, è stato
presa in considerazione l’identificazione del rischio nutrizionale al di fuori
dell’ambito sanitario-ospedaliero e, quindi, gli interventi sono stati indirizzati
sostanzialmente all’ambito medico-specialistico.
In questo contesto, un gruppo di studiosi, all’inizio del 2013, ha gradualmente
avvertito la necessità di elaborare il concetto di “fragilità nutrizionale”, al fine
di affrontare il problema della malnutrizione, attraverso interventi preventivi.
Con il termine di “fragilità nutrizionale” si è arrivati a identificare tutte quelle
situazioni di incipiente squilibrio energetico negativo in cui: tale squilibrio, se
non corretto, diviene causa di malattia; una adeguata nutrizione rappresenta la
fonte di guarigione; il problema non è noto al soggetto stesso e a tutti coloro
che si curano di lui (caregivers).
Tale definizione aggiunge, quindi, una variabile tra i fattori determinanti del
rischio nutrizionale, cioè la possibilità che non venga riconosciuto il rischio di
malnutrizione da parte dei caregivers, a causa di inadeguate conoscenze in
campo nutrizionale.
Il possibile intervento richiesto per limitare la prevalenza di fragilità
nutrizionale, e quindi di malnutrizione, diviene socio-educativo, e non più
sostanzialmente terapeutico-sanitario. Non si tratta di curare, ma di rindirizzare
il modo di nutrirsi, con l’aiuto di chi si occupa abitualmente del soggetto
fragile. L’obiettivo ultimo, che è quello di prevenire la malnutrizione, passa
inevitabilmente dalla necessità di agire sul cerchio di persone intorno al
soggetto a rischio di malnutrizione, aumentandone la consapevolezza e la
capacità di intervenire, direttamente o indirettamente, sullo stato di fragilità,
revertendolo.
5
E’ stato quindi sviluppato un progetto di educazione alimentare dal nome
“Intervento multidisciplinare per il controllo della fragilità nutrizionale nella
Regione Lombardia”.
In una prima fase, svolta a livello ospedaliero per questioni legate alla più
semplice reperibilità dei soggetti a rischio di fragilità nutrizionale e dei relativi
caregivers, si è concentrata la verifica delle ipotesi progettuali.
Per questa parte del lavoro si è, cioè, valutata la relazione tra la presenza di
rischio nutrizionale (misurata attraverso il Malnutrition Universal Screening
Tool) in pazienti neo-ricoverati, e le conoscenze nutrizionali degli stessi e dei
relativi caregivers domiciliari (misurate attraverso un questionario
appositamente predisposto).
Dall’analisi dei dati è emerso che erano a rischio malnutrizione il 27,9% dei
pazienti, in linea con le statistiche internazionali sul rischio di malnutrizione
ospedaliero. Inoltre, è stato preso in considerazione il ruolo dell’età, del sesso
e delle presenza di almeno un caregiver come possibili fattori di rischio nella
determinazione del rischio nutrizionale. Dall’analisi statistica è emerso che tale
rischio si verifica con probabilità significativamente maggiore nelle femmine.
I dati hanno, infine, confermato l’ipotesi progettuale, in quanto è emerso che le
conoscenze nutrizionali dei caregivers dei pazienti a rischio nutrizionale erano
significativamente inferiori rispetto a quelle dei caregivers dei pazienti non a
rischio. Allo stesso modo, i pazienti a rischio nutrizionale hanno mostrato
competenze significativamente minori rispetto ai pazienti non a rischio.
Successivamente, sono stati descritti i risultati ottenuti attraverso i primi
interventi di educazione nutrizionale, condotti come sperimentazione “pilota”,
nei quali si sono individuate differenze significative tra il livello di competenze
iniziali e finali dei soggetti formati. Si è inoltre tentato di stabilire quali fattori
potessero influenzare l’efficacia della formazione e, tra questi, il livello di
istruzione si è dimostrato potenzialmente in grado di modificarne l’effetto.
6
Parallelamente, si è tenuto un corso di formazione del personale infermieristico
dell’ospedale, e si è tentato di stabilirne l’efficacia attraverso il miglioramento
delle competenze dello stesso, con le medesime modalità degli interventi
tenuti nel territorio.
Dai dati è emerso che gli infermieri hanno significativamente migliorato il loro
livello di competenze nutrizionali.
Nonostante si tratti di dati preliminari, e il progetto sia ancora in divenire, i
risultati ottenuti sembrano suggerire un importante ruolo dell’educazione nella
determinazione di rischio nutrizionale e, quindi, la potenziale efficacia di
interventi formativi come strumento di prevenzione del rischio di malnutrizione.
Infine, si è tenuto conto del coinvolgimento del sistema produttivo industriale
alimentare e della distribuzione commerciale nel tema più ampio della fragilità
nutrizionale. Caratteristiche quali densità calorica, composizione, palatabilità,
durata, facilità d’uso, ma soprattutto adeguatezza della consistenza, vanno
ancor meglio sviluppate per incoraggiare un atteggiamento proattivo nel
consumatore.
In tale senso, il mondo dell’industria, in particolare, è stato stimolato a
produrre alimenti adatti soprattutto alle esigenze di soggetti disfagici, per i
quali sarebbe possibile dilatare il periodo di tempo che precede la nutrizione
artificiale, attraverso alimenti appositamente studiati.
Inoltre è prevista un’azione educativa nei confronti di figure che fungeranno da
“accompagnatori” alla spesa, nel contesto di un progetto rivolto agli anziani.
La proposta progettuale e la realizzazione del Progetto, per quanto solo
parzialmente attuata, si presenterà all'appuntamento dell'EXPO nel 2015 con
una serie di esperienze derivanti dalle azioni formative rivolte a diversi target
della popolazione, e dal dibattito culturale che sarà stimolato dagli interventi
progettuali sulla Fragilità Nutrizionale.
I risultati conseguiti dal Progetto, entro il 2014, potranno quindi costituire
argomento di grande interesse nell'ambito delle tematiche che saranno
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presentate e dibattute durante lo svolgimento dell'EXPO stesso, pienamente in
linea con la sfida collettiva proposta di creare modelli per “nutrire il pianeta”.
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PAOLA PALESTINI
Coordinatrice del master di II livello Alimentazione e Dietetica Applicata
(ADA), Dipartimento di Scienze della Salute UNIMIB
E’ TUTTA COLPA DELLA BIOCHIMICA, OVVERO YIN AND YANG DEGLI ALIMENTI
Giornalmente introduciamo con l’alimentazione un numero rilevante di
molecole e/o nutrienti che interagendo con il nostro corpo attivano risposte
positive o negative. In quest’ultimo caso, molecole che differiscono per
“piccoli” particolari chimici, possono innescare vie di signalling intracellulare
che danno origine a condizioni morbose.
Perché è meno salutare introdurre grassi di origine animale che vegetale? La
differenza chimica principale è la presenza di acidi grassi saturi nel primo caso
e insaturi nel secondo e solo quest’ultimi hanno la capacità di attivare il
metabolismo energetico.
La differenza fra glucosio e fruttosio è la “forma” che questi zuccheri adottano
in acqua ma mentre il primo scatena una risposta ormonale, il secondo no ma
se viene assunto in quantità, ha una maggior propensione a essere convertito
in grassi. Le differenze fra il colesterolo e i fitosteroli sono minime ma
quest’ultimi non possono essere utilizzati dal nostro organismo. Il saccarosio,
lo zucchero da cucina e il lattosio, presente nel latte e nei suoi derivati, hanno
poche differenze ma molte persone non possono digerire il lattosio mentre
praticamente tutta la popolazione è capace di digerire il saccarosio.
In conclusione, in biochimica le piccole differenze fanno le grandi differenze
quindi possiamo dire che è tutta colpa della biochimica se alcuni alimenti che
introducimento danno delle reazioni avverse nel nostro corpo.
Allergie e intolleranze modulando le, possono direttamente e/o indirettamente
essere implicate nel controllo del peso corporeo. Il controllo del peso corporeo
è regolato da molteplici fattori.
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In primis il rapporto ematico insulina e glucagone: quando è alto induce
nell’individuo un senso di sazietà, mentre quando è basso, appetito.
Intervengono poi altre molecole come la leptina e la grelina che agendo a
livello dei nuclei arcuati ipotalamici (ARC) inducono rispettivamente sazietà e
appetito. Inoltre, negli ultimi anni sono state scoperte ulteriori molecole
endogene che agendo a diversi livelli concorrono a regolare il peso corporeo.
Recentemente, si è presa in considerazione l’ipotesi che l’azione di questi
ormoni/molecole prodotte dall’organismo potesse essere potenziata o mitigata
dai nutrienti presenti negli alimenti. In particolare, si è ipotizzato che i
nutrienti,
Le prime molecole esogene su cui è stata posta l’attenzione sono gli acidi
grassi a lunga catena (C14-C22) insaturi della serie ω3 come l'acido
docosaesaenoico, DHA e l'acido eicosapentaenoico, EPA. Numerose meta-
analisi hanno confermato che l’azione più consistente degli ω3 nelle condizioni
di insulina-resistenza e nel diabete di tipo 2, è quella di diminuire la
concentrazione dei trigliceridi plasmatici (1), di migliorare la sensibilità all’
insulina e soprattutto di inibire lo stato infiammatorio sia sistemico che nel
tessuto adiposo, caratteristico di queste patologie. Questi acidi grassi agendo
come ligandi positivi di uno specifico recettore (GPR120), inibiscono nei
macrofagi la via del segnale mediata da TNFα e aumentano la sensibilità
all’insulina negli adipociti (2). Topi privi del recettore GPR120, in seguito a una
dieta ad alto contenuto lipidico, diventano intolleranti al glucosio, insulino-
resistenti, obesi con parallelo aumento della lipogenesi epatica, della
differenziazione degli adipociti e concomitante infiammazione. Nella
popolazione umana, nei soggetti obesi è frequente una mutazione di GPR120
che trasduce il segnale in cellula in modo poco efficiente (3). Tutti questi dati
hanno portato alla conclusione che GPR120 è un importante sensore di dieta
lipidica, regola l’appetito e la preferenza del cibo. In ultimo, non bisogna
dimenticare che metaboliti della acido arachidonico (C20:4) attivano le PPARs
e in particolare le PPARs-γ importanti attivatori del metabolismo energetico
10
lipidico e glucidico. Quest’ultime sono anche presenti a livello ipotalamico e la
loro attivazione acuta o cronica può contribuire allo sviluppo di leptina-
resistenza in diete ad alto contenuto lipidico (4).
Anche gli acidi grassi di media lunghezza (C6-C12) sono molecole di signalling
importanti nella regolazione del peso corporeo. Infatti, l’acilazione della grelina
mediata dall’enzima O-aciltransferasi, è indispensabile per il legame della
grelina con il suo recettore. E’ dimostrato che la grelina attiva in modo diverso
il recettore in funzione della lunghezza dell’acido grasso legato e che gli acidi
grassi a media lunghezza, introdotti con la dieta, sono quelli maggiormente
utilizzati. Si è quindi arrivati alla conclusione che il sistema grelina/O-
aciltransferasi, è una via del segnale che avvisa l’ipotalamo della presenza di
cibo calorico (lipidi) nella dieta (5). Infine, gli acidi grassi a corta catena (C2-
C4) prodotti dalla fermentazione batterica intestinale, attivano mediante i
recettori GPR43 eGPR41, presenti nelle cellule intestinali, una via di signalling
intracellulare che porta alla liberazione nel sistema circolatorio del glucagon-
like peptide, modulando così la liberazione di insulina e quindi l’appetito (6).
Anche gli amminoacidi agiscono come modulatori di una importante via di
signalling mediata da mTOR, una proteina chinasi cellulare del complesso
proteico mTORC1. Quest’ultimo è un importante “sensore” sia cellulare che
sistemico (tramite l’insulina) della disponibilità dei nutrienti. Alcuni aminoacidi
come leucina, glicina e arginina attivano mTORC1 con conseguente attivazione
delle vie anaboliche, per esempio aumentando la biosintesi proteica. Negli
adipociti aumenta in particolare la sintesi di leptina che a livello ipotalamico
induce la riduzione dell’assunzione dei cibo (7,8). Infine, recentemente è stato
dimostrato che la somministrazione orale di L-arginina stimola la produzione di
glucagon-like peptide1, aumentando così la secrezione di insulina post-
prandiale e migliorando la tolleranza al glucosio (9).
Per quanto riguarda i glucidi, oltre all’azione regolatoria principe del glucosio
sul rapporto insulina/glucagone, non bisogna dimenticare il ruolo del fruttosio.
L’organismo umano non risente delle variazioni ematiche di questo zucchero
11
che negli ultimi anni è sempre più utilizzato dall’industria alimentare come
dolcificante. Il fruttosio viene catabolizzato, a fini energetici nell’uomo,
“incanalandolo” nella glicolisi aggirando però il sistema di controllo principale
di questa via catabolica. Conseguentemente, si ha una produzione elevata di
prodotti finali che vengono indirizzati in altre vie metaboliche (lipogenesi per
es.) alterando il perfetto equilibrio metabolico cellulare e conducendo a poco a
poco a condizioni fisiopatologiche che posso sfociare nel tempo in condizioni
patologiche (insulina-resistenza, ipertensione, disfunzione epatica, ect)(10).
Si può concludere che i nutrienti possono essere definiti come ormoni che
modulando le complesse vie di signalling cellulare controllano il metabolismo
energetico e quindi il peso corporeo (11). Il poter identificare quali sono le
molecole modulatrici e gli alimenti che le contengono, permetterà di
comprende in modo sempre più sofisticato il rapporto tra ciò che mangiamo e
alcune malattie come l’obesità, l’ipertensione e il diabete.
REFERENZE
1)Abeywardena MY and Patten GS. (2011) Role of ω3 long-chain polyunsaturated fatty acids in reducing cardio-metabolic risk factors. Endocr Metab Immune Disord Drug Targets. 3:232-46. 2) Da Young Oh. et al. (2010) GPR120 is an omega-3 fatty acid receptor mediating potent anti-inflammatory and insulin-sensitizing effects. Cell 142: 687–698 3) Ichimura A. et al (2012) Dysfunction of lipid sensor GPR120 leads to obesity in both mouse and human. Nature 483: 3 5 0-356. 4) Ryan KK. et al. (2011) A role for central nervous system PPAR-γ in the regulation of energy balance. Nature Medicine 17:623-627. 5) Kirchner H. et al., (2009) GOAT links dietary lipids with the endocrine control of energy balance. Nature Medicine 15:741-745. 6)Tolhurst G. et al., (2012) Short-Chain Fatty Acids Stimulate Glucagon-Like Peptide-1 Secretion via the G-Protein–Coupled Receptor FFAR2. Diabetes 61:364–371. 7)Dan SG. et al., (2006) The amino acid sensitive TOR pathway from yeast to mammals. FEBS Letters 580: 2821–2829. 8)Ricoult SJH. and Manning BD. (2013) The multifaceted role of mTORC1 in the control of lipid metabolism. EMBO reports 14: 242-251. 9)Clemmensen C. et al, (2013) Oral L-Arginine Stimulates GLP-1 Secretion to Improve Glucose Tolerance in Male Mice. Endocrinology doi: 10.1210/en.2013-1529. 10) Lustig RH. et al., (2012) The toxic truth about sugar. Nature, 482;27-29. 11) Ryan KK and Randy JS. (2013) Food as a Hormone. Science 339, 918-919.
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PIETRO NERVI
Presidente associazione Cervati Trento, Demani civici proprietà collettive –
UNITN
L’AZIENDA FONDIARIA IN UN SISTEMA ECONOMIA-AMBIENTE IN
CONTINUA EVOLUZIONE
1. Il patrimonio naturale e le produzioni territoriali
Le risorse naturali, costituenti il patrimonio naturale di un territorio,
possono dare origine a flussi di beni finiti o intermedi e di energie
rinnovabili. Tali risorse alimentano i processi delle produzioni territoriali,
tra cui distinguiamo le attività:
a. dell’agricoltura;
b. della selvicoltura;
c. dell’allevamento;
d. delle industrie collettrici (caccia, pesca, fungatico, ecc.)
e. dell’industria estrattiva;
f. dell’industria delle acque minerali alimentari;
g. delle industrie delle energie rinnovabili (idroelettrica, eolica,
solare).
2. Due tipologie di azienda fondiaria:
a. il demanio civico come azienda agro-silvo-pastorale e ambientale
i. il sé,
j. come fornitore di beni finiti ed intermedi alle famiglie ed alle
imprese della collettività titolare del possesso;
b. l’azienda agricola;
3. L’azienda fondiaria come fonte dell’energia biologica della terra.
4. Implicazioni della natura dell’azienda in approcci diversi:
13
a. in quello di tipo valutativo, in cui si distingue tra la domanda di
utilità in termini di merci 8che sono riproducibili ed, in parte, anche
sostituibili) e l’offerta di supporti (cui sono strettamente collegati i
servizi naturali finali) i quali non sono riproducibili né sostituibili;
b. in quello relativo alle azioni di sviluppo sostenibile e durevole di un
territorio, in cui è facile identificare nel potenziale di produzione del
patrimonio naturale uno dei motori dello sviluppo territoriale.
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MARTA VILLA
Presidente Club UNESCO di Trento, antropologa culturale -alimentazione, Alpi e identità-
L'INVENZIONE DELLA TRADIZIONE A TAVOLA
Ricettari e antropologia dell'alimentazione nel Trentino dal XVIII secolo ad oggi. Il caso del ricettario Todeschi
Le culture umane nel corso del loro sviluppo e della loro storia sociale si sono
relazionate con il cibo, sia quello prodotto sia quello consumato, e hanno
incorporato una serie di azioni rituali e simboliche legate a questo elemento
imprescindibile della vita umana. La tradizione e la memoria sono correlate alle
pratiche alimentari: esistono infatti una oralità ed una scrittura legate al cibo
con caratteristiche molto differenti. La memoria percettiva diviene memoria
emozionale, la tradizione familiare attraverso l'individuo diventa tradizione
comunitaria e quindi patrimonio immateriale da salvaguardare. Il cibo spesso
viene a costituirsi come emblema identitario che come altri tipi di
manifestazioni (la moda, la lingua, la musica...) concorre a costruire l'immagine
che ogni individuo ha di se stesso in relazione con gli altri membri della
comunità. Emblematico per eccellenza, l'atto del mangiare pone l'uomo di
fronte all'ambivalenza tra natura/cultura che lo stesso Lévi-Strauss ha
esemplificato nel suo triangolo culinario.
In Trentino sono presenti ricettari poco noti o sconosciuti che testimoniano in
modo vivo modalità differenti di relazione con gli alimenti e i prodotti locali:
spesso dalle ricette si può desumere molto dello spaccato sociale di una
determinata epoca. Dal XVIII secolo in poi la cucina trentina ha visto dei
mutamenti importanti, spesso legati alla dimensione della storia e della politica
che ha investito il territorio: dalla dominazione veneziana, a quella asburgica,
dalle spinte irredentiste alla prima guerra mondiale... la cucina della borghesia
muta profondamente e testimonia una precisa appartenenza. Molte ricette
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presentano derivazioni da luogo molto lontani (il caso dello strudel è
emblematico), molti piatti sono frutto di una tradizione inventata o reinventata,
alcune preparazioni sono specifiche solo della cucina popolare. I piatti
raccontano anche la vocazione di un territorio e il legame con altre regioni,
evidenziano ricchezze e povertà, mutano condizionati da situazioni politiche e
chiusure di frontiere e limitazione dei commerci. I ricettari di casa Todeschi di
Rovereto, casa Marzani di Villalagarina e casa Fiumi di Rovereto e Verona
raccontano uno spaccato di storia trentina con modalità differenti e sono una
testimonianza poco esplorata fino ad ora per narrare storie intrecciate con la
Storia.
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MARIA LUISA CALDOGNETTO
Università di Treviri (D), Centro di Documentazione sulle Migrazioni Umane (L)
LA TRADUZIONE DELLE TRADIZIONI ALIMENTARI
Varcare le frontiere con le proprie speranze di un futuro migliore, ma anzitutto
con il proprio corpo e le sue esigenze, in primis alimentari (si fugge spesso la
precarietà e la penuria di cibo), tale è la condizione che definisce il migrante.
Poi nulla sarà più come prima, nonostante il bisogno di intrattenere
(alimentare) il legame con il passato e con i luoghi delle origini (tempo e spazio,
realtà e immaginari). Legame che passa inevitabilmente attraverso il culto
della tradizione, dove la sfera del cibo si carica di aspetti simbolici che
trascendono gli ambiti puramente fisiologici della nutrizione.
Nel processo di “autotraduzione” che l’incontro/scontro con l’alterità sempre
presuppone, le tradizioni alimentari trapiantate all’estero inevitabilmente
scontano adattamenti, mescidanze e reinterpretazioni di quel patrimonio
ritenuto immutabile nella sua qualità di riferimento identitario forte,
prefigurando esiti e interrogativi che si rispecchiano nelle fragilità che
investono oggi il Pianeta e ci interpellano sui modelli di vita che intendiamo
consegnare al futuro.
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FABIO GABRIELLI
Facoltà di Scienze Umane, Università L.U.de.S. Lugano (CH)
IL CIBO COME ESPRESSIONE ANTROPOLOGICA E CENTRALITÀ RELAZIONALE
Il cibo si configura come spazio identificativo, radicalità abitativa1, capace, in
qualche misura, di arginare quel frazionismo sociale che alimenta senza posa la
discontinuità comunitaria. Nella con-fusione delle identità, cioè nel loro
saldarsi reciproco, nasce la possibilità dell’abitare comunitario, che non è fatto
solo di uno spazio fisico condiviso, ma di una potente simbolica che va dalla
ritualità collettiva del gioco alle tracce storico-esistenziali custodite dalla
memoria, da una laboriosità davvero sociale a progettualità culturali, che
ancora prima di informare siano capaci di formare un noi che emerga come
realtà qualitativamente altra.
Purtroppo, il cibo è diventato, nella società tecnologica, che peraltro ha
contribuito in misura rilevante a democratizzarlo e purificarlo, oggetto, merce,
vita informe, e non fascio di relazioni, medium simbolico e sociale2, elemento
non secondario nella strutturazione degli assetti personologici.
1 «Lo spazio di identità è quello che, immunizzandoci rispetto all'incertezza e all'esperienza dello spaesamento, genera la condizione preziosa della stabilità dei nostri confini in un mondo, come io lo chiamo, di incessante deformazione. Naturalmente, il fatto dell'identità qualifica uno spazio come il “nostro” spazio, uno spazio abitato dalle memorie e dalle impronte di altri, di quella cerchia di riconoscimento da cui la nostra identità in almeno un senso dipende. E questo, a sua volta, rende conto del senso dell’abitare per noi» (S. Veca, Le cose della vita. Congetture, conversazioni e lezioni personali, BUR, Milano 2006). 2 R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma-Bari 2009. Sul tema degli oggetti e delle merci negli attuali contesti sociali, tra risemantizzazioni e produzioni di senso, cfr., tra gli altri, L. Ciabarri, a cura di, Cultura materiale. Oggetti, immagini, desideri in viaggio tra mondi, R. Cortina, Milano 2014; D. Miller, Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra, tr. it. Il Mulino, Bologna 2014; F. Clerici, F. Gabrielli, A. Vanotti, Il corpo in vetrina. Cura, immagine, benessere, consumo tra scienza dell’alimentazione e filosofia, Springer, Milano 2010.; V. Codeluppi, Metropoli e luoghi del consumo, Mimesis, Milano 2014; J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, tr. it. Bompiani, Milano 2009; G. Ritzer, La religione dei consumi, tr. it. Il Mulino, Bologna 2000; M. Maffesoli, Le rénchantement du
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In linea con l’ambivalenza tipica del postmoderno, il cibo oscilla tra fast food e
slow food, presentismo e primitivismo3, voracità e salutismo, prevenzione e
patologia, il tutto su uno sfondo più legato a forme di biopotere e contropotere
che ad una organica visione antropologica.
Forse occorrerebbe una rivisitazione più esistenziale del cibo, inteso come
radicamento biologico e narrazione mondana, topos privilegiato del nostro
stare al mondo.
monde, La Table Ronde, Paris 2007; A. Weiner, Inalienable Possessions, University of California Press, Berkeley 1992. 3 A proposito della fin troppo enfatizzata cultura del “cibo genuino”, appare ben centrata la posizione di un grande storico delle idee come Paolo Rossi: «Si sente spesso ripetere che un tempo si mangiava “naturale, che per i nostri nonni e bisnonni il cibo era “genuino” e “gustoso”. I luoghi comuni dovrebbero crollare di fronte ai dati e alle serie ricerche. Invece resistono impavidamente. A forza di essere ripetuti diventano verità » (P. Rossi, Mangiare. Bisogno, desiderio, ossessione, Il Mulino, Bologna 2011; cfr. anche P. Sorcinelli, Gli italiani e il cibo. Dalla polenta ai cracker, Bruno Mondadori, Milano 1999). Naturalmente questo non significa demonizzare il “cibo genuino” in quanto tale, cioè non trattato, ottimo farmaco naturale contro le cosiddette “malattie del benessere”, semmai significa tenerci lontano da espressioni nostalgiche del tipo “ si stava meglio una volta”; insomma, occorre, nelle valutazioni, equilibrio e distacco, recuperando dal passato il “cibo integro”, non il mito del “cibo della purezza originaria”.
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CASIMIRA GRANDI
Dipartimento di Sociologia Ricerca Sociale – UNITN
EXPO È UN’IDEA
La divulgazione della conoscenza in ambito EXPO è un obiettivo di valore
complesso, che impegna sul fronte della transdisciplinarietà perché impone di
affrontare contenuti oltre i canonici contesti di riferimento disciplinare, ed è
arduo armonizzare diversi approcci conoscitivi senza che i soggetti di studio
perdano di significato. È una sfida culturale impegnativa, in cui si deve parlare
di un’economia oltre il tempo di riferimento, in cui si deve descrivere una
popolazione oltre il suo contesto territoriale: tutto questo è quello che
genericamente chiamiamo globalizzazione, ma che potremo anche definire
“oltre” l’immediatezza della conoscenza convenzionale, conformata nel tempo e
nello spazio. Questa è l’idea EXPO: una proiezione verso il futuro dell’umanità,
costruito con l’obiettivo di garantirne l’alimentazione in modo sostenibile per la
Terra.
In un tale scenario, modelli di marginalità esistenziale del passato si traducono
in strategie di sopravvivenza per l’uomo di domani, stimoli per vedere con occhi
altri consuetudini secolari capaci di farci superare visioni standardizzate di un
mondo non più sostenibile. Dobbiamo cambiare
“la nostra condotta negli affari [perché è] strettamente connessa con il modo in
cui amiamo e odiamo, mangiamo e ci riposiamo: in una parola, essa è
fortemente influenzata dalla nostra visione generale delle cose. Per mutare il
nostro stile di lavorare e di fare affari è necessaria una trasformazione più
generale nelle abitudini, negli atteggiamenti, nelle motivazioni, nei valori, che
nel loro complesso costituiscono il nostro retaggio culturale […] molti
avvertiranno una profonda repulsione al riguardo, ritenendo che subire un
simile cambiamento comporti l’ammissione di una sconfitta […ma la resistenza
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al cambiamento e il rifiuto del nuovo innescano] un processo cumulativo
destinato inevitabilmente a mettersi in moto, peggiorando progressivamente la
situazione. A questo punto, la decadenza entra nella sua fase finale, la più
drammatica” [cit. in Landes 2005, 15-16]. Questo scriveva lo “storico globale”
Carlo Cipolla sulla epocale crisi del Seicento. La storia, paradossalmente, è una
straordinaria riserva di fantasia per la nostra omologata contemporaneità.
Non ci sono esaustive spiegazioni, né ricette miracolose per avere ancora
futuro, ma sicuramente è necessario disporre di strumenti culturali adeguati
per individuare le possibili soluzioni -senza preclusione alcuna- ed EXPO è un
motore di conoscenze, formazione, ricerca, innovazione per contribuire
fattivamente allo sviluppo positivo della società globalizzata.
REFERENZE
Beck, U. (2005) Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma Buarque de Hollanda, H. (2012) Cultura como Recurso, Salvador, Secretaria de Cultura do Estado da Bahia
Huizinga, J. (2004), Lo scempio del mondo, Milano, Mondadori
Lupo, S. (2010), Il passato del nostro presente, Roma-Bari, Laterza
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Montanari M., Il cibo come cultura, Roma 2004
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Vivarelli, R. (2005), I caratteri dell’età contemporanea, Bologna, il Mulino
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LAUREA MAGISTRALE GOVERNO ORGANIZZAZIONE TERRITORIO – UNITN
CORSO DI STORIA SOCIALE PROGREDITO A.A. 2014-2015
DOCENTE PROF. CASIMIRA GRANDI
ICONE DI TRADIZIONI E FRAGILITÀ
NONNE E NIPOTI A TAVOLA
Le Icone intendono essere una semplice testimonianza di metodologia transdisciplinare, rappresentative di più ampi studi sulla “traduzione delle tradizioni alimentari nel tempo e nello spazio”.
Il valore sociale del cibo è stato evidenziato attraverso le conversazioni di due nonne del veronese con le nipoti -studentesse universitarie- Greta e Anita, in cui memoria alimentare e memoria identitaria si fondono, presentando il persistente legame delle persone con i luoghi delle origini attraverso la “topografia degli affetti”. L’acceso campanilismo tra due territori risicoli confinanti sulla ricetta originale di un piatto tipico è segno di consapevolezza culturale, di saperi affinati da secolari esperienze e di fragilità sociale al contempo; esso rappresenta, però, anche un efficace antidoto allo spaesamento che deriva dalla mobilità, assumendo un significato ancor più pregnante nel mondo della globalizzazione per affrontare consapevolmente l’alterità. Magari ricordando l’espressione popolare che vede “l’anima nel piatto”.
Casimira Grandi
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GRETA POZZATO
IL SAPORE DEI RICORDI
A mia nonna Maria Teresa4 (originaria di Trevenzuolo-Verona) piace ricordare il
risotto “con il maiale” -o meglio “risotto alla veneta”- come piatto tipico del suo
territorio e come ricetta che l’ha accompagnata lungo tutta la sua vita. Un
ricordo vivo nella sua memoria, che risale agli anni quaranta, è aver mangiato
per l’ultimo dell’anno un risotto preparato appunto con il maiale, fatto
all’onda. 5 e quindi morbido, cremoso, mantecato con molto burro, insaporito
con formaggio grana, cannella (a volte anche noce moscata), pepe e rosmarino;
era una pietanza ricca e propiziatrice per il nuovo anno, che ha il sapore
inimitabile e oramai lontano della gioventù.
A quei tempi era inusuale il riso con le verdure, si faceva solamente con la
carne poiché quasi ogni famiglia possedeva un maiale: che era utilizzato in ogni
sua parte e niente era buttato. Nonna Maria Teresa narra che «il fegato veniva
messo in una rete di grasso, la rete del maiale penso, non sapevo che rete
fosse, dicevano che era la rete del cuore del maiale e lo appendevano al muro.
Tutto veniva buono!».
Maria Teresa il I° maggio del 1952 sposava il compaesano Savino F. -giovane
fotografo che aveva imparato l’arte della fotografia dagli zii Ciro e Remo F.6-
trasferendosi a Bovolone7, paese più grande di Trevenzuolo e vicino a Verona,
una zona strategica che permetteva maggiore visibilità e opportunità lavorative
per la professione del giovane sposo. Bovolone aveva una florida agricoltura,
4 Maria Teresa N. nasce a Trevenzuolo (Vr) nel 1932, oggi è residente a Bovolone (Vr) 5 “All’onda: consistenza ottimale del risotto, che si deve presentare non troppo liquido o troppo compatto: muovendo la casseruola il risotto deve formare l’“onda”. Definizione tratta da http://cucina.corriere.it/dizionario/riso/allonda.htm (link consultato in data 06/12/2014). 6 Ciro F. viveva a Trevenzuolo e praticava la fotografia in casa, invece Remo F. viveva e lavorava a Villafranca, era padre della famosa cantate lirica Alida F. . Savino cominciò a imparare a stampare, ritoccare, fotografare, sviluppare in camera oscuro quando era ancora alle elementari. 7 Bovolone, provincia di Verona, a 16.5 km di distanza da Trevenzuolo.
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con estese coltivazioni di tabacco e granoturco che ne avevano connotato la
ruralità sino agli anni cinquanta, quando il generalizzato miglioramento
economico aveva sviluppato imprese e servizi, inducendo un cambiamento
culturale che aveva mutato anche le abitudini alimentari dei suoi abitanti
(sempre più vicini agli stili di vita urbani). Nello specifico, mia nonna sottolinea
questo aspetto ricordando come lei abbia cominciato a mangiare
frequentemente frutta e verdura proprio in quel periodo, “traducendo” anche un
alimento della tradizione -il risotto appunto- nel cibo del “benessere” con
questo esempio: «c’era una signora che passava gridando “Orto! Orto” e
vendeva verdura. A Trevenzuolo non c’era [l’abitudine di mangiare] la verdura!».
È stato così che nonna Maria Teresa ha introdotto il risotto con le verdure in
famiglia, quando quello più diffuso nel veronese in quel periodo era il “risotto
con il ciccio” 8, insieme con altri alimenti consuetudinari come la classica
“pearà”, il minestrone di patate e fagioli o il salame.9
Dal mondo contadino degli anni precedenti la seconda guerra mondiale a quello
“simil-urbano” dopo il trasferimento a Bovolone, una migrazione entro i confini
provinciali e di pochi chilometri, ma sufficiente a far recepire la necessità di
adeguamento a un nuovo ambiente di vita; era un mutamento percepito in
maniera positiva, che evolveva mantenendo saldo il legame con le proprie
origini.
All’epoca, certamente l’attività nel settore della fotografia ha favorito lo spirito
di innovazione della famiglia, proiettata nell’accelerato progresso del mondo
delle immagini, ma per converso non si può ignorare il più ampio stimolo dato
all’evoluzione alimentare dalla necessità di superare le ristrettezze del lungo 8 Risotto alla veneta o, come si dice oggi, risotto all’Isolana (da Isola della Scala, provincia di Verona) 9 Per ulteriori approfondimenti al riguardo si veda: - Michele Lecce, La coltura del riso in territorio veronese (secoli XVI-XVIII), Verona 1958; - Bruno Chiappa, La risicoltura veronese, Verona 2012; - Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Verona, Il riso Vialone Nano veronese I.G.P. e il suo territorio, Verona 1998; - Monica Del Soldato, La civiltà del risotto tra mantovano e veronese, Edizioni del Baldo s.a.;
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secondo dopoguerra attraverso una nuova cultura. Infatti, il Cibo come
cultura10 è portatore di valori e differenti modi di rappresentare l’appartenenza
identitaria, che la mobilità esprime al meglio “traducendo” l’alimentazione, per
esigenza o per virtù
10 Massimo Montanari, Il cibo come cultura, di, Roma 2004.
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ANITA FERRARIN
IL RISOTTO ALLA PALARO
Il piatto che nonna Teresa R. porta nel cuore è il risotto col tastasàl11. È il suo
piatto preferito, l’immancabile piatto della festa. Sono necessarie delle
precisazioni però: il piatto in questione è conosciuto nel veronese anche col
nome di “risotto all’isolana“. La ricetta abbisogna circa «ogni chilo di riso un
litro e mezzo (o uno e sessanta dcl) di brodo e tanto tastasàl quanto riso».
Però quello che prepara mia nonna non è così, la sua ricetta è leggermente
diversa rispetto all’originale. Teresa ha imparato in giovane età a preparare il
risotto (all’isolana) da suo padre, perché «lui faceva il risotto per le feste nelle
piazze, e in tanti lo gustavano. Il suo risotto è diventato famoso. A Fagnano
(paese di provenienza della nonna, frazione di Trevenzuolo, Verona) ancora oggi
fanno il risotto “alla Palaro” (dal soprannome con cui era conosciuto il padre): è
una tradizione di famiglia, «a Palaro piaceva proprio fare il risotto col tastasàl».
La storia del soprannome del bisnonno è piuttosto interessante, infatti, lui
usava portare -in special modo nelle occorrenze più importanti- un cappello che
era identico al cappello che portava il maestro - direttore d’orchestra Ugo
Pallaro, uno dei padri fondatori della banda di Cerea -Verona- vissuto a inizio
Novecento. La somiglianza ha portato la gente del posto a soprannominarlo
Palaro (la perdita della L è dovuta al dialetto), e così è stato “battezzato” il suo
risotto.
11 Il Tastasàl è un impasto di carne fresca di maiale macinata, salata ed insaporita con abbondante pepe nero frantumato grossolanamente; si tratta dello stesso impasto usato per fare il salame e le salamelle. Le massaie della bassa pianura veronese (zona che comprendeva Isola della Scala, Trevenzuolo e Vigasio) usavano preparare il risotto col tastasàl per assaggiare la pasta dei salumi prima di insaccarli. Da questa verifica deriva il nome del condimento: tastare (=assaggiare) la salatura della carne di maiale, da cui tastasàl.
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Tornando a nonna Teresa, poco dopo il matrimonio, negli anni sessanta, si era
spostata verso il mantovano. Con la prima gravidanza, anni dopo, lei ha iniziato
a detestare il risotto alla veronese; quindi, ha imparato un po’ per necessità e
un po’ per gusto personale, a cucinare il Riso alla Pilota, piatto con una cottura
un po’ particolare; in questa ricetta ogni chilo di riso è necessario un litro e
dieci dcl di brodo (o acqua), così a metà cottura (7 – 8 minuti dopo) non risulta
più liquido. A quel punto, si copre il riso con un panno e poi il coperchio, con
l’umidità si “sgrana”; questo procedimento consente al riso di rimanere
inalterato anche per lungo tempo, senza diventare stracotto. Si tratta di una
specialità rinomata nei territori del sinistra Mincio mantovano12.
Sicuramente il riso “sgranato” è più digeribile, così risulta che «Il riso che
corre, quello mollo, butta fuori tutto il suo amido…ma vuoi mettere quando
l’amido lo tiene dentro?? Ecco, a me piace farlo così…che poi è sempre buono,
anche se non sono presenti tutti, non scuoce mai…sempre che il condimento lo
metti in ultima però!». Nonna Teresa, però, non ha semplicemente imparato a
fare un piatto nuovo, ma ha tradotto la ricetta del risotto di casa sua, in un riso
più appetibile. Ha mantenuto il condimento col tastasàl, piuttosto che col pisto
(condimento costituito da salamelle, sale e pepe), inoltre «qui sul mantovano, il
riso viene cotto nell’acqua, poi lo condiscono una volta pronto…invece io lo
faccio bollire nel brodo che è più gustoso…si parte già da una premessa
migliore, prende più sapore». Raffinate particolarità di una gastronomia
semplice, fatta di attenzioni per la tradizione tradotta da necessità contingenti,
fedele a quella cultura identitaria che fonde i sapori ai saperi ancestrali.
12 Si tratta di territori a sinistra del Mincio, compresi tra il Lago di Garda, il confine con il Veneto e il fiume Mincio appunto. Essi sono caratterizzati da un’imponente presenza di fiumi e canali, che formano una rete idrografica utile per la coltivazione del riso.
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