Yann martel vita di pi

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Nota
Un ragazzo e quattro animali alla deriva nell'oceano Pacifico, superstiti di un tragico naufragio. La loro sfida è la sopravvivenza. Tempo pochi giorni e, della zebra ferita, dell'orango e della iena non resta che qualche osso cotto dal sole. A farne piazza pulita è stata la tigre con cui Pi, giovane indiano senza più famiglia, è ora costretto a dividere i pochi metri di una scialuppa. Contro ogni logica, il ragazzo decide di ammaestrarla. Con l'ingegno, con la forza di uno spirito caparbio e visionario Pi affronta la sua grande avventura. Ed è un viaggio straordinario, appassionante e terribile, ispirato, spiazzante, ironico e violento, che trascina il lettore fino all'attimo in cui il sipario si leva sull'ultimo, agghiacciante colpo di scena.
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YANN MARTEL

VITA DI PILife of Pi

Traduzione di CLARA NUBILE

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Titolo originale dell'opera: Life of Pi © 2001 Yann Martel Published by arrangement with Westwood Creative Artists.

Disegni nel testo: C.S. Richardson

L'Editore ringrazia il Canada Council for the Arts e il Canadian Department of Foreign Affaire and International Trade per il loro contributo a questa edizione.

© 2004 - Edizioni Piemme Economica © 2003 - EDIZIONI PIEMME Spa 15033 Casale Monferrato (AL) - Via del Carmine, 5 Tel. 0142/3361 - Fax 0142/74223 www.edizpiemme.it

Stampa: Mondadori Printins S.p.a. - Stabilimento NSM - Cles (TN)

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à mes parents et a mon frère

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Nota dell'autore

Ho scritto questo romanzo perché avevo fame. Mi spiego. Nella primavera del 1996 uscì in Canada il mio secondo libro. Non fu quel che si dice un successo. I critici rimasero a dir poco perplessi e, in modo più o meno esplicito, lo stroncarono. I lettori semplicemente lo ignorarono. Nonostante i miei notevoli sforzi e i miei numeri da clown trapezista, il circo dei mass media rimase indifferente. Fra tutti i libri allineati sugli scaffali delle librerie come bambini aspiranti calciatori, il mio era il ragazzino smilzo e occhialuto che nessuno vuole in squadra. Sparì in fretta e senza rumore. Non ne feci una malattia. Stavo già lavorando a un'altra storia, ambientata nel Portogallo del '39. Ma ero inquieto. E povero in canna.

Così, presi un aereo per Bombay. Non fu una mossa tanto illogica, se considerate tre fattori: primo, qualche settimana in India è sufficiente a placare l'inquietudine di qualsiasi creatura vivente; secondo, con quelli che per il nostro standard sono pochi soldi in India vivi da nababbo; terzo, un romanzo ambientato nel Portogallo del '39 può tranquillamente non avere nulla a che fare con il Portogallo del '39.

Ero già stato in India; nel nord, per cinque mesi. Ma ero partito per quel primo viaggio senza la minima preparazione. Un amico mi aveva avvertito: «Laggiù parlano un inglese strano. Usano parole come bamboozle, turlupinare.» Il suo commento mi era tornato in mente quando l'aereo cominciava la discesa verso Delhi: la mia conoscenza del subcontinente si limitava a quella parola. Mi tornò utile in più di un'occasione. Per esempio quando protestai con l'impiegato delle ferrovie: «Non mi aspettavo che il biglietto fosse così caro. Sta forse cercando di turlupinarmi?». L'uomo sorrise e rispose con la tipica cantilena indiana. «Nossignore. La tariffa è questa.»

In viaggio verso l'India per la seconda volta, sapevo cosa cercavo, e cosa avrei trovato: un posto tranquillo dove ritirarmi a scrivere il mio romanzo. Mi immaginavo seduto a una scrivania cosparsa di fogli, una tazza di tè fumante in mano, davanti a me un panorama di verdi colline immerse nella foschia, nelle orecchie le grida stridule delle scimmie. Il clima ideale: maglioncino mattina e sera, maniche corte durante il giorno. Così sistemato, avrei impugnato la penna e per amore di una verità superiore avrei trasformato il Portogallo in fiction. Non è questo la fiction; una sorta di trasformazione selettiva della realtà, da cui spremiamo l'essenza? Che bisogno avevo di andare in Portogallo?

La proprietaria dell'alberghetto dove avrei alloggiato mi avrebbe raccontato della lotta per cacciare gli inglesi. Insieme avremmo concordato il menu dei miei pasti. Nelle pause dalla scrittura avrei passeggiato per le colline in mezzo alle piantagioni di tè.

Purtroppo il romanzo, dopo aver sputacchiato e tossito a lungo, morì. Accadde a Matheran, una piccola località in collina non lontano da Bombay, provvista di qualche scimmia, ma priva di piantagioni di tè. La morte di un romanzo è l'incubo

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di tutti gli aspiranti scrittori. L'argomento è buono, e anche lo stile. I personaggi sono così pieni di vita da pretendere il certificato di nascita. La trama è semplice ma avvincente, diremmo grandiosa. Hai fatto le tue ricerche, hai raccolto le informazioni di carattere storico, sociale, climatico e culinario che conferiranno alla vicenda un tocco di autenticità. I dialoghi scorrono veloci, pulsano di tensione. Le descrizioni scoppiano di colori, contrasti e dettagli espressivi. Davvero, la storia è fantastica. Ma non va da nessuna parte. Nonostante le brillanti premesse, arriva il momento in cui capisci che la vocina che si è insinuata in un angolo della tua mente, quella che da mesi ti tormenta senza concederti tregua, dice la nuda, terribile verità: non funziona. Al tuo romanzo manca qualcosa, una scintilla di vita. Chi se ne frega dei dettagli storici e culinari se la storia è emotivamente morta. La scoperta è devastante, ve l'assicuro. E lascia con una fame quasi dolorosa.

Da Matheran spedii le pagine del mio romanzo defunto in Siberia, a un indirizzo inesistente. Sulla busta indicai un mittente finto e un indirizzo boliviano inventato. L'impiegato mise i timbri necessari e la gettò nell'apposita cassetta. Poi mi sedetti sconsolato. «E ora, Tolstoj? Cosa pensi di fare con il resto della tua vita?»

Avevo ancora un po' di soldi e continuavo a sentirmi inquieto; mi alzai e uscii dall'ufficio postale per andare a esplorare il sud dell'India.

A chi, incontrandomi nelle settimane seguenti, mi chiedeva che lavoro facessi, avrei voluto rispondere «Il dottore», perché la medicina è la versione moderna della magia. Ma se avessi ceduto alla tentazione, di sicuro l'autobus su cui viaggiavo avrebbe avuto un incidente alla prima curva e, fra le urla dei feriti, avrei dovuto spiegare ai presenti che ero sì un dottore, ma in legge. Più tardi, di fronte ai parenti delle vittime decisi a far causa allo stato per ottenere un risarcimento, avrei dovuto confessare che la mia era una laurea in filosofia. Infine, dinanzi a chi mi implorava di spiegare il senso di quella tragedia, sarei stato costretto ad ammettere che Kierkegaard l'avevo sì e no sfogliato e così via. Perciò mi limitavo a dire la semplice, umile verità.

«Uno scrittore?» si stupivano in molti. «Davvero?» esclamavano altri. «Ho una storia per te!» La maggioranza delle volte erano poco più che aneddoti, dal fiato corto e dalla vita breve.

Un giorno capitai a Pondicherry, un minuscolo stato federato a sud di Madras sulla costa del Tamil Nadu, al cui confronto l'isola Principe Edoardo, in Canada, è un gigante. La sua storia, però, è particolare. Un tempo Pondicherry era la capitale del più modesto degli imperi coloniali: l'India francese. Ai francesi sarebbe piaciuto eguagliare gli inglesi, non ci sono dubbi, ma l'unico Raj che riuscirono a ottenere, e che si tennero stretto per quasi trecento anni, corrispondeva a un pugno di piccoli porti. I francesi se ne andarono da Pondicherry nel 1954, lasciandosi dietro graziosi palazzi bianchi, ampie strade dai nomi esotici come "rue de la Martine" e "rue Saint-Louis", e i képi.

Mi trovavo alla Indian Coffee House di Nehru Street. È uno stanzone dal soffitto alto con i muri colorati di verde, e sulle teste dei clienti i ventilatori rimestano l'aria calda e umida. Unico arredamento, un buon numero di tavolini quadrati, tutti uguali, ognuno completo di quattro sedie. Ci si siede dove si trova posto, con

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chiunque occupi già il tavolo. Il caffè è buono, accompagnato da pane tostato. Scambiare due chiacchiere è facilissimo. Fu così che un vecchio vivace dagli occhi chiari, con una gran massa di capelli bianchi, mi rivolse la parola. Gli confermai che il Canada è freddo, che si parla francese in molte zone del paese e che l'India mi piaceva molto. Tipica conversazione fra un locale affabile e curioso e uno straniero con lo zaino in spalla. Nel sentire i miei progetti spalancò gli occhi e annuì vigorosamente. Si era fatto tardi. Con un gesto della mano cercai di attirare l'attenzione del cameriere per chiedere il conto. Fu allora che il vecchio mi disse: «Conosco una storia che le farà credere in Dio».

Smisi di gesticolare. Ma ero sospettoso. Forse il vecchio era un testimone di Geova. «È una storia vecchia di duemila anni che prende le mosse da un angolo remoto dell'impero romano?» gli domandai.

«No.»Magari si trattava di una specie di evangelista musulmano. «Una storia

ambientata in Arabia nel diciassettesimo secolo?»«No, no. La storia comincia a Pondicherry qualche anno fa, e si conclude, si

stupirà, nel suo paese.»«E mi farà credere in Dio?»«Proprio così.»«L'avverto, non è impresa da poco.»«Ma neanche impossibile.»Arrivò il cameriere. Esitai un momento, poi ordinai due caffè. Ci presentammo.

Lui si chiamava Francis Adirubasamy. «Coraggio, mi racconti la sua storia» dissi.«Deve promettermi di fare molta attenzione.»«Certamente.» Tirai fuori penna e taccuino.«Mi dica, è andato al giardino botanico?» si informò «Sì, ieri.»«Ha visto i binari del trenino?» «Sì.»«Di domenica funziona ancora, per la gioia dei bambini, ma prima passava tutti i

giorni, uno ogni mezz'ora. Ha fatto caso ai nomi delle stazioni?»«Una si chiama Roseville. È accanto al giardino delle rose.»«Giusto. E l'altra?»«Non mi ricordo.»«Già, hanno tolto l'insegna. L'altra stazione si chiamava Zootown. Le fermate

erano due. Tanto tempo fa c'era uno zoo nel giardino botanico di Pondicherry.»Il vecchio continuò a parlare. Io prendevo appunti, segnando solo i fatti salienti.

«Deve andarlo a trovare» mi disse alla fine riferendosi al protagonista della storia. «Io lo conoscevo bene, molto bene. Ormai è un uomo. Potrà fargli tutte le domande che vorrà.»

Qualche tempo dopo, a Toronto, consultai l'elenco telefonico e in mezzo a nove colonne di "Patel" lo trovai. Mentre facevo il suo numero il cuore mi batteva all'impazzata. Rispose una voce dalla cadenza indiana leggera ma inconfondibile, come una scia di incenso. «Fu tanti anni fa» si schermì. Comunque, era disposto a

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incontrarmi. Ci siamo visti molte volte. Mi ha mostrato il diario che teneva all'epoca degli eventi e i ritagli di giornale ingialliti che testimoniano la sua fama breve e ambigua. Mi ha raccontato la sua storia. Ho annotato tutto sul mio taccuino. Con notevole difficoltà mi sono procurato un'audiocassetta e una relazione del ministero dei Trasporti giapponese.

Ascoltando la cassetta ho capito che il vecchio Adirubasamy aveva ragione: questa è una storia che vi farà credere in Dio.

Mi è sembrato naturale riferire la storia di Mister Patel. L'ho fatto per lo più in prima persona, attraverso la sua voce e i suoi occhi; però, se ci fossero imprecisioni o errori la responsabilità è solo mia.

Devo ringraziare alcune persone, primo fra tutti Mister Patel stesso. La mia gratitudine nei suoi confronti è senza confini, come l'oceano Pacifico. Spero che il mio racconto non lo deluda. Grazie anche ad Adirubasamy, per avermi permesso di cominciarlo. Solo il contributo di tre funzionari dalla professionalità esemplare, però, mi ha permesso di completarlo: Kazuhiko Oda, fino a poco tempo fa impiegato all'Ambasciata Giapponese in Canada; Hiroshi Watanabe, della compagnia di spedizioni marittime Oika, e Tomohiro Okamoto, del ministero dei Trasporti giapponese, ora in pensione. Quanto alla scintilla di vita, la devo a Moacyr Scliar. Infine, la mia più sincera riconoscenza va a quella grande istituzione che è il Canada Council for the Arts, senza il cui supporto economico questo libro, del tutto privo di qualunque riferimento al Portogallo del '39, non sarebbe mai nato. Una comunità che non sostiene i propri artisti sacrifica l'immaginazione sull'altare della cruda realtà, rischiando di coltivare sogni senza valore.

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PARTE PRIMA

Toronto e Pondicherry

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CAPITOLO 1

La mia dolorosa esperienza mi lasciò triste e depresso.Furono gli studi universitari e le pratiche religiose a riportarmi lentamente alla

vita. Ancora oggi conservo quelle che alcuni considerano le mie strane inclinazioni in fatto di culto. Dopo un anno di scuola superiore, mi iscrissi all'Università di Toronto e presi due lauree. In teologia e in zoologia. La mia tesi di teologia esplorava alcuni aspetti della cosmogonia di Isaac Luria, il grande cabalista del sedicesimo secolo originario di Safed. Quella di zoologia era un'analisi funzionale della ghiandola tiroidea del bradipo tridattilo. Scelsi il bradipo perché la sua indole calma, pacifica e introspettiva era un balsamo per la mia anima a pezzi.

I bradipi possono essere didattili o tridattili; la classificazione è determinata sulla base delle zampe anteriori, visto che su quelle posteriori tutti i bradipi hanno tre artigli. Un'estate ebbi il privilegio di osservare il bradipo tridattilo nel suo habitat, le giungle equatoriali del Brasile. È un animale davvero curioso. La sua unica abitudine è l'indolenza. In media dorme o riposa venti ore al giorno.

Il mio gruppo studiava i ritmi del sonno di cinque esemplari: una sera, dopo che i bradipi si furono addormentati, mettemmo in equilibrio sulle loro teste dei piatti di plastica pieni d'acqua. Il mattino seguente, a sole ormai alto, i piatti erano al loro posto e l'acqua pullulava di insetti.

Il bradipo è particolarmente attivo al tramonto. Appeso a un ramo nella caratteristica posizione a testa in giù, si muove alla velocità di quattrocento metri all'ora, mentre a terra scivola da un albero all'altro a duecentocinquanta, sempre che ne abbia motivo, in altre parole, è quattrocentoquaranta volte più lento di un ghepardo motivato. In assenza di stimoli, in un'ora il bradipo percorre appena quattro o cinque metri.

Il bradipo tridattilo ha un'idea piuttosto vaga del mondo che lo circonda. In una scala da due a dieci, dove il due rappresenta un'insolita opacità sensoriale e il dieci un'estrema lucidità, Beebe (1926) assegna al gusto, al tatto, alla vista e all'udito di questo animale un bel due, e all'olfatto un tre stiracchiato. Se vi imbattete in un bradipo tridattilo che dorme nella foresta, due o tre spinte leggere basteranno a svegliarlo; ma non appena sveglio guarderà in tutte le direzioni eccetto la vostra. Perché si guardi intorno è di per sé un mistero, considerato che la sua vista è paragonabile a quella di Mister Magoo. Quanto all'udito, il problema non è la sordità del bradipo, ma la sua indifferenza ai suoni. Beebe riferisce che un colpo di arma da fuoco non gli provoca particolari reazioni se sta dormendo o mangiando. Anche l'olfatto, leggermente più sviluppato degli altri sensi, non va sopravvalutato. Teoricamente i bradipi sono in grado di fiutare i rami marcescenti, ma Bullock (1968) nota che «non di rado» essi precipitano a terra per essersi aggrappati al ramo sbagliato.

Come fa un bradipo a sopravvivere? vi chiederete.Proprio grazie alla sua estrema lentezza. Il torpore e l'indolenza lo tengono lontano

dai pericoli, al riparo dalle brame di giaguari, gattopardi, arpie e anaconde. Nel suo pelo si annida un'alga, marrone nei mesi asciutti e verde nella stagione umida, che lo

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aiuta a mimetizzarsi con muschio e fogliame, facendolo sembrare un nido di formiche, una tana di scoiattolo, o un semplice pezzo di corteccia.

Il bradipo tridattilo è vegetariano e conduce una vita pacifica e in perfetta armonia con l'ambiente. «Sulla sua bocca c'è sempre un sorriso benevolo» commenta Tirler (1966). Quel sorriso io l'ho visto con i miei occhi. Non sono il tipo da proiettare emozioni umane sugli animali, ma più di una volta, durante quel mese in Brasile, mentre osservavo un bradipo a riposo, ebbi l'impressione di fissare uno yogi in meditazione, o un eremita immerso nella preghiera, creature sagge la cui ricca vita interiore sfuggiva ai miei criteri scientifici.

A volte confondevo le mie due aree di studio. I compagni del corso di teologia - agnostici meditabondi e confusi - mi ricordavano i bradipi tridattili; e i bradipi tridattili, stupendo esempio del miracolo della vita, mi ricordavano Dio.

Non ho mai avuto problemi con i miei colleghi scienziati. Gli scienziati sono tipi cordiali, atei, gran lavoratori e bevitori di birra, che quando non sono impegnati a studiare pensano al sesso, agli scacchi e al baseball.

Ero uno studente brillante, se mi è concesso dirmelo da solo. Presi i voti più alti al St. Michael's College per quattro anni di fila. Ottenni tutti i riconoscimenti possibili dal Dipartimento di Zoologia. Se il Dipartimento di Teologia non me ne diede nemmeno uno, è perché non ci sono premi per gli studenti di teologia: l'unica ricompensa a cui ambiscono, ovvio, riposa nelle mani di Dio. Avrei ricevuto la Medaglia del Governor General's Academic, il riconoscimento più prestigioso dell'Università di Toronto, se non fosse stato per un certo ragazzo bianco, con il collo come un tronco, un robusto appetito per la carne di mucca e un carattere insopportabilmente allegro.

La sconfitta mi brucia ancora. Quando in passato hai sofferto molto, ogni ulteriore dolore è insopportabile e allo stesso tempo irrilevante. La mia vita è come uno di quei dipinti con il memento mori, accanto a me c'è sempre un teschio sogghignante che mi ricorda la follia delle ambizioni umane. Io mi faccio beffe del teschio. Lo guardo e dico: «Con me non funziona. Forse tu non credi nella vita, ma di certo io non credo nella morte. Sparisci!». Il teschio ridacchia e si avvicina ancora di più. La cosa non mi sorprende. Se la morte è così attaccata alla vita non è per necessità biologica, ma per invidia. La vita è così bella che la morte se ne innamora, un amore possessivo e geloso che afferra tutto quello che può. Ma la vita supera l'oblio con un balzo, perdendo al massimo una o due cose di poca importanza, e la tristezza è solo l'ombra fugace di una nuvola. A quel famoso ragazzo bianco toccò anche la borsa di studio Rodhes. Gli voglio bene e spero che la sua permanenza a Oxford sia stata interessante. Se un giorno Lakshmi, dea della ricchezza, sarà generosa con me, la visiterò anch'io: è quinta nella lista dei luoghi che desidero vedere prima di morire, dopo la Mecca, Varanasi, Gerusalemme e Parigi.

Non ho nulla da dire sulla mia vita professionale, eccetto che la cravatta è un cappio, e benché sia capovolto puoi comunque finirci impiccato, se non stai attento.

Amo il Canada. Dell'India mi mancano il calore, il cibo, le lucertole sui muri di casa, i musical al cinema, le mucche per le strade, il gracchiare dei corvi, persino i commenti sul cricket, ma adoro il Canada. È un paese fantastico, freddo

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all'inverosimile, pieno di persone intelligenti e comprensive dalle pettinature terribili. In ogni caso, non ho alcun motivo per tornare a Pondicherry.

Richard Parker è rimasto con me. Non l'ho mai dimenticato. Posso dire che mi manca? Sì, mi manca. Lo vedo ancora nei miei sogni. Il più delle volte sono incubi, ma incubi colorati d'amore. Com'è strano il cuore umano. Ancora non riesco a capire come abbia potuto abbandonarmi all'improvviso, senza dirmi addio, senza mai voltarsi a guardarmi. Il dolore è come un'ascia che fa a fette il mio cuore.

In Messico i dottori e le infermiere dell'ospedale furono molto gentili con me. Anche i pazienti. Ammalati di cancro o vittime di un incidente stradale, venivano a trovarmi zoppicando, assieme ai familiari. Non capivano la mia lingua né io la loro, ma sorridevano, mi stringevano la mano, mi accarezzavano la testa, mi lasciavano sul letto cibo e vestiti. Mi facevano ridere e piangere senza controllo.

Dopo un paio di giorni riuscii ad alzarmi, persino a fare due, tre passi, nonostante la nausea, i capogiri e la generale debolezza. Le analisi del sangue rivelarono che ero anemico, con un eccesso di sodio e una carenza di potassio.

Il mio corpo tratteneva i liquidi, tanto che le gambe mi si gonfiarono mostruosamente. Sembrava che mi avessero trapiantato le zampe di un elefante.

La mia urina era scura, di un giallo tendente al marrone. Dopo circa una settimana, camminavo meglio e riuscivo a mettermi le scarpe, ma non ad allacciarle. La mia pelle guarì, lasciandomi cicatrici sulle spalle e sulla schiena.

La prima volta che aprii un rubinetto, il fiotto d'acqua rumoroso e fin troppo abbondante fu uno shock così forte che le gambe mi si fecero molli, la mente si ottenebrò e svenni fra le braccia di un'infermiera.

La prima volta che in Canada andai in un ristorante indiano, mangiai con le mani. Il cameriere mi fissò con occhi severi e mi disse: «Fresco di sbarco, eh?». Io impallidii. Sotto il suo sguardo le mie dita, un secondo prima avide papille gustative che assaporavano il cibo prima della bocca, diventarono sudicie, bloccandosi come criminali colti in flagrante. Non osai leccarmele. Con aria colpevole le strofinai nel tovagliolo. Il cameriere non poteva immaginarsi quanto il suo commento mi fosse parso crudele. Parole come chiodi conficcati nella carne. Presi coltello e forchetta. Non li avevo quasi mai usati prima. Mi tremavano le mani. E il sambar perse il suo sapore.

CAPITOLO 2

Vive a Scarborough. È un uomo piccolo e snello. Un metro e sessantacinque di altezza. Occhi e capelli scuri. Un po' di grigio sulle tempie, carnagione di un gradevole color caffè. Non supera i quarant'anni. È una mite giornata d'autunno e il ristorante non è lontano, eppure indossa un parka pesante, con il cappuccio foderato di pelliccia. Ha il viso espressivo. Parla veloce, gesticolando. Niente convenevoli. Passa subito al dunque.

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CAPITOLO 3

Mi hanno dato il nome di una piscina. Cosa assai stravagante, considerato che i miei genitori non sapevano nuotare.

Francis Adirubasamy fu una delle prime persone con cui mio padre ebbe rapporti di lavoro. Col tempo diventò un caro amico di famiglia. Io lo chiamavo Mamaji: mama in tamil significa zio e -ji è un suffisso che in India esprime rispetto e affetto.

Da giovane, prima ancora che io nascessi, Mamaji era stato un nuotatore professionista, campione del Sud dell'India. Conservò l'aspetto del nuotatore per tutta la vita. Una volta mio fratello Ravi mi raccontò che quando Mamaji era venuto al mondo non voleva smettere di respirare acqua; allora il dottore, per salvargli la vita, lo aveva afferrato per i piedi e lo aveva fatto roteare in aria.

«E funzionò!» ripeteva Ravi, agitando freneticamente la mano sopra la testa. «Mamaji tossì, sputò l'acqua e cominciò a respirare aria, ma tutta la carne e il sangue si concentrarono nella parte superiore del suo corpo. Ecco perché ha il torace così grosso e le gambe così sottili.»

Non dubitai che Ravi dicesse la verità. (Mio fratello era spietato nel punzecchiare la gente. La prima volta che di fronte a me si rivolse a Mamaji chiamandolo «Mister Pesce», gli infilai una buccia di banana nel letto.) Persino a sessant'anni, quando Mamaji ormai era un po' curvo e la sua carne, dopo una vita di gravità anti-ostetrica, tendeva a cadere, faceva trenta vasche nella piscina dell'ashram di Aurobindo tutte le mattine.

Mamaji provò a far da istruttore ai miei genitori: tutto quello che ottenne fu che sguazzassero in poche spanne di acqua di mare, roteando le braccia in modo ridicolo. Quando si cimentavano nella rana, sembravano due esploratori che nella giungla si aprivano un varco tra il fogliame; con lo stile libero, invece, davano l'impressione di precipitare da un dirupo. Ravi era ugualmente privo di talento.

Mamaji dovette aspettare il mio arrivo per trovare un discepolo volenteroso. Quando giunse per me il momento di imparare a nuotare - il giorno del settimo compleanno, secondo Mamaji - ignorando l'angoscia di mia madre, lo zio mi portò in spiaggia, spalancò le braccia in direzione del mare e annunciò: «Ecco il mio regalo».

«Per poco non annegasti» commentava mia madre.Rimasi fedele al mio guru acquatico. Sotto il suo sguardo vigile, mi sdraiavo a

pancia in giù sulla spiaggia, sbattevo le gambe, raschiavo la sabbia con le mani, e giravo la testa a ogni bracciata per respirare. Probabilmente sembravo un bambino che fa strani capricci al rallentatore.

In acqua Mamaji mi teneva a galla e io ce la mettevo tutta per riuscire a nuotare. Era molto più difficile che sulla sabbia. Lo zio però aveva una grande pazienza e mi incoraggiava.

Quando decise che avevo fatto progressi sufficienti, abbandonammo le risate e le grida, le corse e i tuffi, le correnti verde-azzurro e le onde spumeggianti, per la forma rettangolare, la piattezza regolamentare (e l'ingresso a pagamento) della piscina dell'ashram.

Per tutta l'infanzia andai in piscina tre volte alla settimana insieme a Mamaji: ogni

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lunedì, mercoledì e venerdì compivo il mio rituale mattutino con la regolarità impeccabile di una perfetta bracciata a stile libero. Ricordo la dignità con cui il vecchio si spogliava davanti a me: il suo corpo emergeva lentamente man mano che con cura si toglieva i vestiti; all'ultimo momento si voltava per salvare il decoro, e indossava un magnifico costume da atleta, di fattura straniera. Poi raddrizzava la schiena ed era pronto. Gli esercizi a cui mi costringeva erano estenuanti, ma io provavo un piacere intenso nel rendere le mie bracciate sempre più veloci e sicure, fino a quando cadevo in uno stato ipnotico e l'acqua si trasformava in luce liquida.

Ritornai al mare senza di lui, in preda a un eccitante senso di colpa; ero attratto dalle creste maestose che si infrangevano sulla battigia, dalle onde più piccole che la lambivano, come dolci lacci smaniosi di catturarmi.

Quando avevo più o meno tredici anni, il mio regalo di compleanno per Mamaji furono due vasche a farfalla, eseguite in modo più che dignitoso. Alla fine ero così stremato che non riuscii neppure a fargli un cenno con la mano.

Oltre al nuoto, c'erano le conversazioni sul nuoto. Erano le preferite di mio padre. Più resisteva all'idea di imparare più desiderava farlo. Pensare al nuoto lo distraeva dalle incombenze quotidiane dello zoo. Era così rilassante occuparsi di una vasca d'acqua, se non era abitata da un ippopotamo...

Grazie all'amministrazione coloniale Mamaji aveva studiato per due anni a Parigi, dove se l'era spassata come mai nella vita. Era stato nei primi anni Trenta, quando ancora i francesi si sforzavano di gallicizzare Pondicherry proprio come gli inglesi cercavano di britannicizzare il resto dell'India. Non ricordo esattamente quale fosse il suo campo di studio. Qualcosa che aveva a che fare con il commercio, credo. Le storie che raccontava su quel periodo erano eccezionali, ma non parlava dei suoi studi o della Torre Eiffel o del Louvre o dei cafés sugli Champs-Elysées. Le sue erano sempre e solo storie di piscine.

La piscina Deligny, per esempio, la più vecchia di Parigi, costruita nel 1796. Era una chiatta attraccata al Quai d'Orsay che nel 1900 aveva ospitato le gare di nuoto delle Olimpiadi. Ma i risultati non erano stati riconosciuti dalla Federazione Internazionale perché la vasca all'aperto superava di sei metri la lunghezza regolamentare. L'acqua arrivava direttamente dalla Senna, senza essere depurata né riscaldata. «Era fredda e torbida» raccontava Mamaji. «Faceva già abbastanza schifo per il fatto di aver attraversato tutta Parigi, e la gente la sporcava ancora di più.» Poi, con sussurri da cospiratore e abbondanza di dettagli scioccanti, ci assicurava che i francesi avevano standard igienici a dir poco scandalosi. «Per non parlare di Bain Royal, un'altra latrina sulla Senna. Almeno a Deligny toglievano i pesci morti.» Ma una piscina olimpica restava una piscina olimpica, sfiorata dalla gloria immortale. Anche se Deligny era una fogna, Mamaji ne parlava con un sorriso affettuoso.

Le piscine Château-Landon, Rouvert e quella del Boulevard de la Gare erano migliori: coperte, sulla terraferma e aperte tutto l'anno. Sfruttavano l'acqua condensata dai macchinari a vapore di alcune fabbriche della zona, che era più pulita e più calda. Ma anche quelle erano abbastanza torbide e spesso troppo affollate. «In superficie galleggiavano talmente tanti sputi che sembrava di nuotare tra le meduse» ridacchiava Mamaji.

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Le piscine Hébert, Ledru-Rollin e Butte-aux-Cailles, senza dubbio le più belle fra quelle comunali, erano luminose, moderne, spaziose e alimentate da pozzi artesiani. C'era anche la Des Tourelles, l'altra grande piscina olimpica della città, inaugurata durante i giochi del 1924. E tante, tantissime altre.

Ma agli occhi di Mamaji nessuna eguagliava la gloria della piscina Molitor. Era il gioiello acquatico di Parigi, anzi, dell'intero mondo civilizzato.

«Agli dèi sarebbe piaciuto nuotare in quella piscina. La Molitor vantava il club di nuotatori più forte di tutta Parigi. C'erano due vasche: una coperta e una all'aperto, ognuna grande come un piccolo oceano. Nella piscina coperta due corsie erano riservate a chi si allenava. L'acqua era così pulita e trasparente che avresti potuto farci il caffè. Tutt'intorno si ergevano due piani di spogliatoi in legno bianco e blu. Da lassù vedevi tutto e tutti. Gli inservienti segnavano le porte con il gesso quando le cabine erano occupate: erano vecchietti zoppicanti, gentili e burberi allo stesso tempo. Non battevano ciglio di fronte alle grida e ai giochi della gente. Dalle docce uscivano getti d'acqua calda e rilassante. C'erano anche una sauna e una palestra. D'inverno, la piscina all'aperto si trasformava in una pista di pattinaggio. C'era una caffetteria, una tavola fredda, un'ampia piattaforma per prendere il sole, persino due piccole spiagge di sabbia vera. Ogni piastrella, ogni centimetro di ottone o di legno risplendevano. Era, era...»

Era l'unica piscina al mondo che lasciava Mamaji senza parole; erano troppe le cose che gli tornavano alla memoria.

Mamaji si abbandonava ai ricordi, mio padre ai sogni.Ecco perché quando sono nato - tre anni dopo Ravi - mi hanno chiamato così:

Piscine Molitor Patel.

CAPITOLO 4

L'India era una repubblica da soli sette anni quando si arricchì di un piccolo territorio. Pondicherry entrò a far parte dell'Unione indiana il primo novembre del 1954. Un evento di tale portata andava opportunamente celebrato: una porzione del Giardino Botanico di Pondicherry venne offerta gratuitamente a chiunque avesse una brillante idea commerciale.

Fu così che in breve l'India si ritrovò con uno zoo nuovo di zecca, progettato e gestito secondo i principi ambientali più moderni.

Era uno zoo enorme che occupava numerosi acri di terra, al punto che per una visita completa dovevi prendere il treno, anche se, man mano che crescevo, ogni cosa mi sembrava ridursi, treno compreso. Oggi è tanto piccolo da entrare perfettamente nella mia testa. Immaginate un luogo caldo e umido, inondato di luce e colori. Un'esplosione incessante di fiori. Un tripudio di alberi, arbusti e rampicanti: peepul e gulmohur, ceibe rosse, jacarande, alberi di mango, del pane, e tanti altri che sarebbero rimasti anonimi se non fosse stato per le targhette scrupolosamente collocate alla base di ogni tronco. Immaginate un luogo pieno di panchine. E sulle panchine uomini distesi a sonnecchiare, o coppie sedute, che si scambiano occhiate

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fugaci mentre le mani nervose si sfiorano. All'improvviso, in mezzo agli alberi che svettano tutt'intorno, spuntano due giraffe che vi osservano placidamente. Ma le sorprese non finiscono qui. Un attimo dopo vi fanno trasalire le grida di un branco di scimmie, coperte solo dal verso acuto di uno strano uccello. Giungete a un cancello girevole. Pagate distrattamente il biglietto d'ingresso. Proseguite. Ecco un muretto. Cosa vi aspettate di trovare lì dietro? Sicuramente non due rinoceronti immersi in una pozza d'acqua. Invece eccoli! E quando vi girate, vedete l'elefante, talmente grande che arrivando non l'avevate notato. Nel laghetto ci sono gli ippopotami a mollo. Più vi guardate attorno, più cose scoprite. Benvenuti a Zootown!

Prima di trasferirsi a Pondicherry, mio padre gestiva un grande albergo a Madras. La sua profonda passione per gli animali lo convinse a prendere in gestione lo zoo. Un passaggio naturale - penserete voi - dalla cura di un hotel alla cura di uno zoo. Niente affatto. Per molti aspetti, occuparsi di uno zoo è la cosa peggiore che possa capitare a un gestore d'albergo. Pensateci: i clienti non lasciano mai le camere; e non si accontentano di dormire, pretendono la pensione completa; ricevono di continuo frotte di visitatori, molti dei quali rumorosi e indisciplinati. Per pulire le camere bisogna aspettare che gli ospiti se ne vadano sul balcone - se così possiamo definirlo - e per pulire i balconi bisogna aspettare che siano stufi del panorama e rientrino in camera; e quanto c'è da pulire! Perché questi ospiti sono peggio dei barboni. Come se non bastasse, ogni cliente è particolarmente esigente in fatto di cibo, si lamenta di continuo del servizio e non lascia mai - dico mai! - la mancia. Per dirla tutta, molti di loro sono pervertiti: repressi cronici soggetti a esplosioni di incontrollata libidine, o viziosi del tutto privi di inibizioni. In entrambi i casi danno regolarmente bella mostra di sé in osceni episodi orgiastici o incestuosi a beneficio dello staff. Mettetevi nei panni di un albergatore: vorreste dei clienti così?

Lo zoo di Pondicherry era fonte di scarse soddisfazioni e di molti mal di testa per Santosh Patel, mio padre, fondatore, proprietario, direttore, e manager di uno staff di cinquantatré persone.

Ma per me lo zoo era il paradiso terrestre. Conservo solo dolci ricordi della mia infanzia in quel luogo. Vivevo la vita di un principe. Neppure il figlio di un maharaja avrebbe avuto a disposizione un posto tanto grande e meraviglioso per giocare. Nessun palazzo poteva vantare un simile serraglio.

Da bambino avevo un branco di leoni come sveglia mattutina. Non erano precisi come un orologio svizzero, ma ruggivano puntualmente fra le cinque e mezzo e le sei. La colazione era scandita dalle grida e dagli schiamazzi di scimmie urlatrici, gracole e cacatua delle Molucche. Quando uscivo per andare a scuola, non mi seguiva solo lo sguardo affettuoso di mia madre, ma anche quello vivace delle lontre, dei bisonti americani e degli oranghi. Sotto certi alberi passavo di corsa, guardando in alto, per paura che mi piovessero in testa gli escrementi dei pavoni. Era più saggio camminare sotto le fronde colonizzate dai pipistrelli; a quell'ora, l'unico rischio era il loro concerto stonato. Mi fermavo poi davanti ai terrari a contemplare le rane verde smeraldo, gialle e blu scuro, marrone e verde pastello. Oppure mi lasciavo incantare dagli uccelli: fenicotteri rosa, cigni neri, casuari dall'elmo, o esemplari più piccoli come colombelle diamante, tortore dal collare del Capo, conuri nandaya,

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parrocchetti. Gli elefanti, le foche, i felini e gli orsi dormivano ancora; ma babbuini, macachi, cercocebi, gibboni, cervi, tapiri, lama, giraffe e manguste erano già svegli da un pezzo. Ogni mattina, prima di uscire dal cancello principale, lo zoo mi regalava un'ultima immagine, ordinaria e allo stesso tempo indimenticabile: una piramide di tartarughe o il muso iridescente di un mandrillo, il silenzio enigmatico di una giraffa o la bocca spalancata - grassa e gialla - di un ippopotamo, un'ara macao che scalava il recinto di filo spinato, un becco a scarpa che mi rivolgeva uno schiocco di saluto o un cammello dall'aria rimbambita e lasciva. Coglievo al volo quei piccoli tesori mentre affrettavo il passo per non fare tardi. Dopo la scuola, invece, lasciavo che l'elefante mi perquisisse lento e metodico a caccia di noccioline, o che un orango goloso di zecche mi spulciasse i capelli grugnendo deluso dalla mia pulizia. Se solo riuscissi a descrivere il movimento perfetto di una foca che scivola in acqua, di una scimmia che dondola ritmicamente, o il semplice girare la testa di un leone... Ma le parole affondano in questi mari. Usate piuttosto l'immaginazione.

Negli zoo, come in natura, i momenti ideali per le visite sono l'alba e il tramonto, quando gli animali sono particolarmente attivi. Lasciano le loro tane per raggiungere uno specchio d'acqua. Si mostrano senza inibizioni. Canticchiano le loro canzoni. Si salutano e compiono i loro rituali. È una grande ricompensa per gli occhi che li guardano e le orecchie che li ascoltano. Ho trascorso moltissime ore a osservare in silenzio le mille, sofisticate espressioni della vita sul nostro pianeta. Una moltitudine così vivace, dissonante, bizzarra ed elegante da incantare i sensi.

Si sentono in giro tante sciocchezze sugli zoo, almeno quante capita di ascoltarne sul conto di Dio e sulla religione. Molte persone credono erroneamente - anche se in buona fede - che gli animali allo stato brado siano "felici" in quanto "liberi". Di solito hanno in mente un bel predatore, tipo un leone o un ghepardo (raramente si esaltano le gesta di uno gnu o di un oritteropo). Immaginano questo leone che passeggia regale per la savana, o che si lancia in una lunga corsa dopo un pasto eccessivo. Lo vedono vegliare orgoglioso e tenero i suoi cuccioli, finché viene il tramonto e l'intera famiglia sdraiata su un ramo contempla il cielo sospirando di piacere. La vita di un animale selvatico è semplice, nobile e piena di significato: così crede la maggioranza della gente. Poi il leone viene catturato da uomini malvagi che lo rinchiudono in un'angusta prigione. La sua "felicità" è annientata. L'animale agogna disperatamente la libertà e fa di tutto per scappare. La "libertà" gli viene negata per troppo tempo, allora il leone diventa l'ombra di se stesso, il suo spirito si spezza. Ecco cosa pensa la gente.

Ma non è così.Gli animali selvatici vivono una vita di costrizione e necessità all'interno di una

rigida gerarchia sociale, in un ambiente in cui la paura abbonda e il cibo scarseggia. Devono difendere il proprio territorio e convivere con i parassiti. Sono soggetti a vincoli di natura spaziale, temporale e perfino relazionale. In teoria, a livello di pura possibilità, qualsiasi animale può decidere di andare per la sua strada, di trasgredire alle convenzioni sociali e ai limiti caratteristici della sua specie. Ma nel mondo animale un evento del genere è molto più raro che nel mondo umano. Per intenderci, è più facile che un commerciante condizionato dai consueti vincoli sociali - famiglia,

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amici, colleghi - molli tutto e si metta in viaggio con soltanto i vestiti che indossa e pochi spiccioli in tasca. Se l'uomo, la creatura più intelligente e audace, solo in rarissimi casi sceglie di peregrinare da un luogo all'altro, straniero ovunque e ignorato da tutti, perché dovrebbe farlo un animale, che per natura è molto più conservatore? Perché gli animali sono così: conservatori, addirittura reazionari, se mi passate il termine. Il minimo cambiamento li sconvolge. Gli animali preferiscono le cose stabili, uguali a se stesse, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Non amano affatto le sorprese. Prendete per esempio il loro rapporto con lo spazio. Un animale si muove nel suo territorio - nello zoo come nel suo habitat naturale - secondo una logica, come in una partita a scacchi. Gli spostamenti di una lucertola, un orso o un cervo sono determinati dal caso e dalla "libertà" quanto la posizione di un cavallo sulla scacchiera. Ciò vuol dire che in entrambi i casi ogni mossa è l'effetto di una strategia, e ha uno scopo preciso. Libero, un animale torna, stagione dopo stagione, a percorrere sempre le stesse strade, per le stesse, impellenti ragioni. In uno zoo, a una data ora, ogni animale tende ad assumere una posizione specifica. Quando non succede, c'è sempre una spiegazione, di solito una variazione anche minima nell'ambiente: l'aspetto minaccioso di un tubo arrotolato dimenticato da un inserviente, una nuova pozzanghera, l'ombra proiettata da una scala a pioli. A volte però è qualcosa di più grave: un sintomo, l'indizio di una tragedia imminente, ragione sufficiente per esaminare gli escrementi, interrogare il custode, chiamare il veterinario. Solo perché una cicogna non si trova al suo solito posto!

Lasciate che approfondisca questo aspetto della questione.Se un giorno, sfondando la porta d'ingresso, piombaste in casa di qualcuno,

cacciando fuori tutti quelli che ci abitano e urlando: «Andatevene! Siete liberi! Liberi come uccelli, liberi come l'aria! Via! Via!», credete forse che quelle persone vi ringrazierebbero? Nient'affatto. I poveretti protesterebbero: «Che diritto hai di cacciarci? Questa è casa nostra. Abbiamo vissuto qui per anni. Adesso chiamiamo la polizia, brutto mascalzone!».

Avete presente il detto «Casa dolce casa»? Gli animali la pensano esattamente così, sono creature che amano e difendono il proprio territorio. È questa la chiave per comprenderli. Solo un territorio noto consente loro di rispettare i due imperativi assoluti della vita selvatica: evitare il nemico e procurarsi cibo e acqua. Il recinto di uno zoo - così come una gabbia, una pozza, un isolotto, uno steccato, una voliera o un acquario - è un territorio come un altro; unica particolarità: la vicinanza dell'uomo. Certo, è molto più piccolo di come sarebbe in natura, dove tra l'altro i territori sono vasti per necessità, non per scelta. Lo zoo è per gli animali quello che la casa è per noi: un luogo circoscritto in cui viene raccolto e organizzato ciò che ci serve. Un tempo l'uomo viveva nelle caverne. C'era il fiume da una parte, il terreno di caccia due chilometri più in là, il posto di avvistamento in cima al monte e le bacche a fondo valle; il tutto brulicante di leoni, serpenti, formiche, sanguisughe e piante velenose. Oggi il fiume scorre comodamente dal rubinetto, possiamo lavarci e dormire senza lasciare la zona notte, mangiare dove abbiamo cucinato.

Una casa è un territorio compresso, dove tutti i bisogni essenziali trovano ampia e agevole soddisfazione. Per un animale, il recinto di uno zoo che si rispetti è la stessa

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cosa (ovviamente senza il camino e il videoregistratore). Lì l'animale trova un posto di avvistamento, un angolo per riposare, uno per mangiare e bere, per lavarsi, asciugarsi e così via. E quando capisce che può evitare di andare a caccia perché il cibo compare regolarmente sei volte a settimana, l'animale prende possesso del suo recinto esattamente come farebbe con il territorio in natura. Lo esplora e lo marca con rituali tipici della sua specie, magari spruzzi di urina. Completato il rituale di insediamento, l'animale diventa ufficialmente il padrone di casa, e si comporta di conseguenza. Se necessario, difenderà il suo territorio con le unghie e con i denti. Per lui, il recinto non è una soluzione peggiore o migliore del suo habitat di origine. Naturale o artificiale, un territorio è tale quando soddisfa i bisogni di un animale. Questo è un dato di fatto indiscutibile, come le macchie sul manto di un leopardo. Pensateci. Preferireste alloggiare al Ritz con servizio gratuito in camera e tutte le cure di cui avete bisogno o vivere in mezzo alla strada? Ma gli animali non sono in grado di scegliere. Si arrangiano come possono, nei limiti della loro natura.

Uno zoo ben concepito è un luogo di coincidenze ben calcolate: nel punto esatto in cui un animale ci dice «Fuori!» con l'urina o altre secrezioni, noi gli rispondiamo «Dentro!» con le nostre barriere. In queste condizioni di armonia diplomatica dove gli animali sono soddisfatti, e noi rilassati, possiamo osservarci a vicenda.

Nella letteratura zoologica si trovano milioni di storie di animali che hanno avuto l'opportunità di fuggire e non l'hanno fatto, o che sono scappati per poi ritornare. Ricordo il caso di uno scimpanzé. La porta della sua gabbia era rimasta aperta. Lo scimpanzé, di solito un tipo tranquillo, cominciò a urlare e a sbattere freneticamente la porta. Il baccano cessò solo quando il custode, richiamato da un visitatore, non si precipitò a chiuderla. In uno zoo europeo un branco di caprioli fuggì dal recinto. Terrorizzati dai visitatori, si rifugiarono nella vicina foresta, dove già viveva un branco di caprioli selvatici e dove anche loro avrebbero potuto trovare di che sostentarsi. Ma ben presto gli abitanti dello zoo fecero ritorno al recinto. In un altro zoo, un dipendente che si recava al lavoro di buon'ora con il suo carico di assi di legno intravide un orso nella foschia mattutina. Con immenso orrore, si accorse che la belva lo puntava e si avvicinava rapidamente. Lasciò cadere le tavole e se la diede a gambe. Lo staff dello zoo partì immediatamente alla ricerca dell'orso. Lo trovarono nel suo recinto; si era rintanato nella stessa fossa da cui poco prima era scappato con l'aiuto di un tronco spezzato. Probabilmente il rumore delle assi gettate a terra gli aveva messo paura.

Mi fermo qui. Non ho intenzione di difendere gli zoo. Chiudeteli pure tutti se volete, e speriamo che la vita selvatica trovi il modo di sopravvivere in quel poco di natura che ci resta. Alla gente gli zoo non piacciono più, come le religioni, del resto. La persistenza di certe illusioni sulla libertà affligge entrambe le cose.

Lo zoo di Pondicherry non esiste più. Hanno colmato i suoi fossati, distrutto le sue gabbie. Lo posso visitare nell'unico posto che gli rimane: i miei ricordi.

CAPITOLO 5

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La storia del mio nome non si conclude con la sua origine. Se uno si chiama Bob, nessuno gli chiede: «Come si scrive?». Se invece si chiama Piscine Molitor Patel, le cose cambiano.

Al posto di Piscine, c'era chi capiva Pi Singh, il tipico cognome dei Sikh. Pensavano perciò che fossi un sikh e si chiedevano come mai non portassi il turbante.

Una volta, ai tempi dell'università, feci una gita a Montreal con alcuni amici. Una sera toccò a me ordinare le pizze. Non potevo tollerare l'idea che per l'ennesima volta qualcuno che conosceva il francese sghignazzasse per via del mio nome, così quando il tizio al telefono mi chiese: «Il suo nome, per favore?» risposi: «Sono fatti miei». Circa mezz'ora dopo arrivarono due pizze per il signor «Sonny Fathimey».

Le persone che incontriamo possono davvero cambiarci, a volte in maniera così radicale che dopo non siamo più gli stessi, neppure nel nome. Basta pensare a Simone, detto Pietro; a Matteo, chiamato anche Levi; a Nataniele che prese il nome di Bartolomeo, a Giuda (non Iscariota), soprannominato Taddeo; a Simeone detto Niger, e a Saulo, ovvero Paolo.

Io incontrai il mio soldato romano a dodici anni, una mattina, nel giardino della scuola. Ero appena arrivato. Mi vide. Un lampo maligno crepitò nella sua mente spenta. Alzò il braccio, mi indicò e gridò: «Ecco Piscia Patel!».

Tutti scoppiarono a ridere. Si calmarono solo quando rientrammo in classe. Io ero l'ultimo della fila e sulla testa portavo la mia corona di spine.

La crudeltà dei bambini non è certo una novità. Gli insulti aleggiavano nel giardino e trovavano le mie orecchie, senza che avessi fatto nulla per provocarli. «Corri Piscione, o te la farai addosso.» «Ehi, Piscione, cosa fai vicino al muro, pisci?» eccetera. Io mi irrigidivo, oppure fingevo di non aver sentito. L'eco degli insulti si spegneva, ma rimaneva l'offesa, persistente come l'odore del piscio vecchio.

Cominciarono a prendermi in giro anche gli insegnanti. Per colpa del caldo. Col passare delle ore, la lezione di geografia, in mattinata compatta come un'oasi, si espandeva come il deserto del Thar; quella di storia, molto vivace nelle prime ore della giornata, diventava arida e spenta; quella di matematica, così precisa all'inizio, si ingarbugliava. Annientati dalla stanchezza pomeridiana, mentre si passavano il fazzoletto sulla fronte e sul collo sudato, persino gli insegnanti dimenticavano completamente la fresca promessa acquatica insita nel mio nome.

Così, senza alcuna intenzione di offendere o di suscitare ilarità, lo distorcevano in modo vergognoso. La storpiatura avveniva progressivamente, con un montare di modulazioni quasi impercettibili. Come se le loro lingue fossero calessi trainati da cavalli imbizzarriti. La prima sillaba, Pi, non era un problema neanche nelle ore più calde, ma già alla seconda, sci, i destrieri avevano la schiuma alla bocca, diventati incontrollabili, si fiondavano su scione, e io ero perduto.

Se alzavo la mano per rispondere a una domanda, l'insegnante mi incoraggiava «Sì, Piscione?», il più delle volte senza rendersene conto. Dopo un po' mi guardava con occhi stanchi e si chiedeva perché tacessi. Capitava che anche i compagni, tramortiti dalla calura, dimenticassero di reagire. Non una risata, neppure un ghigno. Ma a me la storpiatura bruciava comunque.

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Passai l'ultimo anno alla St. Joseph sentendomi perseguitato come Maometto alla Mecca, pace su di lui. E così come Maometto pianificò la sua egira a Medina, segnando l'inizio del calendario musulmano, io programmai la mia fuga e l'inizio di una nuova vita.

Terminati gli studi alla St. Joseph, mi iscrissi al Petit Séminaire, una scuola superiore privata di lingua inglese, la migliore di tutta Pondicherry. Ravi la frequentava già, e come tutti i fratelli minori pagai lo scotto dell'eterno confronto con i suoi successi e la sua popolarità. Era l'atleta più forte del Petit Séminaire, temibile lanciatore e fortissimo battitore, nonché capitano della migliore squadra di cricket della città. Il Kapil Dev locale, in altre parole. Che io fossi un buon nuotatore non aveva alcuna importanza: secondo una legge universale ancorché misteriosa la gente di mare diffida dei nuotatori e i montanari disprezzano gli alpinisti. Acquattarmi nell'ombra di qualcun altro non era la soluzione ai miei problemi, anche se avrei preferito qualsiasi nome a «Piscione», persino «fratello di Ravi». Ma avevo un piano migliore.

Lo misi in atto durante la prima ora di scuola. In classe con me c'erano altri ragazzi che venivano dalla St. Joseph. La lezione iniziò, come sempre il primo giorno, con le presentazioni. Dovevamo alzarci in piedi e scandire il nostro nome, seguendo l'ordine in cui eravamo seduti.

«Ganapathy Kumar» esordì Ganapathy Kumar.«Vipin Nath» cinguettò Vipin Nath.«Peter Dharmaraj» disse Peter Dharmaraj.A ogni nome, l'insegnante faceva un segno sul registro e dava un'occhiata allo

studente per memorizzarlo. Ero molto nervoso.«Ajith Giadson» disse Ajith Giadson a quattro banchi da me...«Sampath Saaroja» continuò Sampath Saaroja... tre banchi.«Stanley Kumar» fu il turno di Stanley Kumar... due banchi.«Sylvester Naveen» disse Sylvester Naveen... un banco.Toccava a me. Era giunto il momento di sconfiggere Satana. Medina, sto

arrivando!Mi alzai dal banco e mi precipitai alla lavagna. Prima che il professore potesse

aprire bocca, afferrai il gesso e mentre scrivevo dissi ad alta voce:

Mi chiamo Piscine Molitor Patel

conosciuto da tutti come...

sottolineai due volte la prima sillaba del mio nome:

Pi Patel

E poi aggiunsi:

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Π = 3,14

Sotto la lettera greca disegnai un grande cerchio e tracciai il diametro per evocare quel parametro geometrico fondamentale. Silenzio.

Il professore fissava la lavagna, io trattenevo il fiato. Infine lui commentò: «Molto bene, Pi. Torna al posto. La prossima volta mi chiederai il permesso prima di alzarti dal banco». «Sissignore.»

Fece un segno sul registro vicino al mio nome e passò allo studente successivo.«Mansoor Ahamad» disse Mansoor Ahamad. Ero salvo.«Gautham Selvaraj» continuò Gautham Selvaraj. Potevo respirare.«Arun Annaji» disse Arun Annaji.Un nuovo inizio.Usai la stessa tattica con tutti gli insegnanti. La ripetizione è importante

nell'addestramento... anche degli esseri umani.Fra un nome qualunque e l'altro, correvo alla lavagna e, accompagnato

dall'occasionale stridore del gesso, illustravo la chiave della mia rinascita. Dopo un po', il resto della classe cominciò a salmodiare insieme a me, in un crescendo che, dopo un istante di pausa per riprendere fiato, culminava in un'esecuzione così vibrante del mio nuovo nome che qualsiasi direttore di coro ne sarebbe stato entusiasta.

Mentre io scrivevo il più veloce possibile, alcuni sussurravano incalzanti: «Tre! Virgola! Uno! Quattro!», a quel punto terminavo il concerto affettando in due il cerchio con tale vigore che frammenti di gesso schizzavano saettando sopra le teste dei compagni.

Quando alzavo la mano - cosa che non persi occasione di fare - gli insegnanti si rivolgevano a me con quell'unica sillaba, dolce musica per le mie orecchie. Gli studenti fecero lo stesso, persino quelle canaglie della St. Joseph.

Il mio nuovo nome diede il via addirittura a una moda. Non è un caso se l'India esporta ovunque matematici e ingegneri: di lì a poco, un ragazzo di nome Omprakash cominciò a farsi chiamare Omega, un altro si spacciò per Ipsilon, e per un certo periodo ci furono anche Gamma, Lambda e Delta. Ma il mio fu il primo nome diciamo ''greco" al Petit Séminaire, e quello che durò più a lungo.

Persino mio fratello, capitano della squadra di cricket, piccola star locale, gli accordò la sua approvazione.

All'inizio della seconda settimana di scuola, mi prese in disparte.«Che cos'è questa storia del nuovo soprannome?» chiese.Non osai rispondere, temendo nuove e brucianti umiliazioni.«Credevo che i Pi non ti piacessero.»Mi guardai intorno. Nessuno doveva sentire quello che stava per dirmi, soprattutto

i suoi tirapiedi. «Come?» sussurrai.«A me sta bene, fratello. Qualsiasi soprannome è meglio di "Piscione". Persino

"Pi"... di pisello.»Poi si allontanò, e con un ghigno mi disse: «Sei un po' rosso in faccia».Ma la cosa finì lì.

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E così, in quella lettera greca così simile a una piccola casa con il tetto di lamiera ondulata, in quel numero ambiguo e irrazionale con cui gli scienziati si sforzano di interpretare l'universo, io trovai rifugio.

CAPITOLO 6

È un ottimo cuoco. Nella sua casa surriscaldata aleggia un profumo delizioso. La credenza, piena di spezie, sembra il laboratorio di un farmacista. Quando apre il frigorifero o la dispensa, s'intravedono scorte di prodotti dai nomi esotici, scritti in non so che lingua. Pare di essere in India.

Ma se la cava altrettanto bene con i piatti occidentali. I suoi maccheroni al formaggio sono i più piccanti e insieme delicati che abbia mai assaggiato. E i suoi tacos vegetariani sono degni di uno chef messicano.

Dietro a ogni sportello, sopra a ogni scaffale, ci sono montagne di scatolette, pacchi e pacchetti di provviste perfettamente impilate. Basterebbero per sopravvivere all'assedio di Leningrado.

CAPITOLO 7

Negli anni della mia giovinezza mi capitò la fortuna di avere alcuni ottimi insegnanti, uomini e donne che si insinuarono nel buio della mia mente e vi accesero un lumicino. Fra questi Mister Satish Kumar, il mio professore di biologia al Petit Séminaire. Era un attivista comunista con una grande speranza: che il nostro stato, il Tamil Nadu, smettesse di eleggere le star del cinema e seguisse l'esempio rivoluzionario del Kerala. Aveva un aspetto a dir poco bizzarro: la testa era calva e appuntita, sostenuta da due mascellone di proporzioni impressionanti. Due spalle piccole piccole sormontavano il grande stomaco, simile alla base di una montagna. Ma la montagna fluttuava nel vuoto e, interrotta bruscamente dalla linea orizzontale della cintura, svaniva dentro i pantaloni. Come facessero quelle due gambette a sostenere tutto quel peso per me rimase sempre un mistero; eppure in qualche modo se la cavavano, anche se a volte con movimenti stranissimi, come se le ginocchia si piegassero in tutte le direzioni. Aveva un corpo geometrico: due triangoli, uno piccolo e uno grande, in equilibrio su due linee parallele. Però, come tutti noi, era fatto di materia organica, che nel suo caso era cosparsa di peli e verruche. Era simpatico. E quando sorrideva lo faceva con tutta la faccia.

Mister Kumar fu il primo ateo dichiarato che incontrai. Veniva spesso allo zoo, dove leggeva con attenzione ogni targhetta e cartello informativo e osservava soddisfatto gli animali. Ai suoi occhi, ciascuna specie simboleggiava il trionfo della logica e della meccanica, e la natura nel suo complesso era un'unica, straordinaria raffigurazione della scienza. Quando un animale sentiva l'impulso di accoppiarsi, le orecchie di Mister Kumar captavano un'eco che diceva, «Gregorio Mendel», il padre della genetica; quando un altro dava una dimostrazione di forza, lui pensava a

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Charles Darwin, il padre della selezione naturale. Belati, grugniti, sibili, nitriti, ruggiti, ringhi, ululati, cinguettii, squittii per il professore non erano altro che marcati accenti stranieri. Quando Mister Kumar veniva allo zoo, tastava il polso dell'universo, e lo stetoscopio della sua mente gli confermava che tutto era in ordine, che tutto era l'ordine. Se ne andava scientificamente rinvigorito.

La prima volta che intravidi la sua sagoma triangolare aggirarsi incerta per lo zoo, non ebbi il coraggio di avvicinarlo. Mi piaceva come insegnante, ma rappresentava l'autorità. Intimorito, lo osservai da lontano. Era appena arrivato alla pozza dei rinoceronti che, per via delle capre, erano l'attrazione dello zoo. I rinoceronti sono animali sociali, e quando prendemmo Peak, un giovane esemplare selvatico, ci accorgemmo che soffriva di solitudine. Cominciò a mangiare sempre meno e mio padre si mise a cercargli una compagna. Nel frattempo, come soluzione temporanea, decise di mettergli vicino qualche capra e se avesse funzionato, si sarebbe salvato un animale prezioso e se fosse andata male, ci avremmo rimesso un paio di capre. Fu un successo. Peak e le capre divennero inseparabili, e tali rimasero anche dopo l'arrivo di Summit. Quando i due rinoceronti si immergevano in acqua, le capre circondavano il laghetto fangoso, e quando le capre mangiavano nel loro angolino, Peak e Summit si appostavano lì vicino, come due sentinelle. Quell'insolita intesa aveva catturato l'attenzione del pubblico.

A un tratto Mister Kumar alzò lo sguardo e mi vide. Mi sorrise; con una mano si reggeva alla staccionata e con l'altra mi salutò, facendo cenno di avvicinarmi.

«Ciao, Pi» disse.«Buongiorno, signore. Ha fatto bene a venire allo zoo.»«Ci vengo spesso. È come un tempio per me. È interessante...» disse indicando la

pozza. «Se i nostri politici facessero come le capre e i rinoceronti, nel nostro paese non ci sarebbero tanti problemi. Invece ci è toccato un primo ministro che ha la corazza di un rinoceronte, ma non il suo buon senso.»

Non mi intendevo gran che di politica. I miei genitori si lamentavano continuamente di Indira Gandhi, ma a me importava ben poco di qualcuno che viveva al nord, lontano dallo zoo e da Pondicherry. Capii però che il professore si aspettava che dicessi qualcosa.

«La religione ci salverà» commentai. La religione era da sempre molto vicina al mio cuore.

«La religione?» Mister Kumar sorrise. «Non credo alla religione. La religione è il buio.»

Il buio? Ero confuso. "La religione è tutto tranne che il buio" pensai. "La religione è la luce." Che volesse mettermi alla prova? Come in classe, quando se ne usciva con frasi del tipo «I mammiferi depongono le uova» per vedere se qualcuno lo correggeva: «Solo gli ornitorinchi, professore».

«Non abbiamo elementi che ci autorizzino a spiegare la realtà in base a criteri diversi da quelli scientifici. Non esistono ragioni valide per credere a qualcosa che non sia l'esperienza diretta. Un intelletto acuto, un po' di occhio per i dettagli e una minima cultura scientifica sono sufficienti a capire che la religione è solo un mucchio di sciocche superstizioni. Dio non esiste.»

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Disse proprio così? O sovrappongo il ricordo di un'altra conversazione, con un altro ateo? A ogni modo, le sue parole mi turbarono.

«Perché vivere nel buio? Tutto è chiaro e comprensibile, basta prestare un po' di attenzione.»

E indicò Peak. Nutrivo una grande ammirazione per il rinoceronte, ma non avevo mai pensato che potesse essere la chiave per capire l'universo.

Proseguì. «Alcuni sostengono che Dio sia morto durante la Spartizione del 1947. Magari è morto nella guerra indo-pakistana del 1971. Oppure ieri, proprio qui a Pondicherry, in un orfanotrofio. Quando avevo la tua età, ero inchiodato a letto, torturato dalla poliomielite. Tutti i giorni mi chiedevo "Dov'è Dio?". Dio però non arrivò mai. Fu la medicina a salvarmi. La ragione è il mio profeta, e il mio profeta mi dice che così come un orologio si ferma l'uomo muore. Fine dei giochi. Se l'orologio si rompe, tocca a noi ripararlo, qui e adesso. Un giorno prenderemo il controllo dei mezzi di produzione, e sulla terra ci sarà finalmente giustizia.»

Era troppo per me. Il suo tono appassionato e coraggioso era convincente, i contenuti però mi deprimevano. Mi astenni dal fare commenti. Ma non per paura che Mister Kumar si arrabbiasse, temevo che con una manciata di parole potesse distruggere qualcosa che amavo. E se i suoi discorsi avessero avuto su di me l'effetto della poliomielite? Che brutta malattia doveva essere, se era in grado di uccidere Dio nel cuore di un uomo.

Si allontanò, malfermo e barcollante come se camminasse su un mare in tempesta. «Non dimenticare il compito in classe di martedì. Preparati bene, Trevirgolaquattordici!»

«Sissignore.»Diventò il mio insegnante preferito, e se più tardi studiai zoologia all'Università di

Toronto lo devo a lui. Eravamo in sintonia. Grazie a Mister Kumar compresi che gli atei sono fratelli e sorelle di un altro credo, e che ogni loro parola è impregnata di fede. Percorrono fino in fondo il cammino della ragione, ma poi fanno un salto, proprio come me.

Voglio essere sincero. Non ho niente contro gli atei; sono gli agnostici che non sopporto. Il dubbio è utile se dura poco. Capita a tutti di attraversare il Giardino del Getsemani. Se Cristo fu tormentato dal dubbio, è logico che tocchi anche a noi. Se Cristo passò una notte d'angoscia in preghiera, allora anche noi possiamo permetterci i dubbi. Ma poi bisogna superarli. Scegliere il dubbio come filosofia di vita equivale a eleggere l'immobilità a proprio mezzo di trasporto.

CAPITOLO 8

Nel nostro ambiente si dice comunemente che l'animale più pericoloso dello zoo è l'uomo. In senso generale, ci riferiamo alla voracità della specie umana, che ha trasformato l'intero pianeta nella sua preda. In senso più specifico, alle persone che danno da mangiare ami da pesca alle lontre, rasoi agli orsi, mele ripiene di chiodi agli elefanti e altre variazioni sul tema: penne a sfera, graffette, spille da balia,

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elastici, spazzole, cucchiaini da caffè, ferri di cavallo, pezzi di vetro, anelli, spille e altri gioielli (e non solo collanine di plastica, ma persino grossi bracciali d'oro), cannucce, posate usa e getta, palline da ping-pong o da tennis e così via. Animali di tutte le specie sono morti dopo aver ingerito corpi estranei: gorilla, bisonti, cicogne, nandù, struzzi, foche, leoni marini, grossi felini, orsi, cammelli, elefanti, scimmie, e quasi tutte le varietà di cervi, ruminanti e uccelli canterini. Molti addetti ai lavori ricordano la storia di Golia. Golia era un elefante marino, due tonnellate di enorme, venerabile bestia, la star dello zoo in cui viveva, adorato da tutti i visitatori. Morì per un'emorragia interna perché qualcuno gli aveva fatto mangiare una bottiglia di birra in frantumi.

Spesso la crudeltà si manifesta in modi ancora più eclatanti e diretti, basta sfogliare la letteratura zoologica: un becco a scarpa morì in seguito a una martellata sul becco; un visitatore armato di coltello tagliò la barba e una striscia di pelle a un alce americano che morì avvelenato sei mesi più tardi; una scimmia interessata a una manciata di noccioline si ritrovò con un braccio spezzato; a un cervo tagliarono le corna con un seghetto, una zebra fu ferita da una lametta. Altri animali sono stati aggrediti con bastoni da passeggio, ombrelli, spilloni per capelli, ferri da maglia, forbici e altri oggetti contundenti, spesso con l'intenzione di ferire gli occhi o i genitali. E non mancano neppure gli episodi osceni: onanisti che si toccano davanti a scimmie, pony o volatili; l'invasato che decapita un serpente, il pazzo che urina in bocca a un alce.

A Pondicherry potevamo ritenerci relativamente fortunati. Non c'erano i sadici che imperversano negli zoo europei e americani. Ma un giorno qualcuno rapì il nostro aguti dorato, probabilmente per farselo in padella, almeno così sospettava mio padre. Diversi uccelli - fagiani, pavoni e are macao - si ritrovarono con qualche piuma strappata da chi sentiva il bisogno di un bel souvenir. Una volta beccammo un tizio che cercava di intrufolarsi nel recinto dei cervi, aveva un coltello e ci spiegò che voleva punire il demone Ravana, che nel Ramayana si tramuta in un cervo e rapisce Sita, consorte di Rama. Un altro fu sorpreso a rubare un cobra. Era un incantatore di serpenti e il suo animale era morto. Li salvammo entrambi: il cobra da un vita di schiavitù e di pessima musica, l'uomo da un probabile morso letale. C'erano visitatori che lanciavano pietre agli animali perché li giudicavano troppo tranquilli e volevano provocarli. Una volta un leone azzannò il sari di una signora. La donna cominciò a girare su se stessa come una trottola, preferendo l'imbarazzo della nudità in pubblico alle fauci del felino. Non si può neppure definirlo un incidente. La signora si era avvicinata alla gabbia e aveva infilato la mano fra le sbarre sventolando l'orlo del sari sul muso della bestia. Chissà quale reazione sperava di ottenere. Comunque non venne ferita: più di un uomo affascinato dalla scena accorse in suo aiuto. Interrogata da mio padre, la donna spiegò concitata: «Non sapevo che ai leoni piacessero i sari. Credevo fossero carnivori». La peggiore iattura erano quelli che davano, cibo agli animali. Per quanto ci stessimo attenti, niente da fare, non riuscivamo a fermarli. Il dottor Atal, il nostro veterinario, calcolava il flusso di visitatori della settimana in base ai disturbi digestivi dei nostri ospiti. Per i casi di enterite o di gastrite per eccesso di carboidrati, soprattutto zuccheri, aveva coniato il termine «golosite».

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Magari i visitatori si fossero limitati ai dolci! La gente crede che un animale possa mangiare di tutto senza alcun problema. Niente di più falso. Un orso giocoliere si ammalò di una grave forma di enterite emorragica dopo che un visitatore, convinto di fare una buona azione, gli aveva dato del pesce marcio.

Sul muro accanto alla biglietteria mio padre aveva fatto scrivere in rosso: «VOLETE SAPERE QUAL È L'ANIMALE PIÙ PERICOLOSO DELLO ZOO?». Una freccia rossa puntava in direzione di una tendina. Troppe mani impazienti e curiose si precipitavano a tirarla, così dovevamo sostituirla di continuo. La tenda nascondeva uno specchio.

Ma mio padre era convinto che fosse un altro l'animale più pericoloso, e per giunta molto comune, diffuso in tutti i continenti e in ogni habitat: il temibile Animalus anthropomorphicus, ovvero l'animale così come lo vede la gente. Tutti l'abbiamo incontrato, qualcuno ne ha posseduto uno. È "carino", "simpatico", "affettuoso", "fedele", "felice", "comprensivo". È in agguato nei negozi di giocattoli e nei libri per bambini. Si narrano innumerevoli storie sul suo conto. Rappresenta l'altra faccia degli animali "malvagi", "sanguinari", "depravati" che scatenano l'ira dei maniaci armati di ombrelli e bastoni. In entrambi i casi, l'uomo osserva l'animale e vede se stesso. La nostra specie ha l'ossessione di mettersi al centro dell'universo; è un vizio che ci affligge tutti, teologi e zoologi compresi.

Non una ma due volte ho imparato che un animale è un animale, diverso dall'uomo nell'essenza e nella sostanza. La prima volta me lo insegnò mio padre, la seconda Richard Parker.

Era una domenica mattina. Stavo giocando tranquillamente per i fatti miei. Mio padre ci chiamò.

«Ragazzi, venite qui.»Era successo qualcosa. Nella mia mente il tono della sua voce risuonò come un

campanello d'allarme. Feci un veloce esame di coscienza, ma non trovai nulla. Forse il colpevole era Ravi. Chissà cosa aveva combinato. Entrai in soggiorno. C'era anche la mamma. Strano. La disciplina dei figli, come la cura degli animali, era compito di papà. Ravi si presentò dopo di me, con l'espressione colpevole di un criminale.

«Ravi, Piscine. Oggi vi insegnerò una cosa molto importante.»«Sei sicuro? È proprio necessario?» lo interruppe la mamma, e arrossì.Deglutii. Se mia madre, di solito così calma e serena, aveva quell'aria preoccupata,

anzi, sconvolta, allora dovevamo proprio essere nei guai. Io e mio fratello ci scambiammo un'occhiata.

«Sì, devo farlo» rispose mio padre irritato. «Potrebbe salvar loro la vita.»Salvarci la vita! Non era più un campanello d'allarme a risuonarmi in testa, ma un

paio di grosse campane, come quelle della chiesa del Sacro Cuore, non lontana dallo zoo.

«Piscine ha solo otto anni» insistè mia madre.«È lui quello che mi preoccupa di più.»«Non ho fatto niente!» scattai. «È stato Ravi, è colpa sua. È stato lui!»«Cosa?» gridò Ravi. «Io non c'entro.» E mi fulminò con lo sguardo.«Sshhh!» papà alzò la mano. Si rivolse a sua moglie. «Gita, vedi anche tu come si

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comporta Piscine. È nell'età in cui i bambini scorazzano dappertutto e ficcano il naso ovunque.»

Io uno scorazzatore ficcanaso? "Non è vero! Non è vero! Difendimi, mamma, difendimi!" implorava il mio cuore. Ma lei si limitò a sospirare e ad annuire.

«Seguitemi» ci ordinò mio padre.Ci incamminammo come prigionieri verso l'esecuzione.Uscimmo di casa, varcammo il cancello ed entrammo nello zoo. Essendo presto,

era ancora chiuso al pubblico. Il personale era al lavoro. Sitaram, il guardiano degli oranghi, il mio preferito, smise di lavorare per guardarci passare in silenzio. Superammo gli uccelli, gli orsi, i primati, le scimmie, gli ungulati, il terrario, i rinoceronti, gli elefanti e le giraffe.

Arrivammo dai grossi felini: tigri, leoni e leopardi. Babu, il custode, ci stava aspettando. Facemmo il giro e scendemmo lungo il sentiero. Babu ci accompagnò fino al rifugio degli animali, su un isolotto circondato da un fossato. Era una caverna circolare di cemento, calda e umida, che puzzava di urina. Tutt'intorno c'erano le gabbie, con grosse sbarre di ferro verde. Una luce giallastra filtrava dai lucernari. Attraverso le sbarre si scorgeva la vegetazione dell'isola. Le gabbie erano vuote, tranne quella di Mahisha, il "patriarca", una tigre del Bengala lunga e imponente, di quasi duecentocinquanta chili. Non appena ci vide, si avvicinò alle sbarre e cominciò a ruggire, con le orecchie appiattite e gli occhi rotondi fissi su Babu. L'intera caverna risuonava di quel verso cupo e assordante. Mi tremavano le gambe. Mi avvicinai alla mamma. Anche lei tremava. Persino papà parve esitare e farsi coraggio. Solo Babu rimase indifferente al ruggito e allo sguardo della tigre, penetrante come la punta di un trapano. La sua fiducia nell'efficacia delle sbarre era incrollabile. Mahisha iniziò a muoversi avanti e indietro lungo il perimetro della gabbia.

«Che animale è questo?» gridò papà per farsi sentire nonostante il minaccioso ruggito di Mahisha. «Una tigre» rispondemmo in coro io e Ravi, constatando obbedienti l'inconfutabile realtà.

«Sono pericolose le tigri?»«Sì, papà.»«Le tigri sono molto pericolose» urlò mio padre. «Ficcatevi bene in testa che non

dovete mai - dico mai - toccare una tigre, accarezzarla, o infilare le mani tra le sbarre della sua gabbia; anzi, non dovete neppure avvicinarvi alla gabbia. Chiaro? Ravi?»

Ravi fece un energico "sì" con la testa.«Piscine?» Lo sguardo di mio padre era incollato su di me.Il mio "sì" fu ancora più energico. Mi stupii che il mio collo avesse retto e che la

testa non fosse rotolata per terra.In mia difesa, tengo a precisare una cosa: se anch'io avevo attribuito facoltà umane

agli animali, al punto da sentirli parlare fluentemente l'inglese - i fagiani lamentandosi di un tè troppo leggero nel tono dei lord britannici; i babbuini progettando colpi in banca nella parlata dei gangster americani - lo avevo fatto consapevolmente. Mi piaceva travestire le bestie con gli abiti addomesticati della mia immaginazione. Ma non mi ero mai illuso circa la vera natura dei miei compagni di giochi. Ero un ficcanaso, ma dotato di buonsenso. Non capivo come papà potesse

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pensare che suo figlio smaniasse dalla voglia di entrare nella gabbia di un feroce predatore. Ma qualunque fosse il motivo che aveva fatto sorgere in lui quella preoccupazione - papà era sempre preoccupato - quella mattina era chiaramente intenzionato a sbarazzarsene per sempre.

«Ora vedrete quanto sono pericolose le tigri.»Mio padre fece un cenno a Babu, che si allontanò. Gli occhi di Mahisha lo

seguirono e rimasero fissi sulla porta da cui era uscito. Il guardiano tornò dopo pochi secondi trascinando una capra con le zampe legate. Mia madre mi cinse le spalle. Il ruggito di Mahisha era sempre più terrificante.

Babu aprì il lucchetto ed entrò nella gabbia accanto a quella di Mahisha, poi richiuse il lucchetto. Le due gabbie erano collegate da una porta a ghigliottina. Mahisha si lanciò contro le sbarre e cominciò a colpirle con le zampe. Ai ruggiti alternava degli woof secchi ed esplosivi. La capra, a terra, si contorceva con la lingua penzoloni e gli occhi fuori dalle orbite. Babu la slegò e lei si mise in piedi. Babu uscì dalla gabbia con la stessa accortezza con cui era entrato. In fondo c'era un'area rialzata che portava allo sportello di uscita, affacciato sull'isola. La capra vi si inerpicò. Mahisha, ormai disinteressata a Babu, con un balzo fece lo stesso nella gabbia accanto. Si accovacciò e rimase immobile, solo la coda si muoveva lentamente.

Babu si avvicinò alla leva che apriva la porta a ghigliottina. Mahisha si azzittì, come pregustando il banchetto imminente. In quel momento udii due cose: la voce di mio padre che, concentrato sullo spettacolo, ci ripeteva di stare bene attenti e il belato della pecora.

Probabilmente belava da un pezzo, ma non ci avevo fatto caso.Sentii la mano della mamma posarsi sul mio cuore impazzito. Lo sportello fra le

due gabbie prese ad alzarsi cigolando. Mahisha era fuori di sé per l'eccitazione, sembrava sul punto di divorare le sbarre. Poi si fermò, incerta se rimanere sul gradino, dove la sua preda era vicina ma inaccessibile, o scendere al piano più basso, dove c'era la porta. Si sollevò sulle zampe e cominciò a ruggire.

La capra sembrava indemoniata, non avrei mai immaginato che potesse saltare tanto in alto.

Ormai la porta era aperta. Calò il silenzio, rotto solo dai belati della capra e dal rumore dei suoi zoccoli.

Un lampo arancione e nero guizzò da una gabbia all'altra.Per ricreare le condizioni di vita nell'ambiente naturale, costringevamo i grossi

felini a saltare due pasti alla settimana. Scoprimmo in seguito che papà aveva dato ordine di lasciare Mahisha a digiuno per tre giorni di fila.

Non so dire se vidi il sangue prima di rifugiarmi tra le braccia della mamma o se lo spalmai sui miei ricordi a posteriori, con il pennello della suggestione. Ma se anche non potevo vedere, potevo sentire. E fu sufficiente a spaventarmi a morte. Anche Ravi era terrorizzato. La mamma ci spinse verso l'uscita, furibonda.

«Come hai potuto, Santosh! Sono solo bambini! Rimarranno traumatizzati a vita» piangeva e le tremava la voce. Io mi sentii un po' rinfrancato.

«Gita, uccellino mio, l'ho fatto per il loro bene. E se un giorno Piscine avesse

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infilato la mano nella gabbia per toccare il bel manto arancione della tigre? Meglio perdere una capra che nostro figlio, non credi?»

La voce di papà era morbida, quasi un sussurro. Sembrava mortificato. Prima d'allora non l'aveva mai chiamata "uccellino" davanti a noi.

Ma la lezione non era ancora finita, anche se il seguito fu meno traumatico.Papà ci portò alle gabbie dei leoni e dei leopardi.«In Australia una volta c'era un tipo, un pazzo, cintura nera di karaté. Voleva

battersi con alcuni leoni. Fu sconfitto. Una gran brutta sconfitta: la mattina seguente i custodi trovarono solo le gambe.»

«Sì, papà.»E poi davanti alle gabbie degli orsi dell'Himalaya e degli orsi giocolieri.«Un colpo di artigli di questi orsacchiotti e potreste trovarvi senza budella.»«Sì, papà.»Gli ippopotami.«Con quella bocca così molle e flaccida possono ridurvi in poltiglia. E se vi

incontrano fuori dall'acqua vi calpestano a morte.»Le iene.«Le iene non sono affatto codarde, né si nutrono di carogne come si pensa. Hanno

fauci possenti adatte a sbranarvi vivi.»«Sì, papà.»Gli oranghi.«Un orango ha la forza di dieci uomini messi insieme. Può spezzarvi le ossa come

fossero bastoncini. Da cuccioli questi oranghi giocavano con voi. Ma ora che sono cresciuti sono selvaggi e imprevedibili.»

«Sì, papà.»Gli struzzi.«Sembrano nervosi e stupidi, no? Ma aprite bene le orecchie: sono fra gli animali

più pericolosi dello zoo. Con un calcio possono spaccarvi la schiena o fracassarvi il torace.»

«Sì, papà.»I cervi indiani.«Il maschio può attaccarvi senza preavviso e le sue piccole corna possono

trafiggervi come pugnali.»«Sì, papà.»I dromedari.«Un morso di quella bocca bavosa può strapparvi un bel pezzo di carne.»«Sì, papà.»I cigni neri.«Possono spaccarvi la testa con il becco. E spezzarvi le braccia con le ali.»«Sì, papà.»Gli uccelli più piccoli.«Il becco può trapassarvi le dita come fossero di burro.»«Sì, papà.»Gli elefanti.

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«In assoluto i più temibili. Quelli che in uno zoo uccidono il maggior numero di custodi e visitatori. Un giovane elefante vi squarterà senza pensarci due volte, poi appiattirà i vostri resti camminandoci sopra. È la fine che fece un poveraccio tedesco: si era infilato nella gabbia passando da una finestra. Un esemplare adulto e meno impulsivo vi schiaccerà contro un muro, oppure farà di voi il suo sgabello. L'idea sembra buffa? Pensateci bene!»

«Sì, papà.»«Abbiamo evitato di far visita a molti animali, ma ciò non significa che siano

innocui. La vita si difende, indipendentemente dalle sue dimensioni. Tutti gli animali sono feroci e pericolosi. Forse non vi uccideranno, ma di certo vi possono far male. Un graffio, un morso, e vi ritrovate con una ferita infetta, infiammata e gonfia di pus. E in più la febbre alta e dieci giorni di ospedale.»

«Sì, papà.»Ci avvicinammo ai porcellini d'India, gli unici altri animali che, come Mahisha,

per ordine di mio padre erano rimasti a digiuno. Non mangiavano dalla sera prima. Papà aprì la gabbia. Tirò fuori dalla tasca un sacchettino di chicchi di mais e li sparse sul fondo.

«Vedete questi porcellini d'India?»«Sì, papà.»Le bestioline, tremanti per la debolezza, sgranocchiavano freneticamente il mais.«Be'...» si chinò a prenderne uno, scatenando un fuggi fuggi generale «loro non

sono pericolosi.»Papà scoppiò a ridere. Mi passò il porcellino d'India che squittiva. Voleva

concludere la lezione in modo simpatico.Tenevo in braccio il porcellino impaurito. Mi avvicinai alla gabbia e con cura lo

deposi a terra. Era ancora un cucciolo e si precipitò dalla madre. Erano porcellini d'India praticamente addomesticati: per questo il rischio che ci ferissero era remoto. Ma prendere un porcellino d'India selvatico a mani nude è come afferrare un coltello per la lama.

La lezione era finita. Io e Ravi tenemmo il broncio e ignorammo papà per una settimana. Anche la mamma lo evitò. Osservando i rinoceronti mi convinsi che fossero depressi per la perdita dell'amica capra.

Ma cosa puoi fare quando ami tuo padre? La vita continua e tu lasci in pace le tigri. Peccato che, dopo avere accusato Ravi di un crimine non specificato del quale era innocente, sentissi di avere i giorni contati. Per anni, tutte le volte che Ravi voleva spaventarmi, mi sussurrava all'orecchio: «Aspetta di rimanere solo con me. La prossima capra... sarai tu!».

CAPITOLO 9

L'arte di mandare avanti uno zoo sta nel fare in modo che le bestie si abituino alla presenza dell'uomo. Il segreto è accorciare la loro distanza di fuga, ovvero ridurre progressivamente lo spazio che l'animale mette fra sé e un potenziale nemico. Un

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fenicottero è tranquillo finché lo osservate da duecentocinquanta metri di distanza. Ma se vi avvicinate anche di poco, comincia ad agitarsi. Continuando ad avanzare provocherete la sua fuga. Il fenicottero spaventato si fermerà solo quando la sua distanza di sicurezza sarà ristabilita, o quando i polmoni e il cuore saranno sul punto di scoppiargli. Ogni animale stabilisce la propria distanza di fuga a modo suo: i felini usando la vista, i cervi l'udito, gli orsi l'olfatto. Le giraffe hanno una distanza di fuga inferiore a trenta metri quando i visitatori sono in macchina; se invece sono appiedati lo spazio minimo sale a oltre centotrenta. Un granchio violinista fugge sotto i dieci metri di distanza, le scimmie urlatrici cominciano ad agitarsi sotto i venti, i bufali africani reagiscono intorno ai settanta.

Per ridurre la distanza di fuga di un animale, bisogna imparare a conoscerlo, offrirgli cibo e rifugio, e garantirgli protezione. Se funziona, il risultato sarà un animale tranquillo, emotivamente stabile, che si lascia avvicinare senza problemi. Non solo: godrà di ottima salute, vivrà a lungo, mangerà senza fare storie, si comporterà e socializzerà secondo l'istinto e, segno ancora migliore, si riprodurrà. Il nostro zoo non era certo all'altezza di quelli di San Diego, Toronto, Berlino o Singapore; ma un bravo gestore può fare miracoli. E mio padre aveva un talento innato per la sua professione. Sopperiva alla mancanza di conoscenze scientifiche con l'intuito e un'acuta capacità di osservazione. Guardando un animale riusciva a capire cosa gli passasse per la mente. Si occupava di tutti con grande premura e gli animali, in risposta, si riproducevano. A volte persino troppo.

CAPITOLO 10

Nonostante tutto, ci sono sempre animali che provano a scappare dallo zoo. Innanzitutto, quelli costretti ad abitare in recinti inadeguati alle loro esigenze. Ogni animale ha dei bisogni naturali che vanno rispettati. Se la gabbia è troppo assolata, troppo umida o troppo spoglia, se il trespolo è troppo alto o troppo esposto, se il terreno è eccessivamente sabbioso, se non ci sono rami sufficienti per costruire un nido, se la mangiatoia è troppo bassa, se non c'è il fango per sguazzare e così via, allora l'animale diventa irrequieto. L'obiettivo non è tanto creare una copia esatta dell'ambiente naturale, quanto riprodurre la sua essenza. All'interno di un recinto ogni elemento deve trovarsi al posto giusto per consentire all'animale di adattarsi. Al rogo i recinti mal concepiti! Sono la rovina di tutti gli zoo.

Gli animali selvatici catturati già adulti rappresentano un'altra categoria a rischio di fuga; hanno abitudini troppo radicate per riuscire a modificare la propria visione del mondo e adattarsi al nuovo ambiente.

Ma anche gli animali nati e cresciuti nello zoo, che non hanno mai conosciuto altro, perfettamente abituati alla cattività e alla presenza umana, possono attraversare periodi di intensa agitazione durante i quali provano a scappare. In ogni essere vivente si nasconde una dose di follia che scatena comportamenti bizzarri, a volte inspiegabili. Questa follia può costituire un'ancora di salvezza: è parte integrante della capacità di adattamento. Senza, nessuna specie al mondo sopravviverebbe.

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Indipendentemente dalla ragione che accende la volontà di fuga, chi denigra gli zoo dovrebbe mettersi in testa che generalmente gli animali non scappano verso qualcosa, ma da qualcosa. Qualcosa che li ha spaventati all'interno del loro territorio. L'intrusione di un nemico, l'aggressione da parte di un esemplare dominante, un rumore improvviso... e si scatena l'impulso di fuggire. L'animale scappa, o almeno ci prova.

Sono rimasto sorpreso quando allo zoo di Toronto, un ottimo zoo, devo dire, ho letto che i leopardi saltano fino a cinque metri e mezzo di altezza. A Pondicherry il recinto dei leopardi non arrivava a cinque metri, perciò se Rosie e Copycat non scapparono mai, la ragione è che non ne sentirono la necessità. Gli animali che fuggono abbandonano ciò che conoscono per l'ignoto, e se c'è una cosa che gli animali odiano veramente è l'ignoto. Di solito, un animale in fuga si nasconde nel primo rifugio in grado di farlo sentire al sicuro, e diventa aggressivo solo verso chi glielo insidia.

CAPITOLO 11

Prendiamo il caso della femmina di leopardo nero che scappò dallo zoo di Zurigo nell'inverno del 1933. Era appena arrivata e sembrava andare d'accordo con il suo compagno. Ma una serie di ferite alle zampe rivelò una scarsa intesa di coppia.

Non ci fu tempo di prendere una decisione a riguardo: la femmina sgattaiolò da un varco sul tetto della gabbia e si dileguò nella notte.

Quando si sparse la voce che un feroce predatore si aggirava libero per Zurigo, la città piombò nel caos. Gli abitanti installarono trappole, sguinzagliarono i cani da caccia. Tutto quello che riuscirono a catturare fu qualche cane randagio. Si perse ogni traccia della belva per dieci settimane.

Alla fine la scovò un operaio; si era rintanata in un granaio a quaranta chilometri dalla città. L'operaio le sparò. Poco lontano vennero rinvenuti i resti di un capriolo.

Un grosso felino tropicale era sopravvissuto all'inverno svizzero per più di due mesi senza che nessuno lo vedesse né tanto meno venisse attaccato: è la prova schiacciante del fatto che gli animali in fuga non sono pericolosi latitanti, ma solo creature selvatiche che fanno del loro meglio per adattarsi.

E la storia del leopardo nero non è un episodio isolato. Prendete una metropoli come Tokyo, rivoltatela come un guanto e datele una bella scrollata: non potete immaginare gli animali che salterebbero fuori. Altro che cani e gatti. Boa, varani di Komodo, coccodrilli, piranha, struzzi, lupi, linci, wallabie, lamantini, istrici, oranghi, cinghiali: ecco cosa vi ritrovereste tra i piedi.

E loro credevano di trovare... ah, ah! Nel bel mezzo di una giungla tropicale in Messico, pensate un po'! Ah, ah, ah! Roba da ridere, proprio da ridere. Ma cosa avevano al posto del cervello?

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CAPITOLO 12

A volte si agita. Non a causa di qualche mio commento o domanda (parlo pochissimo). È la sua storia a inquietarlo. La memoria è un oceano e lui fluttua sulla superficie. Talvolta temo che si fermi, invece poi prosegue. Vuole andare fino in fondo. Sono passati molti anni, ma Richard Parker lo tormenta ancora.

È un uomo molto gentile. A ogni visita trovo ad attendermi un banchetto di specialità vegetariane del sud dell'India. Gli ho detto che mi piace il cibo piccante. Non so perché lo abbia fatto, dal momento che è una bugia. Aggiungo un cucchiaio di yogurt dopo l'altro. Ma non serve: le mie papille gustative restano annichilite, la mia faccia è violacea, gli occhi si gonfiano di lacrime, la testa è come una casa in fiamme e l'apparato digerente si contorce agonizzante come un boa che ha ingoiato un tosaerba.

CAPITOLO 13

Se per sventura cadete nella gabbia di un leone, quello vi farà a pezzi non perché affamato - nello zoo gli animali hanno cibo in abbondanza, ve l'assicuro - o assetato di sangue, ma perché avete invaso il suo territorio.

Apro una piccola parentesi: ecco perché un domatore di circo entra sempre per primo nella pista e fa di tutto affinché i leoni ne prendano nota. Così facendo il domatore mette in chiaro che la pista è il suo territorio, non quello dei felini, un concetto che non si stanca di ribadire a suon di urla, schiocchi di frusta e piedi pestati per terra. I leoni ne restano profondamente impressionati. Percepiscono di essere in una condizione di svantaggio. Osservate bene l'ingresso del leone nella pista: il maestoso predatore, il "re della foresta" entra pian piano a coda bassa e si tiene ai bordi della pista, che deve essere rotonda per non offrire possibili nascondigli. Il leone sente di avere davanti un maschio fortemente dominante, un maschio super-alfa e accetta di sottomettersi al suo rituale di dominio. Allora spalanca le fauci a comando, si siede composto come un micetto, salta nel cerchio, striscia nel tubo, cammina all'indietro, rotola sulla schiena. "Che tipo strano" riflette mesto. "Mai visto un leone comportarsi così. Però ci sa fare. La dispensa è sempre piena e - ammettiamolo, cari colleghi - le sue stravaganze ci tengono occupati. Alla lunga dormicchiare tutto il tempo è piuttosto noioso. Per fortuna non pretende che andiamo in bicicletta come gli orsi bruni o che afferriamo i piatti al volo come gli scimpanzé."

Il domatore ha un unico obbiettivo di cui preoccuparsi: fare in modo di conservare la posizione di maschio super-alfa. Se dovesse inavvertitamente abbassare la guardia e passare alla categoria beta la pagherebbe cara. Spesso, quando un esemplare si comporta in modo ostile o aggressivo, sta solo manifestando la sua insicurezza sociale. Per sentirsi tranquillo l'animale ha bisogno di sapere dove sia il suo posto, se sopra o sotto di voi. La gerarchia sociale è fondamentale nella gestione della sua vita, perché il rango determina con chi e come si può relazionare, dove e quando può mangiare, riposare, abbeverarsi e così via. Finché l'animale non capisce qual è il suo

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posto, vive in balia di un'intollerabile anarchia. È nervoso, agitato e pericoloso. Fortunatamente per il domatore, la gerarchia sociale fra le varie specie non sempre dipende dalla forza bruta. Hediger (1950) scrive: «Quando due animali si incontrano, quello che riesce a spaventare l'avversario viene riconosciuto come superiore, quindi non sempre è necessaria una lotta per decidere quali siano i rapporti di forza, in certi casi è sufficiente un incontro». Sagge parole di un vero esperto in materia. Hediger ha diretto per anni lo zoo di Basilea e poi quello di Zurigo. La mente che vince sulla fisicità: ecco cos'è la supremazia del domatore, un dominio di natura psicologica. L'ambiente estraneo, la postura eretta del domatore, il suo atteggiamento rilassato, lo sguardo fermo, l'incedere sicuro, lo strano ruggito (lo schiocco della frusta o il suono del fischietto) sono tutti fattori che insinuano dubbi e paure nella mente del leone, facendogli capire qual è il suo posto. Soddisfatto, l'animale Numero Due indietreggia e il Numero Uno si rivolge trionfante al pubblico, urlando: «Lo spettacolo continua! E ora signori e signore, salterà nel cerchio di fuoco...».

CAPITOLO 14

È interessante notare che il leone sul gradino più basso della gerarchia felina - l'animale omega - è quello che più volentieri si presta ai giochi del domatore. È il più collaborativo perché può trarre grandi vantaggi da una stretta relazione con il maschio super-alfa. Non solo pasti extra, ma anche protezione dal resto del branco. Ed è proprio questo leone obbediente, che agli occhi del pubblico appare uguale ai compagni per dimensioni e ferocia, la vera star dello spettacolo. Il domatore farà in modo che i leoni beta e gamma, assai più irascibili e difficili da sottomettere, restino seduti sui loro barili colorati ai bordi della pista.

Lo stesso avviene allo zoo. Gli animali socialmente svantaggiati sono quelli più intraprendenti e compiono gli sforzi più energici per entrare in confidenza col proprio custode. Si dimostrano amichevoli, grati della sua compagnia; gli fanno capire che non hanno la minima intenzione di fare i difficili o di attaccarlo. Un simile atteggiamento è stato riscontrato nei grossi felini, nei bisonti, nei cervi, nelle pecore selvatiche, nelle scimmie e in tanti altri animali. È un fenomeno che gli addetti ai lavori conoscono bene.

CAPITOLO 15

La sua casa è un tempio. All'entrata è appeso un quadretto di Ganesh, la divinità indù con la testa di elefante. È seduto in posizione frontale: tutto rosa, panciuto, con in testa una corona, e sorride. Tre delle sue mani sorreggono diversi oggetti, mentre la quarta mostra il palmo in segno di saluto e benedizione. Ganesh è la divinità che supera gli ostacoli, il dio della fortuna e della saggezza, il patrono dell'istruzione. Il più simpatico. Mi fa sorridere. Ai piedi di Ganesh c'è un topo premuroso. Il suo mezzo di trasporto. Quando Ganesh va in giro, lo fa a bordo del roditore. Di fronte

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al quadretto, sulla parete opposta, c'è una semplice croce di legno.Nel soggiorno, sopra il tavolo accanto al divano, c'è una immagine della

Madonna di Guadalupe, con i fiori che rotolano giù dal mantello aperto. Vicino alla Madonna, una cornice con la foto della Ka'ba, il tempio cubico rivestito di nero, il luogo più sacro dell'Islam, circondato dal vortice di diecimila fedeli. Sul televisore è posata una statua in ottone di Shiva nell'incarnazione di Nataraja, il dio cosmico della danza che controlla i movimenti dell'universo e il flusso del tempo. Shiva danza sul demone dell'ignoranza e tiene le sue quattro braccia in posizione coreografica, con un piede sulla schiena del demone e l'altro sospeso per aria. Dicono che quando Nataraja poserà il piede per terra, il tempo si fermerà.

In cucina, dentro un armadio le cui ante sono state sostituite da un arco di legno intarsiato, c'è un vero e proprio santuario in miniatura. L'arco nasconde la lampadina gialla che di sera lo illumina. Dietro a un piccolo altare sono appese due immagini: su un lato ancora Ganesh e al centro, in una cornice più grande, un sorridente Krishna dalla pelle blu, che suona il flauto. Sul vetro dei quadretti, tracce di polvere gialla e rossa ornano la fronte delle due divinità. In un piatto di rame sopra l'altare ci sono tre murti d'argento. Me le indica con il dito: Lakshmi; Shakti, la dea madre, nell'incarnazione di Parvati; e Khrisna, questa volta raffigurato come un bambino giocoso, a gattoni. Tra le due dee, c'è un linga di Shiva con una yoni: sembra un mezzo avocado con un moncone fallico al centro, è un simbolo indù che rappresenta l'energia maschile e femminile dell'universo. Su un lato del piatto c'è una piccola conchiglia di strombo su un piedistallo; sull'altro un campanellino d'argento. Tutt'intorno chicchi di riso e fiori che cominciano ad appassire. Molti di questi oggetti sono cosparsi di polvere colorata.

Sopra una mensola più in basso altri oggetti devozionali: una coppa colma d'acqua, un cucchiaio di rame, una lampada con lo stoppino impregnato d'olio; bastoncini d'incenso, ciotoline piene di polvere rossa e gialla, chicchi di riso e cristalli di zucchero.

Una Madonna anche in sala da pranzo.Al piano di sopra, nel suo ufficio, vicino al computer, una statua di ottone

raffigura Ganesh seduto a gambe incrociate; appesa al muro c'è una scultura brasiliana raffigurante Cristo in croce, e in un angolo è steso un tappetino da preghiera verde. Il Cristo è singolarmente espressivo. Soffre. Accanto al tappetino da preghiera, su un basso leggio, c'è un libro coperto da un drappo di stoffa. Al centro del drappo, quattro lettere finemente ricamate: un alif, due lams e una ha. La parola Dio in arabo.

Sul comodino, la Bibbia.

CAPITOLO 16

Alla nascita siamo tutti come i cattolici, giusto? Parcheggiati in una specie di limbo, senza religione, fino a quando qualcuno non ci presenta Dio. Per tanti la faccenda si chiude con quel primo incontro. Se poi cambia qualcosa, in genere è per

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sottrazione, nel senso che molti perdono Dio lungo la strada. Per me non è stato così. Fu la sorella maggiore di mia madre, donna devota e molto legata alle tradizioni, a insistere per portarmi al tempio quando ero ancora in fasce. La zia Rohini era felice del suo nuovo nipotino e voleva condividere quella gioia con la Dea Madre. «Sarà la sua prima visita al tempio, un'iniziazione simbolica» annunciò, «Una samskara!». Fu un'esperienza tanto simbolica quanto sfiancante. Arrivammo a Maturai dopo sette ore di treno. Ma che importanza poteva avere! Andai incontro al rito di passaggio indù tra le braccia di mia madre, scortato dalla zia. Non ho ricordi coscienti di quella spedizione, ma un poco dell'odore di incenso del tempio, dei suoi giochi di luci e ombre, qualcosa delle fiamme, dei colori, della sensualità e del mistero del luogo sono ancora dentro di me. Il germe dell'esaltazione religiosa, non più grande di un seme di senape, venne gettato nel mio animo e lì rimase a germogliare. Dal quel giorno non ha mai smesso di crescere.

Se sono indù, è per le sculture coniche di polvere rossa di kumkum e per i cesti colmi di pepite di curcuma gialla, per le ghirlande di fiori e per i pezzi di noce di cocco, per il fragore delle campanelle che annunciano a Dio l'arrivo di un fedele, per il gemito stridulo del nadaswaran e per il rimbombo dei tamburi, per lo scalpiccio dei piedi nudi sui pavimenti di pietra nei corridoi trafitti dai raggi del sole, per la fragranza dell'incenso, per le fiamme nelle lampade dell'arati che danzano in circolo nell'oscurità, per la dolcezza del canto dei bhajan, per la benedizione degli elefanti sacri, per gli affreschi colorati che raccontano storie ancora più colorate, per le tante fronti su cui è scritta, con segni diversi, la stessa parola: fede. Queste impressioni hanno catturato i miei sensi prima ancora che fossi in grado di comprenderne il significato e il fine. Sono indù perché il cuore me lo comanda. In un tempio indù mi sento a casa. Sono consapevole della Presenza di qualcosa di più grande. Il mio cuore sussulta quando intravedo la murti - Dio in terra - nella nicchia più sacra del tempio. Sento di essere nel grembo cosmico, il luogo in cui tutto nasce, e contemplo rapito il suo palpitare. Le mie mani si congiungono spontaneamente, in adorazione. Ho fame di prasad, la dolce offerta a Dio che ritorna ai fedeli in forma di delizia benedetta. I miei palmi cercano il calore della fiamma purificatrice e se lo portano alla fronte e agli occhi.

Ma la religione è molto più di un insieme di riti. È il loro significato. E io sono indù anche per questo. Nel mio sguardo di indù l'universo trabocca di senso. Vedo Brahma, l'anima del mondo, la cornice su cui è montato e intrecciato il tessuto dell'essere, coi suoi ricami di spazio e tempo. Vedo Brahma nirguna, privo di attributi, che esiste al di là di ogni possibile comprensione, descrizione ed esperienza. Con il nostro misero alfabeto confezioniamo un abito troppo stretto per lui - Uno, Verità, Unità, Assoluto, Realtà Trascendente, Terreno dell'Essere - e mentre cerchiamo di cucirglielo addosso, Brahma nirguna esplode più grande che mai. Vedo anche Brahma saguna, con tutti i suoi attributi, a lui l'abito calza a pennello. Allora lo chiamiamo Shiva, Krishna, Shakti, Ganesh; possiamo osservarlo e in parte comprenderlo, distinguere alcune sue qualità - amore, misericordia, forza terrificante -, perfino intessere con lui il filo sottile di una relazione... Brahma saguna è Brahma che si apre ai nostri sensi limitati, che si rivela nelle divinità, negli

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esseri umani, negli animali, negli alberi, in un pugno di terra, perché tutto racchiude in sé una traccia del divino. La verità è che Brahma coincide con l'atman, la forza spirituale dentro di noi. L'anima individuale tende verso l'anima del mondo come il fiume verso il mare. L'energia che alimenta l'universo e la nostra essenza impalpabile sono la stessa cosa. Il finito nell'infinito, l'infinito nel finito. Se mi chiedete di spiegare il rapporto che c'è fra Brahma e l'atman, vi rispondo che è come quello che lega il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: un mistero. Ma una cosa è certa; l'atman aspira a comprendere Brahma, a unirsi all'Assoluto, e così intraprende un viaggio durante il quale nasce e muore, nasce e muore di nuovo, e ancora, e ancora, fino a quando non si libera dell'involucro che lo lega a questa terra. Le vie della liberazione sono numerose, ma passano tutte per la stessa banca: la banca del Karma, dove il mio conto corrente langue o lievita a seconda delle azioni che compio.

Ecco, in poche parole, il succo dell'induismo. Io sono indù da sempre. Con in mano la mappa che ho appena tracciato riesco a trovare il mio posto nell'universo.

Ma non per questo mi comporto da ottuso fanatico. Maledetti i fondamentalisti e quelli che interpretano tutto alla lettera! Mi viene in mente la storia di Krishna. Si incarna in un mandriano e tutte le sere invita le mungitrici a danzare con lui nella foresta. Le mungitrici lo seguono e ballano. La notte è buia, il fuoco ruggisce e scoppietta, la musica è sensuale e incalzante. Le ragazze danzano e danzano con il loro dolce signore, che è tanto grande e generoso da bastare per tutte. Ma se le ragazze diventano possessive, se qualcuna si illude che Krishna danzi solo per lei, Krishna sparisce. Perché non si deve essere gelosi di Dio.

Qui a Toronto vive una donna che mi è molto cara. La mia madre adottiva. La chiamo Zietta, e a lei piace questo nomignolo. È originaria del Quebec. Anche se abita a Toronto da più di trent'anni, la lingua inglese nasconde ancora qualche tranello per la sua mente allevata in francese. Quando sentì nominare gli Hare Krishna per la prima volta, comprese «Hairless Christians», i cristiani senza capelli, e tali rimasero per lei a lungo. Quando finalmente le spiegai il malinteso, aggiunsi che in fondo non aveva avuto tutti i torti: gli indù, nella loro capacità di amare, sono in effetti cristiani calvi, proprio come i musulmani, nell'abilità di vedere Dio in ogni cosa, possono dirsi indù barbuti e i cristiani, per la loro devozione a Dio, musulmani senza il turbante.

CAPITOLO 17

Il primo amore non si scorda mai; gli amori successivi si aggrappano alla sua scia. Devo all'induismo la geografia originaria del mio immaginario religioso: le città e i fiumi, i campi di battaglia e le foreste, le montagne sacre e i mari dove le divinità, i santi, i malvagi e i comuni mortali si mescolano, e così facendo definiscono chi siamo e perché.

Fu in questo paesaggio indù che sentii parlare per la prima volta dell'incommensurabile forza cosmica dell'amore. Krishna si rivolse a me, e io lo seguii. Con la sua saggezza e il suo amore infallibile mi condusse al cospetto di un

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uomo.Avevo quattordici anni ed ero un appagato indù in vacanza quando incontrai Gesù.Era raro che papà prendesse qualche giorno di ferie, ma quella volta ci portò a

Munnar, una località collinare immersa nelle più alte piantagioni di tè al mondo, in Kerala. Erano i primi di maggio e il monsone non era ancora arrivato. Nelle pianure del Tamil Nadu si scoppiava dal caldo. Partimmo in macchina da Madurai e raggiungemmo Munnar dopo cinque ore di curve. L'aria di collina era piacevole come una mentina in bocca. Seguimmo l'itinerario turistico. Visitammo la fabbrica della Tata per la manifattura del tè. Ci godemmo un giro in barca sul lago. Facemmo tappa in un centro per l'allevamento di bovini. In un parco naturale offrimmo una manciata di sale agli emitraghi del Nilgiri, una specie di capra selvatica. «Anche nel nostro zoo a Pondicherry ci sono alcuni emitraghi. Perché non venite a trovarci?» disse papà ad alcuni turisti svizzeri.

Io e Ravi facevamo passeggiate nelle piantagioni di tè intorno a Munnar. Era un modo per scuoterci dalla nostra pigrizia letargica. Sul finire del pomeriggio mamma e papà si sistemavano nella sala da tè del nostro comodo albergo come due gatti che prendono il sole alla finestra. La mamma leggeva, papà chiacchierava con gli altri ospiti dell'albergo.

All'interno di Munnar ci sono tre colline. Non reggono certo il paragone con quelle più alte - vere e proprie montagne - che circondano la città. Ma, durante la prima colazione in albergo, notai che le tre colline si distinguevano per una ragione particolare: ognuna ospitava una casa di Dio. Sulla collina di destra, oltre il fiume, c'era un tempio indù; sulla collina al centro, più lontana, una moschea; sulla collina di sinistra una chiesa cristiana.

Eravamo in vacanza da quattro giorni, quando, sul finire del pomeriggio, mi ritrovai a esplorare la collina di sinistra. Anche se frequentavo una scuola cristiana, almeno di nome, non ero mai entrato in una chiesa, e neppure avevo intenzione di farlo. Non sapevo quasi nulla della religione cristiana, a parte che era famosa per il numero assai ridotto di divinità e la violenza. Ma buone scuole. Feci il giro della chiesa. Dall'esterno era davvero difficile intuire cosa nascondessero quelle mura massicce dall'aspetto anonimo, di colore azzurrino, con le finestre alte e impenetrabili. Sembrava una fortezza.

Giunsi alla canonica. La porta era aperta. Mi nascosi in un angolo per studiare la situazione. A sinistra della porta c'era un cartello con scritto «Parroco» e «Assistente del Parroco». Accanto a ciascun nome c'era una piccola targhetta girevole. E su ogni targhetta si leggeva la parola «Avanti» a caratteri dorati.

Il parroco e il suo assistente erano nella canonica, come del resto potevo constatare con i miei occhi. Uno dei due era nel suo ufficio, la schiena rivolta alle vetrate; l'altro sedeva a un tavolo rotondo nell'ampio vestibolo che evidentemente fungeva da stanza per le visite. Teneva in mano un libro, credo la Bibbia. Leggeva un po', alzava lo sguardo, leggeva ancora un po', alzava di nuovo lo sguardo. I suoi movimenti erano rilassati, ma allo stesso tempo vigili e composti. Dopo qualche minuto, chiuse il libro e lo mise da parte. Intrecciò le mani sul tavolo e rimase là seduto, con un'espressione serena che non tradiva alcun senso di attesa né di

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rassegnazione.I muri bianchi del vestibolo erano immacolati, il tavolo e le panche di legno scuro,

e il prete indossava una tonaca bianca e linda, semplice, priva di ornamenti. Mi pervase un senso di pace. Non era tanto l'ambiente a ispirarmelo, quanto la consapevolezza istintiva che il prete stava lì - aperto, paziente - nel caso in cui qualcuno, chiunque, avesse avuto voglia di parlargli di un problema dell'anima, di un peso sul cuore o di un'ombra della coscienza. In ogni caso lui avrebbe ascoltato con amore. La sua professione era amare, e il prete avrebbe fatto del suo meglio per offrire conforto e guida. Ero commosso. Quella visione si intrufolò nel mio cuore e lo fece vibrare.

Il prete si alzò. Forse per girare la targhetta, pensai, ma mi sbagliavo. Si inoltrò nella canonica, lasciando aperta la porta che divideva il vestibolo dalla stanza attigua. Anche la porta d'ingresso era rimasta aperta. Quel particolare mi colpì: entrambe le porte erano spalancate. Ciò significava che il prete e il suo assistente erano ancora a disposizione dei fedeli.

Tornai sui miei passi e d'impulso entrai in chiesa. Mille nodi mi stringevano lo stomaco. Temevo di imbattermi in un cristiano che avrebbe urlato: «E tu che ci fai qui? Come osi entrare in questo luogo sacro? Profanatore! Vattene subito!».

Ma non c'era nessuno. Ero solo con le mie domande. Avanzai e scrutai l'altare. C'era un dipinto. Che fosse la murti? Raffigurava un sacrificio umano, o qualcosa di simile. Un dio arrabbiato che doveva essere placato con il sangue. Donne dagli occhi estatici fissi al cielo e grassi bambini alati che svolazzavano tutt'intorno. Una colomba luminosa. Ma Dio qual era? Su un lato dell'altare c'era una scultura di legno dipinto. Di nuovo la vittima, ferita e sanguinante. Gli fissai le ginocchia. Erano scorticate. La pelle rosea e sbucciata assomigliava ai petali di un fiore dischiusi per rivelare due rotule rosso fuoco. Quella scena di tortura faceva a pugni con l'immagine del prete nella canonica.

Il giorno dopo, circa alla stessa ora, accettai l'invito della targhetta: «Avanti».I cattolici passano per essere tipi severi e intransigenti. La mia esperienza con

padre Martin fu molto diversa. Era molto gentile. Mi offrì tè e biscotti. Le tazze tintinnavano e risuonavano a ogni tocco. Mi trattò da adulto e mi raccontò una storia. O meglio, visto che i cristiani vanno matti per le maiuscole, una Storia.

La mia prima reazione fu l'incredulità. Che cosa? Gli esseri umani peccavano ma era il Figlio di Dio a farne le spese? Mi sforzai di immaginare mio padre che mi diceva: «Ascolta, Piscine. Un leone si è infilato nel recinto dei lama e ne ha uccisi due. Ieri un altro leone ha ammazzato un'antilope nera. La settimana scorsa due leoni hanno sbranato un cammello. La settimana prima è toccato alle cicogne e agli aironi cenerini. E qualcosa mi dice che anche il nostro aguti dorato abbia fatto la medesima fine. La situazione è diventata insostenibile. Bisogna fare qualcosa. Ho deciso di darti in pasto ai leoni, in modo che possano finalmente espiare i loro peccati. È l'unica soluzione».

«Sì, papà, hai ragione. È la cosa giusta da fare. Dammi un momento per prepararmi.»

«Alleluia, figlio mio.»

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«Alleluia, padre.»Che assurdità. Che strani ragionamenti.Chiesi al prete di raccontarmi un'altra storia, una storia più soddisfacente. Di

sicuro la religione cristiana doveva averne una bella scorta. Le religioni abbondano di storie. Ma padre Martin mi fece capire che le altre storie, quelle precedenti - e ce n'erano tante - per i cristiani rappresentavano semplicemente un prologo. La religione cristiana aveva solo una Storia, e i fedeli la ascoltavano e riascoltavano all'infinito, senza stancarsi. Non avevano bisogno d'altro.

Quella sera, in albergo fui singolarmente silenzioso.Che un dio dovesse sopportare qualche avversità, riuscivo a capirlo. Anche le

divinità indù dovevano vedersela con un certo numero di ladri, spacconi, rapitori e usurpatori. In fin dei conti il Ramayana altro non era che la cronaca dettagliata di una lunga, difficilissima giornata per Rama. Avversità, d'accordo. Capricci della fortuna, va bene. Perfidie, sì. Ma umiliazione? morte? Proprio non riuscivo a immaginare Krishna che, nudo, si lasciava frustare, insultare, trascinare per le strade, e infine crocifiggere da un pugno di mortali qualsiasi. Non avevo mai sentito di una divinità indù che moriva. Demoni e mostri morivano, e così gli uomini, a milioni, perché quello era il loro destino. La materia si disfaceva e svaniva. Ma l'essere divino non poteva essere intaccato dalla morte. Non aveva senso. L'anima del mondo non poteva morire, neppure in piccolissima parte. Il Dio dei cristiani aveva commesso un terribile errore nel lasciare che la sua incarnazione morisse. Equivaleva a un suicidio, per quanto parziale. Ma anche ammettendo che il Figlio dovesse per forza morire, perché la resurrezione? Se il Figlio sulla croce era solo un dio che scimmiottava una tragedia umana, allora la Passione di Cristo era piuttosto la Farsa di Cristo. Se il Figlio doveva morire, che morisse sul serio. Padre Martin mi assicurò che era morto davvero. Ma, replicai, un dio morto una volta era un dio morto per sempre. Il Figlio avrebbe sentito in bocca il sapore della fine, per l'eternità. Anche la Trinità ne sarebbe stata contaminata: alla destra di Dio doveva aleggiare un certo olezzo di morte... Che ragione aveva Dio di infliggersi tutto ciò?

Perché non lasciava la morte ai mortali? Perché infangava la bellezza, sciupava la perfezione?

Per amore. Così rispondeva padre Martin.Ma il comportamento del Figlio continuava ad apparirmi inaccettabile. Si racconta

che il piccolo Krishna fu accusato ingiustamente dai suoi amici di aver mangiato qualcosa di sporco raccolto da terra. Yashoda, madre adottiva di Krishna, si avvicinò al bambino agitando un dito. «Non si mangiano le cose sporche!» lo rimproverò. «Ma non ho fatto niente» si scusò il signore supremo dell'universo, incarnatosi per gioco in un bambino spaventato. «Fa' vedere. Apri subito la bocca.» Krishna obbedì, aprì la bocca. Yashoda restò senza fiato. Nella bocca di Krishna scorse l'universo nella sua interezza ed eternità, tutte le stelle e i pianeti e lo spazio tra loro, tutte le terre e tutti i mari e la vita che racchiudono; vide i giorni passati e quelli futuri, ogni idea e ogni emozione, la pietà, la speranza e i tre elementi della natura; non mancava proprio nulla, non un granello di sabbia, né una candela, né una creatura, un villaggio, o una galassia; Yashoda riconobbe persino se stessa e vide che ogni

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frammento di polvere era al suo posto. «Mio signore, puoi chiudere la bocca» mormorò con riverenza.

Una volta Vishnu si incarnò nel nano Vamana e chiese a Bali, re dei demoni, di concedergli in regalo tanta terra quanta fosse riuscito a percorrere con tre passi. Osservando le corte gambe del nano, Bali scoppiò a ridere, e acconsentì. In un lampo Vishnu assunse le sue reali proporzioni cosmiche. Con un passo percorse la terra, con un altro il cielo, e con l'ultimo diede un calcio a Bali e lo spedì negli inferi.

Persino Rama, la più umana delle incarnazioni, non era da meno. Quando sua moglie Sita fu rapita da Ravana, malvagio re di Lanka, Rama fu preso dallo sconforto. Ma poi ricorse ai suoi poteri divini, e allora nessuna croce avrebbe potuto fermarlo. Al momento di combattere, Rama trascese i limiti del proprio corpo per impugnare portentose armi soprannaturali.

Ecco come doveva essere Dio: splendente e pieno di forza. Solo così poteva salvarci, liberarci e sconfiggere il male.

Cristo, invece, conosceva la fame e la sete, la stanchezza, la tristezza e l'ansia. Veniva maltrattato, era costretto a sopportare discepoli che non lo capivano e avversari che non lo rispettavano. Ma che razza di dio era? Un dio troppo umano, ecco. D'accordo, aveva fatto dei miracoli, molti di natura medica, un paio per riempire pance vuote. Al massimo aveva placato una tempesta o camminato sull'acqua. Se quella era magia, era magia spicciola, simile ai trucchi con le carte. Qualsiasi divinità indù avrebbe potuto fare cento volte meglio. Quel Figlio aveva trascorso la maggior parte del tempo a raccontare storie, a parlare. Era un dio che andava a piedi, un dio-pedone. Nel caldo della Palestina, camminava come un comune mortale, arrancando sulle rocce nei suoi comunissimi sandali. Quando si concedeva il lusso di un mezzo di trasporto, sceglieva invariabilmente un asino. Il Figlio era morto in tre ore, fra gemiti, rantoli e lamenti. Che dio era mai quello? Cosa poteva insegnarci?

L'amore, diceva padre Martin.Per di più il Figlio si era manifestato una sola volta, tantissimo tempo prima, in un

luogo sperduto dell'Asia Minore, ai confini di un impero ormai tramontato da un pezzo. Lo avevano fatto fuori prima che potesse spuntargli un solo capello bianco. E non aveva lasciato nemmeno un erede, solo qualche testimonianza sparsa qua e là; la sua opera completa ammontava a quattro scarabocchi tracciati nella polvere. Quello non era un dio alle prese con un gravissimo attacco di panico da palcoscenico; quello era un dio in versione egoista. Un Brahma meschino e ingiusto, praticamente non manifesto. Se, per qualche motivo, Brahma avesse avuto un'unica incarnazione, quell'unico figlio sarebbe stato generoso come Krishna con le mungitrici. Cosa si nascondeva dietro una tale tirchieria divina?

L'amore, ripeteva padre Martin.In quel caso mi sarei tenuto il mio Krishna, mille grazie. Lui sì che era una vera

divinità. Non sapevo che farmene di quel Figlio sudaticcio e chiacchierone.Ecco dunque come accolsi quell'ambiguo rabbino di un'epoca remota: con

incredulità e irritazione.Presi il tè con padre Martin per tre giorni di fila. Ogni volta, mentre la tazza

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tintinnava contro il piattino e il cucchiaino contro l'orlo della tazza, lo tempestai di domande.

La risposta era sempre la stessa. La mia indignazione nei confronti del Figlio cresceva man mano che gli trovavo nuovi difetti.

Era anche permaloso! Sentite questa: siamo a Betania, è mattino. Dio è affamato e vuole fare colazione. Si avvicina a un albero di fichi. Non è la stagione dei fichi, perciò non c'è nemmeno l'ombra di un frutto sull'albero. Dio è seccato. Il Figlio borbotta: «Possano i tuoi rami essere sterili per sempre!» e l'albero di fichi appassisce di colpo. Così racconta Matteo e conferma Marco.

Dico io, è forse colpa dell'albero se non è la stagione dei fichi? Che bisogno c'è di annientarlo all'istante?

Non riuscivo a togliermi il Figlio dalla testa. A tutt'oggi le cose non sono cambiate. Per tre giorni pensai a lui ininterrottamente. Più quel pensiero mi infastidiva, meno riuscivo ad allontanarlo. Più cose venivo a sapere di lui, più cresceva il bisogno di conoscerlo.

L'ultimo giorno a Munnar, poche ore prima di partire, mi precipitai da padre Martin. Ripensandoci, la mia conversione avvenne nel più tipico stile cristiano. Il cristianesimo è una religione che ha fretta. Pensate al mondo creato in soli sette giorni. Persino in termini simbolici, stiamo parlando di una creazione mordi e fuggi. A uno come me, abituato a una religione in cui la lotta per una singola anima può trasformarsi in una staffetta della durata di secoli, le rapide soluzioni del cristianesimo davano un senso di vertigine.

Se l'induismo fluisce placido come il Gange, il cristianesimo corre come Toronto all'ora di punta. È una religione veloce come un furetto, con l'urgenza di un'ambulanza. Non ha bisogno di spazio; si esprime nell'attimo. In un attimo sei perduto o salvato. Le origini del cristianesimo affondano nei secoli, ma la sua essenza è racchiusa in un'unica dimensione temporale: subito.

Raggiunsi ansimando la sommità della collina. L'insegna sulla porta di padre Martin diceva «Chiuso», ma grazie a Dio lui c'era.

Balbettai: «Padre, faccia di me un cristiano, la prego».Lui sorrise. «Ma tu sei già cristiano, Piscine. Chi incontra Cristo con cuore sincero

è cristiano. E qui a Munnar tu hai incontrato Cristo.»Volle darmi un buffetto d'incoraggiamento, e la sua mano calò sulla mia testa,

BOOM BOOM BOOM!Temevo di esplodere per la gioia.«Quando tornerai, prenderemo di nuovo il tè insieme, figliolo.»«Sì, padre.»Mi salutò con un bel sorriso. Il sorriso di Cristo.Entrai in chiesa, senza nessuna paura questa volta. Finalmente era anche casa mia.

Offrii le mie preghiere a Cristo, che è vivo. Poi lasciai la collina di sinistra per quella di destra: volevo ringraziare Krishna per aver messo Gesù di Nazareth, un dio straordinariamente umano, sulla mia strada.

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CAPITOLO 18

Circa un anno più tardi fu la volta dell'islam. Avevo quindici anni e mi piaceva andarmene in giro a esplorare la mia città. Il quartiere musulmano non era lontano dallo zoo. Un quartiere piccolo e tranquillo. Parole in arabo e mezzelune decoravano le facciate delle abitazioni.

Arrivai a Mullah Street. Diedi una sbirciatina alla Jamia Masjid, la Grande Moschea, ovviamente dall'esterno. L'islam aveva una reputazione peggiore di quella del cristianesimo: un numero ancora inferiore di divinità e molta più violenza. Per giunta non avevo mai sentito dir bene delle scuole musulmane. Quindi decisi di restarmene fuori, anche se la moschea era deserta. L'edificio, di un bianco immacolato fatta eccezione per i bordi pitturati di verde, era una struttura aperta con al centro una stanza vuota. Lunghe stuoie ricoprivano il pavimento. Due minareti scanalati si slanciavano verso il cielo davanti a uno sfondo di svettanti palme da cocco. Non c'era niente di manifestamente religioso o - se proprio vogliamo - interessante, in quella vista, ma l'atmosfera era piacevole e rilassante.

Mi allontanai. Oltre la moschea si allungava una fila di abitazioni a un solo piano, con piccoli portici ombreggiati. Case fatiscenti e povere, i muri in stucco di un verde sbiadito. Fra queste, un piccolo negozio. Notai una rastrelliera contenente delle bottiglie impolverate di Thumbs Up e quattro grossi barattoli di plastica trasparente pieni per metà di caramelle. Ma si capiva che l'articolo più importante lì dentro era un altro, una cosa piatta, tondeggiante e bianca. Mi avvicinai al bancone. Sembrava una specie di pane azzimo. Ne toccai uno col dito. Era duro, come un naan vecchio di tre giorni. "Ci voleva del coraggio a mangiare quella roba" mi dissi. Ne presi uno e lo agitai un po' per vedere se si rompeva.

Una voce chiese: «Lo vuoi assaggiare?».Trasalii. Capita a tutti qualche volta di trovarsi in un luogo sospeso fra luce e

ombra, dove macchie di colore ci danzano davanti agli occhi e la mente vaga per conto suo impedendoci di vedere ciò che è proprio davanti a noi.

A poco più di un metro da me c'era un uomo seduto a gambe incrociate dietro al bancone del pane. Ero così spaventato che cominciarono a tremarmi le mani. Il pane che reggevo cadde e rotolò in strada, per fermarsi su uno schizzo di sterco di mucca ancora fumante.

«Mi dispiace tanto, signore. Non mi ero accorto di lei!» proruppi. Ero pronto a scappare.

«Non fa niente» mi disse tranquillo. «Se lo mangerà una mucca. Provane un altro.»

Prese il pane e lo spezzò in due. Mangiammo insieme. Era duro e gommoso, una bella ginnastica per i denti, ma mi saziò. Adesso ero calmo.

«Questo pane lo fa lei, signore?» chiesi, tanto per fare due chiacchiere.«Sì. Vieni, ti faccio vedere come.» Si alzò e mi fece cenno di seguirlo in casa.Era un tugurio di due stanze. Quella più grande, occupata quasi interamente da un

forno, era la panetteria, e una tenda sottile la separava dalla sua camera da letto. L'interno del forno era rivestito da uno strato di ciottoli. Mentre mi spiegava come si

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cuoce il pane sui sassi ardenti, il richiamo nasale del muezzin si diffuse nell'aria. Era l'invito alla preghiera, ma non sapevo bene cosa comportasse. Immaginai che chiamasse i fedeli musulmani alla moschea, un po' come le campane convocavano noi cristiani in chiesa. Ma non era così. Il fornaio si interruppe nel bel mezzo del discorso e mi disse: «Scusa». Si eclissò brevemente nella stanza attigua e ritornò con un tappeto che srotolò sul pavimento della panetteria, scatenando una piccola tempesta di farina. E proprio lì, davanti a me, nel bel mezzo della sua bottega, si mise a pregare. Una cosa del tutto incongrua, ma ero io a sentirmi fuori posto. Per fortuna, pregava con gli occhi chiusi.

Se ne stava in piedi, mormorando parole in arabo. Si portò le mani alle orecchie, e si toccò i lobi con i pollici come se si sforzasse di udire la risposta di Allah. Si piegò in avanti e si rizzò di nuovo. Si inginocchiò e posò mani e testa per terra. Poi si tirò su, rimanendo inginocchiato. Si chinò di nuovo. Quindi si rialzò e ricominciò da capo.

"Chi l'avrebbe detto, l'islam è tutto qui: un po' di ginnastica!" Lo yoga dei beduini nei paesi caldi. Asana senza sudore, il paradiso senza sforzo.

Ripetè il ciclo di esercizi per quattro volte, sempre borbottando. Alla fine, roteò la testa in senso antiorario e meditò per qualche istante, poi aprì gli occhi, sorrise, si alzò, e con un gesto rapido della mano ripiegò il tappeto come doveva aver fatto innumerevoli volte. Lo rimise a posto, tornò da me e mi chiese: «Dicevamo?».

Fu la prima volta che vidi un musulmano pregare: conciso, efficiente, corporeo, sussurrante, impressionante. Più tardi, quando andai in chiesa, immobile e in silenzio davanti a Cristo sulla croce, l'immagine di quella callistenica comunione con Dio in mezzo ai sacchi di farina continuava a tornarmi in mente.

CAPITOLO 19

Tornai a trovarlo.«Di cosa parla la tua religione?» gli chiesi, passando al "tu".I suoi occhi si illuminarono. «Dell'Amato.»Sfido chiunque a capire lo spirito dell'islam, e a non amarlo. È una bellissima

religione di fratellanza e devozione.La moschea era davvero una costruzione aperta, alla brezza e a Dio. Ci sedevamo

a gambe incrociate ad ascoltare l'imam finché non arrivava il momento della preghiera. Allora noi fedeli, prima sparpagliati alla rinfusa, ci alzavamo e ci disponevamo uno accanto all'altro; ogni spazio vuoto si riempiva e presto comparivano tante file ordinate di devoti.

Mi piaceva posare la fronte a terra. Dava la sensazione di un profondo contatto religioso.

CAPITOLO 20

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Era un sufi, un mistico musulmano. Perseguiva la fana, l'unione con Dio. Il suo rapporto con Dio era intimo e intenso. «Se fai due passi verso Dio,» mi ripeteva «Lui ti corre incontro!»

Era un uomo dall'aspetto comune: niente nel suo viso o nel suo modo di vestire rimaneva impresso nella memoria. Non c'è da stupirsi, quindi, se la prima volta che ci incontrammo per caso non lo notai. Persino quando ormai lo conoscevo bene, ogni volta che lo incontravo stentavo a riconoscerlo. Si chiamava Satish Kumar, come il mio insegnante di biologia. Un nome molto comune in Tamil Nadu, quindi la coincidenza non è poi così straordinaria. Comunque fosse, mi rallegrava che il pio fornaio dall'aspetto anonimo e dalla salute di ferro e il professore di biologia comunista grasso e sbilenco, ex bambino poliomielitico devoto alla scienza, avessero lo stesso nome. Mister Kumar e il suo omonimo mi insegnarono rispettivamente la biologia e l'islam. I due Kumar mi spinsero a studiare zoologia e teologia all'Università di Toronto. Mister Kumar e Kumar furono i profeti della mia giovinezza indiana.

Kumar e io pregavamo insieme e recitavamo il dhikr, i novantanove nomi rivelati di Allah. Lui era uno hafiz, conosceva il Corano a memoria e recitava i versetti adagio e con semplicità. Non imparai mai bene l'arabo, ma amavo il suono di quelle parole. Le esplosioni gutturali e le lunghe vocali fluenti scorrevano oltre la soglia della mia comprensione come un freschissimo ruscello. Amavo perdermi in quel ruscello: non era troppo vasto - era la voce di un solo uomo - ma profondo quanto l'universo.

Ho descritto la casa di Kumar come un tugurio. Eppure, mai una moschea, una chiesa o un tempio sono stati tanto sacri per me. Certi giorni uscivo dalla panetteria carico di gloria. Inforcavo la bicicletta e, pedalando, diffondevo quella gloria nell'aria.

Una volta mi allontanai dalla città, e al ritorno, mi fermai in un punto da cui si godeva una bella vista. Alla mia sinistra scorgevo il mare, di fronte a me la strada sembrava proseguire all'infinito. All'improvviso mi ritrovai in paradiso. Quel punto non era diverso da quando l'avevo superato all'andata, ma se prima la strada, il mare, gli alberi, il cielo, il sole formavano un coro dissonante di impressioni, adesso si rivolgevano a me in un'unica lingua. L'albero si era accorto della strada, che era consapevole del cielo, che a sua volta sapeva del mare, che divideva ogni cosa con il sole. Ciascun elemento era in armonia con gli altri, tutti erano amici e parenti. Mi inginocchiai da mortale, mi sollevai immortale. Ero il fulcro di un piccolo cerchio e insieme il centro di uno molto più grande. L'atman aveva incontrato Allah.

Solo in un'altra occasione sentii Dio tanto vicino. Accadde in Canada, molto tempo dopo. Mi trovavo in campagna, a casa di amici, d'inverno. Ero uscito a passeggiare nella loro proprietà, e stavo tornando verso casa. Il mattino era chiaro e luminoso e, dopo una notte di neve, davanti a me si stendeva un immenso manto bianco. Ero quasi arrivato quando d'impulso mi voltai. Di fronte a me c'era un bosco e nel cuore del bosco una piccola radura. Il vento, o forse un animale, aveva scrollato la neve da un ramo. Fluttuava delicatamente nell'aria e brillava alla luce del sole. Attraverso quella pioggia dorata vidi la Vergine Maria. Perché proprio lei, non lo so.

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Non le ero particolarmente devoto. Ma che fosse Maria, non c'era dubbio. Aveva la pelle candida. Portava un vestito bianco e un mantello blu. Mi fermai e strizzai gli occhi. Era maestosa e bellissima. Mi sorrideva. Dopo qualche secondo, mi lasciò. Il mio cuore batteva forte per la paura e la gioia.

La presenza di Dio è la ricompensa più grande.

CAPITOLO 21

Sono seduto in un caffè del centro, dopo un pomeriggio trascorso con lui. I nostri incontri mi lasciano addosso un senso di disagio per il modo in cui vivo la mia vita.

Anche questa volta le sue parole hanno lasciato il segno. Come ha detto? Ah sì, «sterile e insipida realtà fattuale» e «la storia più bella».

Tiro fuori carta e penna e scrivo:

«Parole che riflettono la coscienza divina: sentimenti di elevazione, euforia, gioia; un universo allineato secondo principi morali, e non razionali. Il principio fondamentale dell'esistenza è ciò che chiamiamo amore. Non sempre si esprime in modo chiaro, diretto, immediato, eppure è ineluttabile».

E il silenzio di Dio? Ci penserò.

«La sua mente a volte è confusa, però sorretta dalla fiducia di una Presenza e di un fine ultimo.»

CAPITOLO 22

Le ultime parole di un ateo: «È bianco! È tutto bianco! A-A-Amore! Mio Dio!» e il salto verso la fede in punto di morte.

Invece l'agnostico, se rimane fedele al suo io razionale, alla sterile e insipida realtà dei fatti, proverà a spiegare la calda luce che lo avvolge: «S-s-scarsa ossigenazione del c-c-c-cervello». Privo di immaginazione fino all'ultimo, l'agnostico si perde la storia più bella.

CAPITOLO 23

Sfortunatamente, il senso di comunità che si instaura fra credenti della stessa fede a me procurò solo guai. Col passare del tempo, le mie pratiche religiose, inizialmente note solo a chi le trovava buffe e innocue, attirarono l'attenzione di chi le giudicò decisamente pericolose e niente affatto buffe.

«Che ci fa tuo figlio al tempio?» chiese il prete.

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«Hanno visto tuo figlio in chiesa. Si è fatto persino il segno della croce» protestò l'imam.

«Tuo figlio è diventato musulmano» si lamentò il pandit.I miei genitori, fino a quel momento ignari del fatto che ero indù, cristiano e

musulmano praticante, rimasero esterrefatti. Gli adolescenti nascondono sempre qualcosa ai genitori e tutti i sedicenni hanno dei segreti. Ma il fato aveva deciso che un giorno io, i miei genitori e le mie tre guide spirituali - i tre saggi, chiamiamoli così - dovessimo incontrarci sul lungomare di Goubert Salai e che il mio segreto dovesse venire alla luce. Era domenica pomeriggio. Una giornata calda, piacevolmente ventilata. Il Golfo del Bengala scintillava sotto un cielo blu. La gente di città era uscita a passeggio. I bambini urlavano e ridevano. Palloncini colorati fluttuavano nell'aria. I chioschi del gelato brulicavano di avventori. Perché pensare agli affari in un giorno così, mi chiedo? I tre saggi avrebbero dovuto limitarsi a un cenno di saluto e a un sorriso, e poi andarsene per la loro strada. Invece no. Era destino che ci imbattessimo in tutti e tre contemporaneamente.

I saggi decisero all'istante che quella era l'occasione ideale per scambiare due parole con quel famoso personaggio di Pondicherry, il direttore dello zoo, che aveva per figlio un devoto così zelante. Vidi il primo e sorrisi; ma quando i miei occhi increduli si posarono sul terzo, il mio sorriso si era trasformato in una maschera di orrore. Era evidente che tutti e tre si dirigevano verso di noi. Il mio cuore sobbalzò e sprofondò nell'abisso.

I tre saggi si scambiarono occhiate piene d'irritazione, ognuno dando per scontato che gli altri due intendessero discutere questioni di carattere mondano.

Nel vedersi accerchiati da quei tre sconosciuti sorridenti, i miei genitori assunsero un'aria stupita. In effetti la mia famiglia non dava grande peso alla religione. Papà si considerava un indiano della nuova India: ricca, moderna e mondana come il gelato. In lui non c'era neppure un grammo di religiosità. Era un uomo d'affari, anzi era un uomo indaffarato, un professionista instancabile. Badava ai fatti e si preoccupava degli accoppiamenti fra i suoi leoni più che dell'esistenza di qualsiasi disegno superiore, esistenziale o morale che fosse. È pur vero che aveva fatto benedire tutti gli animali da un prete e che nello zoo avevamo due piccoli templi: uno dedicato al dio Ganesh e l'altro ad Hanuman, le divinità che meglio si addicono a uno zoo, il primo per via della testa di elefante, il secondo perché è una scimmia. In realtà mio padre era convinto che quei due templi avrebbero giovato agli affari, e non alla sua anima: erano più una questione di immagine che di salvezza eterna. Papà non conosceva i tormenti dello spirito; erano le angosce finanziarie a devastargli l'anima. «Una piccola epidemia tra i nostri animali,» diceva spesso «e finiamo tutti a spaccare pietre per la strada».

L'argomento "religione" lasciava mia madre indifferente, neutrale e alla lunga annoiata. La sua educazione indù e la successiva istruzione battista si erano annullate reciprocamente, per far posto a una serena empietà. Credo abbia sempre sospettato che per me le cose stavano diversamente, ma vedendomi, da bambino, divorare la versione a fumetti del Ramayana e del Mahabharata, la Bibbia illustrata e altre storie di divinità, non fece mai commenti. Anche lei leggeva molto. Era contenta

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quando mi trovava con il naso ficcato in un libro, a patto che non fosse sconcio. Quanto a mio fratello Ravi, se Krishna avesse tenuto in mano una mazza da cricket invece di un flauto, se Cristo gli fosse apparso in veste di arbitro, e se il profeta Maometto, pace su di lui, avesse avuto fama di essere un discreto giocatore di bowling, allora forse avrebbe manifestato un briciolo di interesse per la religione. Ma non era così, e Ravi ignorava Dio in tutte le sue forme e incarnazioni.

Fermi sull'assolato lungomare di Goubert Salai, ci scambiammo i «Salve» e i «Buongiorno» di prammatica, poi un silenzio imbarazzato calò sul nostro strano drappello. Fu il prete a rompere il ghiaccio, dicendo, con una punta di orgoglio nella voce: «Piscine è un buon cristiano. Spero di vederlo presto nel nostro coro».

I miei genitori, l'imam e il pandit rimasero di stucco. «Ti sbagli. È un buon musulmano. Tutti i venerdì viene alla moschea a pregare e la sua conoscenza del sacro Corano migliora di giorno in giorno» rispose piccato l'imam. I miei genitori, il prete e il pandit erano increduli.

Fu il turno del pandit. «Sbagliate tutti e due. Piscine è indù dalla testa ai piedi. Lo vedo sempre al tempio quando viene per il darshan e la puja.»

I miei genitori, l'imam e il prete erano sconvolti.«Io non mi sbaglio affatto» esclamò il prete. «Conosco bene questo figliolo. Si

chiama Piscine Molitor Patel ed è cristiano.»«Anch'io lo conosco, e ti assicuro che è musulmano» affermò l'imam.«Sciocchezze!» urlò il pandit. «Piscine è nato indù, vive da indù e morirà indù!»I tre saggi si osservavano a vicenda, ansanti e offesi."Signore, allontana il loro sguardo da me" sussurrò il mio cuore.Ma mi accorsi che adesso mi fissavano tutti e tre.«Piscine, è vero?» chiese serio l'imam. «Gli indù e i cristiani sono idolatri.

Venerano più di un dio.»«E i musulmani hanno più di una moglie» rispose il pandit. «Piscine,» bisbigliò il

prete «la salvezza è solo in Gesù».«Stupidaggini! I cristiani non capiscono niente di religione!» sbottò il pandit.«Si sono allontanati molto tempo fa dal sentiero di Dio» convenne l'imam.«E dov'è Dio nell'islam?» il prete partì al contrattacco. «Non avete nemmeno un

miracolo che ne dimostri l'esistenza. Che razza di religione è, senza miracoli?»«Non certo un circo pieno di morti che spuntano di continuo dalla tombe! Per noi

musulmani basta e avanza il miracolo dell'esistenza: il volo degli uccelli, una giornata di pioggia, la crescita dei raccolti. Questi sono i nostri miracoli.»

«Gli uccelli e la pioggia piacciono a tutti, ma noi preferiamo sentire che Dio ci è veramente vicino.»

«Be', il vostro Dio ha avuto proprio un'idea brillante a starvi vicino: l'avete appeso a una croce, l'avete trafitto con i chiodi per cercare di farlo fuori. È così che si tratta un profeta? Il profeta Maometto, pace su di lui, ci portò la parola di Dio senza bisogno di messinscene e morì di vecchiaia.»

«La parola di Dio rivelata a un mercante analfabeta nel bel mezzo del deserto? Fu un attacco epilettico causato dal dondolio del cammello, altro che rivelazione!»

«Se il Profeta, p.s.d.l., fosse vivo, avrebbe parole adatte a te» replicò l'imam, gli

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occhi ridotti a una fessura.«Sì, ma è morto! Cristo è vivo mentre il tuo p.s.d.l. è morto, morto, morto!»Il pandit li interruppe senza scomporsi. Parlò in tamil: «La vera questione è perché

mai Piscine perde il suo tempo con queste religioni straniere...».Il prete e l'imam strabuzzarono gli occhi a quell'affronto. Erano entrambi tamil.«Dio non ha nazione» bofonchiò il prete.L'imam annuì con enfasi. «Esiste un unico Dio.»«E a causa di quell'unico dio i musulmani scatenano infiniti guai e rivolte: la

miglior prova di quanto l'islam faccia male è l'inciviltà dei suoi seguaci» si scaldò il pandit.

«Senti chi parla!» si indignò l'imam. «Gli indù schiavizzano la gente e venerano bambole inghirlandate.»

«Sono idolatri del vitello d'oro. Si inginocchiano davanti alle mucche» gli fece eco il prete.

«E i cristiani adorano un bianco! Leccano i piedi di un dio straniero!»«Mangiano la carne di maiale, sono cannibali!» continuò l'imam.«Il punto da chiarire,» proruppe il prete cercando di controllare la sua rabbia «è se

Piscine voglia la vera religione o le storielle dei fumetti».«Dio oppure gli idoli» disse l'imam con aria solenne. «Le nostre divinità o un dio

coloniale» sibilò il pandit.Era difficile dire chi dei tre fosse più arrabbiato. Incominciavo a temere che

sarebbe finita a botte.Papà alzò le braccia. «Signori, signori, per favore!» esclamò. «Vi ricordo che in

questo paese esiste libertà di culto.»Tre facce apoplettiche si girarono verso di lui.«Appunto! Cult-o! Al singolare!» urlarono i tre saggi, con gli indici alzati come

punti esclamativi.Indispettiti dalla perfetta sincronia dei loro gesti, abbassarono subito il dito, e

ognuno sospirò e brontolò sottovoce. Mamma e papà continuavano a fissarli. Erano senza parole.

Il pandit parlò per primo. «Mister Patel, la devozione di Piscine è ammirevole e in un'epoca travagliata come la nostra è bello incontrare un ragazzo così. Su questo siamo tutti d'accordo.» Il prete e Yimam fecero segno di "sì" con la testa. «Ma non può essere indù, cristiano e musulmano. È semplicemente impossibile. Deve scegliere.»

«Non penso che seguire fedi diverse sia un crimine, però credo che abbiate ragione» rispose papà.

Con un mormorio di approvazione i tre volsero lo sguardo al cielo. Anche papà guardò il cielo: pareva che la decisione dovesse arrivare da lassù.

Il silenzio piombò pesante sulle mie spalle.«Allora, Piscine?» la mamma mi diede un colpetto col gomito. «Cosa ne pensi?»«Bapu Gandhi ha detto: "Tutte le religioni sono vere". Io voglio solo amare Dio»

mi uscì di bocca, e abbassai lo sguardo, rosso in volto.Il mio imbarazzo si rivelò contagioso. Nessuno disse niente. Per una curiosa

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coincidenza vicino a noi, sul lungomare, c'era la statua di Gandhi. Con il bastone in mano, un sorriso mite e un guizzo negli occhi, il Mahatma passeggiava. Mi piace pensare che avesse seguito la nostra conversazione, prestando la massima attenzione a quel che diceva il mio cuore. Papà si schiarì la gola e commentò a mezza voce: «Immagino che sia quello che tutti cerchiamo di fare: amare Dio».

Trovai molto strano che mio padre dicesse una cosa simile, proprio lui che da che ricordavo non era mai entrato in un tempio. Ma funzionò. Non si può rimproverare un ragazzino perché vuole amare Dio. I tre saggi ci salutarono con un sorriso tirato e si allontanarono.

Papà mi guardò per un attimo, come se volesse dirmi qualcosa, poi ci ripensò e chiese «Gelato?» e, prima ancora che potessi rispondere, si diresse verso il primo gelataio ambulante. Lo sguardo della mamma indugiò su di me, con un'espressione dolce e allo stesso tempo perplessa.

Quella fu la mia iniziazione al dialogo interconfessionale. Papà comprò tre focacce ripiene di gelato, che mangiammo in un silenzio inconsueto prima di riprendere la passeggiata domenicale.

CAPITOLO 24

Ravi si divertì un mondo quando venne a saperlo.«Allora, Swami Gesù, intraprenderai l'hajj quest'anno?» mi provocava,

congiungendo le mani davanti al viso in un riverente namaskar. «La Mecca ti chiama?» Si faceva il segno della croce. «Oppure andrai a Roma per essere incoronato papa Pi-o?», «A quando la circoncisione che farà di te un ebreo? Giovedì vai al tempio, venerdì alla moschea, sabato alla sinagoga, domenica in chiesa... altre tre conversioni e sarai in vacanza per tutta la vita.»

E avanti così.

CAPITOLO 25

Ma la faccenda non finì lì. Un giorno un fanatico mi trascinò fuori dalla Grande Moschea. In chiesa il prete mi guardava storto, impedendomi di sentire la pace di Cristo. Un'altra volta un bramino mi cacciò durante il darshan.

Le mie pratiche religiose venivano riportate ai miei genitori, dipinte nei toni drammatici del tradimento. Tanta meschinità faceva forse bene a Dio?

Purtroppo, c'è sempre chi è pronto ad assumersi la responsabilità di difenderlo, come se la Realtà Ultima e la struttura dell'esistenza necessitassero dell'aiuto umano.

Queste persone, quando incontrano una vedova devastata dalla lebbra che elemosina qualche spicciolo, o dei bambini coperti di stracci, pensano: "Le solite sceneggiate". Ma se percepiscono la più piccola offesa nei confronti di Dio, si trasformano completamente: i volti si infiammano, i petti si gonfiano e volano parole rabbiose. La forza della loro indignazione è incredibile. La loro fermezza mette

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paura.Queste persone non capiscono che Dio va difeso dentro e non fuori di noi.Dovrebbero indirizzare la loro rabbia verso se stessi, perché il male esteriore è

solo la conseguenza di quello che coviamo nell'anima.Intanto, le vedove e i bambini che vivono per strada sono sempre di più: è in loro

difesa - e non in difesa di Dio - che coloro che si credono giusti dovrebbero accorrere.

Così smisi di andare a messa alla chiesa di Nostra Signora dell'Immacolata Concezione e cominciai a frequentare la parrocchia di Nostra Signora degli Angeli.

Al termine della preghiera del venerdì non rimanevo più a chiacchierare con i miei confratelli. Al tempio andavo solo nelle ore di maggiore affluenza, quando i bramini erano troppo occupati per intromettersi fra me e Dio.

CAPITOLO 26

Pochi giorni dopo quel triplice incontro sul lungomare, presi il coraggio a due mani e andai a trovare mio padre nel suo ufficio.

«Papà?»«Sì, Piscine.»«Vorrei essere battezzato, e vorrei anche un tappeto da preghiera.»Le mie parole fecero breccia lentamente. Dopo una manciata di secondi, mio padre

alzò lo sguardo dalla sua scrivania: «Un cosa?» mi domandò.«Mi piacerebbe poter pregare all'aperto senza sporcarmi i pantaloni. E poi

frequento una scuola cristiana senza avere ricevuto il battesimo di Cristo.»«Perché vuoi pregare all'aperto? Anzi, perché vuoi pregare?»«Perché amo Dio.»«Ah!» fu il suo commento. Sembrava imbarazzato. Pensai che mi avrebbe offerto

di nuovo un gelato. «Be',» disse dopo una pausa «il Petit Séminaire di cristiano ha solo il nome. È una scuola frequentata da molti ragazzi indù. Per ricevere una buona preparazione non c'è bisogno di farsi battezzare. E neppure di pregare Allah».

«Ma io voglio pregare Allah. Ed essere cristiano.»«Non puoi, figliolo. Devi scegliere una cosa o l'altra.»«Perché?»«Perché si tratta di due religioni diverse. Non hanno niente in comune.»«Loro non la pensano così! Musulmani e cristiani affermano che Abramo è uno di

loro. I musulmani credono che il Dio degli ebrei e dei cristiani sia anche il loro. Riconoscono Davide, Mosè e Gesù come profeti.»

«Che cosa c'entra tutto questo con noi? Noi siamo indiani, per la miseria!»«In India ci sono cristiani e musulmani. C'è chi sostiene che Gesù sia sepolto in

Kashmir.»Papà aggrottò la fronte. All'improvviso aveva molto da fare.«Parlane con tua madre.»La mamma stava leggendo.

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«Mamma.»«Sì, tesoro.»«Vorrei essere battezzato e vorrei un tappeto da preghiera.»«Parla con tuo padre.»«L'ho fatto. Mi ha detto di parlare con te.»«Ha detto così?» Posò il libro. Guardò fuori, verso lo zoo. Sono sicuro che in quel

momento papà sentì una folata di aria gelida sul collo. La mamma si avvicinò alla libreria. «Ho un libro che ti piacerà.» Aveva già allungato il braccio per afferrare il volume. Un romanzo di Robert Louis Stevenson. La solita tattica.

«Mamma, l'ho già letto tre volte.»«Oh.» Il suo braccio si mosse esitante verso sinistra.«Anche Conan Doyle.» Il braccio della mamma si mosse verso destra. «R.K.

Narayan? Non puoi aver letto tutte le opere di Narayan!»«Per me è importante, mamma.»«Robinson Crusoe!»«Mamma!»«D'accordo, Piscine!» esclamò lei. Si rimise a sedere, sembrava che avesse

abbassato un po' la guardia: dovevo colpire adesso e dovevo colpire nei punti giusti.Sistemò un cuscino. «Agli occhi miei e di papà tutto questo fervore religioso

risulta un po' misterioso.» «Appunto, è un mistero.»«Hmmm. Non intendevo questo. Ascoltami, tesoro, se vuoi essere religioso, devi

essere o indù o cristiano o musulmano. Hai sentito quello che ti hanno detto il prete, il pandit e l'imam sul lungomare.»

«Mamaji ha due passaporti: indiano e francese. Perché io non posso essere indù, cristiano e musulmano?» «Ma Francia e India sono due nazioni della terra.» «Quante nazioni ci sono in cielo?» Ci pensò per un attimo. «Una. Questo è il punto. Una nazione, un passaporto.» «Una sola nazione in cielo?» «Sì. Oppure nessuna. C'è anche quell'opzione, sai. Questi tuoi interessi sono terribilmente fuori moda.»

«Se in cielo c'è una sola nazione, allora tutti i passaporti sono validi.»Una nuvola di incertezza le oscurò il viso. «Bapu Gandhi ha detto...»«Sì, so cosa ha detto Bapu Gandhi.» La mamma si portò una mano alla fronte.

Aveva uno sguardo stanco. «Santa pazienza!» sospirò.

CAPITOLO 27

Più tardi, quella sera, origliai una conversazione tra i miei genitori.«Gli hai detto di sì?» si informò papà. «L'ha chiesto a te e tu l'hai mandato da me»

replicò la mamma.«Io?»«S컫Ero molto occupato...»«Ma adesso non sei occupato. Mi sembri completamente e piacevolmente

disoccupato. Se vuoi irrompere in camera sua, sfilargli il tappeto da preghiera di

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sotto i piedi e discutere la questione del battesimo, fa' pure. Io non ho obiezioni.»«No, no.» Capivo dal suono della sua voce che papà era sprofondato ancora di più

nella poltrona. Poi una pausa.«Sembra proprio che attiri le religioni come un cane fa con le pulci» proseguì.

«Non capisco. Siamo una famiglia indiana moderna, viviamo in modo moderno. L'India è finalmente sul punto di diventare una nazione moderna e progredita e nostro figlio si crede la reincarnazione di Sri Ramakrishna!»

«Se Indira Gandhi rappresenta la modernità e il progresso, allora non sono sicura di volerli» commentò la mamma.

«Indira Gandhi passerà! Il progresso è inarrestabile. È il tamburo che dà il ritmo alla marcia del mondo. La tecnologia è utile e le buone idee attecchiscono e si propagano; è una legge naturale. Se rifiuti la tecnologia, se ti opponi alle buone idee, resti tagliato fuori. Indira Gandhi e la sua follia passeranno. Arriverà una nuova India.»

In effetti Missis Gandhi sarebbe passata, e la nuova India, o un pezzetto della nuova India (la nostra famiglia) avrebbe deciso di emigrare in Canada.

Papà continuò: «Lo hai sentito quando ha esclamato "Bapu Gandhi ha detto: Tutte le religioni sono vere"?».

«Sì.»«Bapu Gandhi? Da quando nostro figlio nutre tutto questo affetto per Gandhi?

Oggi è babbo Gandhi, domani sarà la volta di zio Gesù. E poi, possibile che sia diventato musulmano?»

«Pare di sì.»«Musulmano! Indù devoto va bene, posso capirlo. Al limite, cristiano. È una

stranezza, ma posso anche arrivare a comprenderlo. I cristiani in fin dei conti sono qui da molto tempo, san Tommaso, san Francesco Saverio, i missionari e così via. Ci hanno lasciato delle ottime scuole.» «Già.»

«Ma musulmano? È una cosa totalmente avulsa dalla tradizione. Sono stranieri.»«Anche loro sono qui da molto tempo. E sono cento volte più numerosi dei

cristiani.»«Non fa differenza. Per noi, restano comunque degli stranieri.»«Forse Piscine marcia al ritmo di un altro progresso.»«Lo difendi? Non ti importa che si creda musulmano?»«Cosa possiamo farci, Santosh? Sembra sincero e non fa del male a nessuno. Forse

è solo una fase. Prima o poi passerà, come Indira Gandhi.»«Perché non coltiva i normali interessi di un ragazzo della sua età? Guarda Ravi.

Pensa solo al cricket, al cinema e alla musica.»«Sei convinto che sia meglio?»«Ah, non so davvero cosa pensare. È stata una giornata faticosa.» Papà sospirò.

«Mi chiedo fino a che punto si spingerà con questa faccenda.»La mamma ridacchiò. «La settimana scorsa ha finito di leggere un libro intitolato

L'imitazione di Cristo.»«L'imitazione di Cristo! Te lo ripeto, mi chiedo fino a che punto si spingerà!» E

scoppiarono a ridere.

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CAPITOLO 28

Amavo il mio tappeto da preghiera. Benché non fosse di qualità straordinaria, ai miei occhi era di una bellezza luminosa. Mi spiace di averlo perso. Ovunque lo stendessi, provavo un sentimento speciale per il riquadro di terra che copriva e la zona circostante. Per questo penso che fosse un buon tappeto da preghiera: mi rammentava che la terra è di Dio, dunque sacra. Il suo ricamo - linee dorate su sfondo rosso - era semplice: uno stretto rettangolo sormontato da un triangolo che indicava la qibla, la direzione della preghiera. Tutt'intorno, piccoli riccioli fluttuavano come sottili scie di fumo, o accenti di una lingua esotica. Il tessuto era morbido. Quando pregavo, la fronte e i piedi sfioravano le sue frange ben pettinate. Le sue dimensioni potevano solo definirsi perfette, mi facevano sentire a casa ovunque fossi.

Mi piaceva pregare all'aperto. Di solito stendevo il tappeto nel cortile dietro casa. In un cantuccio appartato, all'ombra dell'albero del corallo, vicino al muro ricoperto di buganvillea. In cima al muro c'era una fila di vasi con le stelle di Natale. La buganvillea si era arrampicata anche sull'albero del corallo, e il contrasto fra i fiori viola e rossi era delizioso. Ogni volta che fioriva, l'albero richiamava corvi, gracule, timalidi, storni rosei, nettarine e parrocchetti. Il muro era alla mia destra, lo scorgevo con la coda dell'occhio. Davanti a me, sulla sinistra, oltre l'ombra opalescente e screziata dell'albero, lo spazio aperto e assolato del cortile. Naturalmente la scena variava a seconda del clima, dell'ora e della stagione, ma nella mia mente ogni dettaglio è nitido e immutabile. A volte, dopo le preghiere, mi giravo e mi accorgevo che il papà, la mamma o Ravi mi stavano fissando.

Il battesimo si svolse in un'atmosfera di lieve imbarazzo. La mamma stette al gioco, papà osservò in silenzio, e Ravi fortunatamente non partecipò a causa di una partita di cricket, anche se ciò non gli impedì in seguito di commentare ironicamente l'evento. L'acqua scese sul mio viso e giù per il collo; era solo un calice, ma ebbe l'effetto rinfrescante di una pioggia monsonica.

CAPITOLO 29

Perché la gente emigra? Cosa la spinge a partire, ad abbandonare tutto quello che ha per l'ignoto, oltre l'orizzonte? Dove trova la forza di scalare l'erta montagna della burocrazia? Di sopportare la trafila che fa di ogni aspirante immigrato un pezzente?

La risposta è sempre la stessa: la gente emigra nella speranza di una vita migliore.A metà degli anni Settanta, l'India attraversava un brutto periodo. Lo capivo dalle

rughe profonde che solcavano la fronte di papà quando leggeva i giornali, dai frammenti di conversazione fra i miei genitori, Mamaji e gli altri. Ero in grado di comprendere quello che dicevano, però non mi interessava. Gli oranghi erano ghiotti di chapati come sempre, alle scimmie non importava cosa succedeva a Delhi; i

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rinoceronti e le capre continuavano a vivere in pace, gli uccelli cinguettavano, le nuvole portavano pioggia; il sole era caldo, la terra respirava, Dio c'era: nel mio mondo tutto era in ordine.

Alla fine Indira Gandhi ebbe la meglio su papà. Nel febbraio del 1976 Delhi fece cadere il governo del Tamil Nadu, che l'aveva criticata aspramente. Il nuovo regime si impose senza incontrare resistenze: il presidente Karunanidhi e i suoi collaboratori furono spazzati via da una raffica di "dimissioni" e arresti. Ma che importanza poteva avere la caduta di un governo locale quando la costituzione dell'intero paese era stata sospesa più di otto mesi prima? Per papà, sempre più allarmato e disgustato dallo stile dittatoriale di Indira Gandhi, la fine del governo Karunanidhi fu un colpo tremendo. Nel suo recinto il cammello continuava a biascicare indisturbato, ma per papà la notizia fu la goccia che fece traboccare il vaso.

Gridava: «Presto verrà allo zoo e ci dirà che le prigioni sono piene, che ha bisogno di altro spazio. Perché non mettiamo Desai con i leoni?».

Desai era un membro dell'opposizione. L'angoscia di mio padre mi rattristava. Indira Gandhi avrebbe potuto bombardare personalmente lo zoo, e io non avrei protestato se solo papà si fosse mostrato tranquillo. È dura per un figlio vedere il proprio padre consumato dall'ansia e dalle preoccupazioni.

Gli affari comportano sempre dei rischi; tanto più gli affari con la a minuscola, quelli che comportano il lottare giorno per giorno per la sopravvivenza. Uno zoo è un'istituzione culturale. Come una biblioteca, come un museo, è al servizio della scienza e dell'istruzione pubblica. Ecco perché non è l'attività giusta per far soldi: il Sommo Bene e il Sommo Profitto sono fini incompatibili, e quello era il grande cruccio di mio padre. Di certo non eravamo ricchi. Al contrario, si può dire che fossimo poveri, almeno per gli standard canadesi. Possedevamo un mucchio di animali e poco altro.

La vita di uno zoo è precaria, come quella degli animali allo stato brado. Per prosperare, uno zoo ha bisogno di un parlamento, di elezioni democratiche, di libertà - di parola, stampa, associazione - dell'autorità della legge e di tutte le altre cose previste dalla costituzione indiana. Altrimenti per la gente è impossibile godersi gli animali. Alla lunga, una cattiva politica è dannosa per gli affari.

Le persone emigrano perché logorate dall'angoscia. Consapevoli che i loro sforzi non serviranno a nulla, che quello che riusciranno a costruire in un anno verrà distrutto da qualcun altro in un solo giorno. Convinte che il futuro sia ipotecato, che con un po' di fortuna forse loro potranno farcela, ma non i loro figli. Intimamente certe che a casa nulla cambierà, che possono essere tranquille e felici solo altrove.

Nella mente di mio padre, la nuova India vacillò e andò in pezzi. Mia madre acconsentì: ce ne saremmo andati.

Fecero l'annuncio una sera a cena. Io e Ravi rimanemmo di stucco. Canada! Ai nostri giovani occhi l'Andra Pradesh, attaccato al Tamil Nadu, sembrava già un altro pianeta; lo Sri Lanka, a un tiro di schioppo da casa nostra, era l'altra faccia della luna. Figuriamoci il Canada. Il Canada non significava assolutamente nulla per noi. Era come dire Timbuktu, un posto lontano per definizione.

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CAPITOLO 30

È sposato. Sono chinato e sto per togliermi le scarpe quando dice: «Mi piacerebbe che conoscessi mia moglie».

Alzo lo sguardo e accanto a lui c'è Missis Patel. «Salve» e mi porge la mano. «Piscine mi ha molto parlato di lei.»

Non posso dire altrettanto. Chi mai lo avrebbe immaginato!Sta per uscire, quindi scambiamo solo poche parole. Anche lei è originaria

dell'India, ma il suo inglese è privo di accento. Sicuramente un'indiana di seconda generazione.

È un po' più giovane di lui, ha la pelle leggermente più scura, i lunghi capelli neri raccolti in una treccia, vivaci occhi scuri e bei denti bianchi.

Stringe al petto un camice bianco da laboratorio, pulito e stirato, dentro una busta di plastica trasparente. È una farmacista.

«Piacere di conoscerla, Missis Patel.»Lei risponde: «Chiamami Meena».Un bacio veloce al marito e s'incammina verso il suo sabato di lavoro.La casa non è solo una scatola piena di icone. Comincio a notare piccoli segni

della vita coniugale. C'erano anche prima, ma io non me ne ero accorto, perché non me li aspettavo.

È un uomo timido.La vita gli ha insegnato a non mettere in mostra quello che per lui è più prezioso.È forse lei, sua moglie, la nemesi del mio apparato digerente?«Ti ho preparato un chutney speciale» annuncia.No, è lui.

CAPITOLO 31

Una volta si incontrarono, Kumar il fornaio e Mister Kumar l'insegnante. Il primo Kumar aveva espresso il desiderio di visitare lo zoo. «In tutti questi anni non l'ho mai visto. E pensare che è così vicino! Mi faresti da guida?»

«Certo,» risposi «per me sarà un onore.»Decidemmo di incontrarci il giorno successivo dopo la scuola, davanti all'ingresso

principale.Fui teso per tutto il giorno.Poi mi resi conto di aver fatto un errore: "Che stupido! Perché gli ho detto

all'ingresso? È sempre affollato. Lo riconosco a stento quando è da solo, figuriamoci in mezzo a tutta quella gente!". Se gli fossi passato vicino senza accorgermene, ci sarebbe rimasto male. Magari avrebbe pensato che avevo cambiato idea, o che non volevo farmi vedere in giro con un povero fornaio musulmano. Se ne sarebbe andato senza una parola. Io avrei mentito, gli avrei raccontato che il sole mi aveva accecato: non se la sarebbe presa, ma la voglia di visitare lo zoo gli sarebbe passata. Me

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l'immaginavo proprio così, la scena.Dovevo riconoscerlo.All'ora stabilita mi piazzai davanti all'ingresso dello zoo e iniziai a sfregarmi gli

occhi con le mani.«Che fai?»Era Raj, un mio amico.«Sono impegnato.»«A sfregarti gli occhi?»«Sparisci.»«Andiamo a Beach Road?»«Aspetto qualcuno.»«Be', non credo che lo vedrai arrivare se continui a sfregarti gli occhi in quel

modo.»«Grazie per il consiglio. Divertiti a Beach Road.» «Che ne dici di Government

Park?»«Te l'ho detto, non posso.»«Eddài!»«Per favore, Raj, lasciami in pace!» Se ne andò. Ripresi a sfregarmi gli occhi. «Pi,

puoi aiutarmi a fare i compiti di matematica?»Era Ajith, un altro mio amico. «Più tardi. Ora vattene.» «Ciao, Piscine.»Era Missis Radhakrishna, un'amica della mamma. La liquidai con poche parole.«Scusa, mi sai dire dov'è Laporte Street?» Un estraneo. «Da quella parte.»«Quanto costa il biglietto dello zoo?» Un altro sconosciuto.«Cinque rupie. La biglietteria è là in fondo.» «Il cloro ti dà fastidio agli occhi?»

Era Mamaji.«Ciao, Mamaji. No, non è per il cloro.»«C'è tuo padre?»«Penso di sì.»«Ci vediamo domani.»«Sì, a domani.»«Sono qui, Piscine.»Le mie mani smisero di sfregare. Quella voce. Sconosciuta ma familiare, familiare

ma sconosciuta. Sentii nascere un sorriso dentro di me.«Salaam alaykum, Kumar! Che bello vederti.»«Wa alaykum as-salam. Che cosa ti è successo agli occhi?»«Niente. Solo un po' di polvere.»«Sono molto arrossati.»«Non è niente.»Si diresse verso la biglietteria, ma lo fermai.«No, no. Non è necessario, maestro» dissi con orgoglio facendo un cenno al

bigliettaio.Accompagnai Kumar a fare il giro dello zoo.Tutto per lui era fonte di meraviglia: il fatto che le alte giraffe mangiassero da

alberi altissimi, che i carnivori fossero riforniti di erbivori e gli erbivori d'erba, che

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alcune bestie popolassero il giorno e altre la notte; che gli animali cui serviva un becco affilato avessero un becco affilato e quelli che avevano bisogno di arti flessuosi avessero arti flessuosi. Ero felice che fosse così pieno di entusiasmo. «In tutto ciò si celano i segni per coloro che usano la ragione» citò dal sacro Corano.

Ci avvicinammo alle zebre. Kumar non ne aveva mai sentito parlare, e tanto meno ne aveva vista una. Era perplesso.

«Si chiamano zebre» spiegai.«Sono così perché qualcuno le ha dipinte?»«No, no. È il loro aspetto naturale.»«E cosa succede quando piove?»«Niente.»«Le strisce non si sciolgono?» «No.»Mi ero portato dietro delle carote. Me ne era rimasta una grande e grossa. La tirai

fuori dalla borsa. In quel momento sentii qualcuno trascinarsi sulla ghiaia alla mia destra. Riconobbi la tipica andatura ciondolante.

Era Mister Kumar, che si avvicinava alla staccionata zoppicando. «Salve, professore.»

«Ciao, Pi.»Il fornaio, un uomo timido ma beneducato, lo salutò con un cenno del capo. Il mio

insegnante ricambiò.Una zebra particolarmente attenta si era accorta della carota e si era avvicinata alla

staccionata. Agitava le orecchie e sbatteva piano le zampe. Spezzai la carota in due: diedi una metà a Kumar e l'altra a Mister Kumar. «Grazie, Piscine» mi ringraziò uno; «Grazie, Pi» disse l'altro. Mister Kumar si avvicinò per primo e infilò la mano nel recinto. Subito le labbra nere e grosse della zebra afferrarono la carota. Mister Kumar mantenne la presa. La zebra affondò i denti nella carota e la spezzò in due. Sgranocchiò rumorosamente per un paio di secondi, poi si protese verso l'altro pezzo, con le labbra che sfioravano le dita di Mister Kumar. Lui lasciò andare la carota e accarezzò il naso morbido della zebra.

Ora toccava a Kumar. Questa volta la zebra l'ebbe subito vinta: quando prese la mezza carota fra i denti, lui mollò immediatamente la presa. La carota scomparve in un attimo dentro la bocca.

I due Kumar sembravano soddisfatti.«Una zebra hai detto?» domandò Kumar.«Sì» risposi. «Appartiene alla stessa famiglia dell'asino e del cavallo.»«La Rolls-Royce degli equidi» commentò Mister Kumar.«Che creatura meravigliosa» esclamò Kumar.«Questo esemplare è una zebra di Grant» spiegai.Mister Kumar disse: «Equus burchelli boehmi».E Kumar: «Allahu akbar». E io: «È davvero bella».Continuammo a guardare.

CAPITOLO 32

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Avete presente il fenomeno dello zoomorfismo? È una sorta di antropomorfismo al contrario, dove l'animale scambia un essere umano, o un altro animale, per un esemplare della sua stessa specie.

Il caso più famoso è anche quello più comune: il cane domestico che considera gli esseri umani parte del suo mondo canino, al punto che desidera accoppiarsi con loro. Chiunque si sia trovato a dover staccare il proprio cane dalla gamba di un ospite imbarazzato lo può confermare.

Nel nostro zoo, l'aguti dorato e il paca a chiazze andavano d'amore e d'accordo e si accoccolavano ogni sera per dormire l'uno contro l'altro, finché qualcuno non rubò l'aguti.

Ho già parlato del nostro gruppo di rinoceronti e capre, e anche dei leoni del circo.Si sa con certezza di marinai sul punto di annegare sospinti e tenuti a galla da

alcuni delfini: è il tipico modo in cui questi mammiferi acquatici si aiutano l'un l'altro in caso di necessità.

Nella letteratura zoologica c'è il caso di un ermellino e di un ratto legati da una bella amicizia. I due convivevano tranquillamente, anche se l'ermellino non esitava a divorare qualunque altro ratto gli capitasse a tiro.

Anche nel nostro zoo si verificò un caso simile. Com'era naturale, ogni topo che finiva nel terrario delle vipere spariva nel giro di due giorni. Ma il piccolo Matusalemme, di colore marroncino, saltellava indisturbato sotto gli occhi dei rettili. Si era costruito una tana e diverse dispense dove nascondeva i chicchi di mais che gli davamo. Mettemmo un cartello per segnalare al pubblico l'eccezionale circostanza. Alla fine però Matusalemme morì, morso da una giovane vipera. Forse perché ignorava lo status speciale del topo? Per essere precisi Matusalemme fu morso dalla giovane vipera, ma a divorarlo in un baleno fu una di quelle adulte.

Se c'era un incantesimo, fu spezzato dalla vipera più giovane.Negli zoo a volte le cagne fungono da mamme adottive per i cuccioli di leone. E

anche quando le belve crescono, superando la madre adottiva in dimensioni e pericolosità, il rapporto fra loro non cambia: la cagna continua a esibire la stessa sicurezza e autorità nei confronti dei "figli".

In questi casi è necessario mettere un cartello che spieghi al pubblico che la cagna non è cibo per i leoni (come facemmo noi per chiarire che i rinoceronti sono erbivori e non mangiano le capre).

Quale potrebbe essere la causa dello zoomorfismo? Un rinoceronte non è forse in grado di distinguere un animale grande da uno piccolo? La pelle coriacea dal pelo morbido? Non è forse chiaro a un delfino come è fatto un suo simile? Credo che la risposta sia un'altra, e che abbia a che fare con il pizzico di follia di cui ho già parlato: quello che fa muovere la vita in direzioni impensate, ma indispensabili per la sopravvivenza. L'aguti dorato e il rinoceronte Peak avevano bisogno di compagnia. Ai leoni del circo non importa se il capobranco è un essere umano vulnerabile sul piano della forza fisica: la finzione della sua supremazia garantisce loro il benessere sociale e tiene alla larga i pericoli dell'anarchia.

Quanto ai cuccioli di leone, se capissero che la loro mamma è una cagna, senza

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dubbio morirebbero di paura. Scoprire di essere orfani è quanto di peggio possa capitare a una giovane creatura dal sangue caldo. Sono sicuro che persino la vipera, mentre ingoiava il topo, deve avere sentito - in un angolo della sua mente sottosviluppata - una fitta di rimorso, la sensazione di aver mancato un'occasione, un guizzo appena oltre la realtà cruda e solitaria della vita di un rettile.

CAPITOLO 33

Mi mostra i cimeli di famiglia. Prima le foto del matrimonio. Rito indù in salsa canadese. Un lui più giovane, una lei più giovane. Luna di miele alle cascate del Niagara.

Viaggiamo a ritroso nel tempo. Ecco le foto di quando studiava all'Università di Toronto: con gli amici; di fronte a St. Mike; nella sua stanza; a Gerard Street durante il Diwali; nella chiesa di San Basilio mentre legge con indosso una tunica bianca; un'altra tunica bianca, quella del laboratorio del dipartimento di zoologia; il giorno della laurea.

Sorride in tutte le foto, ma i suoi occhi raccontano storie diverse.Il soggiorno-studio in Brasile con i bradipi tridattili.Voltiamo pagina e siamo sulla sponda opposta del Pacifico. Mi assicura che la

macchina fotografica non mancava mai nelle occasioni importanti, ma gran parte delle foto sono andate perse. Le poche che vedo sono state raccolte e spedite da Mamaji.

Una foto dello zoo durante la visita di un pezzo grosso. Un mondo in bianco e nero. C'è una gran folla. Sullo sfondo, una giraffa. Ai margini del gruppo riconosco un giovane Adirubasamy.

«Mamaji?» chiedo, indicando. «Sì.»C'è un uomo accanto al pezzo grosso, indossa un paio di occhiali con la

montatura di corno e ha i capelli pettinati con cura.«Tuo padre?» chiedo.Scuote la testa. «Non so chi sia.»«Mio padre scattò la foto» aggiunge dopo una pausa.Sulla stessa pagina c'è un'altra foto di gruppo, quasi tutti scolari. Picchietta col

dito.«Ecco Richard Parker.»Lo scruto avidamente cercando di intuirne la personalità. Purtroppo anche

questa è in bianco e nero, un po' sfuocata. Richard Parker guarda altrove. Non si è accorto del fotografo.

La pagina accanto è interamente occupata da un'immagine a colori della piscina nell'ashram di Aurobindo. È una grande piscina all'aperto: bella, con l'acqua limpida e scintillante, il fondo blu. C'è anche la vasca per i tuffi.

Sulla pagina successiva c'è l'ingresso del Petit Séminaire. Un arco con il motto della scuola: «Nihil magnum nisi bonum». Non c'è grandezza senza bontà.

Finito. Un'intera infanzia immortalata in quattro fotografie. Si incupisce.

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«La cosa peggiore,» dice «è che riesco appena a ricordare l'aspetto di mia madre. La intravedo, ma se provo a guardarla bene, ecco che subito si dilegua. Lo stesso con la sua voce. Se la incontrassi per strada, mi tornerebbe tutto alla mente. Ma questo non è possibile. È triste non ricordarsi come è fatta la propria madre.»

Chiude l'album.

CAPITOLO 34

«Salperemo come Colombo!» disse papà.«Che sperava di trovare l'India» fu il mio commento imbronciato.Vendemmo lo zoo, chiudemmo baracca e burattini. Ci preparammo a un nuovo

paese, a una nuova vita. Con il ricavato pagammo il viaggio, mettendo da parte una discreta somma che ci avrebbe permesso di ricominciare da capo in Canada (anche se adesso, quando ci penso, la somma mi pare ridicola). Avremmo potuto vendere le nostre bestie agli zoo indiani, ma in America ce li avrebbero pagati meglio.

La Convenzione di Washington sul Commercio Internazionale delle Specie minacciate di estinzione era appena entrata in vigore, perciò procurarsi animali era diventato più difficile per qualsiasi zoo. Il nostro chiuse bottega al momento giusto: si scatenò una bella competizione fra i direttori di zoo interessati a comprare i nostri animali.

Alla fine vendemmo gran parte degli esemplari al Lincoln Park di Chicago e allo zoo del Minnesota, che avrebbe aperto di lì a poco. Ma diversi animali erano in partenza per Los Angeles, Louisville, Oklahoma City e Cincinnati.

Due esemplari recalcitranti stavano per essere spediti allo zoo del Canada: io e Ravi. Non volevamo partire. Non volevamo vivere in un paese con venti a regime di burrasca e inverni a duecento gradi sotto zero. Il Canada era fuori dal circuito del cricket. Ma ci volle così tanto a preparare la nostra partenza che alla fine ci abituammo all'idea. Ci impiegammo più di anno. Non per colpa nostra. Fu a causa degli animali. Se considerate che gli animali fanno a meno di vestiti, scarpe, biancheria, mobili, stoviglie, articoli da toilette; che per loro nazionalità e passaporti non significano niente; che non si interessano al denaro e alle prospettive di lavoro; che se ne fregano delle scuole, del costo dell'alloggio e dell'assistenza sanitaria; se considerate, in poche parole, la leggerezza del loro essere, è veramente sorprendente quanto difficile sia organizzarne il trasferimento all'estero. Spostare uno zoo è come spostare una città.

Le pratiche burocratiche da evadere sembravano infinite. Litri di saliva per inumidire centinaia di francobolli. Gentili Mister Tizio e Caio... scritto e riscritto fino allo sfinimento.

Offerte. Sospiri. Dubbi. Controversie risolte. Decisioni rimbalzate da un ufficio all'altro. Accordi sui prezzi. Affari conclusi. Approvazioni formali. Scambi di congratulazioni. Certificati anagrafici. Certificati medici. Permessi di esportazione. Permessi di importazione. Chiarimenti sulle norme di quarantena. Organizzazione del trasporto. Telefonate che costavano un occhio della testa.

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Nel nostro ambiente circola una battuta: le pratiche per vendere un topo pesano come un elefante, le pratiche per vendere un elefante pesano più di una balena; quindi guai a vendere una balena!

Sembrava che ci fosse un'unica interminabile fila di burocrati incredibilmente pignoli che da Pondicherry arrivava a Minneapolis, passando per Delhi e Washington; ognuno con il suo modulo, il suo problema e le sue esitazioni.

Sarebbe stato più semplice spedire gli animali sulla luna. Per la frustrazione papà ci rimise quasi tutti i capelli e più di una volta fu sul punto di mollare.

La maggior parte dei nostri uccelli e dei nostri rettili, nonché lemuri, rinoceronti, oranghi, mandrilli e scimmie dalla barba bianca, giraffe, formichieri, tigri, leopardi, ghepardi, iene, zebre, orsi dell'Himalaya e giocolieri, elefanti indiani ed emitraghi del Nilgiri - per citarne alcuni - erano molto richiesti.

Altri animali, come Elfie, si rivelarono più difficili da piazzare. «Un'operazione alla cataratta!» gridava papà, sventolando la lettera. «Lo comprano solo se lo facciamo operare di cataratta. Un ippopotamo! Ci manca solo che mi chiedano di rifare il naso a un rinoceronte!»

Alcune specie, come i leoni e i babbuini, venivano considerate «troppo comuni». Papà ebbe l'ottima idea di scambiarli con un orango dello zoo di Mysore e uno scimpanzé dello zoo di Manila (Elfie, invece, finì i suoi giorni nello zoo di Trivandrum).

Uno zoo ci chiese «un'autentica mucca bramina» da mettere nel parco per i bambini. Papà uscì nella giungla urbana di Pondicherry e comprò una mucca dagli occhi lucidi e scuri, con una bella gobba grassa e delle corna così dritte e perpendicolari da far pensare che avesse leccato una presa della corrente. Le pitturò le corna di arancione acceso e vi appese dei campanellini di plastica come tocco finale.

A un certo punto si presentò una delegazione di tre americani. Ero molto curioso. Non avevo mai visto degli americani in carne e ossa. Erano grassi, rosei, simpatici, competenti e perennemente sudati. Visitarono gli animali. Li addormentarono e li auscultarono; esaminarono urina e feci come fossero oroscopi, prelevarono il loro sangue per analizzarlo, accarezzarono gobbe e protuberanze, picchiettarono denti, pizzicarono pelli e pellicce. Poveri animali, si sarebbe detto che avessero fatto domanda per entrare nell'esercito. Gli americani ci regalarono grandi sorrisi e strette di mano da spaccare le ossa.

Alla fine gli animali, come noi, ottennero il permesso di lavoro.Loro sarebbero diventati yankee, noi canuck, canadesi.

CAPITOLO 35

Partimmo da Madras il 21 giugno 1977 a bordo del mercantile giapponese Tsimtsum, che batteva bandiera panamense. Gli ufficiali erano giapponesi, l'equipaggio di Taiwan e la nave immensa e imponente.

Il mio ultimo giorno a Pondicherry dissi addio a Mamaji, a Kumar e a Mister

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Kumar, a tutti i miei amici e persino a molti sconosciuti.La mamma indossò il suo sari più bello. La lunga treccia, magistralmente

attorcigliata e appuntata sulla nuca, era decorata con gelsomini freschi. Era bellissima. E triste. Stava per abbandonare l'India, la sua calura e i suoi monsoni, le risaie e il fiume Cauvery, i litorali e i templi di pietra, i carretti trainati dalle mucche e i camion colorati, gli amici e i negozianti, Nehru Street, Goubert Salai e tutto il resto. L'India così familiare, e così amata.

I suoi uomini - io mi consideravo già un uomo, anche se avevo solo sedici anni - smaniavano ormai dalla voglia di partire e nei loro cuori appartenevano già a Winnipeg, ma lei indugiava.

Il giorno prima, indicando un venditore ambulante di sigarette aveva chiesto: «Ne compriamo qualche pacchetto?».

Papà aveva risposto: «Anche in Canada ne troveremo. E poi perché vuoi comprare le sigarette? Nessuno di noi fuma».

Sì, in Canada hanno le sigarette, ma le Gold Flake? E il gelato Arun? E le biciclette Hero? E i televisori Onida? E le macchine Ambassador? E le librerie Higginbotham? Erano quelle, credo, le domande che vorticavano nella mente della mamma.

Somministrarono i sedativi agli animali, caricarono e fissarono le gabbie, misero via le provviste, assegnarono le cuccette, lanciarono le cime e suonarono le sirene. Mentre la nave veniva trainata fuori dal porto e pilotata verso il mare aperto, agitai freneticamente le braccia e dissi addio all'India. Il sole splendeva, la brezza era costante e nel cielo sopra di noi si levavano le grida dei gabbiani. Ero terribilmente eccitato.

Le cose non andarono affatto come previsto; ma che volete farci? Bisogna prendere la vita come viene e trarne il meglio che si può.

CAPITOLO 36

In India le città sono grandi e memorabilmente affollate, ma se te le lasci alle spalle ti trovi ad attraversare ampie distese di campagna dove incontri pochissima gente. Più di una volta mi è capitato di chiedermi dove potessero essersi nascosti novecentocinquanta milioni di indiani. Potrei dire lo stesso di casa sua. Sono un po' in anticipo. Non appena poso il piede sui gradini di cemento del portico, un ragazzino sfreccia fuori dalla porta. Indossa una divisa da baseball e ha in mano un borsone. Va di corsa. Quando mi vede si arresta di colpo, sorpreso. Si volta verso l'entrata e grida: «Papà! È arrivato lo scrittore». Poi mi dice «Ciao» e corre via.

Suo padre arriva all'ingresso. «Ciao.»«Era tuo figlio?» chiedo incredulo.«Sì. Avrei voluto presentartelo, ma è in ritardo per l'allenamento. Si chiama

Nikhil. Tutti lo chiamano Nick.»Entriamo in casa. «Non sapevo che avessi un figlio.» Sento abbaiare. Un

bastardino marrone e nero corre verso di me; mi annusa. Salta sulle mie gambe. «E

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neppure che avessi un cane.»«È buono. Tata, giù.»Tata lo ignora. Sento un «Ciao». Non è secco e veloce come quello di Nick. È un

"Ciaoooooooo" lungo, nasale, con una lieve sfumatura lamentosa.Mi giro. Sul divano del soggiorno c'è una bambina che mi osserva timidamente.

Ha la pelle scura, è carina nel suo vestito rosa. Gioca con un gatto arancione dondolandolo per le zampe anteriori.

«Questa dev'essere tua figlia» dico.«Sì. Usha. Usha, tesoro, sei sicura che Mocassin stia comodo?»Usha lascia andare Mocassin, che piomba per terra senza scomporsi.«Ciao Usha» la saluto.La bambina si avvicina al padre e mi osserva nascosta dietro la sua gamba.«Cosa fai, piccola?» le chiede. «Perché ti nascondi?»Lei non risponde.«Quanti anni hai, Usha?» le domando.Silenzio.Piscine Molitor Patel, da tutti conosciuto come Pi Patel, si china e prende in braccio la

figlia.«La sai, la risposta. Hmm? Quattro anni. Uno, due, tre, quattro.»A ogni numero le preme l'indice contro la punta del naso.Lei ride e nasconde il viso nella curva del collo del padre.Questa storia ha un lieto fine.

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PARTE SECONDA

L'Oceano Pacifico

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CAPITOLO 37

La nave affondò. Con un rumore simile a un mostruoso rutto metallico. Gli oggetti gorgogliarono a pelo d'acqua e poi svanirono. Tutto gridava: il mare, il vento, il mio cuore. Dalla scialuppa di salvataggio intravidi una sagoma tra le onde.

«Richard Parker, sei tu? Oh, se solo smettesse di piovere! Richard Parker? Richard Parker!»

Si dimenava per restare a galla.«Gesù, Maria, Maometto e Vishnu! Che bello vederti, Richard Parker! Non

mollare, ti prego. Sali sulla scialuppa. Aspetta, prendo il fischietto. Lo senti? FIIIIIII! FIIIII! FIIIIIIIIII! Hai sentito bene? Nuota, nuota! Non sono nemmeno trecento metri.»

Mi aveva visto. Faticosamente, cominciò a nuotare verso di me. L'acqua si agitava e ribolliva tutto intorno a lui, facendolo sembrare piccolo e indifeso.

«Richard Parker, tu ci credi a quello che è successo? Dimmi che non è vero. Dimmi che sono ancora sulla Tsimtsum a rigirarmi nella mia cuccetta e che presto mi sveglierò da quest'incubo. Dimmi che sono ancora felice. Mamma, mio dolce e saggio angelo custode, dove sei? E tu, papà, ansioso, adorato papà? Ravi, supereroe della mia infanzia, perché non rispondi? Vishnu risparmiami, Allah proteggimi, Cristo salvami, non ce la faccio! FIIIII! FIIIIII! FIIIII!»

Non ero ferito, eppure non avevo mai provato un dolore così forte. Avevo i nervi a brandelli e il cuore gonfio di sgomento.

Richard Parker non ce l'avrebbe fatta. Sarebbe affogato. Avanzava a stento, arrancando. Il naso e la bocca a tratti scomparivano sott'acqua. Solo i suoi occhi erano fissi su di me.

«Che stai facendo, Richard Parker? Non ci tieni alla vita? Continua a nuotare! FIIIII! FIIIIII! FIIIII! Sbatti le gambe. Sbattile! Sbattile! Sbattile!»

Scosso da un tremito, ricominciò a lottare.«Che fine ha fatto la mia grande famiglia? Gli uccelli, le bestie e i rettili? Annegati

anche loro. Tutto ciò che amavo è stato annientato. Perché? Soffro le pene dell'inferno e dal paradiso neppure una parola. Dimmi, Richard Parker, a che serve la ragione? A procurarci cibo, vestiti e un tetto sulla testa? Solo a questo? La mente umana si pone grandi domande, e trova piccole risposte. È come un'enorme rete senza pesci.»

Richard Parker era sfinito. Guardava in alto, per vedere il cielo un'ultima volta. Sulla scialuppa c'era un salvagente legato a una fune. Lo afferrai e lo agitai in aria.

«Lo vedi questo salvagente, Richard Parker? Lo vedi? Prendilo! HUMPF! Accidenti! HUMPF!»

Era troppo lontano. Ma la vista del salvagente che volava verso di lui gli ridiede un po' di speranza. Si riprese e cominciò a fendere il mare con colpi vigorosi.

«Bene! Uno, due. Uno, due. Uno, due. Respira quando puoi. Attento alle onde. FIIIII! FIIIIII! FIIIII!»

Il mio cuore sembrava congelato: soffrivo tremendamente, ma non c'era tempo per la paura che lascia impietriti. La mia era una paura attiva. Qualcosa dentro di me

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voleva vivere, voleva battersi fino all'ultimo.«Non è pazzesco, Richard Parker? Siamo all'inferno e ancora abbiamo paura

dell'immortalità. Dai, ci sei quasi! FIIIII! FIIIIII! FIIIII! Evviva! Ce l'hai fatta, Richard Parker, ce l'hai fatta.»

Lanciai il salvagente con tutta la forza che avevo. Piombò in mare proprio davanti a lui. Con le ultime energie, Richard Parker vi si aggrappò.

«Non mollare, ti tiro su io. Non lasciartelo sfuggire. Segui i miei movimenti con gli occhi, ecco, così. Fra poco sarai sulla scialuppa e saremo insieme. Un momento! Insieme? Saremo insieme? Sono forse impazzito?!?»

All'improvviso mi resi conto di quello che stavo facendo. Strattonai con violenza la fune.

«Lascia andare quel salvagente, Richard Parker! Lascialo andare, ho detto. Non ti voglio qui, capito? Vattene da un'altra parte. Lasciami solo. Sparisci. Annega! Annega!»

Scalciava come un matto. Afferrai un remo e glielo lanciai contro. Ma lo mancai, e il remo sparì fra le onde.

Afferrai un altro remo. Lo infilai nello scalmo e remai con tutte le mie forze. Adesso Richard Parker era ancora più vicino.

Dovevo colpirlo in testa! Sollevai il remo.Troppo tardi. Aveva raggiunto la scialuppa e si era trascinato a bordo.«Oh, mio Dio!»Ravi aveva ragione: la prossima capra... ero io! Sulla mia scialuppa c'era una tigre

del Bengala adulta, fradicia, tremante e mezza annegata, che ansimava e sputava acqua di mare. Richard Parker si alzò barcollando sulla tela cerata; i suoi occhi scintillarono nell'incontrare i miei, le orecchie minacciosamente schiacciate. La testa aveva il colore e le dimensioni del salvagente, solo con i denti.

Mi girai, scavalcai la zebra e mi gettai in acqua.

CAPITOLO 38

Non so spiegarmelo. Per giorni la nave aveva seguito la sua rotta, ostentando indifferenza verso tutto ciò che la circondava. Splendeva il sole, cadeva la pioggia, soffiavano i venti, fluivano le correnti, il mare si gonfiava e si apriva in valli profonde, e la Tsimtsum continuava il suo viaggio come se niente fosse. Galleggiava con la sicurezza massiccia e incrollabile di un continente.

Avevo comprato un planisfero e l'avevo appeso nella nostra cabina, su un pannello di sughero. Tutte le mattine chiedevo al ponte di comando la nostra posizione e la segnavo sulla mappa con uno spillo dalla capocchia arancione.

Eravamo salpati da Madras e avevamo attraversato il Golfo del Bengala, passando per lo stretto di Malacca e per Singapore fino a Manila. Mi ero goduto ogni istante del viaggio. La vita a bordo era eccitante. Gli animali ci tenevano impegnati e la sera andavamo a dormire distrutti. Ci fermammo due giorni a Manila, per rifornirci di provviste, completare il carico e, ci dissero, i normali interventi di manutenzione al

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motore. I rifornimenti comprendevano una tonnellata di banane; al carico si aggiunse una femmina di scimpanzé del Congo, risultato degli scambi organizzati da mio padre. Una tonnellata di banane brulicante di almeno un chilo e mezzo di grossi ragni neri. Lo scimpanzé assomiglia al gorilla, ma è più piccolo, più snello, e ha un aspetto più cattivo, senza la malinconica dolcezza del suo grosso cugino. Se vede un ragno nero, lo scimpanzé fa una smorfia di disgusto, esattamente come faremmo voi e io; poi lo schiaccia rabbiosamente con le nocche, come a voi e me non verrebbe mai in mente di fare.

Le banane e lo scimpanzé mi interessavano molto di più delle contrazioni meccaniche nelle viscere oscure della nave. Ravi invece passò tutto il tempo là sotto, a osservare gli operai al lavoro. Il motore aveva qualche problema, mi riferì. Forse quando provarono a ripararlo qualcosa andò storto. Non so. Credo che nessuno lo saprà mai. La risposta è un mistero che giace in fondo all'oceano.

Salpammo da Manila e ci addentrammo nel Pacifico. Quando affondammo eravamo in mare da quattro giorni, a metà strada per Midway. La nave svanì in un buco che sulla mia mappa era grande quanto la punta di uno spillo. Una montagna crollò davanti ai miei occhi e scomparve sotto i miei piedi. Intorno a me, il vomito di un mercantile dispeptico. Avevo la nausea. Ero sotto shock. Dentro mi si aprì un vuoto immenso, che poi si riempì di silenzio. Per giorni sentii il dolore e la paura trafiggermi il petto.

Forse ci fu un'esplosione. Non ne sono sicuro. Successe mentre dormivo. Non viaggiavamo a bordo di una lussuosa nave da crociera, ma di un mercantile sudicio, non certo progettato per il trasporto e il comfort dei passeggeri. Si udivano rumori di tutti i tipi, continuamente. Noi dormivamo come bambini perché il rumore era costante, una forma di silenzio che niente poteva spezzare, né il russare di Ravi, né le mie chiacchiere nel sonno. Dunque l'esplosione - se di quello si trattò - fu un rumore diverso dagli altri. Mi svegliai di soprassalto, come se Ravi avesse bucato un palloncino accanto al mio orecchio. Guardai l'orologio. Erano le quattro e mezzo appena passate. Mi sporsi a controllare la cuccetta sotto la mia. Ravi continuava a dormire.

Mi vestii e scesi dal letto. In genere sono un dormiglione, mi sarei girato dall'altra parte. Non so perché quella notte mi alzai.

Se mio fratello fosse stato sveglio, quasi certamente avrebbe esclamato: «Sento il richiamo dell'avventura!» e sarebbe corso a esplorare i meandri della nave. Ravi andava matto per la parola avventura.

Il livello del rumore era tornato alla normalità, ma ora sembrava diverso, forse attutito.

Scrollai Ravi. «Ho sentito un rumore strano. Andiamo a vedere cos'è.»Mi guardò mezzo addormentato. Scosse la testa e si girò, coprendosi con il

lenzuolo fino alle guance. Oh, Ravi!Aprii la porta della cabina.Percorsi il corridoio. Laggiù, alla luce pallida delle lampadine, il giorno era

indistinguibile dalla notte. Ma dentro di me sentivo il buio.Mi fermai davanti alla porta di mamma e papà, chiedendomi se bussare. Ricordo

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che guardai l'ora e decisi che era meglio di no.A papà piaceva dormire.Mi venne l'idea di salire sul ponte principale per aspettare l'alba. Mentre facevo

due piani di scale, pensavo alle stelle cadenti. Mi ero quasi scordato del rumore che mi aveva svegliato.

Spalancai la massiccia porta che dava sul ponte e mi resi conto che il tempo era brutto. Una tempesta? Pioveva, sì, ma non così forte. Di certo non era una pioggia torrenziale, come quella del monsone. Il vento soffiava abbastanza forte da strapazzare un ombrello, ma riuscivo ad avanzare senza troppe difficoltà. Il mare era agitato, ma agli occhi di uno come me, abituato alla terraferma, l'oceano è sempre impressionante e ostile, bello e pericoloso. Le onde si arrampicavano sempre più in alto, e la schiuma bianca, catturata dal vento, sferzava il fianco della nave.

Avevo già visto uno scenario simile, e la Tsimtsum non era certo affondata. Una nave mercantile è una struttura enorme e poderosa, un vero miracolo d'ingegneria, progettata per rimanere a galla nelle condizioni più avverse. Sarebbe bastato chiudere la porta e la tempesta sarebbe scomparsa. Avanzai sul ponte. Mi aggrappai al corrimano e fronteggiai gli elementi. Ecco l'avventura!

«Canada, sto arrivando!» urlai, fradicio e infreddolito. Mi sentivo intrepido. Il cielo era coperto, ma il sole stava spuntando all'orizzonte. E i suoi raggi illuminavano quel pandemonio. La natura può allestire spettacoli straordinari. Il palcoscenico è immenso, le luci strabilianti, le comparse infinite e il budget per gli effetti speciali illimitato. Assistevo a una fantasmagoria di vento e acqua, un terremoto dei sensi che neppure Hollywood avrebbe saputo orchestrare. Ma il terremoto finiva dove cominciava la nave. Il pavimento sotto i miei piedi era solido, e io mi sentivo al sicuro come uno spettatore in poltrona.

Fu quando vidi la scialuppa di salvataggio sul castello che iniziai a preoccuparmi. Pendeva in modo anomalo dalle gru. Mi guardai le mani. Le nocche erano bianche. Se stringevo con tanta foga la ringhiera, non era per l'eccitazione, ma per evitare di andare a sbattere contro il portellone: la nave si stava inclinando sul fianco sinistro. Quando guardai in mare, lo strapiombo non era più tanto ripido: riuscivo a scorgere la grande fiancata nera della nave.

Mi attraversò un brivido. Doveva trattarsi di una vera tempesta. Meglio tornare in cuccetta. Mollai la ringhiera, schizzai verso la porta e la aprii.

Dall'interno salivano scricchiolii spaventosi. Inciampai e caddi, ma non mi feci nulla e mi rialzai. Raggiunsi le scale e aggrappato al corrimano corsi giù quattro gradini alla volta. Mancava un piano alle nostre cabine quando vidi l'acqua. Tantissima acqua. Mi bloccava la strada. Avanzava dal basso come una folla scatenata. Le scale svanivano nell'oscurità liquida e schiumosa. Non credevo ai miei occhi. Da dove veniva? Rimasi inchiodato, senza sapere che fare. Un piano più sotto c'era la mia famiglia.

Come un fulmine risalii fino al ponte. La tempesta non era più uno spettacolo divertente. Ero terrorizzato. Ormai era ovvio: la nave si stava inclinando in modo allarmante. E non solo su un fianco. Anche la prua era sollevata. Venti metri scarsi separavano il parapetto dal mare.

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La Tsimtsum stava affondando. Mi sembrava impossibile, come un incendio sulla luna.

Dov'erano gli ufficiali? E l'equipaggio? Vidi le sagome di alcuni uomini a prua; correvano nel buio. Mi parve di scorgere alcuni animali, senza dubbio un'illusione dovuta ai lampi e alla pioggia. Quando il tempo era bello, scoperchiavamo l'area riservata alle gabbie, che però, per ovvie ragioni, dovevano sempre restare chiuse.

Udii delle grida levarsi dal ponte sopra di me. La nave fu scossa da un fremito. Poi quel rumore, quel rutto mostruoso e metallico. Era l'urlo collettivo di uomini e bestie che si ribellavano alla morte imminente? Era la Tsimtsum che esalava l'ultimo respiro? Guardai il mare in tempesta. Le onde erano sempre più vicine. Colavamo a picco, inesorabilmente.

A un tratto qualcosa fece vibrare il ponte. Un gaur, il bue selvatico indiano, sbucò dalla pioggia e mi sfrecciò accanto. Era folle di paura. Mi chiesi chi l'avesse liberato mentre nelle mie orecchie risuonavano le grida acute delle scimmie.

Corsi verso le scale che conducevano al ponte di comando. Era lassù che stavano gli ufficiali, i padroni del nostro destino di passeggeri, gli unici, a bordo, che parlavano inglese. Mi avrebbero spiegato tutto. Si sarebbero presi cura di me e della mia famiglia. Ma la parte a dritta era deserta. Mi precipitai sul lato opposto e vidi tre uomini, membri dell'equipaggio, che scrutavano il mare. Al mio grido si voltarono, si scambiarono un'occhiata, dissero qualche parola e si avvicinarono di corsa mentre il mio cuore esplodeva di sollievo e gratitudine. «Grazie a Dio vi ho trovati. Che cosa succede? Ho molta paura. Il fondo della nave è allagato. Temo per la mia famiglia. Non riesco a raggiungere le cabine. Tutto questo è normale? Pensate che...»

Un marinaio urlò una frase in cinese e mi cacciò fra le braccia un giubbotto salvagente dal quale penzolava un fischietto arancione. Gli altri scuotevano energicamente la testa nella mia direzione. Quando mi afferrarono e mi sollevarono con le braccia forti, non protestai. Ero convinto che volessero aiutarmi. La mia fiducia era tale che mi sentii grato mentre mi trasportavano di peso fino al parapetto. Solo quando mi gettarono in mare cominciai ad avere dei dubbi.

CAPITOLO 39

Una dozzina di metri più in basso, rimbalzai sull'incerata che copriva per metà la scialuppa di salvataggio. Se non mi feci male, fu per puro miracolo. Persi il giubbotto di salvataggio, ma non il fischietto, che mi rimase in mano. La scialuppa non era stata calata del tutto, pendeva dalle gru e oscillava nella tempesta, a circa sei metri dall'acqua. Guardai in alto. Due uomini gridavano gesticolando freneticamente verso di me. Mi aspettavo che saltassero a bordo, invece si voltarono con espressione terrorizzata, e, un attimo dopo, vidi una creatura spiccare il balzo e librarsi per aria con la grazia di un cavallo da corsa. La zebra mancò l'incerata. Era una zebra di Grant, un maschio di duecentoventicinque chili. Atterrò sull'ultima panca con un tonfo assordante e la fracassò, facendo vacillare l'intera scialuppa. Il lamento che le sfuggì di bocca mi impressionò. Mi sarei aspettato un verso simile al raglio di un

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asino o al nitrito di un cavallo. Niente del genere. Era un urlo disperato, un KWA KWA KWA, espressione del più totale sgomento. Le labbra frementi della zebra erano spalancate su un panorama di denti giallastri e gengive rosa.

La scialuppa fendette l'aria e cadde nel mare in burrasca.

CAPITOLO 40

Richard Parker rimase sulla scialuppa. Il remo che gli avevo lanciato galleggiava poco distante da me. Mi ci aggrappai mentre allungavo il braccio per afferrare il salvagente lasciato libero dal precedente occupante. Il mare era un incubo, nero, freddo e furioso. Sembrava di stare sul fondo di un pozzo che crolla. L'acqua mi investiva e mi accecava spingendomi verso il basso. Respiravo a fatica. Senza il salvagente non avrei resistito neppure un minuto.

Poi, cinque metri più in là, vidi un triangolo che tagliava l'acqua: la pinna di uno squalo. Un brivido agghiacciante mi percorse la schiena. Nuotai disperatamente verso l'estremità della scialuppa ancora coperta dall'incerata. Aggrappato al salvagente, mi issai sulle braccia per qualche istante, ma Richard Parker non si vedeva, né sull'incerata né sulle panche. Doveva essersi nascosto sul fondo. Mi sollevai di nuovo. Intravidi la testa della zebra che si agitava all'estremità opposta della barca. Quando mi ributtai in acqua, un'altra pinna di squalo luccicò di fronte a me.

L'incerata arancione era orlata da una robusta fune di nylon, che, infilata nei suoi anelli metallici, la fissava ai ganci sui fianchi della scialuppa. Sul dritto di prora, simile a un naso schiacciato rivolto all'insù, la fune era un poco allentata e la cerata appena sollevata. Colto da un'ispirazione improvvisa, alzai il remo e lo infilai tra la prua e l'incerata, nel piccolo varco che mi avrebbe salvato la vita. Spinsi il remo finché non sembrò un pennone sbilenco proteso sopra le onde, e mi ci avvinghiai con braccia e gambe. Il manico del remo premeva contro l'incerata, ma nessuno dei due si ruppe.

Ero fuori dall'acqua, fluttuavo a meno di un metro dalle onde più alte, che mi insidiavano con i loro spruzzi.

Ero orfano e solo, aggrappato a un remo nel mezzo del Pacifico: di fronte a me una tigre, sotto di me gli squali, e tutt'intorno gli elementi impazziti. Se mi fossi fermato a riflettere sulle mie prospettive, avrei senza dubbio mollato la presa, sperando di annegare prima di essere sbranato. Ma durante quei primi momenti di relativa sicurezza, non pensai a nulla. Non mi accorsi nemmeno che albeggiava. Rimasi attaccato al remo punto e basta, Dio solo sa perché.

Poi mi venne un'idea. Recuperai il salvagente dall'acqua e lo appesi al remo. Lo tirai verso di me e mi ci infilai dentro. Adesso potevo sostenermi con le sole gambe. Se Richard Parker si fosse fatto vedere, ributtarmi in acqua avrebbe richiesto qualche contorcimento. Ma... un nemico alla volta: prima il Pacifico, poi la tigre.

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CAPITOLO 41

Gli elementi mi risparmiarono. La scialuppa non affondò, Richard Parker si tenne lontano, gli squali mi ronzarono intorno senza attaccare, le onde mi bagnarono ma non mi rapirono.

Osservai la nave mentre scompariva in un turbine di spruzzi, tra gorgoglii fragorosi. Le luci lampeggiarono per un po' prima di spegnersi. Cercai la mia famiglia, un sopravvissuto, un'altra scialuppa, qualsiasi cosa potesse ridarmi un po' di speranza. Niente. Solo la pioggia, le onde rapaci dell'oceano scuro e i rottami galleggianti della tragedia.

Lentamente l'oscurità si dileguò. La pioggia cessò.Non potevo rimanere in quella posizione per sempre. Avevo freddo. Il mio collo

indolenzito faticava a sostenere la testa. Anche la schiena mi doleva, schiacciata contro il salvagente. E se volevo sperare di avvistare altre scialuppe, bisognava che trovassi il modo di arrampicarmi più in alto.

Piano piano, scivolai lungo il remo fino a sfiorare la prua con i piedi. Ero convinto che Richard Parker si trovasse sul fondo della scialuppa, sotto l'incerata, la schiena verso di me e la faccia verso la zebra, che a quell'ora doveva essere ridotta in brandelli. Tra i cinque sensi, le tigri fanno affidamento soprattutto sulla vista, che è molto acuta, specialmente nel percepire i movimenti. L'udito è buono, il fiuto nella media. Rispetto a quelli degli altri animali, ovviamente. Paragonato a Richard Parker, io ero sordo, cieco e completamente privo di olfatto. Ma al momento lui non poteva vedermi e probabilmente neanche fiutarmi, visto che ero fradicio. Tra il fischio del vento e il sibilare del mare in tempesta, non mi avrebbe neppure sentito, se mi fossi mosso con cautela. Altrimenti, mi avrebbe ucciso in un baleno. Chissà se i suoi artigli potevano squarciare l'incerata permettendogli di piombarmi addosso all'improvviso?

Paura e ragione erano in disaccordo. La paura rispondeva di sì. Richard Parker era un feroce carnivoro, una bestia di duecento chili. I suoi artigli erano taglienti come coltelli. La ragione diceva di no. La tela era robusta, mica un muro di carta giapponese. Aveva retto all'impatto con il mio corpo precipitato da un'altezza considerevole. Richard Parker avrebbe potuto ridurla a brandelli in poco tempo e senza sforzo, ma non sfondarla e apparire d'un tratto come il pupazzo a molle di una scatola magica. E poi non mi aveva visto. E se non mi aveva visto, che ragione aveva di squarciare l'incerata?

Scivolai ancora lungo il remo. Spostai le gambe dallo stesso lato e appoggiai i piedi sul bordo dell'imbarcazione. Avanzai un altro po'. Tenevo gli occhi fissi sull'orizzonte dell'incerata e rabbrividivo per il terrore. Mi aspettavo che da un momento all'altro Richard Parker si avventasse su di me. Le mie gambe - che avrei voluto assolutamente immobili - non la smettevano di tremare. Sbattendo sull'incerata, bussavano alla porta della tigre. Quando il tremore si estese alle braccia, aspettai finché la crisi non fu superata.

Mi alzai in piedi e lanciai un'occhiata al capo opposto della barca. Non riuscivo a crederci: la zebra era ancora viva!! Giaceva in una goffa posizione vicino alla poppa,

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nel punto esatto in cui era caduta, con il torace ansimante e gli occhi pieni di terrore. Era distesa su un fianco, la testa e il collo appoggiati alla panca laterale. Una delle zampe posteriori era rotta. Sanguinava, e l'osso scoperto disegnava un angolo innaturale. Solo le esili zampe anteriori, piegate e raccolte compostamente sotto il tronco, conservavano una parvenza di normalità. Di tanto in tanto l'animale ferito scuoteva la testa, mugolava e sbruffava. Per il resto, silenzio.

Era una bestia bellissima. Con il pelo bagnato, le strisce bianche e nere rilucevano in un contrasto perfetto. Spaventato com'ero, non mi soffermai a contemplarla. Eppure, fuggevolmente, come in un vago ripensamento, il profilo elegante del capo e la bizzarria, la precisione, l'audacia di quel manto striato mi parvero stupefacenti. Ancora più sorprendente era che Richard Parker non l'avesse ancora uccisa. Uccidere le prede è il mestiere dei predatori. In circostanze normali l'avrebbe senz'altro attaccata. Tanto più avrebbe dovuto farlo ora, nel bel mezzo di una situazione estrema, quando la paura più facilmente si trasforma in aggressività.

Il motivo di quella mitezza mi fu rivelato di lì a poco.Al momento mi si gelò il sangue, ma subito dopo provai un'ombra di sollievo. Una

testa spuntò all'estremità dell'incerata. Mi rivolse uno sguardo diretto e spaventato, si nascose, ricomparve, tornò a nascondersi, rispuntò e scomparve di nuovo. Era la testa stempiata di una iena maculata. Nel nostro zoo c'era un clan di sei iene, due femmine dominanti e quattro maschi sottomessi. Tutte e sei sarebbero dovute finire in Minnesota. La iena che avevo di fronte era un maschio. La riconobbi da una cicatrice sull'orecchio destro, malamente lacerato durante un combattimento. Adesso capivo perché la zebra era ancora viva: Richard Parker non era più sulla scialuppa. Una tigre e una iena non potevano convivere in uno spazio tanto angusto. Probabilmente era caduto in mare ed era annegato.

Ma come aveva fatto la iena a raggiungere la scialuppa? Dubitavo che fosse in grado di nuotare in mare aperto. Forse si trovava già a bordo, sotto l'incerata, quando mi ci avevano buttato, e io non me ne ero accorto. Ecco perché i marinai mi avevano gettato oltre il parapetto! Salvarmi la vita era l'ultimo dei loro pensieri. Mi avevano usato come esca. Ora capivo perché urlavano e si sbracciavano come matti poco prima che comparisse la zebra.

Non avrei mai immaginato che dividere uno spazio di pochi metri con una iena maculata avrebbe potuto rallegrarmi, invece fu proprio così. In fondo, se non fosse stato per lei, i marinai non mi avrebbero buttato sulla scialuppa, e io sarei andato incontro a morte certa. E se era destino che convivessi con un animale selvatico, preferivo la ferocia istintiva di un quasi-cane alla forza e all'astuzia di un gatto gigante. Trassi un minuscolo sospiro di sollievo. Come misura precauzionale, tornai sul remo. Mi sedetti a cavalcioni, appoggiato al salvagente, un piede sulla punta della prua, l'altro sul bordo. Stavo abbastanza comodo e potevo tener d'occhio la scialuppa.

Mi guardai intorno. Solo mare e cielo. Un'onda ci sollevò in alto. Anche da lassù, solo mare e cielo. Come in un corso accelerato di geologia, l'oceano riprodusse in pochi istanti tutte le conformazioni della terra: colline, vallate, pianure. Il giro del mondo in ottanta onde. Ma della mia famiglia neanche l'ombra. Oggetti di ogni sorta

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galleggiavano sull'acqua, ma niente che mi facesse sperare. Nessuna scialuppa.Il tempo stava cambiando rapidamente. Il mare, vasto da togliere il fiato,

cominciava a calmarsi, le onde si facevano più basse e regolari. Il vento si addolciva in una brezza melodiosa. Nuvole bianche e soffici si accendevano radiose nella volta insondabile del cielo.

L'alba di una splendida giornata sull'Oceano Pacifico. La mia maglietta si stava asciugando. La notte era scomparsa in un batter d'occhio, come la nave.

Cominciai ad aspettare. L'altalena dei miei pensieri oscillava pericolosamente. Un attimo mi fissavo sui dettagli pratici della sopravvivenza, quello dopo ero trafitto dal dolore e piangevo sconsolato, con la bocca aperta e la testa fra le mani.

CAPITOLO 42

Arrivò fluttuando sopra un'isola di banane, circondata da un alone di luce, leggiadra come la Vergine Maria. Il sol levante alle sue spalle e il fulgido pelo fiammeggiante.

Gridai: «O benedetta Grande Madre, dea della fertilità di Pondicherry, dispensatrice di latte e amore! Tu che allarghi le braccia per confortare, tu che sei il terrore delle zecche, tu che soccorri quelli che piangono; anche tu spettatrice di questa tragedia? La grazia non deve assistere all'orrore, non è giusto. Sarebbe stato meglio se fossi morta subito. La tua visione m'ispira gioia e dolore in eguale misura. Gioia, perché sei con me. Dolore, perché non sarai con me a lungo. Cosa ne sai tu del mare? Nulla. Cosa ne so io del mare? Nulla. Senza autista questo autobus è perduto. Le nostre vite sono spacciate. Sali a bordo, se l'oblio è la tua destinazione, credo che sia la prossima fermata. Siedi accanto a me. Vicino al finestrino, se vuoi. Ma la vista è deprimente. Oh, basta girarci intorno! Voglio dirlo apertamente: ti adoro, ti adoro, ti adoro. Ti adoro, ti adoro, ti adoro! I ragni no, però, per favore».

Era Orange Juice, così chiamata per la tendenza a sbavare; uno splendido orango del Borneo già star dello zoo nonché madre di due splendidi maschi, attorniata da una nera massa di ragni che le brulicavano intorno come adoratori maligni. Le banane su cui galleggiava erano tenute insieme da una rete di nylon. Quando Orange Juice fece un passo per salire sulla scialuppa, le banane ondeggiarono violentemente e la rete si allentò. D'impulso l'afferrai e la tirai a bordo: stava per affondare proprio sotto i miei occhi. Fu un gesto istintivo che mi salvò la vita. La rete sarebbe diventata uno dei miei averi più preziosi.

Le banane si sparpagliarono. I ragni neri cominciarono a zampettare frenetici, ma non avevano alcuna speranza. L'isola crollò sotto di loro e annegarono tutti. Per qualche istante la scialuppa galleggiò in un giallo mare di frutta.

Avevo raccolto quella che, a torto, ritenevo una rete inutile. Pensai forse di approfittare di quella manna di banane? Neanche per sogno. Non ne raccolsi nemmeno una. Fu un banana split nel senso peggiore del termine: il mare le disperse e se le portò via. Uno spreco colossale che in seguito mi avrebbe pesato quanto un macigno, provocandomi le convulsioni al pensiero della mia intollerabile stupidità.

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Orange Juice pareva annebbiata. I suoi movimenti erano lenti ed esitanti, nei suoi occhi s'intuiva la confusione mentale e lo stato di shock profondo. Rimase distesa sull'incerata per diversi minuti, silenziosa e immobile, poi si allungò e cadde sul fondo della scialuppa. Udii il terribile ghigno della iena.

CAPITOLO 43

L'ultima traccia della nave era una macchia d'olio che brillava sulla superficie del mare.

Ma io ero sicuro di non essere solo. Era impensabile che una nave come la Tsimtsum affondasse senza che nessuno se ne accorgesse. In quello stesso momento, non ne dubitavo, sui quadri di controllo dei porti di Tokyo, Panama City, Honolulu e - per Dio! - persino Winnipeg lampeggiavano luci rosse e suonavano spie d'allarme. Gli addetti strabuzzavano gli occhi gridando «Mio Dio! La Tsimtsum è affondata!» impugnavano i telefoni. I piloti correvano verso gli aeroplani senza neppure allacciarsi le scarpe. I timonieri cambiavano rotta con una foga da slogarsi i polsi. Negli abissi, anche i sottomarini si univano alla grande missione di salvataggio.

Ci avrebbero salvato presto, una nave si sarebbe materializzata all'orizzonte. Sarebbe spuntata una pistola per uccidere la iena e porre fine alla sofferenza della zebra. Forse Orange Juice sarebbe sopravvissuta. A bordo avrei trovato ad accogliermi la mia famiglia, tratta in salvo da un'altra scialuppa. Dovevo solo tener duro per qualche ora, poi l'incubo sarebbe finito.

Dal rifugio del mio salvagente allungai una mano per afferrare la rete. La arrotolai e la lanciai sull'incerata in modo che fungesse da barriera, per quanto risibile. Orange Juice mi era parsa praticamente catalettica, forse lo shock la stava uccidendo. Ma era la iena a preoccuparmi. Udivo i suoi versi. Speravo con tutto me stesso che la zebra, una preda familiare, e l'orango, una preda insolita, l'avrebbero tenuta lontana da me.

Tenevo un occhio puntato sull'orizzonte e l'altro sull'estremità opposta della scialuppa. Iena a parte, gli animali erano silenziosi. Si udiva solo un intermittente graffiare di zampe contro il fondo della barca, e qualche sporadico verso soffocato. Evidentemente non c'erano lotte in corso.

A metà mattinata ricomparve la iena. Qualche minuto prima i suoi continui brontolii si erano trasformati in vere e proprie urla. Con un salto superò la zebra e raggiunse la poppa, dove le panche laterali convergevano a formare un sedile triangolare. Era una posizione molto esposta: la panca distava una trentina di centimetri dal bordo. La iena si guardò nervosamente attorno. L'immensa distesa di acqua ondeggiante doveva essere l'ultima cosa che si era augurata di vedere. Subito abbassò la testa e si lasciò cadere sul fondo, dietro alla zebra. Ma fra la schiena del grosso equino e le casse di emersione sotto le panche lo spazio era angusto. La iena si dibatté per qualche istante, poi tornò a poppa, con un balzo scavalcò la zebra e atterrò al centro della barca, sotto l'incerata. Tutto in un baleno. Ora si trovava a meno di cinque metri da me. La mia unica reazione fu la paralisi più totale. La zebra, invece, sollevò fulminea la testa e cacciò un urlo.

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Sperai che la iena restasse sotto l'incerata, ma non fu così. Fece un altro salto, oltrepassò la zebra e si posizionò di nuovo sulla panca di poppa. Girò su se stessa un paio di volte, con un guaito indeciso. Mi chiesi quale sarebbe stata la sua prossima mossa. La risposta non tardò ad arrivare: la iena abbassò la testa e cominciò a correre intorno alla zebra, trasformando la porzione di barca oltre l'incerata - con le panche di poppa, laterali e trasversale - in una piccola arena. Un giro, due. tre, quattro... finché non persi il conto. E per tutto il tempo, giro dopo giro, emetteva uno stridulo iih iih iih iih iih. Ancora una volta, rimasi gelato dalla paura, potevo solo guardare. La iena filava veloce. Oltretutto era piuttosto massiccia, un maschio adulto di più di sessanta chili. Nella corsa gli artigli producevano un secco ticchettio e sotto l'impeto della sua frenesia l'intera scialuppa oscillava. Ogni volta che si avvicinava mi irrigidivo e il timore che proseguisse senza svoltare mi toglieva il fiato. Orange Juice, ovunque fosse, non l'avrebbe certo fermata. Figuriamoci l'incerata e la rete. La iena avrebbe potuto raggiungermi a prua in qualunque momento. Ma ogni volta imboccava la panca di mezzo e un attimo dopo vedevo sfrecciare la sua schiena.

Dopo un numero imprecisato di giri, si arrestò bruscamente sulla panca di poppa e si accovacciò. Guardava sotto l'incerata. Poi alzò gli occhi e li posò su di me, con l'espressione tipica della iena: lo sguardo diretto ma piatto, curioso ma indecifrabile; la bocca spalancata, le orecchie ritte e immobili, gli occhi luminosi e neri. Ma trasudava tensione da tutti i pori, in preda a un'inquietudine che la consumava come una febbre. Mi preparai a morire. Inutilmente. La iena riprese a correre in cerchio.

Quando un animale decide di fare qualcosa, può continuare molto a lungo. Per tutta la mattina la iena corse in cerchio gridando iih iih iih iih iih. A parte qualche rara pausa sulla panca di poppa, ogni giro era identico al precedente; stessi movimenti, stessa velocità, stessa frequenza e intensità dei guaiti, stessa direzione antioraria. Il suo iih era acuto ed estremamente irritante. Ben presto quello spettacolo divenne così tedioso e snervante da costringermi a voltargli le spalle controllando la iena con la coda dell'occhio. Persino la zebra, che all'inizio sbruffava ansiosamente a ogni passaggio dell'animale, era caduta in uno stato di apatia.

Eppure ogni volta che la iena si fermava, il cuore mi balzava in gola. E per quanto mi sforzassi di concentrarmi sull'orizzonte, dove sarebbe apparsa la nave della salvezza, il mio sguardo scivolava su quella bestia esasperante.

Personalmente non ho alcun pregiudizio in fatto di animali, ma è innegabile che alla iena maculata sia toccato in sorte un aspetto piuttosto sgradevole. Parliamoci chiaro: è brutta oltre ogni limite. Con quel collo tozzo e le spalle sporgenti che scivolano verso le zampe posteriori sembra un prototipo malriuscito di giraffa. Il manto ruvido e stopposo fa pensare a un patchwork ricavato dagli scarti della creazione. Il colore, poi, è un infelice accostamento di marrone, nero, giallo e grigio. Le chiazze, lontane anni luce dall'eleganza del leopardo, paiono il sintomo di una malattia della pelle, forse una forma virulenta di rogna. La testa è larga e troppo massiccia, la fronte alta come quella di un orso, ma, ahimè, stempiata. Le orecchie - simili a quelle del topo, ma più grandi - sono ridicolmente rotonde, quando non smozzicate da qualche nemico. La bocca è perennemente aperta e ansante. Le narici sono troppo grandi. La coda è striminzita e tendenzialmente inerte. Il passo è

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strascicato. Il risultato di questo assemblaggio è una specie di cane, ma di quelli che nessuno sarebbe disposto a prendersi in casa.

Ma non avevo scordato le parole di papà. Le iene non sono pavide mangiatrici di carogne. Se quelli del National Geographic le dipingono così, è perché le filmano di giorno. Per questi animali la giornata comincia quando spunta la luna; solo allora si rivelano cacciatori spietati. Le iene attaccano in branco qualsiasi bestia possano sperare di accerchiare e sopraffare, azzannandola ai fianchi quando è ancora in fuga. Attaccano zebre, gnu e bufali indiani; ma non solo vecchi e malandati, anche giovani e sani. Sono predatrici tenaci, si riprendono in fretta dai colpi subiti e non abbandonano il campo senza una ragione precisa. Sono astute: fanno in modo che i piccoli si allontanino dalle madri. Lo gnu appena nato è uno dei loro piatti preferiti, ma vanno matte anche per i cuccioli di leone e rinoceronte. Quando i loro sforzi vengono premiati, sono rapide e meticolose: in quindici minuti spolpano una zebra fino a lasciarne solo il teschio. Ma spesso anche quello sparisce, perché ai cuccioli di iena piace trascinarlo nella tana per rosicchiarlo con calma. Non sprecano nulla, non disdegnando neppure l'erba intrisa di sangue. Se il banchetto è ricco, si abbuffano al punto da fare fatica a muoversi. Dopo il pasto lo stomaco delle iene si gonfia come un pallone, poi, a digestione ultimata, tossiscono per espellere spessi grumi di pelo che ripuliscono accuratamente dagli ultimi resti commestibili prima di rotolarcisi in mezzo. Quando un branco divora una preda, l'eccitazione è tale che gli episodi di cannibalismo accidentale sono all'ordine del giorno; a una iena che azzanna un pezzo di zebra può capitare di strappare anche l'orecchio o il naso di una sua compagna. Lo fa senza cattiveria, e non ne prova alcun disgusto. È di bocca buona, si può dire che non ci sia nulla che le ripugni.

La iena è talmente aliena da qualsiasi tipo di discriminazione alimentare da suscitare quasi ammirazione. Arriva al punto di bere l'acqua in cui sta urinando. Ma l'urina le ispira anche un'altra abitudine originale: quando fa molto caldo e non piove da giorni, fa pipì per terra e poi usa le zampe per impastare un rinfrescante bagno di fango. Gli escrementi degli erbivori sono il suo spuntino preferito. Che cosa le iene non mangino rimane un mistero. Fanno fuori persino i cadaveri dei propri simili, dopo un periodo di repulsione che dura sì e no un giorno. Attaccano anche i veicoli a motore: i fanalini di coda, i tubi di scappamento, gli specchietti laterali. Hanno succhi gastrici portentosi e mandibole dalla forza straordinaria.

Ecco il genere di creatura che correva in cerchio sulla mia scialuppa: da offendere la vista e gelare il cuore.

Quel balletto ossessivo finì in tipico stile ienesco. L'animale si fermò a poppa e cominciò a gemere e a scuotersi. Mi ritrassi lungo il remo finché solo la punta dei piedi sfiorò la scialuppa. La iena tossì rumorosamente, poi di colpo rigettò. Un fiotto di vomito cadde accanto alla zebra. La iena si accasciò nel suo vomito tremando e gemendo; si contorceva, esplorando gli estremi confini del dolore animale. Rimase nel suo angolino per il resto del giorno. A tratti la zebra protestava per l'inquietante presenza del predatore alle sue spalle, ma per lo più giaceva in un silenzio cupo e disperato.

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CAPITOLO 44

Il sole si arrampicò in cielo, raggiunse lo zenit e cominciò la sua discesa. Passai tutto il giorno rannicchiato sul remo, muovendomi il minimo indispensabile per mantenere l'equilibrio. Mentre aspettavo di scorgere una macchiolina all'orizzonte, ero preda di una noia carica di tensione. Associo il ricordo di quelle primissime ore a un suono particolare. No, non il ghigno della iena né il sibilo del mare, ma il ronzio delle mosche. Comparivano e si aggiravano, in grandi, pigre volute; eccetto quando, incontrandosi a mezz'aria, precipitavano temporaneamente in spirali vertiginose scoppiettanti di ronzii.

Alcune erano così intrepide da avventurarsi fino al mio bizzarro trespolo. Simili a minuscoli aeroplani a elica, volavano in cerchio attorno a me prima di affrettarsi verso casa. Non so se le mosche si trovassero sulla scialuppa da prima o se ci fossero arrivate insieme agli animali. È probabile che fosse stata la iena a portarsele dietro. In ogni caso, non durarono a lungo; sparirono tutte nel giro di due giorni. La iena, nascosta dietro la zebra, ne fece fuori un bel po'. Molte altre furono spazzate via dal vento. Poche fortunate, forse, giunsero al termine naturale della loro vita e morirono di vecchiaia.

Man mano che la sera si avvicinava, la mia angoscia aumentava. La fine del giorno mi spaventava per mille ragioni: di notte una nave avrebbe avuto difficoltà a vedermi, senza contare che la iena avrebbe potuto risvegliarsi, e magari anche Orange Juice.

Calò il buio. Non c'era la luna. Le nuvole nascondevano le stelle. Non riuscivo a distinguere il profilo delle cose. Tutto scomparve: l'oceano, la scialuppa, il mio stesso corpo. Il mare era calmo, non soffiava un alito di vento, nessun rumore in base al quale potessi orientarmi. Fluttuavo in un'oscurità totale, astratta. Tenevo gli occhi fissi su quello che credevo l'orizzonte e le orecchie all'erta, pronte a captare eventuali segni d'attività da parte degli animali. Non avevo la minima idea di come avrei fatto a superare la notte.

A un certo punto udii la iena ringhiare e la zebra emettere grida stridule. Dei colpi. Tremavo di paura e - non lo nascondo - mi feci la pipì addosso. Ma i tonfi provenivano dall'estremità opposta della scialuppa. Apparentemente la iena, quella creatura infernale, era disposta a lasciarmi in pace, almeno per il momento. Poi un gemito, grugniti, una sorta di biascichio, più vicini nel buio. I miei nervi non potevano reggere l'idea che anche Orange Juice avesse deciso di passare all'azione, perciò feci finta di niente. Ignorai quel pensiero.

Altri suoni si levavano dal basso, dal mare: guizzi repentini e fruscii che sfumavano in un istante. Anche sott'acqua si lottava per la vita.

La notte passò, un minuto alla volta, lentamente.

CAPITOLO 45

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Avevo freddo. Lo constatai con distacco, come se la cosa non mi riguardasse. Venne l'alba, in una rapida sequenza di trasformazioni impercettibili. Un angolo di cielo cambiò colore. L'aria cominciò a riempirsi di luce. Il mare piatto si aprì intorno a me come un immenso libro. Pareva ancora notte, e all'improvviso fu giorno.

Il tepore arrivò solo quando il sole irruppe all'orizzonte simile a un'arancia elettrica. Ma i primi raggi di luce mi avevano già scaldato il cuore. Man mano che le cose riacquistavano il loro profilo e i loro colori, la speranza cresceva, diventava musica. Che sensazione indescrivibile! Le cose si sarebbero risolte. Il peggio era passato. Ero sopravvissuto alla notte. Presto mi avrebbero salvato.

Quando l'orizzonte si tramutò in una linea nitida e affilata, cominciai a scrutarlo con urgenza. Il giorno era luminoso e la visibilità perfetta. Pensai che Ravi, rivedendomi, avrebbe scherzato. «Ma guarda un po'! Ti sei trovato una bella scialuppa e l'hai riempita di animali. Chi ti credi di essere, Noè?» Nelle mie fantasie papà aveva la barba lunga e i capelli arruffati. La mamma avrebbe guardato il cielo e mi avrebbe preso tra le braccia. Immaginai dodici versioni diverse di quello che sarebbe successo sulla nave: dodici varianti sul dolce tema del ricongiungimento. L'orizzonte era una linea convessa; le mie labbra, invece, puntavano risolutamente all'insù.

Per quanto possa sembrare strano, passò diverso tempo prima che mi ricordassi di controllare la situazione nella scialuppa. La iena aveva attaccato la zebra. La bocca del predatore era di un rosso vivo e masticava un pezzo di carne. L'orrore mi lasciò a bocca aperta.

La zampa fratturata della zebra era sparita. La iena l'aveva staccata prima a morsi e poi trascinata a poppa. La zebra sanguinava ancora e dal moncone penzolava un lembo di pelle. Sopportava il dolore in silenzio e senza protestare. Un lento e costante digrignare era l'unico segno della sua sofferenza. Shock, repulsione e rabbia montarono dentro di me. Provai un odio profondo per la iena. Dovevo ucciderla. Ma non lo feci. E la mia indignazione fu di breve durata. Voglio essere onesto. Quando la tua stessa vita è in pericolo, la pietà nei confronti degli altri lascia il posto a una tremenda, egoistica fame di sopravvivenza. La sorte di quella creatura fenomenale mi addolorava. Sicuramente il suo calvario sarebbe durato a lungo, grande e grossa com'era. Ma non potevo farci niente. Provai pietà, ma poi mi distrassi. Non ne vado certo fiero. Mi dispiace di essere stato insensibile. Non ho dimenticato la povera bestia e tutto quello che ha passato. È sempre nelle mie preghiere.

Di Orange Juice non c'era traccia. Tornai a guardare l'orizzonte. Nel pomeriggio si alzò un po' di vento e mi accorsi che la scialuppa, nonostante il suo peso, fluttuava leggera sulla superficie dell'acqua; sicuramente perché il carico era molto inferiore alla sua capacità. Il fianco della barca era quasi interamente visibile: ci sarebbe voluta una burrasca per sommergerci. Ma quando la prua o la poppa si trovavano contro vento, la scialuppa tendeva a girarsi parallelamente alle onde. Quelle piccole percuotevano lo scafo come pugni, quelle più grandi gli imprimevano un fastidioso dondolio. Il movimento incessante mi dava la nausea.

In una posizione diversa forse mi sarei sentito meglio. Scivolai lungo il remo e ritornai sulla prua. Mi sedetti di traverso, rivolto verso l'acqua. Mi ero avvicinato alla

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iena, ma per fortuna la bestia era immobile.Mentre respiravo profondamente per scacciare la nausea, intravidi Orange Juice.

Ero convinto che si fosse rifugiata a prua, sotto l'incerata, il più lontano possibile dalla iena. Niente affatto. Stava su una panca laterale, seminascosta dall'estremità arrotolata dell'incerata. Quando sollevò la testa, la vidi.

Ero curioso. Volevo osservarla meglio. Nonostante la scialuppa continuasse a oscillare, mi alzai sulle ginocchia. La iena mi guardò, ma non si mosse. Adesso Orange Juice era perfettamente visibile: curva, le mani appoggiate al bordo, la testa sprofondata fra le braccia, la bocca aperta e la lingua penzoloni. Respirava rumorosamente. Nonostante la mia tragedia, nonostante la nausea, scoppiai a ridere. Mal di mare. Orange Juice era messa ben peggio di me. Mi trovavo di fronte a una specie rarissima: l'orango verde. Mi rimisi a sedere. Piegata in due dal malessere, la poverina era così umana.

È buffo osservare tratti umani negli animali, soprattutto nelle scimmie, lo specchio più ovvio che la natura ci offre. Per questo scimpanzé e oranghi sono così popolari negli zoo. Risi ancora e mi portai le mani al petto, sorpreso dal mio buonumore. Oh, mamma! La mia risata era un vulcano in eruzione. E Orange Juice s'era presa anche il mio mal di mare. Adesso stavo bene.

Ricominciai a scrutare l'orizzonte.Ero sorpreso che Orange Juice non fosse ferita. Dava le spalle alla iena, come se

non rappresentasse una minaccia. Sulla scialuppa, mi dissi, si era creato un ecosistema ben strano. In natura iene e oranghi non si incontrano: non ci sono iene in Borneo né oranghi in Africa. In ogni caso mi sembrava altamente improbabile, se non impossibile, che un arboricolo frugivoro e un carnivoro della savana, trovandosi a convivere, scegliessero di ritagliarsi ciascuno la propria nicchia, ignorandosi così radicalmente. Dal punto di vista di una iena un orango doveva per forza assomigliare a una preda; un po' strana, forse, produttrice di memorabili palle di pelo, ma certamente più saporita di un tubo di scappamento. L'orango, per converso, avrebbe dovuto percepire l'odore del predatore che aleggiava attorno alla iena. Ma la natura riserva sempre delle sorprese. Se capre e rinoceronti convivevano pacificamente, perché non potevano farlo oranghi e iene? Allo zoo sarebbe stato un successone. Vedevo già il cartello: «Gentile pubblico, non temete. Gli oranghi stanno sugli alberi perché ci vogliono stare, non per paura delle iene maculate. Tornate all'ora dei pasti o al tramonto, quando gli oranghi hanno sete, e li vedrete aggirarsi per il recinto indisturbati». Papà ne sarebbe rimasto affascinato.

Più tardi quel giorno vidi il primo esemplare di una specie che avrei imparato ad amare. Ci fu un rumore, qualcosa urtò e graffiò lo scafo della scialuppa. Pochi secondi dopo comparve una tartaruga marina, così vicina alla barca che sporgendomi avrei potuto afferrarla. Muoveva pigra gli arti, e aveva la testa fuori dall'acqua. Il suo aspetto, tutt'altro che bello, mi colpì: il guscio marroncino, lungo quasi un metro, era cosparso di alghe; la testa verde e scura terminava in un becco appuntito, privo di labbra; aveva due grossi buchi per narici e un paio di occhi neri che mi fissavano attenti. L'espressione era severa e altezzosa, come quella di un vecchio burbero che ha voglia di lamentarsi. La cosa più strana del rettile era la sua stessa esistenza.

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Sembrava incongruo lì nell'acqua, con quella forma così diversa da quella agile ed elegante dei pesci. Però era evidente che si trovava nel suo elemento, mentre ero io a essere fuori posto. Nuotò per diversi minuti intorno alla barca. «Vai» le dissi. «Corri a dire alla nave che sono qui. Vai, vai.» Si girò e sparì sott'acqua agitando le pinne.

CAPITOLO 46

Giunse il crepuscolo, e, invece delle navi, all'orizzonte comparvero le nubi. Il mio sorriso lentamente si spense.

Non saprei dire quale sia stata la notte peggiore della mia vita. La scelta è così ampia che è impossibile decidere. Eppure, nei ricordi, la mia seconda notte in mare fu funestata da una sofferenza indicibile; diversa dall'ansia raggelata della prima notte perché più convenzionale, fatta di pianti, tormento e angoscia spirituale, e diversa dalle notti successive perché lucida.

Quella notte orribile fu preceduta da una sera orribile.Mi accorsi che eravamo accerchiati dagli squali. Il sole cominciava a calare il

sipario sul giorno. Era una esplosione soffusa di rosso e arancione, una grandiosa sinfonia cromatica, un quadro di dimensioni extraterrene: un magnifico tramonto sul Pacifico, un po' sprecato, date le circostanze. Gli squali erano dei mako, velocissimi predatori dal muso appuntito, con lunghi denti assassini e sporgenti. Dovevano misurare circa due metri, ma uno era ancora più lungo. Li studiavo terrorizzato. Lo squalo più grande si avvicinò rapido alla scialuppa, forse per attaccarla; sollevò leggermente la pinna fuori dall'acqua, ma prima di raggiungerci si immerse di nuovo e scivolò via con una grazia spaventosa. Ricomparve, più lontano questa volta, poi sparì definitivamente. I suoi compagni si trattennero ancora, muovendosi a profondità diverse, alcuni ben visibili sotto la superficie, altri simili a ombre sfocate. Tutt'intorno c'erano pesci diversi, grandi e piccoli, colorati e dalle forme più svariate. Li avrei osservati più da vicino, se qualcos'altro non avesse rapito la mia attenzione: era comparsa la testa di Orange Juice.

L'orango si girò e si appoggiò all'incerata. Sembrava il gesto rilassato di un uomo che allunga il braccio sullo schienale della sedia accanto alla sua, ma Orange Juice non era affatto rilassata. Si guardava intorno con una espressione di profonda tristezza, dondolando lentamente la testa. Improvvisamente la somiglianza fra l'uomo e la scimmia non era più divertente. Orange Juice era madre di due cuccioli, due grossi maschi di cinque e otto anni che erano stati il suo e il nostro orgoglio allo zoo. Era a loro che pensava mentre perlustrava il mare sconsolata, mimando senza saperlo ciò che io avevo fatto nelle ultime trentasei ore. Naturalmente si era accorta della mia presenza, ma non faceva differenza. Ero semplicemente un altro animale che aveva perso tutto, destinato a morire. Il mio umore precipitò.

Poi, con un ringhio di avvertimento, la iena perse il controllo. Non si era mossa per tutto il giorno. A un tratto piantò le zampe anteriori sul fianco della zebra, si chinò e azzannò un lembo di carne. Tirò con violenza. La pelle si strappò come carta da pacco, ma senza rumore. Il sangue sgorgò a fiumi. La zebra urlava e sbruffava,

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tentando di difendersi. Si alzò sulle zampe anteriori, rizzò la testa e provò a mordere la iena; ma era fuori portata. Scuoteva l'unica zampa posteriore che le rimaneva. In quel momento compresi la natura dei tonfi che avevo udito la notte scorsa: era lo zoccolo dell'animale che sbatteva contro la scialuppa. Più la poverina si sforzava di lottare, più la iena si eccitava, in un crescendo di morsi e ringhi. Le aprì un cratere nel fianco. Quando si stancò di quella posizione, si arrampicò sulle anche. Cominciò a estrarre frammenti attorcigliati di intestino e altre viscere. Procedeva senza un criterio. Addentava, strappava, ingoiava interi pezzi di carne, come abbagliata da tanta abbondanza. Dopo aver divorato mezzo fegato, provò a staccare la sacca biancastra e rigonfia dello stomaco. Ma pesava troppo, e poiché le anche della zebra erano viscide di sangue, la fiera si trovò a scivolare dentro la sua vittima. Vi sprofondò con tutta la parte anteriore del corpo. Cercò di districarsi, solo per scivolare di nuovo. Alla fine si adagiò con metà corpo dentro la zebra. La sbranò dall'interno mentre era ancora viva.

I lamenti dell'animale erano sempre più flebili. Dalle narici cominciò a colare sangue. Sollevò la testa una o due volte, come per chiedere aiuto al cielo, in un gesto che suggellava l'abominio del momento.

Orange Juice non rimase indifferente alla scena. Si rizzò in piedi sulla panca. Le gambe tozze e il tronco massiccio la facevano assomigliare a un frigorifero sbilenco. Ma con le lunghe braccia aperte era una vista imponente. Una mano sfiorava il mare, l'altra per poco non raggiungeva il lato opposto della barca. Tese le labbra per mostrare gli enormi canini e cominciò a ruggire. Era un ruggito profondo, potente e minaccioso; impressionante in un animale che normalmente è silenzioso come una giraffa. La iena era sorpresa quanto me. Si acquattò e indietreggiò, ma di poco. Lanciò uno sguardo penetrante a Orange Juice, poi drizzò il pelo sul collo e sulle spalle e sollevò la coda. Si arrampicò sulla zebra in fin di vita. Quindi, con il sangue che le grondava dalla bocca, rispose a Orange Juice per le rime, emettendo un verso più acuto. I due animali si fronteggiavano con le fauci spalancate, a meno di un metro l'uno dall'altro. Sbraitavano a pieni polmoni, fremendo per lo sforzo. Potevo scorgere la gola spalancata della iena. L'aria del Pacifico, che fino a un attimo prima risuonava del sussurro del mare, ora echeggiava di quelle urla spaventose e assordanti come il rombo di una battaglia. Il ringhio della iena saturava le frequenze più alte del mio udito, il ruggito di Orange Juice quelle più basse, con le urla della zebra schiacciate nel mezzo. Le mie orecchie traboccavano, non c'era posto per nessun altro suono, nemmeno dei più flebili.

Cominciai a tremare in modo incontrollabile. Ero convinto che la iena si sarebbe scagliata su Orange Juice.

Non immaginavo che la situazione potesse peggiorare, invece peggiorò. Il sangue della zebra era colato in mare. Pochi secondi dopo si udì un colpo secco contro lo scafo, poi un altro. Il mare intorno a noi pullulava di squali ansiosi di attingere alla fonte di quel sangue. Le code balenavano fuori dall'acqua, le teste cozzavano contro la barca. Non sarebbero riusciti a ribaltarla, ma temevo che bucassero lo scafo.

A ogni colpo gli animali sussultavano allarmati, senza interrompere la loro lotta vocale. Mi aspettavo che passassero da un momento all'altro alle vie di fatto. Invece,

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dopo alcuni minuti si interruppero bruscamente. Orange Juice schioccò le labbra e si girò dall'altra parte; la iena abbassò la testa e si nascose dietro il corpo martoriato della zebra. Anche gli squali si stancarono di insistere: smisero di colpire la barca e se ne andarono.

Silenzio, finalmente.Un odore nauseabondo e pungente, un denso miscuglio di ruggine ed escrementi,

pervase l'aria. C'era sangue dappertutto, coagulato in croste rosse e scure. Una mosca ronzava: il campanello d'allarme della follia. Neppure l'ombra di una nave all'orizzonte, e il buio ormai incalzava. Quando il sole si dissolse nell'oceano, insieme al giorno e alla povera zebra morì anche la mia famiglia. In quel secondo tramonto sul Pacifico, l'incredulità lasciò il posto al dolore. I miei erano morti; non potevo più negarlo. Perdere un fratello significa perdere qualcuno con il quale avresti potuto invecchiare, qualcuno che probabilmente ti avrebbe dato una cognata e dei nipoti per popolare di nuove foglie l'albero della tua vita. Perdere un padre vuol dire perdere la guida e l'aiuto di cui hai bisogno, colui che ti sostiene come il tronco sorregge i rami. Perdere una madre, be', è come perdere il sole sopra la testa. È come perdere... preferisco fermarmi qui.

Mi stesi sull'incerata e fino al mattino piansi e mi disperai, con il viso sepolto fra le braccia. La iena passò gran parte della notte a mangiare.

CAPITOLO 47

Il nuovo giorno si aprì umido e nuvoloso, con un vento tiepido e una spessa coltre di nuvole come lenzuola grigie ammucchiate su un letto. Il mare era immutato e la scialuppa dondolava con movimento regolare.

Per quanto incredibile potesse sembrarmi, la zebra era ancora viva. Aveva un buco enorme nella pancia, una fistola simile a un vulcano in eruzione, con gli organi sbudellati e mezzi divorati che scintillavano al sole lucidi di sangue. Eppure il nucleo vitale del suo corpo pulsava ancora, benché debolmente. Gli unici movimenti visibili erano il tremore nella zampa posteriore e il battito occasionale delle palpebre. Ero inorridito. Mi sembrava inconcepibile che un essere vivente potesse resistere in quello stato.

La iena era irrequieta. Nonostante la luce del giorno, non dava segno di volersi riposare. Forse aveva mangiato troppo; lo stomaco era mostruosamente dilatato. Anche Orange Juice era di pessimo umore e mostrava i denti nervosa.

Rimasi nel mio angolino, rannicchiato vicino alla prua. Mi sentivo debole, nel corpo e nello spirito. Temevo di cadere in mare se avessi cercato una posizione migliore.

La zebra morì prima di mezzogiorno. Da qualche ora, ormai, aveva lo sguardo vitreo ed era del tutto indifferente agli assalti sporadici della iena.

La violenza tornò a esplodere nel pomeriggio. La tensione a bordo era insostenibile. La iena latrava. L orango grugniva e schioccava rumorosamente le labbra. Presto i loro lamenti si fusero e raggiunsero un'intensità lacerante. La iena

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scavalcò i resti della zebra, puntando Orange Juice.Credo di aver sufficientemente chiarito quanto sia pericolosa una iena. Io, in ogni

caso, ce l'avevo ben chiaro, così diedi Orange Juice per spacciata, senza nemmeno concederle il beneficio del dubbio. Ma la sottovalutavo. Non avevo preso in considerazione il suo coraggio.

Colpì la iena con un pugno alla testa. Fu sconvolgente. Il mio cuore traboccò d'amore, ammirazione e paura insieme. Orange Juice era un ex animale domestico, abbandonata senza pietà dai suoi padroni indonesiani. La sua storia era uguale a quella di tante bestie selvatiche che non dovrebbero vivere in casa. Sono storie che iniziano più o meno così: l'animale viene acquistato quando è ancora un tenero cucciolo, fonte di intrattenimento per i suoi padroni. Poi le sue dimensioni e il suo appetito crescono. Non si adatta alla vita in casa. È difficile da gestire perché diventa sempre più forte. Un giorno la domestica toglie la coperta dalla sua cuccia per lavarla, oppure il bambino di casa per scherzo gli ruba un boccone di cibo e l'animale mostra rabbioso i denti. La famiglia è terrorizzata. Il giorno dopo la creatura si ritrova sballottata a bordo di una jeep, in compagnia delle sorelle e dei fratelli umani. Il quattroruote si addentra in una giungla, uno scenario insolito e formidabile agli occhi di tutti i passeggeri. La jeep raggiunge una radura. I passeggeri scendono e si guardano intorno. All'improvviso si ode un rombo e le ruote dell'auto stridono nella polvere. L'animale vede i suoi cari e amati padroni che lo fissano dal finestrino posteriore, mentre la jeep si allontana a tutta velocità. L'hanno abbandonato. Non capisce. Come gli esseri umani, non è preparato a vivere nella giungla. Attende il loro ritorno, cercando di dominare il panico che cresce dentro di lui. Non tornano. Il sole tramonta. Si deprime e rinuncia a vivere. Morirà di fame e di stenti. Oppure verrà attaccato dai cani randagi.

Orange Juice avrebbe potuto fare la stessa fine. Invece era finita allo zoo di Pondicherry, dove si era sempre mostrata mite e pacifica. Ricordo che quando era piccola mi circondava con le sue braccia infinite; e con le dita, lunghe quanto la mia mano, mi spulciava la testa. Era una giovane femmina che si allenava a fare la mamma. Una volta cresciuta, continuai a osservarla a distanza. Pensavo di conoscerla abbastanza da prevedere ogni sua mossa. Le sue abitudini e i suoi limiti mi erano noti, almeno così credevo. Quella dimostrazione di ferocia, di primitivo coraggio, dimostrò che mi sbagliavo. Avevo sempre visto solo un aspetto della sua personalità.

Colpì il nemico con un pugno. E che pugno. Le zampe anteriori della iena cedettero e la testa andò a sbattere contro la panca. Il colpo fu tale da far pensare che la panca o le mandibole della iena, o tutte e due, si sarebbero sfracellate. La iena si rialzò subito, il pelo dritto quanto 1 capelli sulla mia testa, ma invece di contrattaccare si ritirò. Esultai. L'autodifesa di Orange Juice diffuse un chiarore esaltato nella mia anima.

Ma non durò a lungo.Una femmina di orango, gli zoologi ne prendano nota, non può sconfiggere un

maschio adulto di iena maculata. È una semplice verità empirica. Se Orange Juice fosse stata un maschio, se sulla bilancia avesse avuto lo stesso peso che aveva nel

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mio cuore, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ma nonostante fosse sana e pasciuta dopo gli anni trascorsi allo zoo, pesava una cinquantina di chili. Le femmine di orango sono la metà dei maschi. E poi non era solo una questione di taglia e forza bruta. A fare la differenza era la disposizione di ciascun animale e le sue conoscenze. Che ne capisce un orango ghiotto di frutta di assalti mortali? Come può sapere dove mordere, in che modo, e quanto a lungo? L'orango è più alto, ha braccia agili e potenti e lunghi canini. Ma senza l'istinto e l'esperienza queste armi servono a poco. Alla iena bastano le mandibole per sconfiggere l'orango: sa esattamente ciò che vuole e come ottenerlo.

A un tratto la iena ricomparve. Saltò sulla panca e azzannò Orange Juice al polso prima che lei potesse reagire. Con l'altro braccio l'orango la colpì alla testa, facendola inferocire. Poi provò a morderla, ma la iena fu più veloce. Purtroppo le tattiche di difesa di Orange Juice erano imprecise e sconnesse. La paura non le faceva da sprone, ma da ostacolo. La iena mollò il polso e, da esperta assassina qual era, si lanciò sulla gola.

Intontito dal terrore, osservai Orange Juice tirare il pelo alla iena e colpirla invano, mentre quella le azzannava la gola. Fino all'ultimo, l'orango mi parve una di noi: gli occhi e i lamenti esprimevano una paura terribilmente umana. Provò ad arrampicarsi sull'incerata. La iena la scosse violentemente. Orange Juice cadde dalla panca e finì sul fondo della scialuppa. Udii dei suoni raccapriccianti, ma non vedevo più nulla.

Il prossimo ero io. Ormai era chiaro. Con un po' di fatica mi alzai in piedi. Le lacrime mi annebbiavano la vista. Non piangevo per la mia famiglia o per la mia morte imminente. Ero troppo stordito per pensarci. Piangevo perché ero spossato e avevo bisogno di dormire.

Avanzai sull'incerata: era ben tesa a prua, ma al centro si era allentata, così da rendere i miei passi incerti e traballanti. C'era ancora la rete da superare, e la parte arrotolata dell'incerata, il tutto su una barca che non la smetteva di oscillare. Nelle condizioni in cui mi trovavo, quel breve tratto mi parve un'interminabile scarpinata. Quando raggiunsi la panca al centro della scialuppa, mi rianimai come se avessi toccato la terraferma. Piantai entrambi i piedi sulla panca e per un attimo mi godetti la sua solidità. Mi girava la testa, e poiché mi preparavo alla fine, quel capogiro accrebbe il mio senso di sublime, terrificante esaltazione. Mi portai al petto le braccia, le mie uniche armi contro la iena, che alzò lo sguardo verso di me. Aveva la bocca sporca di sangue. Vicino a lei giaceva Orange Juice, addossata alla zebra morta. Con le braccia spalancate e le corte gambe leggermente inclinate da un lato, era la versione scimmiesca di un Cristo in croce. Però le mancava la testa: era stata decapitata. Dal collo reciso continuava a sgorgare sangue. Era una vista orribile per gli occhi e letale per lo spirito.

Prima di scagliarmi contro la iena, abbassai brevemente lo sguardo.Tra i miei piedi, sotto la panca, vidi la testa di Richard Parker. Era enorme. Ai

miei occhi stupefatti sembrò grande quanto il pianeta Giove. Le zampe erano tomi dell'Enciclopedia Britannica. Tornai a prua e crollai in ginocchio. Passai la notte in uno stato di delirio. Mi pareva di aver dormito e di aver sognato una tigre.

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CAPITOLO 48

Richard Parker doveva il suo nome all'errore di un impiegato. Mi spiego. Nel distretto di Khulna, in Bangladesh, si aggirava una pericolosa pantera. La sua ultima preda era stata una bambina, della quale avevano ritrovato soltanto una manina decorata con l'henné e un paio di braccialetti di plastica. La settima vittima in due mesi. E la pantera diventava sempre più ardita. Prima della bambina aveva attaccato un contadino in un campo, in pieno giorno. Dopo averlo trascinato nella foresta, aveva divorato gran parte della testa, la gamba destra e le viscere. Il resto era stato trovato penzolante da un ramo. Quella notte gli abitanti del villaggio avevano perlustrato la zona, sperando di sorprendere la pantera e ammazzarla, senza successo. La Guardia Forestale aveva assoldato un cacciatore professionista. Il cacciatore si era costruito una piattaforma nascosta su un albero, vicino al fiume nei cui pressi si erano verificate due delle aggressioni. Aveva legato una capra a un palo e per diverse notti aveva atteso invano il felino. Aveva concluso che la pantera doveva essere un maschio vecchio e malmesso, con i denti consumati e incapace di catturare una preda più impegnativa di un essere umano. Ma quella che si presentò una notte era una tigre femmina, bellissima, seguita da un cucciolo. La capra belò. Il cucciolo, di circa tre mesi, stranamente non le prestò attenzione. Invece, si precipitò sulla riva del fiume e cominciò a bere avidamente. La madre fece lo stesso. Tra la fame e la sete, quest'ultima è il bisogno più impellente. Solo dopo essersi dissetata la tigre adulta si avvicinò alla capra per soddisfare il suo appetito. Il cacciatore aveva due fucili: uno munito di proiettili, l'altro di aghi immobilizzanti. Non era la tigre che stava cercando, ma così vicina a un villaggio poteva costituire una minaccia per gli abitanti, soprattutto considerando che aveva con sé un cucciolo. Il cacciatore prese il fucile con gli aghi e quando la tigre fu sul punto di abbattere la capra, sparò. La tigre indietreggiò, ringhiò e scappò via. Ma gli aghi immobilizzanti non inducono il sonno gradualmente e con dolcezza, come una bella tazza di camomilla; piuttosto, stordiscono come una bottiglia di liquore bevuta a canna. Se poi l'animale si agita, l'effetto è ancora più rapido. Il cacciatore chiamò per radio i suoi aiutanti. Trovarono la tigre a meno di duecento metri dal fiume. Era ancora sveglia. Le zampe posteriori avevano ceduto e barcollava su quelle anteriori. Quando si avvicinarono, provò inutilmente a fuggire. Sollevò una zampa nel tentativo di ucciderli, ma perse l'equilibrio. Crollò per terra. E lo zoo di Pondicherry si ritrovò con due nuove tigri. Il cucciolo, che si era nascosto in un cespuglio vicino, miagolava spaventato. Il cacciatore, che si chiamava Richard Parker, lo prese in braccio e lo battezzò Thirsty, assetato, per l'avidità con cui si era precipitato al fiume. Ma alla stazione di Howrah l'impiegato addetto alle spedizioni doveva essere un tipo ottuso e zelante. Tutti i documenti che ricevemmo dichiaravano inequivocabilmente che il cucciolo si chiamava Richard Parker, mentre il nome del cacciatore era Thirsty, Nessuno di cognome. Di fronte a questo pasticcio papà ridacchiò e il tigrotto fu per tutti Richard Parker.

Chissà se Thirsty Nessuno riuscì mai a catturare la sua pantera divoratrice di

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uomini.

CAPITOLO 49

Il mattino seguente non riuscivo a muovermi. La debolezza mi inchiodava all'incerata. Anche riflettere era estenuante. Mi sforzai di seguire una logica. Dopo un po', lenti come cammelli nel deserto, giunsero alcuni pensieri.

La giornata era identica a quella precedente, tiepida e nuvolosa, le nubi basse, la brezza leggera: ecco il mio primo pensiero. La barca dondolava delicatamente, secondo pensiero.

Per la prima volta mi domandai come avrei fatto a nutrirmi. Non avevo bevuto una goccia d'acqua, né mangiato un boccone, né dormito un solo minuto negli ultimi tre giorni. Il fatto di aver trovato questa ovvia spiegazione per la mia debolezza mi ridiede un pochino di forza.

Richard Parker era ancora sulla scialuppa. Anzi, era proprio sotto di me. Per quanto possa sembrare incredibile, giunsi a questa conclusione solo dopo aver attentamente vagliato svariate ipotesi e punti di vista. Non era un sogno né un'illusione, non un ricordo distorto né una fantasia di alcun genere; era un fatto concreto e reale, da me constatato in un momento di estrema debolezza e agitazione.

Come avevo fatto a non vedere - per due giorni e mezzo - una tigre del Bengala di più di duecento chili su un'imbarcazione di soli otto metri? Avrei affrontato quell'enigma più tardi. In ogni caso, la circostanza faceva di Richard Parker, proporzionalmente parlando, il clandestino più grosso nella storia della navigazione. Dalla punta del naso all'estremità della coda era lungo quanto un terzo della scialuppa.

Penserete che a quel punto io avessi perso ogni speranza. Infatti. Ma al tempo stesso la gravità della scoperta mi riscosse e a un tratto mi sentii meglio. Reazioni simili si manifestano spesso nelle competizioni sportive. Il tennis per esempio. Il giocatore favorito comincia alla grande e prosegue accumulando punti. Ma nell'ultimo set l'avversario, che non ha più niente da perdere, si rilassa, diventa disinvolto, creativo e persino ardito. Improvvisamente si batte come un leone, e il campione deve sudare non poco per aggiudicarsi gli ultimi punti. È quello che successe a me. Se contro la iena avevo una remota possibilità di farcela, contro Richard Parker ero decisamente spacciato. Non valeva nemmeno la pena di spaventarsi. Con una tigre a bordo, la mia vita era finita. Tanto valeva occuparsi della mia gola secca.

Quella mattina mi salvai, ne sono convinto, perché stavo letteralmente morendo di sete. Me ne resi conto all'improvviso e non riuscii più a pensare ad altro, come se anche la parola sete fosse salata, e più ci pensavo, più stavo male. Dicono che il bisogno d'aria sia più impellente del bisogno d'acqua. Solo per pochi minuti, aggiungo io. Dopo, sopraggiunge la morte e la sofferenza dell'asfissia svanisce. La sete, invece, dura a lungo. Pensateci: Cristo è morto crocefisso, ma si lamentava per la sete. E se la sete può risultare così estenuante da tormentare Dio Incarnato, provate

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a immaginare l'effetto che fa a un comune mortale. Mi pareva di impazzire. Non avevo mai sperimentato una tortura tanto terribile: il sapore putrido, la lingua impastata, la pressione insopportabile in fondo alla gola, l'impressione che il sangue mi stagnasse nelle vene, denso e viscoso come sciroppo. In confronto, una tigre era un nemico da poco.

Perciò accantonai i pensieri su Richard Parker e, senza paura, mi misi alla ricerca di acqua potabile.

La mia bacchetta da rabdomante immaginaria si inclinò bruscamente e l'acqua zampillò copiosa nella mia mente quando ricordai di essere a bordo di una scialuppa di salvataggio regolamentare, quindi necessariamente fornita di provviste. Mi parve una supposizione ragionevolissima. Quale capitano avrebbe trascurato una misura di sicurezza tanto elementare? Quale astuto fornitore navale avrebbe rinunciato al piccolo guadagno extra legato alla vendita di viveri d'emergenza? Quindi doveva esserci dell'acqua a bordo. La questione era: dove?

Strisciai fino al centro della scialuppa, nel punto in cui terminava l'incerata. Non fu facile. Era come arrampicarsi sul fianco di un vulcano per dare un'occhiata nel cratere che ribolle di lava incandescente. Mi distesi e allungai con cautela la testa. Dietro ai resti della zebra, la iena mi fissava.

Non la temevo più. Era a pochi metri da me, eppure il mio cuore batteva tranquillamente; senza dubbio un effetto collaterale della scoperta di Richard Parker. Avere paura di quel ridicolo cagnaccio quando a bordo c'era una tigre sarebbe stato come disperarsi per una scheggia in un dito mentre l'intero albero mi crollava in testa. A un tratto provavo una gran rabbia nei confronti della iena. «Brutta bestiaccia schifosa» borbottai. Se non la scacciai dalla barca a bastonate fu per mancanza di forze e di bastoni, non perché non ne avessi il coraggio.

Forse la iena percepì un po' della mia nuova autorità e disse fra sé: "Il maschio super-alfa mi sta osservando, meglio restarsene buoni". Chi lo sa. Fatto sta che non si mosse. Abbassò addirittura la testa come se volesse nascondersi. Che si nascondesse pure. Presto avrebbe avuto quello che si meritava.

A pensarci bene, la presenza di Richard Parker spiegava lo strano comportamento degli animali nelle ultime ore. Adesso capivo perché la iena si era rifugiata in quello spazio così ristretto, e perché aveva atteso tanto a lungo prima di uccidere la zebra. Per paura della bestia più grossa. Per paura di toccare il suo cibo. La temporanea pace fra Orange Juice e la iena - e il fatto che io fossi stato risparmiato, almeno per ora - erano senza dubbio dovuti alla stessa ragione: al cospetto di Richard Parker, un predatore superiore, tutti noi eravamo prede. Dovevo ringraziare la tigre se mi ero salvato dalla iena, un esempio da manuale di ciò che comunemente s'intende con l'espressione «passare dalla padella alla brace».

Ma il grande predatore non si era comportato da grande predatore e allora la iena si era presa qualche libertà. Se Richard Parker era stato quieto per tre lunghi giorni, ci doveva essere un motivo. Le cause potevano essere solo due: i sedativi e il mal di mare. Durante la traversata papà aveva somministrato regolarmente sedativi ad alcuni animali per alleviarne lo stress. Forse, poco prima che la nave affondasse, aveva dato un sedativo a Richard Parker E l'esplosione, lo shock del naufragio, la

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caduta in mare, la nuotata estenuante fino alla scialuppa ne avevano amplificato l'effetto. Il mal di mare era stato il colpo di grazia. Era l'unica spiegazione plausibile.

Ma capire non era poi così importante. Solo l'acqua era importante.Esaminai la scialuppa.

CAPITOLO 50

Era profonda poco più di un metro, larga due e mezzo e lunga otto. Le dimensioni esatte erano stampigliate in vernice nera su una delle panche laterali. C'era anche scritto che la scialuppa poteva trasportare un massimo di trentadue persone. Sarebbe stato bello dividerla con tutta quella gente. Invece eravamo solo in tre, e la barca era già spaventosamente affollata. Aveva una forma simmetrica, con le due estremità arrotondate e perfettamente identiche. Ma la poppa si distingueva grazie alla presenza di un piccolo timone fisso, poco più di un'estensione della chiglia. La prua, escludendo l'aggiunta del remo, si presentava come la più arrotondata e più triste della storia dell'ingegneria navale. Lo scafo di alluminio, cosparso di ribattini, era dipinto di bianco.

Così si presentava l'esterno della scialuppa. L'interno non era spazioso come ci si sarebbe potuti aspettare, per via delle panche e delle casse d'emersione. Le panche laterali coprivano l'intera lunghezza della scialuppa; a prua e a poppa si congiungevano in sedili più o meno triangolari. Poggiavano direttamente sulle casse d'emersione sigillate ed erano larghe quasi mezzo metro; i sedili, invece, quasi un metro. Di conseguenza lo spazio disponibile era di circa sei metri per uno e mezzo. Un territorio di nove metri quadrati per Richard Parker. C'erano tre panche trasversali, inclusa quella fracassata dalla zebra. Larghe circa sessanta centimetri e alte poco più di cinquanta erano tutte alla stessa distanza l'una dall'altra: se Richard Parker fosse strisciato fin lì, avrebbe rischiato di sbattere la testa. Ma anche sotto l'incerata, lo spazio a sua disposizione era un metro scarso, appena sufficiente per consentirgli di alzarsi. Il fondo della scialuppa, rivestito da strette assi di legno trattato, era piatto e perfettamente perpendicolare alle casse d'emersione, di modo che, a dispetto delle estremità arrotondate e dei fianchi tondeggianti, la barca aveva un interno spigoloso.

Si sarebbe detto che l'arancione - il bel colore dell'induismo - fosse anche il colore della sopravvivenza. L'interno della scialuppa, l'incerata, i giubbotti di salvataggio, il salvagente, i remi e quasi tutti gli altri oggetti di bordo erano arancioni. Persino i fischietti di plastica.

Su un lato della prua era scritto in nero «TSIMTSUM», e sull'altro «PANAMA», tutto in caratteri maiuscoli, semplici e nitidi.

L'incerata era di tela trattata, robusta e alla lunga ruvida sulla pelle. Qualcuno l'aveva srotolata per metà, così una delle panche trasversali era nascosta dentro la tana di Richard Parker, mentre quella centrale era visibile, oltre il bordo. E la terza panca, quella spaccata, giaceva sotto la carcassa della zebra.

Sul bordo c'erano sei scalmi, a forma di "U", per altrettanti remi. I remi, però,

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erano cinque. Il sesto l'avevo perso nel tentativo di liberarmi di Richard Parker. Tre remi erano poggiati su una panca laterale, il quarto sulla panca di fronte, e l'ultimo era diventato la mia prua d'emergenza. Come mezzo di propulsione non sarebbero serviti a un granché. Non mi trovavo su un guscio di noce. Quella era una barca pesante e massiccia, fatta per galleggiare, non per navigare. Certo, se fossimo stati in trentadue e tutti e trentadue ci fossimo messi a remare, un po' di strada forse l'avremmo fatta.

Questi dettagli - e tanti altri - in un primo tempo mi sfuggirono. Li avrei notati con il passare dei giorni, spinto dalla necessità, quando, nel bel mezzo della situazione più disperata, qualcosa, un particolare fino a quel momento insignificante, mi sarebbe apparso improvvisamente sotto una nuova luce. Allora sarebbe diventato essenziale, il dettaglio più importante del mondo, l'unico in grado di salvarmi la vita. Lo sperimentai molte volte nel corso delle mie disavventure. Com'è vero che il bisogno aguzza l'ingegno!

CAPITOLO 51

Al primo, attento esame della scialuppa, non trovai il dettaglio che cercavo. La superficie di poppa, panche laterali e casse d'emersione era uniforme. Tra il fondo della scialuppa e lo scafo non c'era lo spazio per nascondere qualcosa. Non si vedevano né ripostigli né scatole né contenitori d'altro genere.

La mia opinione su capitani e fornitori navali vacillò. Le mie speranze di sopravvivenza s'incrinarono. E la sete rimase.

E se le provviste fossero state nascoste a prua, sotto l'incerata? Mi girai e strisciai verso la mia postazione abituale. Mi sentivo come una lucertola essiccata. Saggiai l'incerata con la mano. Era ben tesa. Sarebbe bastato «avvolgerla un po' per accedere alle provviste. Ma così facendo avrei aperto una falla nella sola barriera che mi separava da Richard Parker.

Non mi importava. La sete guidava ogni mio gesto. Sfilai l'estremità del remo da sotto l'incerata. Indossai il salvagente. Poggiai il remo di traverso sulla prua. Mi sporsi oltre il bordo e facendo leva con i pollici liberai la corda che fissava l'incerata a uno dei ganci. Poi dal secondo e dal terzo. Ripetei l'operazione sul lato opposto della prua. L'incerata si afflosciò sotto i miei gomiti. Ci ero sdraiato sopra, a pancia in giù, le gambe rivolte a poppa.

Non appena scostai il lembo dell'incerata capii che era proprio come avevo sperato. Anche a prua c'era un sedile triangolare, e sul sedile, a pochi centimetri dal dritto di prora, una chiusura metallica brillava come un diamante. Si vedeva il contorno di una botola. Il mio cuore cominciò a battere più forte. Avvolsi un altro po' l'incerata. La botola era un triangolo dagli angoli smussati; la base doveva misurare circa un metro, i lati poco meno. In quel momento scorsi una massa arancione. Allontanai di scatto la testa. Ma la massa arancione non si mosse... strano! Guardai meglio. Non era la tigre ma un giubbotto di salvataggio. C'erano diversi giubbotti dietro al rifugio di Richard Parker.

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Il mio corpo fu scosso da un brivido. Attraverso i giubbotti, avevo visto per la prima volta - di sfuggita, ma chiaramente - la schiena e le anche del felino: fulve, striate, semplicemente enormi. Era sdraiato sullo stomaco, con il muso rivolto a poppa. Se si escludeva il lieve moto respiratorio, era completamente immobile.

Strizzai gli occhi, incredulo: era così vicino, vicinissimo, proprio sotto di me. Se avessi allungato una mano, avrei potuto pizzicargli il sedere. E fra di noi c'era solo l'incerata, un ostacolo fin troppo facile da aggirare.

«Dio, salvami!» Mai una supplica fu tanto appassionata e lieve al tempo stesso. Ero immobile come una statua. Ma dovevo trovare l'acqua. Abbassai la mano e lentamente sganciai la chiusura metallica.

Ecco un ottimo esempio del genere di dettagli provvidenziali di cui vi dicevo: il coperchio della botola. Si trovava a pochi centimetri dal sedile di prua. Una volta aperto, avrebbe ostruito il varco fra la panca e l'incerata, impedendo a Richard Parker di saltarmi addosso senza preavviso. Lo sollevai e mi spostai a prua, dando le spalle al mare, con un piede sul bordo della botola e l'altro sul coperchio. Se Richard Parker avesse deciso di attaccarmi, sarebbe stato costretto a buttarsi contro il coperchio, oppure a passare dalla parte opposta, arrampicandosi sull'incerata. In entrambi i casi avrei avuto il tempo di lasciarmi cadere all'indietro e di finire in acqua con il salvagente. Scrutai il mare: niente squali.

Poi guardai in basso, fra le mie gambe. Credetti di svenire per la gioia. Il ripostiglio risplendeva di una varietà di oggetti nuovi di zecca. Oh, la meraviglia del prodotto di fabbrica, dello strumento progettato dall'uomo, delle cose costruite! Quel momento di rivelazione materiale mi regalò un piacere intenso: un miscuglio inebriante di speranza, sorpresa, incredulità, eccitazione, gratitudine, tutto in una volta. Nessun Natale, nessun compleanno, nessun Diwali della mia vita e nessun altro regalo in nessuna occasione erano lontanamente paragonabili a quell'istante. Avevo le vertigini per la felicità.

I miei occhi si posarono subito su ciò che agognavo più di ogni altra cosa. Che sia in bottiglia, in lattina o in cartone l'acqua è inconfondibile. Sulla scialuppa il nettare della vita era racchiuso in lattine color oro, perfette per stare nel palmo di una mano. «Acqua potabile», diceva un'etichetta d'annata. HP Foods Ltd. era il nome degli imbottigliatori, e 500 ml il contenuto. C'erano molte pile di lattine, troppe per contarle a colpo d'occhio.

Con mano tremante ne afferrai una. Era fredda e pesante. La scossi. Le bolla d'aria all'interno fece glub glub glub. Stavo per liberarmi della sete infernale. A quel pensiero il cuore accelerò i suoi battiti. Dovevo solo aprire la lattina.

A un tratto mi bloccai... ma come?Dov'era l'apriscatole? Guardai nel ripostiglio zeppo di roba. Frugai un po'

ovunque. Stavo per perdere la pazienza. L'ardua ricerca aveva dato i suoi frutti, e ora dovevo bere subito o sarei morto. Non avevo tempo per inutili sofferenze. E se avessi tentato di aprirla con le unghie? Lo feci, ma non andai lontano. Con i denti? Niente da fare. L'occhio mi cadde sul bordo della scialuppa. I ganci dell'incerata! Corti, smussati, robusti. Mi inginocchiai sul sedile e mi sporsi in avanti. Stringendo la lattina fra le mani la sbattei con violenza contro un gancio. Ottenni una bella

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ammaccatura. Provai ancora. Seconda ammaccatura. A furia di ammaccature, il sistema funzionò e comparve una perla d'acqua. La leccai. Un ennesimo colpo alla lattina produsse un buco più grosso. Insistetti, sbattendo come un matto. Infine mi rimisi a sedere. Spalancai la bocca e mi portai la lattina alle labbra.

Ciò che provai si può forse immaginare, ma non descrivere. Al ritmo gorgogliante della mie avide sorsate, l'acqua cristallina cominciò a scorrere nel mio organismo, pura, deliziosa, fantastica. Vita liquida, ecco cos'era! Prosciugai quella coppa d'oro fino all'ultima goccia e aspirai forte dal buco per catturare le ultime perle di umidità. «Ahhhhhhhhhh!» esclamai. Lanciai la lattina in mare e ne afferrai un'altra. L'aprii come avevo fatto con la prima e il contenuto svanì altrettanto rapidamente. Anche quella finì in mare e ne aprii un'altra ancora. Bevvi quattro lattine in tutto, due litri del nettare più squisito del mondo, poi mi fermai. Si potrebbe pensare che un così rapido e abbondante apporto d'acqua dopo una sete prolungata rischiasse di scombussolare il mio organismo. Sciocchezze! Non ero mai stato così bene in vita mia. La fronte, per esempio: era bagnata di sudore, pulito e rinfrescante. Il mio corpo sprizzava gioia da tutti i pori.

Fui pervaso da un senso di benessere. La bocca era umida e morbida, la gola dolorante solo un ricordo. La pelle si distese. Le articolazioni si sciolsero. Il cuore era un tamburo e il sangue correva nelle vene come un corteo matrimoniale di auto strombazzanti per la città. I muscoli riacquistarono forza ed elasticità. La mente diventò più lucida. Era come ritornare alla vita dal regno dei morti. Un momento glorioso. Ve l'assicuro, ubriacarsi d'alcol è un'esperienza degradante, ma ubriacarsi d'acqua è nobile ed estatico. Per un po' mi crogiolai in quella beatitudine.

Poi cominciai ad avvertire un certo vuoto. Mi toccai la pancia. Era dura e incavata. Un po' di cibo sarebbe stato perfetto. Masala dosa con chutney di cocco, hmmmmmm! Meglio ancora: uthappam! HMMMMM! Oh! Mi portai le mani alla bocca: IDLI! Il solo pensiero mi provocò una fitta di dolore dietro le mandibole e un diluvio di saliva in bocca. La mia mano destra si contrasse. Involontariamente la allungai verso quelle immaginarie schiacciatine di riso. Scelsi la più grossa, affondai le dita nella sua polpa fumante e bollente... feci una palla e la intinsi nella salsa... me la portai alla bocca... la masticai... Oh, che delizioso tormento!

Cercai qualcosa da mangiare nel ripostiglio. Scovai delle scatole di razione d'emergenza Seven Oceans provenienti dalla lontana ed esotica Bergen, in Norvegia. Quella colazione doveva compensare i nove pasti che avevo saltato, per non parlare dei vari spuntini a cui la mamma mi aveva abituato fin da piccolo. Una razione era un blocco da mezzo chilo, solido, denso, confezionato sottovuoto e avvolto in plastica argentata. Ingredienti e avvertenze erano stampati in dodici lingue. Ogni pacchetto conteneva diciotto biscotti arricchiti di vitamine, fatti di grano, grasso animale e glucosio. Non bisognava mangiarne più di sei nell'arco di ventiquattr'ore. Peccato per il grasso animale; ma considerate le circostanze, il vegetariano che era in me si sarebbe turato il naso e avrebbe sopportato.

In cima alla confezione si leggeva «Tirare qui», e una freccia nera indicava l'apposita linguetta. Le mie dita non incontrarono resistenza. La plastica si aprì rovesciandomi in grembo nove barrette rettangolari rivestite di carta oleata. Ne

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scartai una. Spontaneamente si ruppe giusto a metà. Due biscotti quasi quadrati, dal colore chiaro e dall'odore fragrante. Ne addentai uno. Mio Dio, chi l'avrebbe detto? Il sospetto non mi aveva mai neppure sfiorato. Me l'avevano deliberatamente tenuto nascosto: la cucina norvegese era la migliore del mondo! I biscotti erano incredibilmente buoni. Saporiti e delicati, né troppo dolci né troppo salati. Si sbriciolarono sotto i miei denti, croccanti. Mescolati alla saliva, si trasformarono in un impasto granuloso, un vero incanto per il palato. E quando li ingoiai, il mio stomaco ebbe un solo commento da fare: Alleluia!

L'intero pacco sparì in pochi minuti, e la carta volò via nel vento. Decisi di aprire un'altra scatola, ma ci ripensai. Meglio moderarsi. Tanto più che con mezzo chilo di razione d'emergenza in pancia, mi sentivo decisamente appesantito.

Dovevo assolutamente scoprire l'esatto contenuto del tesoro che avevo davanti. Era un bel ripostiglio profondo, più ampio di quanto lasciasse supporre il coperchio. Arrivava fin sotto alle panche laterali. Mi sedetti sul bordo, con i piedi penzoloni all'interno e la schiena appoggiata al dritto di prora. Contai le confezioni di «Seven Oceans». Ne avevo mangiata una; me ne restavano trentuno. Secondo le avvertenze, un pacchetto da cinquecento grammi era sufficiente al sostentamento di una persona per tre giorni. Quindi avevo razioni di cibo per un periodo di - 31 x 3 - 93 giorni! Le istruzioni suggerivano anche di limitarsi a mezzo litro d'acqua al giorno. Contai le lattine d'acqua. Centoventiquattro. Ogni lattina conteneva mezzo litro. Avevo acqua per centoventiquattro giorni. L'aritmetica non mi aveva mai dato tanto piacere.

Cos'altro c'era? Tuffai il braccio nella botola e tirai fuori una meraviglia dietro l'altra. Ogni oggetto - qualunque oggetto! - mi faceva l'effetto di una carezza rassicurante. Tale era il mio bisogno di compagnia e di conforto che l'impegno necessario a produrre ciascuno di quei beni mi sembrava un'attenzione speciale rivolta a me. «Grazie, grazie, grazie!» mormoravo commosso.

CAPITOLO 52

Dopo aver esaminato il contenuto del ripostiglio, compilai una lista completa: • 192 pillole per il mal di mare; • 124 lattine di acqua fresca, da 500 millilitri l'una; in tutto 62 litri; • 32 sacchetti di plastica per il vomito; • 31 razioni d'emergenza, da 500 grammi l'una, per un totale di 15 chili e

mezzo; • 16 coperte di lana; • 12 distillatori solari; • una decina di giubbotti di salvataggio arancioni, ciascuno dotato di

fischietto arancione; • 6 dosi di morfina con altrettante siringhe; • 6 fuochi di segnalazione; • 5 remi galleggianti;

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• 4 razzi illuminanti forniti di paracadute; • 3 sacche di plastica robusta e trasparente, da 50 litri ciascuna; • 3 apriscatole; • 3 bicchieri graduati; • 2 scatole di fiammiferi impermeabili; • 2 segnali fumogeni arancioni galleggianti; • 2 secchi di plastica arancione di media grandezza; • 2 recipienti arancioni da sgottamento; • 2 contenitori di plastica con coperchi ermetici; • 2 spugne gialle rettangolari; • 2 corde galleggianti non sintetiche di lunghezza non inferiore a 30 metri; • 2 corde sintetiche galleggianti, di 50 metri l'una; • 2 set da pesca completi di ami, lenze e piombi; • 2 crocchi con ganci acuminati; • 2 ancore; • 2 accette; • 2 raccoglitori per l'acqua piovana; • 2 penne a sfera con inchiostro nero; • 1 rete da carico di nylon; • 1 salvagente robusto con diametro interno di 40 centimetri e diametro

esterno di 80 centimetri, provvisto di fune; • 1 grosso coltello da caccia con manico massiccio e punta affilata, munito di

lama liscia da un lato e seghettata dall'altro, appeso a un gancio del ripostiglio con una corda molto lunga;

• 1 set da cucito con aghi dritti e ricurvi, più filo bianco resistente; • 1 cassetta di pronto soccorso con contenitore di plastica impermeabile; • 1 specchio per segnalazioni; • 1 pacchetto di sigarette cinesi con filtro; • 1 grossa stecca di cioccolata fondente; • 1 manuale di sopravvivenza; • 1 bussola; • 1 quaderno a righe di novantotto pagine; • 1 ragazzo in abbigliamento leggero e senza una scarpa; • 1 iena maculata; • 1 tigre del Bengala; • 1 scialuppa di salvataggio; • 1 oceano; • 1 Dio.

Mangiai un quarto della stecca di cioccolata. Studiai uno dei raccoglitori per l'acqua piovana. Era un dispositivo simile a un ombrello rivoltato, con una grossa sacca per raccogliere l'acqua e un tubo di collegamento in gomma. Incrociai le

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braccia sul salvagente che portavo alla vita, abbassai la testa e scivolai in un sonno profondo.

CAPITOLO 53

Dormii tutta la mattina. Fu l'angoscia a svegliarmi. La robusta dose di cibo, acqua e riposo che aveva rinvigorito il mio organismo aveva dato allo spirito la lucidità necessaria a constatare la drammaticità della mia situazione. Aprii gli occhi su una realtà di nome Richard Parker. C'era una tigre sulla scialuppa. Per quanto continuasse a sembrarmi incredibile era proprio così. E io dovevo salvarmi.

Presi in considerazione l'idea di tuffarmi in mare e di allontanarmi a nuoto, ma il mio corpo si rifiutò di obbedire. Mi trovavo a centinaia di chilometri dalla terraferma, se non a migliaia. Non potevo coprire una simile distanza a nuoto, nemmeno con un salvagente. Cosa avrei mangiato? Cosa avrei bevuto? Come avrei fatto a tenere lontani gli squali? Come mi sarei scaldato? Come avrei stabilito la direzione da prendere? Non c'era il minimo dubbio: lasciare la scialuppa equivaleva a morire. E se fossi rimasto a bordo? Si sarebbe avvicinato come fanno sempre i felini: senza il minimo rumore. Prima che potessi accorgermene, mi avrebbe afferrato alla nuca o alla gola e mi avrebbe trafitto con le sue zanne. Non sarei riuscito ad aprir bocca. La linfa vitale mi avrebbe abbandonato senza che potessi pronunciare le mie ultime parole. O forse mi avrebbe ucciso con una zampata, spezzandomi il collo.

«Morirò» piagnucolai con labbra tremanti.La certezza della morte imminente è di per sé terribile, ma lo è ancora di più

quando ti resta il tempo di contemplare la felicità che ti è toccata e quella che avresti potuto avere. Davanti ai tuoi occhi sfila tutto ciò che stai per perdere. La visione suscita una tristezza così opprimente che l'auto che sta per investirti o l'acqua che sta per sommergerti a un tratto diventano irrilevanti. La sensazione è insopportabile. Le parole Papà, Mamma, Ravi, India, Winnipeg mi colpirono con un'intensità sconvolgente.

Stavo per mollare. Mi sarei arreso se non avessi ascoltato la voce che si levò dal mio cuore. La voce disse: "Non morirò. Mi rifiuto. Supererò quest'incubo. Vincerò la sfida, per quanto grande essa sia. Se fino a questo momento sono sopravvissuto per miracolo, adesso trasformerò il miracolo in abitudine. Tutti i giorni si compirà l'incredibile. Lotterò con tutte le mie forze. Sì, finché Dio è con me, non morirò. Amen".

Il mio viso era una maschera di serietà e determinazione. Non voglio peccare di immodestia, ma in quel momento scoprii di avere una feroce volontà di vivere. Non è una cosa scontata, almeno nella mia esperienza. Alcuni rinunciano alla vita con un sospiro rassegnato. Altri combattono un po', quindi perdono le speranze. Altri ancora - e io sono uno di questi - non si arrendono mai.

Combattiamo all'infinito. Combattiamo senza curarci di quanto ci costa, delle sconfitte che incassiamo, dell'improbabilità del successo. Combattiamo fino all'ultimo respiro. Non è una questione di coraggio. L'incapacità di arrendersi è un

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dato caratteriale. Forse è semplicemente stupida fame di vita.In quell'istante Richard Parker cominciò a emettere un sordo brontolio, come se

avvertisse che finalmente ero un avversario degno della sua considerazione. Il petto mi si contrasse per la paura.

"Datti una mossa" mi dissi, quasi senza respiro. Se volevo sopravvivere, dovevo organizzarmi. Non c'era un attimo da perdere. Per prima cosa, trovare un rifugio. Pensai all'aggiunta che avevo fatto alla prua. Ma ormai avevo spostato l'incerata, e se anche avessi trovato un altro modo di tenere fermo il remo, niente mi garantiva che appollaiato lassù sarei stato al sicuro. Richard Parker avrebbe potuto raggiungermi e agguantarmi senza difficoltà. La mia mente turbinava in cerca di un'alternativa.

Una zattera! Mi sarei costruito una zattera. I remi, come ricorderete, galleggiavano. In più c'erano i giubbotti di salvataggio e un salvagente robusto.

Col fiato sospeso, chiusi il ripostiglio e mi allungai per prendere i remi dalle panche laterali. La tigre se ne accorse. Riuscivo a vederla in mezzo ai giubbotti di salvataggio. Mentre recuperavo i remi - con estrema cautela, come si può immaginare - Richard Parker si mosse. Ma non si girò.

Avevo tre remi. Il quarto giaceva di traverso sull'incerata. Sollevai il coperchio del ripostiglio per bloccare il varco sulla tana di Richard Parker.

Disposi i quattro remi sull'incerata, attorno al salvagente, incorniciandolo. La mia zattera assomigliava a una partita di tris, con una grande "O" al centro come prima mossa.

Ora veniva la parte più pericolosa. Mi servivano i giubbotti di salvataggio. Il brontolio di Richard Parker era già un rombo profondo, che scuoteva l'aria. La iena rispose con un guaito, un gemito tremulo e stridulo che preannunciava guai.

Dovevo sbrigarmi. Richiusi il coperchio. I giubbotti di salvataggio erano a portata di mano, alcuni appoggiati direttamente sul corpo di Richard Parker. La iena lanciò uno dei suoi terribili ghigni.

Allungai il braccio per prendere il primo giubbotto. Non era un'impresa facile, con la mano che mi tremava furiosamente. Lo afferrai. Richard Parker non se ne curò. Ne presi un altro. E un altro ancora. Stavo per perdere i sensi dalla paura. In caso di pericolo, mi dissi per rincuorarmi, mi sarei buttato in mare con i giubbotti. Ne agguantai un quarto.

Infilai i remi, uno dopo l'altro, nelle maniche dei giubbotti, in modo da fissarli ai quattro angoli della zattera. Poi allacciai i giubbotti ben stretti.

Pescai nel ripostiglio una fune galleggiante. La tagliai in quattro con il coltello e legai i quattro remi nei punti in cui si incrociavano. Ah, perché a scuola nessuno mi aveva insegnato a fare i nodi? Ne feci dieci in ogni angolo, ma temevo che non reggessero. Lavorai febbrilmente, maledicendo la mia stupidità. Con una tigre a bordo, avevo aspettato tre giorni prima di pensare a mettermi in salvo!

Tagliai altri quattro pezzi di corda per assicurare il salvagente a ciascun remo. Feci passare la fune del salvagente attraverso i giubbotti di salvataggio, intorno ai remi, dentro e fuori dal salvagente, tutt'intorno alla zattera, come ulteriore precauzione per impedire che andasse in pezzi.

Gli strilli della iena erano insopportabilmente acuti.

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Un'ultima cosa da fare. «Dio, concedimi il tempo» implorai. Presi il resto della fune galleggiante. Sul dritto di prora, vicino alla punta, c'era un foro. Ci infilai la fune e la legai ben stretta. Non rimaneva che fissare l'altra estremità della fune alla zattera, poi sarei stato salvo.

La iena si zittì. Il mio cuore si arrestò, prima di cominciare a pompare a velocità triplicata. Mi voltai.

«Gesù, Maria, Maometto e Vishnu!»Non potrò mai scordare la scena che si offrì ai miei occhi. Richard Parker si era

alzato ed era emerso dal suo nascondiglio. Si trovava a meno di cinque metri da me. Era enorme! La fine della iena era vicina. E anche la mia. Rimasi dov'ero, impietrito, completamente rapito dall'azione che si svolgeva di fronte a me. La mia breve esperienza in fatto di animali selvatici a bordo di una scialuppa, mi induceva a pensare che il momento del massacro sarebbe stato accompagnato da grande strepito e versi furibondi. Invece successe quasi in silenzio. La iena si arrese senza un guaito né un mugolio, e Richard Parker l'ammazzò senza il minimo rumore. Il fiammeggiante carnivoro era sbucato da sotto l'incerata e aveva raggiunto la sua vittima. La iena era appoggiata al sedile di poppa, dietro la carcassa della zebra. Non iniziò neppure a combattere. Si rannicchiò a terra e alzò la zampa anteriore in un vano gesto di difesa. Nei suoi occhi, uno sguardo di terrore. Una zampa enorme si posò sulle sue spalle. Le fauci di Richard Parker si chiusero intorno al suo collo, e la iena sbarrò gli occhi. Si udì lo scricchiolio della trachea e della colonna vertebrale. La iena ebbe un fremito. I suoi occhi si spensero. Era finita.

Richard Parker mollò la presa ed emise un brontolio sommesso, riservato e poco convinto. Ansimava, la lingua penzoloni. Si leccò i baffi, scosse la testa, annusò la iena morta, poi alzò la testa e odorò l'aria. Quindi appoggiò le zampe anteriori sul sedile di poppa e si sollevò, con le zampe posteriori divaricate. Si capiva che il rollio della barca, per quanto leggero, lo disturbava. Guardò verso il mare. Con un verso cupo e minaccioso tornò a puntare il naso per aria. Girò lentamente la testa finché non mi guardò dritto negli occhi.

Vedevo Richard Parker dall'angolatura più spettacolare: era di schiena, con il corpo mezzo sollevato, e la testa girata. La sua sembrava una posa, come una dimostrazione intenzionale, persino affettata, di bellezza e potenza. Era imponente, eppure soffuso di un'agile grazia. Era incredibilmente muscoloso, sebbene le anche fossero sottili e il manto lucente avvolgesse comodamente la sua mole. Il corpo, di una bellezza impareggiabile, era di un vivace arancione scuro striato di nero, abbinato - con una finezza degna del miglior sarto - al bianco purissimo del torace e della parte inferiore del corpo, e agli anelli neri sulla lunga coda. La testa, grande e rotonda, esibiva un paio di formidabili basette, un elegante pizzetto e alcuni fra i più raffinati baffi del mondo felino: spessi, lunghi e bianchi. In cima alla testa, le piccole orecchie espressive disegnavano due archi perfetti. Il muso color carota, con al centro il bel naso rosa, era sapientemente truccato. Tocchi ondulati di nero incorniciavano la faccia in un motivo appariscente ma delicato, che attirava l'attenzione non tanto su di sé quanto sull'unica parte del viso che non ne era ricoperta: il naso, la cui lucentezza rosso mattone splendeva quasi radiosa. Le

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chiazze di bianco sopra gli occhi, sulle guance e intorno alla bocca contribuivano all'effetto finale, degno di un ballerino di Kathakali: un volto simile a due ali di farfalla, dall'espressione vagamente antica e cinese. Ma quando gli occhi d'ambra di Richard Parker incontrarono i miei, il suo sguardo non era leggero o amichevole, ma intenso, freddo e immobile, pieno di una padronanza di sé pronta a convertirsi in rabbia. Le orecchie si contrassero e girarono su se stesse. Il labbro superiore cominciò a sollevarsi e abbassarsi, rivelando un canino giallo lungo quanto il mio dito medio.

Ogni pelo del mio corpo era ritto per la paura.E a quel punto comparve il ratto. Come sbucato dal nulla, magrolino e marrone, si

materializzò sulla panca laterale, nervoso e senza fiato. Richard Parker era stupito quanto me. Il ratto saltò sull'incerata e si precipitò nella mia direzione. A quella vista le mie gambe cedettero per la paura e la sorpresa e scivolai nella botola. Sotto i miei occhi increduli il roditore saltellò sulla zattera, poi si lanciò su di me e si arrampicò fin sulla mia testa. I suoi piccoli artigli si aggrappavano al mio scalpo con la forza della disperazione.

Richard Parker aveva seguito la bestiola con lo sguardo. Adesso fissava la mia testa.

Alla rotazione del capo fece seguire quella del corpo, spostando le zampe anteriori lungo la panca laterale. Poi atterrò sul fondo della scialuppa, disinvolto e possente in ogni mossa. Scorgevo la sommità della sua testa, la schiena e la lunga coda arricciata. Aveva le orecchie appiattite contro il cranio. Con tre passi raggiunse il centro della scialuppa. Senza sforzo sollevò metà del corpo e posò le zampe anteriori sul bordo arrotolato dell'incerata.

Ci separavano tre metri scarsi. La testa, il torace, le zampe di Richard Parker erano così grandi! E quei denti: un intero battaglione in assetto da guerra. Stava per saltare sull'incerata. E io stavo per morire.

Ma la scarsa resistenza offerta dall'incerata lo infastidì. La palpeggiò per alcuni secondi, incerto. Sollevò uno sguardo inquieto: quella posizione così esposta e in piena luce non gli andava a genio. E il rollio della barca peggiorava le cose. Richard Parker ebbe un attimo di esitazione.

Afferrai il ratto e lo gettai verso di lui. Nella mia mente riesco ancora a vederlo mentre veleggia verso la morte con gli artigli all'infuori e la coda eretta, la sagoma minuscola e allungata dello scroto e l'ano grande quanto una punta di spillo.

Richard Parker spalancò la bocca e il ratto scomparì all'interno squittendo, come una palla da baseball nel guantone del ricevitore. La coda liscia fu risucchiata come uno spaghetto.

Sembrava che la tigre avesse gradito la mia offerta. Indietreggiò e ritornò sotto l'incerata. Ripresi il controllo delle mie gambe. Il coperchio del ripostiglio sbarrava il varco fra sedile di prua e incerata.

Udii Richard Parker annusare qualcosa e il rumore di un corpo che veniva trascinato. La scialuppa oscillò leggermente. I denti del felino si misero al lavoro. Sbirciai sotto l'incerata. Si era sistemato al centro della barca. Divorava la iena a grossi bocconi, con avidità. Un'opportunità del genere non si sarebbe ripetuta.

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Rapido recuperai gli altri giubbotti di salvataggio, sei in tutto, e l'ultimo remo. Li avrei usati per rendere più stabile la zattera. Una zaffata maleodorante mi punse le narici. Non era l'odore acido della pipì di un felino. Era vomito. C'era una chiazza di vomito sul fondo della scialuppa. Allora era vero: Richard Parker soffriva il mal di mare.

Legai la lunga fune alla zattera; adesso la scialuppa e la zattera erano collegate. Presi quattro dei giubbotti di salvataggio supplementari e li fissai sotto la zattera, uno per lato. Un altro lo sistemai al centro del salvagente in modo che fungesse da sedile. Trasformai l'ultimo remo in un poggiapiedi, assicurandolo con la fune a mezzo metro dal salvagente. Poi ci legai l'ultimo giubbotto. Lavoravo con le dita tremanti e il respiro corto. Controllai e ricontrollai tutti i nodi.

Guardai il mare. Onde basse e senza cresta. Il vento era lieve e costante. Vidi alcuni grossi pesci, con la fronte sporgente e lunghissime pinne dorsali - i dorado, così si chiamano - e pesci più piccoli, snelli e lunghi, che non conoscevo. E altri ancora più piccoli. Poi c'erano gli squali.

Con cautela calai la zattera in mare. Se per qualche motivo non avesse funzionato, per me sarebbe stata la fine. Vidi che galleggiava splendidamente. L'efficacia dei giubbotti fissati sul fondo era tale che remi e salvagente rimasero completamente all'asciutto. Ma il mio cuore affondò. Non appena la zattera aveva toccato l'acqua, i pesci si erano dispersi tutti, tranne gli squali. Ce n'erano tre o quattro. Uno nuotava proprio sotto la zattera. Richard Parker ruggì.

Mi sentivo come il prigioniero di uno spietato pirata sul punto di essere spinto tra i flutti.

Avvicinai il più possibile la zattera alla scialuppa, per quanto le estremità sporgenti dei remi rendessero l'operazione difficile. Appoggiai le mani sul salvagente. Attraverso gli spiragli sul fondo - veri e propri crepacci, per la verità - vedevo gli abissi insondabili dell'oceano. Quando Richard Parker lanciò un nuovo ruggito mi tuffai sulla zattera. Ero a pancia in giù con le gambe divaricate, immobile. Mi aspettavo che la zattera si capovolgesse da un momento all'altro. O che uno squalo vi si scagliasse contro e azzannasse remi e giubbotti di salvataggio. Non accadde nulla del genere. La mia imbarcazione di fortuna beccheggiò, le punte dei remi si immersero per effetto del mio peso e gli squali si avvicinarono, ma senza toccarla.

Avvertii uno strattone e la zattera girò su se stessa. Sollevai la testa e vidi che si era allontanata dalla scialuppa per tutta la lunghezza della fune, tesa sopra il livello dell'acqua, dodici metri abbondanti. A un tratto mi sentii molto depresso. Ero fuggito dalla scialuppa per salvarmi la pelle, ma adesso volevo tornarci. La zattera era una soluzione troppo precaria. Bastava che uno squalo spezzasse la fune a morsi, che un nodo si allentasse, che un'onda s'infrangesse su di me, e sarebbe stata la fine. In confronto, la scialuppa ora mi sembrava il massimo della comodità e della sicurezza.

Piano piano mi voltai e mi misi a sedere. Per il momento quel patetico assemblaggio di remi e giubbotti sembrava abbastanza stabile. Il poggiapiedi faceva il suo dovere. Ma era tutto troppo piccolo, appena sufficiente a contenermi. Era una zattera-giocattolo, una mini-zattera, una micro-zattera buona al massimo per un

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laghetto, non certo per l'Oceano Pacifico. Afferrai la fune e tirai. Più mi avvicinavo alla scialuppa, più tiravo lentamente. Quando mi ritrovai accanto alla barca, sentii che Richard Parker stava ancora mangiando.

Rimasi sulla zattera. Non vedevo altra soluzione. Le mie possibilità erano limitate: potevo scegliere se appollaiarmi sopra la tigre oppure sopra gli squali. Sapevo fin troppo bene quanto fosse pericoloso Richard Parker. Gli squali, invece, dovevano ancora dar prova della loro pericolosità. Controllai i nodi che fissavano la fune rispettivamente alla scialuppa e alla zattera. Poi lasciai andare la fune e mi allontanai di una decina di metri. A quella distanza le mie due paure si bilanciavano: non ero troppo vicino a Richard Parker, ma neppure troppo lontano dalla scialuppa. Avvolsi il resto della fune, circa tre metri, attorno al remo poggiapiedi. In caso di bisogno, avrei potuto srotolarla facilmente.

La giornata volgeva al termine. Iniziò a piovere. Era stato caldo e nuvoloso per tutto il giorno. Ma ora la temperatura si era abbassata, e la pioggia battente era gelida. Intorno a me, goccioloni di acqua dolce cadevano in mare rumorosi, increspandone la superficie. Che spreco! Tirai di nuovo la fune. Quando fui vicino alla barca, mi inginocchiai aggrappandomi al dritto di prora. Mi tirai su e lanciai un'occhiata all'interno. Non lo vidi.

Frettolosamente, cacciai il braccio nel ripostiglio. Presi uno dei raccoglitori di acqua piovana, una sacca di plastica da cinquanta litri, una coperta e il manuale di sopravvivenza. Chiusi il ripostiglio. Non avevo intenzione di sbattere lo sportello, volevo solo proteggere i miei beni preziosi dalla pioggia, ma la maniglia mi sfuggì dalla mano bagnata. Fu un grave errore. Proprio quando stavo per mostrarmi a Richard Parker - abbassando lo sportello che gli impediva di vedermi - quel fracasso attirò la sua attenzione. Chino sulla iena, girò svelto la testa. Molti animali detestano essere disturbati mentre mangiano. Richard Parker soffiò e irrigidì gli artigli. La punta della coda si contrasse nervosa. Indietreggiai e mi buttai sulla zattera, che, per il terrore più ancora che per il vento e la corrente, in un baleno si allontanò dalla scialuppa. Feci scorrere la fune per tutta la lunghezza. Mi aspettavo che Richard Parker spiccasse un salto, librandosi in aria con denti e artigli pronti ad afferrarmi. Tenni lo sguardo fisso sulla scialuppa. Più la guardavo, più l'attesa si faceva snervante.

Non comparve.Quando aprii il raccoglitore di acqua piovana sulla testa e infilai i piedi nella borsa

di plastica, ero ormai fradicio. Anche la coperta si era bagnata, ma mi ci avvolsi ugualmente.

Lentamente scese la notte. Tutto quello che mi circondava fu inghiottito dall'oscurità più nera. I guizzi della fune che strattonava la mia imbarcazione di fortuna erano l'unico segno del fatto che ero ancora attaccato alla scialuppa. Il mare, pochi centimetri sotto di me eppure invisibile, schiaffeggiava la zattera. Sottili dita d'acqua s'infilavano furtive nei suoi interstizi bagnandomi il sedere.

CAPITOLO 54

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Piovve per tutta la notte. Una notte terribile e insonne. Rumorosa. La pioggia tamburellava sul raccoglitore di acqua piovana, e intorno a me udivo un sibilo provenire dalle tenebre: era come trovarsi in una grossa tana di serpenti inferociti. Quando il vento cambiava, anche la direzione della pioggia cambiava e così le parti del mio corpo che cominciavano ad asciugarsi si bagnavano daccapo. Spostavo il raccoglitore di acqua piovana e dopo pochi minuti scoprivo con immensa afflizione che il vento era di nuovo cambiato. Cercai di mantenere asciutta e calda una piccola parte del mio corpo, quella intorno al petto, dove tenevo il manuale di sopravvivenza; ma la pioggia riuscì ad arrivare persino là, con una determinazione perversa.

Passai la notte intera scosso da brividi di freddo. Ero ossessionato dal pensiero che la zattera potesse spaccarsi, che i nodi che mi tenevano legato alla scialuppa si allentassero, che uno squalo mi attaccasse. Controllavo incessantemente nodi e legature, tastandoli con le mani, come un cieco legge il Braille.

La pioggia si intensificò e il mare divenne più agitato man mano che la notte avanzava. La fune legata alla scialuppa sopportava strattoni sempre più forti, e il dondolio divenne violento e irregolare. La zattera continuava a galleggiare e seguiva il moto delle onde, ma ormai era completamente immersa in acqua e le onde che la sovrastavano mi travolgevano come un fiume travolge un sasso. Il mare era più caldo della pioggia, ma per tutta la notte nemmeno un angolino del mio corpo rimase asciutto.

Almeno riuscii a bere. Non avevo molta sete, ma mi sforzai di bere. Il raccoglitore d'acqua assomigliava a un ombrello rovesciato. La pioggia si raccoglieva al centro del raccoglitore, dove c'era un buco che un tubo di gomma collegava a una sacca di plastica spessa e trasparente. All'inizio l'acqua sapeva di gomma, ma la pioggia sciacquò velocemente il raccoglitore e in breve il sapore divenne gradevole. Durante quelle lunghe ore, fredde e buie, mentre l'invisibile ticchettio della pioggia diventava sempre più assordante e il mare sibilava e si contorceva intorno a me percuotendomi, mi aggrappai a un unico pensiero: Richard Parker. Architettai diversi piani per liberarmi di lui e prendere così pieno possesso della scialuppa.

Piano numero uno: buttarlo fuori dalla scialuppa.A cosa sarebbe servito? Anche se fossi riuscito a spingere un animale di più di

duecento chili, vivo e feroce, fuori dalla scialuppa, non avrei risolto nulla: le tigri sono esperte nuotatrici. Si racconta che nella zona di Sundarbans arrivino a percorrere fino a otto chilometri in acque aperte e agitate.

Se Richard Parker si fosse ritrovato di colpo in mare, si sarebbe semplicemente messo a nuotare, quindi si sarebbe arrampicato sulla scialuppa e mi avrebbe fatto pagare caro il mio tradimento.

Piano numero due: ammazzarlo con le sei fiale di morfina.Ma non avevo la minima idea di che effetto avrebbero avuto su di lui. Erano

sufficienti a ucciderlo? E come avrei fatto a iniettargliela? Potevo anche concepire di riuscire a sorprenderlo, per una volta, per un attimo, come era stata sorpresa sua madre quando l'avevano catturata. Ma così a lungo da iniettargli sei siringhe, una

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dietro l'altra? Impossibile. Alla prima puntura mi avrebbe risposto con una carezza. Una carezza che mi avrebbe staccato la testa.

Piano numero tre: attaccarlo con tutte le armi a mia disposizione.Assurdo. Non ero mica Tarzan. Ero una forma di vita debole, gracile e

vegetariana. In India davano la caccia alle tigri in groppa a grossi elefanti e con potenti fucili in spalla. Cosa potevo fare io? Sparargli un razzo di segnalazione in faccia? Attaccarlo con l'accetta in mano e il coltello fra i denti? Finirlo con gli aghi da cucito, quelli ricurvi e dritti? Riuscire a graffiarlo sarebbe già stata un'impresa. E in cambio lui mi avrebbe fatto a pezzi, un arto dopo l'altro, un organo dopo l'altro. Esiste solo una cosa più pericolosa di un animale in perfetta salute: un animale ferito.

Piano numero quattro: strangolarlo.Avevo la fune. Da prua, potevo far passare la corda attorno alla poppa e stringerla

in un cappio attorno al collo di Richard Parker. Se lui si fosse avvicinato per afferrarmi, avrei tirato il cappio. E allora, proprio quando stava per prendermi, sarebbe morto strangolato. Un perfetto piano suicida.

Piano numero cinque: avvelenarlo, dargli fuoco, folgorarlo.Come? Con che cosa?Piano numero sei: scatenare una guerra allo sfinimento.Dovevo solo lasciare che le inesorabili leggi della natura seguissero il loro corso e

mi sarei salvato. Aspettare che deperisse fino a morire non richiedeva nessuno sforzo da parte mia. Avevo provviste sufficienti per i prossimi mesi. E lui invece? Solo un paio di animali morti che presto si sarebbero putrefatti. E poi, cosa avrebbe mangiato? E soprattutto: dove avrebbe trovato l'acqua?

Poteva sopravvivere per settimane senza cibo, ma nessun animale, per quanto possente, può stare senza bere per un periodo di tempo prolungato.

Un minuscolo bagliore di speranza si accese dentro di me, come una candela nella notte. Avevo un piano, non era male. Dovevo solo sopravvivere per metterlo in atto.

CAPITOLO 55

Venne l'alba e la mia situazione peggiorò. Ero emerso dalle tenebre e riuscivo a vedere quello che prima potevo solo sentire: enormi cortine di pioggia mi si riversavano addosso da altezze vertiginose mentre le onde, una dopo l'altra si abbattevano su di me calpestandomi.

Tremante e intorpidito, continuai ad aspettare, lo sguardo spento, una mano stretta intorno al raccoglitore d'acqua piovana e l'altra aggrappata alla zattera.

Poi smise di piovere, e all'improvviso cadde il silenzio, un silenzio assoluto. Il cielo si aprì e le onde parvero dileguarsi insieme alle nuvole.

Fu un cambiamento stranamente rapido e radicale, come passare da un paese all'altro. Galleggiavo su un mare del tutto diverso. In cielo il sole era rimasto solo, e l'oceano era una pelle liscia che rifletteva la luce con un milione di specchi.

Mi sentivo teso, indolenzito ed esausto; riuscivo a malapena ad apprezzare il fatto di essere ancora vivo. Le parole "Piano numero sei, piano numero sei, piano numero

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sei" echeggiavano nella mia mente come un mantra e mi davano un po' di conforto, benché non riuscissi minimamente a ricordare in che cosa consistesse il piano numero sei. Cominciai a sentire il calore del sole. Chiusi il raccoglitore. Mi avvolsi nella coperta raggomitolandomi su un fianco, in modo che nessuna parte del mio corpo fosse a contatto con l'acqua. Mi addormentai. Non so per quanto tempo dormii. Quando mi svegliai era mattino inoltrato, e faceva caldo. La coperta era quasi asciutta. Mi sollevai, appoggiandomi su un gomito.

Intorno a me tutto era piatto e infinito, un panorama blu senza fine. Non c'era niente che ostacolasse la mia vista. L'immensità mi colpì come un pugno allo stomaco. Mi abbandonai all'indietro, senza fiato. Quella zattera era uno scherzo. Nient'altro che qualche asse di legno e un po' di sughero tenuti insieme da una corda. L'acqua penetrava da ogni fessura. L'abisso sotto di me avrebbe fatto venire le vertigini a un uccello. Diedi un'occhiata alla scialuppa. Non era tanto diversa da un mezzo guscio di noce. Si teneva a galla come le dita di un uomo si aggrappano all'orlo di un burrone. Era solo una questione di tempo, e la gravità l'avrebbe tirata giù.

A un tratto spuntò il mio compagno di naufragio. Si sollevò sul capo di banda e guardò verso di me. L'apparizione improvvisa di una tigre è sempre sensazionale, figuriamoci in quella situazione. Il bizzarro contrasto fra l'arancione del suo bel manto vivo e il bianco inerte dello scafo aveva qualcosa di magnetico. Alt! I miei sensi sovreccitati frenarono bruscamente. A un tratto il Pacifico - così vasto attorno a noi - mi parve un fossato troppo stretto, senza mura né sbarre.

"Piano numero sei, piano numero sei, piano numero sei" sussurrava frenetica la mia mente. Ma qual era il piano numero sei? Ah, sì. Vittoria per sfinimento. Il gioco dell'attesa. Passività. Le leggi inesorabili della natura. La marcia crudele e inarrestabile del tempo. Ecco il piano numero sei.

Un grido mi risuonò nel cervello: "Imbecille! Stupido! Babbuino senza cervello! Il piano numero sei è il peggiore di tutti! Adesso Richard Parker è terrorizzato dal mare, che ha rischiato di diventare la sua tomba. Ma quando impazzirà per la fame e la sete, supererà la paura e farà di tutto pur di soddisfare i suoi bisogni.

Il fossato diventerà un ponte, la zattera la sua dispensa personale. E quanto all'acqua... Hai forse dimenticato che le tigri di Sundarbans sono famose perché bevono acqua salata? Pensi veramente di poter resistere più a lungo dei suoi reni? Se dai il via a una guerra di logoramento, sarai tu a perderla! Morirai! È CHIARO?"

CAPITOLO 56

Voglio dire due parole sulla paura. È lei l'unico vero avversario. Solo la paura può sconfiggere la vita. È un'avversaria intelligente e perfida, io lo so bene. Non ha dignità, non rispetta leggi né regole, non ha pietà. Cerca i tuoi punti deboli, e li scova con facilità. Comincia dalla mente, sempre. Fino a un attimo prima sei calmo, controllato, felice. Poi la paura, travestita da piccolo dubbio innocente, si intrufola nella tua mente come una spia. Il dubbio incontra lo scetticismo, che prova a buttarlo

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fuori. Ma lo scetticismo è un soldato di fanteria con poche risorse. Il dubbio se ne sbarazza facilmente. Diventi inquieto. Entra in campo la ragione. Sei rassicurato: la ragione possiede le armi tecnologiche più avanzate. Ma, con tua grande sorpresa, nonostante la sua superiorità tattica e una serie di vittorie inconfutabili, la ragione viene messa al tappeto. Ti senti vulnerabile, impotente. L'angoscia si trasforma in terrore.

Poi la paura invade completamente il corpo, il quale, nel frattempo, ha subodorato che qualcosa non va. I polmoni volano via come uccelli e il fegato se la squaglia quatto come un serpente. La lingua stramazza stecchita come un opossum, le mandibole cominciano a galoppare sul posto. Le orecchie diventano sorde. I muscoli sono scossi da brividi quasi fossero in preda alla malaria, e le ginocchia si sciolgono come burro. Il cuore è troppo teso, lo sfintere troppo rilassato. Solo gli occhi funzionano bene. Prestano sempre la dovuta attenzione alla paura.

Ti affretti a prendere decisioni avventate. Liquidi i tuoi ultimi alleati: la speranza e la fiducia. Ecco che ti sei sconfitto da solo. La paura - un semplice sentimento - ha trionfato.

È difficile da spiegare. La paura, la vera paura, quella che ti scuote fino alle ossa, quella che provi quando sei a faccia a faccia con la morte, si annida nella tua memoria come una cancrena: minaccia di far marcire tutto, anche le parole per esprimerla. Dunque devi sforzarti di parlarne. Se non lo fai, se la paura diventa un'oscurità inespressa che cerchi di evitare e che forse riesci persino a dimenticare, ti esponi ai suoi attacchi futuri. Perché hai lasciato che ti colonizzasse.

CAPITOLO 57

Fu Richard Parker a calmarmi. Ironico, no? proprio colui che mi spaventava a morte era anche la mia fonte di pace, di motivazione e, oserei dire, d'integrità.

Mi osservava attentamente. Dopo un po' riconobbi quello sguardo. Ci ero cresciuto con quello sguardo. Era l'espressione di un animale soddisfatto che guarda fuori dalla gabbia o dal recinto, proprio come noi alzeremmo lo sguardo dal tavolo di un ristorante dopo un buon pranzo, quando è giunto il momento di conversare e guardarci intorno. Evidentemente Richard Parker si era saziato con la iena e dissetato con l'acqua piovana. Le labbra erano immobili, non mostrava i denti, non emetteva versi allarmanti. Si limitava a guardarmi con occhi seri ma non minacciosi. Ogni tanto muoveva la testa, oppure le orecchie. Assomigliava a un gatto. Un grosso, grasso, amabile gatto domestico, un innocuo tigrato di più di duecento chili.

Sbuffò dalle narici. Drizzai le orecchie. Ripetè il verso. Ero sbalordito. Prusten?Le tigri si esprimono attraverso una varietà di ruggiti, il più fragoroso dei quali è

probabilmente il potente aaonh a cui maschi e femmine in calore ricorrono soprattutto durante la stagione degli accoppiamenti. È un richiamo udibile a grandi distanze e se lo ascoltate da vicino rimanete pietrificati. Poi c'è il woof delle tigri colte di sorpresa: un concentrato di furia secca e penetrante come lo scoppio di una bomba. Quando attaccano, i ruggiti sono gutturali e rauchi. Il brontolio rabbioso che

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usano a scopo di minaccia ha un timbro ancora diverso. Le tigri ringhiano e soffiano: a seconda dello stato d'animo, questi versi ricordano il fruscio delle foglie d'autunno - solo più energico - oppure un'enorme porta dai cardini arrugginiti che si apre lentamente. In entrambi i casi l'effetto è agghiacciante. Le tigri gemono e grugniscono; fanno perfino le fusa, anche se più raramente dei gatti e soltanto espirando. (Solo i gatti fanno le fusa anche inspirando. È una delle caratteristiche che li differenzia dai grossi felini, i quali d'altra parte sono gli unici a ruggire. Meglio così. Se Kitty, Pussy e compagnia potessero manifestare il loro disappunto con un sacrosanto ruggito, la popolarità del gatto domestico calerebbe vertiginosamente.) Le tigri fanno persino miao, con un'inflessione simile a quella dei gatti, ma più sonora e dalla tonalità più profonda, che non invoglia certo a chinarsi e prenderle in braccio. E le tigri possono anche stare in silenzio, un silenzio totale e maestoso.

Avevo sentito tutti questi versi durante la mia infanzia. Ma non il prusten. Se ero al corrente della sua esistenza, era perché papà me ne aveva parlato. Ne aveva letto la descrizione nella letteratura zoologica. Ma l'aveva sentito solo una volta, durante una visita allo zoo di Mysore, nell'ospedale degli animali, da un giovane esemplare maschio con la polmonite.

Il prusten è il più pacato fra i versi della tigre, uno sbuffo dal naso che esprime cordialità e intenzioni pacifiche.

Richard Parker lo fece un'altra volta, accompagnandolo con un lieve movimento del capo. Chiunque, guardandolo, avrebbe giurato che mi stesse domandando qualcosa.

Gli restituii lo sguardo, pieno di riverente stupore. Siccome nell'aria non c'era nessuna minaccia imminente, il mio respirò si calmò e il mio cuore rallentò.

Dovevo domarlo. Fu in quel momento che me ne resi conto. Non era una questione di me o lui, ma di me e lui. Eravamo, letteralmente e metaforicamente, sulla stessa barca. Saremmo vissuti - o morti - insieme. Avrebbe potuto essere ucciso in un incidente, oppure spegnersi naturalmente, ma era stupido far conto su eventualità del genere. Molto più probabilmente sarebbe accaduto il peggio: il passare del tempo avrebbe fornito la prova della sua superiorità. Solo domandolo avrei potuto sperare di ingannarlo, facendo in modo che morisse per primo... se si doveva arrivare a questa triste eventualità.

Ma c'era dell'altro. Sarò sincero: una parte di me era contenta della presenza di Richard Parker. Una parte di me non voleva assolutamente che Richard Parker morisse, perché allora sarei rimasto solo con la mia disperazione, nemico ancora più temibile di una tigre. Era Richard Parker a darmi la volontà di vivere. Impedendomi di pensare continuamente alla mia famiglia e alla mia tragica situazione, mi spingeva ad andare avanti. Lo odiavo per questo, ma allo stesso tempo gliene ero grato. Gli sono grato. È la pura verità: senza Richard Parker, non sarei qui a raccontare la mia storia.

Osservai l'orizzonte. Non era forse un'immensa, perfetta pista da circo, ineluttabilmente tonda, senza l'ombra di un angolo dove nascondersi? Guardai il mare. Non era forse una fonte ideale di leccornie con le quali ricompensare la sua obbedienza? Un fischietto pendeva da uno dei giubbotti di salvataggio. Un'ottima

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frusta con cui tenerlo in riga. Cosa mi mancava per domare Richard Parker? Tempo? Potevano passare settimane prima che una nave ci avvistasse. Avevo tutto il tempo possibile e immaginabile. Determinazione? La necessità assoluta è la madre della determinazione. Conoscenze? Non per niente ero figlio di un direttore di zoo. Ricompensa? Esiste ricompensa più grande della vita? O una punizione peggiore della morte? Guardai Richard Parker. Il panico era svanito. La paura era domata. La sopravvivenza era a portata di mano.

Squillino le trombe! Rullino i tamburi! Che lo spettacolo abbia inizio! Mi alzai in piedi. Richard Parker ne prese atto. Non era facile stare in equilibrio. Inspirai profondamente e urlai: «Signore e signori, bambine e bambini, affrettatevi ai vostri posti! Presto, presto. Accomodatevi, aprite gli occhi, aprite il cuore e lasciatevi stupire. Ecco a voi, per il vostro piacere e divertimento, l'esibizione che aspettavate da una vita, IL PIÙ GRANDE SPETTACOLO DEL MONDO! Siete pronti per i miracoli? Bene, allora partiamo.

Sono creature sorprendentemente adattabili.. Le avete viste nelle foreste innevate e gelide. Le avete viste nelle giungle monsoniche, dense e tropicali. Le avete viste nelle steppe semiaride. Le avete viste nelle paludi salmastre ricoperte di mangrovie. Insomma, vivono praticamente ovunque. Ma non le avete mai viste dove le vedrete adesso! Signore e signori, bambine e bambini, senza ulteriori indugi, è con immenso onore e piacere che vi presento: IL CIRCO GALLEGGIANTE TRANSPACIFICO INDO-CANADESE PI PATEL!!! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII!».

La scena ebbe un certo effetto su Richard Parker. Al primo fischio indietreggiò con un brontolio sommesso. Ah ! Che saltasse pure in mare se voleva ! Che ci provasse !

«FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII!»Ruggì e fendette l'aria con gli artigli. Ma non si tuffò. Forse quando fosse stato

pazzo di fame e sete, avrebbe smesso di temere il mare, ma per ora quella era una paura sulla quale non potevo fare affidamento.

«FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII! FRIIIIII!»Si allontanò e si accasciò sul fondo della barca. Fine della prima sessione di

addestramento. Era stata un successo.Smisi di fischiare e mi buttai a sedere sulla zattera, boccheggiante e spossato.Avevo deciso.Piano numero sette: mantenerlo in vita.

CAPITOLO 58

Tirai fuori il manuale di sopravvivenza. Le pagine erano ancora bagnate. Le sfogliai con attenzione. Era stato scritto da un comandante della Marina Militare Britannica. Conteneva un sacco di informazioni pratiche su come sopravvivere in mare dopo un naufragio, e includeva i seguenti consigli:

• Leggete sempre attentamente le istruzioni.

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• Non bevete urina. O acqua marina. O sangue di uccelli.• Non mangiate meduse, né pesci con aculei o "becchi" simili a quelli dei

pappagalli, né quelli che si gonfiano come palloni.• Per immobilizzare un pesce, premetegli gli occhi.• Nelle situazioni estreme, il corpo umano sa reagire con la forza di un leone.

Se siete feriti, guardatevi dalle cure dei dottori improvvisati, anche se in buona fede. L'ignoranza è il medico peggiore; sonno e riposo le migliori infermiere.

• Tenete le gambe sollevate per almeno cinque minuti ogni ora.• Gli sforzi inutili vanno evitati. Ma una mente inattiva tende a deprimersi,

meglio tenerla impegnata: i tornei di carte e le sfide al gioco delle Venti Domande o a Indovina indovinello sono piacevoli distrazioni. Niente solleva lo spirito quanto cantare in coro. In alternativa, si raccomanda di inventare e raccontare storie.

• L'acqua verde è meno profonda di quella blu.• Non lasciatevi ingannare dalle nuvole: in lontananza possono sembrare

montagne. Cercate l'acqua verde. Ricordatevi che l'unico vero giudice della terraferma è il piede.

• Non nuotate. È uno spreco di energie. Inoltre è facile che una scialuppa alla deriva si sposti più velocemente. Il mare pullula di pericoli. Se siete accaldati, inumiditevi i vestiti per rinfrescarvi.

• Non urinatevi addosso. Il calore momentaneo non vale la conseguente eruzione cutanea.

• State al riparo. L'esposizione al freddo uccide prima ancora della fame o della sete.

• Se la sudorazione non è eccessiva, il corpo può fare a meno dell'acqua per un massimo di quattordici giorni. Se avete sete, succhiate un bottone.

• Le tartarughe marine, facili da pescare, sono squisite. Il loro sangue è nutriente e privo di sale; la carne saporita e sostanziosa, il grasso può essere utilizzato in svariati modi. Le uova di tartaruga sono una vera delizia. Ma attenzione a becco e artigli.

• Tenete alto il morale. Magari sarete provati, ma mai sconfitti. Ricordate: lo spirito conta più di ogni altra cosa. Se davvero volete vivere, allora vivrete. In bocca al lupo!

C'era anche qualche riga estremamente criptica sull'arte e la scienza della navigazione. Scoprii che l'orizzonte, nonostante col sereno appaia a un metro e mezzo di altezza, dista circa quattro chilometri. Il divieto di bere urina era superfluo. Uno che per tutta l'infanzia aveva sopportato il soprannome di "Piscione" non si sarebbe fatto beccare neanche morto con in mano una tazza di pipì. Neppure su una scialuppa in mezzo al Pacifico. E i consigli gastronomici rafforzarono la mia convinzione che gli inglesi non conoscessero il significato della parola cibo. Per il resto, il manuale era un affascinante opuscolo su come evitare di finire in salamoia.

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Ma un argomento di fondamentale importanza non veniva trattato: come instaurare una relazione di tipo alfa-omega con i carnivori che infestano la tua scialuppa.

Dovevo escogitare un programma di addestramento per Richard Parker. Dovevo fargli capire che io ero la tigre dominante e che il suo territorio si limitava al fondo della scialuppa: panca di poppa e panche laterali fino al centro. Dovevo convincerlo che la prua e la superficie dell'incerata, fino al confine della panca centrale, erano il mio territorio, a lui rigorosamente proibito.

Bisognava che iniziassi a pescare al più presto. Richard Parker non ci avrebbe messo molto a finire le carcasse degli animali. Allo zoo tigri e leoni adulti mangiavano in media quattro chili e mezzo di carne al giorno.

C'erano tante altre cose a cui pensare. Per esempio, al modo di ripararmi. Non per niente Richard Parker si rintanava sotto l'incerata. Restare all'aperto, esposto al sole, al vento, alla pioggia e al mare, era estenuante, non solo per il corpo, ma anche per la mente. Non avevo appena letto che l'esposizione al freddo poteva uccidere in men che non si dica? Dovevo approntare una specie di tenda.

La zattera andava assicurata alla scialuppa con una seconda fune, nel caso la prima si rompesse.

Ma il mio rifugio aveva bisogno di altre migliorie. Al momento stava a galla, ma non era abitabile. Dovevo attrezzarlo e renderlo minimamente confortevole, in attesa di domare Richard Parker e quindi potermi trasferire di nuovo sulla scialuppa. Se non avessi trovato il sistema di rimanere all'asciutto, la zattera non avrebbe mai funzionato. Dopo pochi giorni a mollo, la mia pelle era già raggrinzita e gonfia. Urgeva anche un'altra soluzione: dove conservare i generi di conforto?

Avevo smesso di pensare che una nave mi avrebbe salvato. Nella mia esperienza, il peggiore errore per un naufrago è sperare troppo e fare troppo poco. La sopravvivenza comincia quando impari a prestare attenzione alle cose vicine, a portata di mano. Scrutare l'orizzonte e limitarsi a sperare equivale a morire sognando.

Le cose da fare erano tante.Osservai l'orizzonte deserto. C'era così tanta acqua. E io ero solo. Completamente

solo.Seppellii il viso nelle braccia incrociate e scoppiai in singhiozzi. La mia situazione

era palesemente disperata.

CAPITOLO 59

Solo o no, perso o no, avevo fame e sete. Tirai la fune. Percepii una leggera resistenza. Non appena allentai la presa, la fune mi scappò di mano e la distanza fra la scialuppa e la zattera aumentò. Dedussi che la scialuppa si muoveva più velocemente della zattera. Non diedi grande peso a questa circostanza: la mia mente era concentrata sui movimenti di Richard Parker.

Doveva essere sotto l'incerata.Tirai di nuovo la fune e raggiunsi la prua. Mi preparavo a un'incursione veloce nel

ripostiglio, quando le onde mi fecero riflettere. Da che mi ero avvicinato con la

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zattera, la scialuppa si era girata: non offriva più il muso alle onde, ma il fianco. Di conseguenza anche l'oscillazione era cambiata, e ora la barca dondolava lateralmente, una vera tortura per il mio stomaco. Capii subito cos'era successo: la zattera, lasciata libera di allontanarsi, faceva da ancora all'imbarcazione più grande. Con il suo peso al traino, la scialuppa si girava con la prua verso le onde. Questo perché, normalmente, il moto ondoso scorre perpendicolarmente al vento. Se una barca è spinta dal vento ma trattenuta da un'ancora, assume la posizione che offre minor resistenza al vento, cioè si allinea con esso, perpendicolarmente alle onde. Ecco perché dondola da prua a poppa, un movimento più tollerabile per i passeggeri. Con la zattera vicina alla barca, l'effetto ancora cessava e la scialuppa assecondava il vento, producendo quel fastidioso rollio laterale.

Ecco un particolare d'importanza cruciale, del quale Richard Parker si sarebbe ricordato a lungo.

A conferma delle mie ultime riflessioni, la tigre si fece sentire, ma con un verso sconsolato, nel cui tono si intuiva qualcosa di verde e nauseato. Richard Parker poteva essere un buon nuotatore, ma come marinaio lasciava parecchio a desiderare.

Potevo ancora cavarmela.La scena che seguì sembrava scritta appositamente per scongiurare il rischio che

mi montassi troppo la testa.Stavo per salire sulla prua quando udii un lieve ronzio. Un esserino minuscolo

atterrò in mare, vicino a me. Uno scarafaggio. Galleggiò per qualche secondo prima che una bocca subacquea lo inghiottisse. Un secondo scarafaggio imitò il primo. Nel giro di pochi minuti, una decina di scarafaggi si tuffarono in acqua da prua. Ciascuno trovò una bocca vorace ad attenderlo.

Intimidita dalla tigre, l'unica altra forma di vita rimasta stava abbandonando la nave. Come se Richard Parker costituisse una presenza così impressionante e carismatica nella sua vitalità da non ammettere concorrenti.

Guardai attentamente.Uno scarafaggio più grosso, forse il patriarca del clan, era appostato dentro una

piega dell'incerata, sopra il sedile di prua.Lo osservai, stranamente interessato. Quando decise che era venuto il momento,

spiegò le ali e si librò in aria con un breve ticchettio. Rimase sospeso sulla scialuppa per qualche secondo, come per assicurarsi che nessuno dei suoi fosse rimasto indietro, poi sterzò verso il mare, incontro alla morte.

Adesso eravamo in due. Nel giro di cinque giorni l'intera popolazione di oranghi, zebre, iene, ratti, mosche e scarafaggi della scialuppa era stata spazzata via. Se escludevo i batteri e i vermi nascosti nei resti degli animali, a bordo non era rimasta nessuna creatura vivente a eccezione di Richard Parker e me.

Non era un pensiero confortante.Mi issai sulla prua e lentamente aprii la botola.Il mio naso percepì un penetrante odore di urina, l'odore di tutte le gabbie di felini

di tutti gli zoo del mondo. Per le tigri la delimitazione e la difesa del loro territorio, di cui marcano i confini con l'urina, riveste una grande importanza. Quella puzza, in effetti, era una buona notizia: le rivendicazioni territoriali di Richard Parker

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sembravano riguardare solo il fondo della scialuppa. Se fossi riuscito ad appropriarmi dell'incerata, forse saremmo potuti andare d'accordo.

Trattenni il respiro e sporsi la testa per sbirciare oltre il bordo dello sportello.Sul fondo della scialuppa si erano accumulati circa dieci centimetri di acqua

piovana; Richard Parker aveva a disposizione il suo laghetto personale, e faceva esattamente quello che avrei fatto io al suo posto: si rinfrescava all'ombra. Faceva un caldo bestiale. L'animale giaceva con la testa rivolta a poppa, le zampe posteriori completamente divaricate, i cuscinetti plantari all'aria, lo stomaco e le cosce aderenti al pavimento. Era una posizione buffa, ma senza dubbio piacevole.

Tornai a occuparmi della mia sopravvivenza. Aprii una razione d'emergenza e mangiai a sazietà, facendone fuori circa un terzo. Era incredibile quanto poco bastasse a riempirmi lo stomaco. Stavo per bere dalla sacca del raccoglitore di acqua piovana che portavo a tracolla, quando i miei occhi si posarono sui bicchieri graduati. Se un tuffo nel laghetto di Richard Parker era fuori discussione, il minimo che potevo fare era assaggiarlo. Tanto più che le mie provviste d'acqua non sarebbero durate in eterno. Afferrai un bicchiere, mi sporsi in avanti, abbassai il coperchio il minimo indispensabile e con mano tremante immersi il bicchiere nel Lago di Parker, a poco più di un metro dalle sue zampe posteriori. I cuscinetti plantari orlati di pelo bagnato sembravano isolotti deserti circondati di alghe.

Raccolsi mezzo litro di acqua leggermente torbida, in cui galleggiavano minuscoli detriti. La paura di ingerire qualche orrido batterio non mi sfiorò neppure. La sete era il mio unico pensiero.

Vuotai il bicchiere fino all'ultima goccia, con estrema soddisfazione.La natura ama l'equilibrio, quindi non fui sorpreso quando, appena finito di bere,

provai l'impellente bisogno di urinare. Feci pipì nel bicchiere graduato. Produssi esattamente la stessa quantità di liquido che avevo appena tracannato, come se il tempo avesse fatto un passo indietro e io fossi ancora lì a contemplare l'acqua piovana sottratta a Richard Parker. Esitai. Sentivo il bisogno di rovesciarmi in bocca il contenuto del bicchiere. A stento riuscii a respingere la tentazione. Ridete pure, se volete, ma il fatto è che in quel momento la mia pipì aveva un aspetto molto invitante. Era di un giallo chiaro, perché non soffrivo ancora di disidratazione. Sotto i raggi del sole brillava come succo di mela. A differenza dell'acqua in lattina a cui era affidata la mia sopravvivenza, non ammetteva dubbi in fatto di freschezza.

Alla fine il mio buon senso ebbe la meglio. Versai l'urina sull'incerata e sullo sportello del ripostiglio per marcare il mio territorio.

Rubai altri due bicchieri d'acqua a Richard Parker, ma questa volta non feci pipì. Mi sentivo come una pianta appena innaffiata.

Era giunto il momento di migliorare la mia situazione, così tornai a occuparmi del contenuto del ripostiglio e delle tante promesse che racchiudeva.

Presi un'altra fune e la usai per assicurare meglio la zattera alla scialuppa.Scoprii che cos'è un distillatore solare: un dispositivo che trasforma l'acqua salata

in acqua dolce. Si tratta di un cono gonfiabile trasparente collocato su una specie di salvagente con uno strato di tela gommata nera teso nel mezzo. Sfrutta il principio della distillazione: per effetto del calore, l'acqua marina dalla tela gommata evapora

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sulla superficie interna del cono. Da lì sgocciola attraverso un filtro per poi defluire in una apposita sacca.

Sulla scialuppa c'erano dodici distillatori solari. Lessi attentamente le istruzioni, come suggeriva il manuale di sopravvivenza. Gonfiai tutti e dodici i coni e riempii ogni salvagente con i dieci litri d'acqua marina richiesti. Legai i distillatori a una corda tesa tra la scialuppa e la zattera.

Erano belli a vedersi e avevano un'aria molto tecnologica; ma allo stesso tempo parevano fragili. Confesso che dubitai della loro efficacia.

A quel punto mi dedicai alla zattera. Esaminai tutti i nodi che la tenevano insieme per assicurarmi che fossero ben stretti. Ci pensai un po' su, poi decisi di trasformare il quinto remo - quello che fungeva da poggiapiedi - in una sorta di albero. Con la parte seghettata del coltello intagliai una tacca a metà del manico, mentre con la punta feci tre buchi nella pala.

Il lavoro procedeva lento ma mi dava soddisfazione. Era un buon sistema per tenere occupata la mente. Alla fine issai il remo in posizione verticale, con la pala in alto e il manico sott'acqua, fissandolo a un angolo della zattera e infilando la fune nella tacca in modo che il remo non cadesse.

Adesso dovevo accertarmi che l'albero restasse dritto, e procurarmi dei fili ai quali appendere la tenda e le provviste: infilai alcune corde nei buchi della pala e le legai ai remi galleggianti. Presi il giubbotto poggiapiedi e lo fissai alla base dell'albero. Oltre a controbilanciare il peso verticale dell'albero, mi avrebbe permesso di sedermi un po' più in alto.

Impiegai buona parte della giornata a sistemare la zattera e a costruire la tenda servendomi di una coperta. Il risultato non era certo un galeone. L'albero, se così lo vogliamo chiamare, terminava pochi centimetri sopra la mia testa.

Le dimensioni del ponte mi consentivano a malapena di sedermi a gambe incrociate o di rannicchiarmi in posizione quasi fetale. Ma non potevo lamentarmi. La zattera galleggiava e mi avrebbe salvato da Richard Parker.

Il pomeriggio volgeva al termine quando presi una lattina d'acqua, un apriscatole, quattro biscotti e quattro coperte.

Chiusi la botola (molto delicatamente questa volta), mi sedetti sulla zattera e mollai le funi. La scialuppa si allontanò. La fune principale si tese, mentre quella di sicurezza, che avevo intenzionalmente lasciato più lunga, pendeva floscia. Mi sdraiai su due coperte piegate, avvolsi le altre due attorno alle spalle e mi appoggiai all'albero. Seduto sul giubbotto di salvataggio ero sufficientemente distante dall'acqua.

Mi godetti la cena ammirando un tramonto senza nubi.La volta del mondo era di un colore magnifico. Le stelle erano impazienti di

entrare in scena: non appena il manto colorato accennò a dissolversi, si affacciarono scintillando nel blu profondo. C'era una brezza lieve e calda, il mare si muoveva piano. Le onde si sollevavano e riabbassavano come ballerini che si stringessero in cerchio alzando le braccia, allontanandosi e avvicinandosi infinite volte.

Richard Parker si era seduto. Sporgevano solo la testa e parte delle spalle. Guardava verso il mare. Urlai: «Ciao, Richard Parker!» salutandolo con la mano. Si

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girò. Sbuffò, o se preferite starnutì, ma né l'una né l'altra parola descrivono adeguatamente quel verso. Un altro prusten. Che animale sconcertante. Dall'aspetto così nobile. Il nome «tigre reale del Bengala» era davvero azzeccato. Da quel punto di vista ero stato fortunato. La convivenza con una bestia brutta o ridicola - tipo un tapiro, uno struzzo o magari un tacchino - per certi versi sarebbe stata senz'altro più dura.

Si udì uno splash ! Guardai in acqua e rimasi a bocca aperta.Ero convinto di essere solo. L'immobilità dell'aria, il fulgore della luce, la

sensazione di relativa sicurezza, tutto me lo faceva pensare. Invece abbassai gli occhi e vidi che il mare è una città.

Sotto di me c'erano autostrade, viali, vicoli e rotonde brulicanti di traffico marino. Nell'acqua densa, vitrea, punteggiata di plancton luminescente, pesci simili a camion, pullman, automobili, biciclette e pedoni si muovevano freneticamente, senza dubbio strombazzando e insultandosi l'un l'altro. Il colore predominante era il verde.

Ovunque intravedevo spirali di bollicine fluorescenti, eteree scie dei pesci che nuotavano veloci. Una scia si dissolveva, e subito ne scorgevo una nuova. Era come in certe foto delle città di notte, dove i fanali delle macchine si fondono in lunghe strisce di luce.

I dorado - ce n'erano più di cinquanta in perlustrazione sotto la zattera - sfoggiavano l'oro brillante, il blu e il verde. Altri pesci che non sapevo identificare erano gialli, marroni, argento, blu, rossi, rosa, verdi, bianchi; a tinta unita o multicolori, striati o a puntini. Solo gli squali erano ostinatamente grigi.

Indipendentemente dalle dimensioni o dal colore del veicolo, lo stile di guida era spericolato. Gli incidenti - molti dei quali fatali, temo - abbondavano. Alcuni guidatori perdevano il controllo del mezzo e si schiantavano contro un ostacolo, schizzando fuori dall'acqua e rituffandosi in mare tra alti spruzzi iridati. Osservare la scena dall'alto era come sorvolare una metropoli in mongolfiera, uno spettacolo meraviglioso, da lasciare senza fiato. Tokyo all'ora di punta non doveva essere molto diversa.

Continuai a guardare finché le luci della città non si spensero.Dal ponte della Tsimtsum avevo visto solo delfini. Avevo avuto l'impressione che

il Pacifico, fatta eccezione per qualche banco di pesci di passaggio, fosse una distesa d'acqua scarsamente popolata.

In seguito ho imparato che le navi mercantili vanno troppo in fretta per i pesci. Osservare la vita marina da una nave è come sperare di avvistare un riccio in una foresta mentre viaggi a centottanta in autostrada. I delfini, nuotatori molto veloci, giocano attorno alle navi come i cani inseguono le macchine: corrono e corrono finché s'illudono di riuscire a tenere il passo, poi si ritirano dalla gara.

Se vuoi vedere gli animali, è a piedi che devi esplorare la foresta, e in silenzio. Lo stesso vale per il mare. Bisogna attraversare il Pacifico a passo d'uomo - se così possiamo dire - per scoprirne ricchezza e abbondanza.

Mi distesi su un fianco. Per la prima volta in cinque giorni mi sentivo abbastanza tranquillo. Un barlume di speranza - duramente conquistata, meritata, ragionevole - brillava dentro di me. Mi addormentai.

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CAPITOLO 60

A un certo punto della notte mi svegliai. Scostai la tenda e guardai fuori. La luna era una falce affilata e il cielo perfettamente limpido. Le stelle brillavano di una luminosità così fiera e nitida che parlare di oscurità sarebbe stato assurdo. Il mare era calmo, accarezzato da una luce timida e dal passo leggero, una vasta danza di ombre argentate e nere. Il volume delle cose mi confondeva i sensi; la massa dell'aria sopra di me, quella dell'acqua sotto di me.

Ero in parte commosso e in parte spaventato. Come il saggio Markandeya, che cadde dalla bocca di Vishnu mentre il dio dormiva e vide Tutto ciò che è. Prima che il saggio morisse di paura, Vishnu si svegliò e se lo rimise in bocca.

In quel momento feci una scoperta sulla quale sarei tornato più volte nel corso del mio calvario, fra uno spasmo di agonia e l'altro: la mia triste storia si dipanava nel mezzo di una scenografia grandiosa.

Vidi il mio dolore per quello che era, finito e insignificante, e provai un senso di pace. Il mio dramma non trovava posto da nessuna parte, e io lo accettavo, andava bene così.

Fu la luce del giorno ad accendere la mia ribellione: "No! No! No! La mia sofferenza è importante. Voglio vivere! Non posso fare a meno di mescolare la mia vita a quella dell'universo. La vita è uno spioncino, la mia unica, minuscola finestra sull'immensità. Come potrei passare oltre, rinunciare senza lottare alla visuale pur ristretta e fugace che mi offre? Questo spioncino è tutto quello che ho!" Mormorai una preghiera musulmana e tornai a dormire.

CAPITOLO 61

La mattina seguente non ero troppo bagnato e mi sentivo in forma. Mi parve un fatto straordinario considerata la mia situazione e il poco cibo ingerito negli ultimi giorni.

Era una bella giornata. Mi sarei cimentato nella pesca, per la prima volta in vita mia. Feci colazione con tre biscotti e una lattina d'acqua, poi lessi ciò che il manuale di sopravvivenza aveva da dire sull'argomento. Sorse il primo problema: l'esca. Ci pensai un po' su. C'erano gli animali morti, ma non me la sentivo di rubare del cibo da sotto il naso di Richard Parker. Difficilmente sarei riuscito a convincerlo del fatto che, rinunciando a qualche boccone, faceva un vantaggioso investimento. Avrei usato la mia scarpa di pelle. Me ne era rimasta solo una. L'altra l'avevo persa durante il naufragio.

Strisciai furtivamente sulla scialuppa e dal ripostiglio presi un kit da pesca, il coltello e un secchio. Richard Parker era disteso su un fianco. Ero in procinto di ritornare sulla zattera quando notai che agitava la coda. Lasciai la scialuppa e feci scorrere la fune.

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Agganciai l'amo a un setale, che legai alla lenza. Aggiunsi dei piombini. Ne scelsi tre dall'intrigante forma a siluro. Mi sfilai la scarpa e la tagliai a pezzettini. Non fu facile, perché la pelle era resistente. Presi una striscia di pelle e con cura la infilai all'amo, stando attento che la punta fosse ben conficcata e nascosta. Gettai la lenza in mare. Con tutti i pesci che avevo visto la sera prima, mi aspettavo un successo immediato.

Mi sbagliavo. L'intera scarpa sparì pezzetto dopo pezzetto, tiratina dopo tiratina, pesce scroccone dopo pesce scroccone, finché non rimasero soltanto la suola e il laccio. E poiché il laccio si rivelò poco credibile come lombrico, preso dalla disperazione decisi di usare la suola, tutta intera. Non fu una buona idea. Dopo un leggero strattone carico di promesse, la lenza mi parve stranamente leggera. Quando la tirai su c'era solo lei.

Ma non disperai. Avevo a disposizione altri ami, altri setali e altri piombini, oltre a un secondo kit completo. E poi non stavo neppure pescando per me. A me bastavano le provviste nel ripostiglio.

Eppure, un angolino della mente - quello che dice le cose che non vogliamo sentire - mi rimproverò. "La stupidità ha un prezzo. La prossima volta cerca di mostrare maggiore attenzione e saggezza."

A mattino inoltrato comparve un'altra tartaruga. Si avvicinò alla zattera. Se avesse voluto, allungandosi sarebbe riuscita a mordermi il sedere. Quando si girò, mi sporsi e cercai di toccarle le zampe posteriori; ma subito mi ritrassi pieno di orrore. La tartaruga nuotò via.

Il solito angolino della mia mente tornò a farsi sentire. "Dimmi, come pensi di nutrire la tua tigre? Per quanto ancora si accontenterà di tre animali morti, secondo te? Hai dimenticato che le tigri non mangiano carogne? D'accordo, in mancanza di meglio è probabile che decida di non fare la schizzinosa. Ma prima di rassegnarsi a mangiare una zebra gonfia e putrefatta, non credi che vorrà assaggiare il ragazzino indiano fresco e succulento che si trova a un tuffo da lei? E l'acqua? Sai bene quanto la sete irriti le tigri. Hai sentito il suo alito di recente? È a dir poco disgustoso. Brutto segno. Speri forse che per dissetarsi prosciughi il Pacifico, consentendoti di camminare fino in America? È ben strana, questa capacità delle tigri di Sundarbans di espellere piccole quantità di sale. Dipende dal fatto che vivono tra le mangrovie. Ma si tratta di una capacità limitata. Dicono che bere troppa acqua salata metta alla tigre appetito di uomini. Ma guarda, parli del diavolo e spuntano le corna. Eccola, sbadiglia. Oooh, che enorme caverna rosa! Piena di stalattiti e stalagmiti gialle. Chissà, forse oggi potrai farci una gita..."

La lingua di Richard Parker, in tutto simile a una borsa dell'acqua calda, si ritirò e la bocca si chiuse. Deglutì.

Passai il resto della giornata a preoccuparmi da morire. Mi tenni alla larga dalla scialuppa. Nonostante le mie nefaste previsioni, Richard Parker se ne stette abbastanza tranquillo. Aveva ancora dell'acqua piovana a disposizione e non sembrava troppo affamato; in compenso si esibì nel repertorio completo dei suoi terribili versi: ruggiti, soffiate, grugniti e via discorrendo. Il dilemma sembrava insolubile: per pescare avevo bisogno di un'esca, ma avrei avuto l'esca solo quando

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avessi pescato un pesce. Cosa dovevo fare? Usare le dita dei piedi? Mozzarmi un orecchio?

La risposta arrivò nel tardo pomeriggio. Ero tornato a rovistare nel ripostiglio, in cerca di un'idea per salvarmi la pelle. Avevo legato la fune in modo che la zattera non si allontanasse troppo, illudendomi che, all'occorrenza, un salto all'indietro sarebbe bastato a mettermi in salvo. La disperazione mi aveva spinto a correre il rischio.

Non trovando nulla, né l'esca né l'idea, mi sedetti. Richard Parker teneva lo sguardo puntato su di me. Era accovacciato al capo opposto della scialuppa, nell'ex postazione della zebra, con l'aria di avere aspettato pazientemente che lo notassi. Possibile che non mi fossi accorto dei suoi movimenti? Come potevo anche solo sperare di essere più furbo e più veloce di lui? All'improvviso qualcosa mi colpì in faccia con violenza. Lanciai un grido e chiusi gli occhi. Con felina rapidità aveva attraversato la scialuppa e mi aveva allungato una zampata. Stava per squarciarmi il viso con gli artigli: sarei morto in modo raccapricciante. La paura era così intensa che non provavo nulla. Benedetto lo shock! Benedetta la nostra psiche che ci protegge dall'eccesso di dolore e di sgomento! Al cuore della vita c'è un viluppo di fusibili. Supplicai fra le lacrime: «Avanti, Richard Parker, finiscimi. Ma per favore, sbrigati. Un fusibile saltato va eliminato in fretta».

Prendeva tempo. Era acquattato ai miei piedi e si agitava. Forse aveva scoperto il ripostiglio e le sue ricchezze. Terrorizzato, aprii un occhio.

«Un pesce!» esultai. C'era un pesce nel ripostiglio! E, giustamente, si dimenava come un pesce fuor d'acqua. Era lungo circa quaranta centimetri e aveva le ali. Un pesce volante. Sottile, grigio-blu, con ali asciutte e senza piume, gli occhi tondi, giallognoli e fissi. Era stato il pesce volante a colpirmi in faccia, non Richard Parker. Lui non si era mosso e senza dubbio si stava chiedendo perché mi agitassi tanto. Ma aveva visto il pesce. Sulla sua faccia leggevo una viva curiosità. Tra un attimo sarebbe venuto a indagare.

Mi abbassai, afferrai il pesce e glielo gettai. Ecco come l'avrei addomesticato! Prima il ratto, poi il pesce. Sfortunatamente, il pesce volante cominciò a volare. A mezz'aria, davanti alla bocca spalancata di Richard Parker, sterzò bruscamente e si tuffò in acqua. Lui si voltò chiudendo di scatto la bocca con un gran dondolio di mascelle, ma il pesce era troppo veloce. Sorpreso e seccato, tornò a guardarmi, con una domanda negli occhi: «Dov e finito il mio spuntino?». Paura e tristezza mi stringevano il petto. Mi voltai, con l'incerta speranza di riuscire a gettarmi sulla zattera prima che mi saltasse addosso.

In quel preciso istante l'aria vibrò e fummo investiti da un banco di pesci volanti. Qualcosa nel modo in cui sbattevano e frullavano le ali mi fece pensare a delle locuste. I pesci schizzavano fuori dall'acqua a dozzine, restando sospesi per decine di metri. Molti si rituffarono in mare appena prima della scialuppa, altri la sorvolarono senza incidenti, altri ancora si schiantarono contro il suo fianco con un fragore di petardi. Certi ritrovarono l'acqua dopo qualche salto sull'incerata, mentre i più sfortunati caddero dentro la barca, e lì cominciarono ad agitare le ali e a dibattersi, schizzando acqua dappertutto. Infine, alcuni pesci ci piovvero addosso come frecce.

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Io ero in piedi, senza alcuna protezione, e sperimentavo sulla mia pelle il martirio di san Sebastiano. Afferrai una coperta per proteggermi e per cercare di catturarne qualcuno. Avevo il corpo pieno di lividi e di ferite.

Il motivo di quella carica mi fu chiaro quando vidi alcuni dorado balzare fuori dall'acqua, lanciati all'inseguimento dei pesci volanti. Erano più grossi delle loro prede e non potevano librarsi in volo altrettanto a lungo, ma in acqua si muovevano più veloci e i loro brevi balzi erano molto potenti. Riuscivano ad acciuffare i pesci volanti guizzando fuori al loro passaggio, con un tempismo perfetto. Anche gli squali saltavano in superficie, in modo meno elegante ma con conseguenze devastanti per molti dorado. La battaglia finì presto, ma per tutta la sua durata il mare ribollì e gorgogliò, i pesci guizzarono e le mandibole lavorarono sodo.

Richard Parker reagì con grande prontezza all'attacco dei pesci. Si alzò e fece del suo meglio per bloccarne, acchiapparne e addentarne quanti più poteva. Molti li ingoiò in un boccone, vivi, con le ali che gli si dibattevano nelle fauci e nella gola. Fu una folgorante dimostrazione di forza e velocità. Ma non fu tanto la forza a impressionarmi, quanto la pura sicurezza animale, la partecipazione totale e assoluta all'attimo. Una combinazione di agilità, concentrazione e capacità di "esistere nel presente" da fare invidia ai più grandi yogi.

Alla fine mi ritrovai con il corpo tutto indolenzito e sei pesci volanti nel ripostiglio. Ce n'erano molti altri sulla scialuppa. Ne avvolsi uno nella coperta, presi un'accetta e senza indugio mi spostai sulla zattera.

Con calma mi misi al lavoro. La perdita dell'amo quella mattina mi aveva fatto riflettere. Non potevo permettermi un altro errore. Tenendo una mano sul pesce per evitare che sgusciasse via, cominciai a srotolare la coperta.

Più si avvicinava il momento di quella apparizione, più aumentavano la paura e il disgusto dentro di me. Intravidi la testa: sembrava una pallina di gelato, un disgustoso gelato al gusto di pesce nel cono ruvido della coperta. Apriva e chiudeva lentamente la bocca e le branchie, disperatamente bisognoso di acqua. Sentivo le ali fare pressione sulla mia mano. Capovolsi il secchio e ci appoggiai sopra il pesce, tenendolo per la testa. Afferrai l'accetta. La sollevai.

Più di una volta fui sul punto di colpire, ma proprio non ce la facevo. Il mio sentimentalismo potrà sembrarvi ridicolo, considerato la carneficina a cui avevo assistito negli ultimi giorni; le morti della zebra, dell'orango e della iena però non erano opera mia, ma di un altro predatore. Forse potevo considerarmi parzialmente responsabile per la sorte del ratto, anche se io mi ero limitato a scagliarlo: era stato Richard Parker a ucciderlo. Tra me e la decapitazione intenzionale di un pesce c'era una vita intera di pacifico vegetarianismo.

Coprii la testa del pesce con la coperta e girai l'accetta per provare con il manico. Ma ancora una volta la mia mano tentennò. L'idea di colpire una testa morbida e viva con un bastone era troppo per me.

Posai la mia arma. Gli avrei spezzato il collo senza guardare, decisi.Lo avvolsi per bene nella coperta e iniziai a torcerlo con entrambe le mani. Più

forza ci mettevo, più il pesce si dimenava. Pensai a come mi sarei sentito al suo posto, stretto in una coperta mentre qualcuno cercava di spezzarmi il collo. Ero

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inorridito. Gettai la spugna diverse volte. Eppure sapevo che dovevo farlo, e più esitavo, più il poveretto soffriva.

Con le lacrime che mi bagnavano le guance, mi costrinsi a insistere finché non sentii qualcosa spezzarsi e la vita smise di agitarsi fra le mie mani. Srotolai la coperta. Il pesce volante era morto. La testa era spaccata e sanguinante all'altezza della branchia.

Piansi molto per quella povera, piccola anima deceduta. Era il primo essere senziente che uccidevo in vita mia. Adesso ero un assassino. Adesso ero colpevole come Caino. Ero un ragazzino di sedici anni religioso e un po' secchione, innocuo fino a un attimo prima, e adesso le mie mani erano sporche di sangue. Un peso terribile da sopportare. Ogni forma di vita cosciente è sacra.

Non dimentico mai di citare quel pesce nelle mie preghiere.Dopo fu più facile. Una volta morto, il pesce era uguale a quelli che tante volte

avevo visto al mercato di Pondicherry, non più una parte essenziale del sacro schema della creazione. Lo feci a pezzi con l'accetta e lo misi nel secchio.

Verso il tramonto provai di nuovo a pescare, dapprima senza fortuna. Ma ora il successo mi sembrava meno irraggiungibile. I pesci piluccavano l'esca con fervore. Il loro interesse era evidente. Ma erano troppo piccoli per il mio amo. Allora lanciai la lenza più lontano, più in profondità e fuori dalla portata di quei pesciolini che si affollavano intorno alla zattera e alla scialuppa.

Fu quando decisi di usare la testa del pesce volante, utilizzando un solo piombo e facendola rimbalzare sul pelo dell'acqua mentre riavvolgevo la lenza che pescai per la prima volta. Con un guizzo un dorado si avventò sull'esca. Lasciai che la ingoiasse completamente, poi diedi un vigoroso strattone alla lenza. Il dorado schizzò fuori dall'acqua; tirava così forte che temetti di cadere in mare. Mi puntellai. La lenza era resistente, non si sarebbe spezzata. Cominciai a trascinarlo verso di me. Combatteva con tutte le forze, saltava e si dimenava selvaggiamente.

La lenza tesa mi feriva le mani. Allora le avvolsi nella coperta. Il cuore mi batteva all'impazzata. Quel pesce era forte come un bue. Non ero sicuro di farcela.

Con sorpresa notai che gli altri pesci avevano sgombrato il campo, senza dubbio percependo la sofferenza del dorado. Dovevo sbrigarmi. Se avesse continuato ad agitarsi avrebbe richiamato gli squali.

Combatteva come un indiavolato. Mi facevano male le braccia. Ogni volta che era vicino, la frenesia con cui si ribellava mi costringeva ad allentare la presa.

Finalmente riuscii a tirarlo a bordo. Era lungo quasi un metro. Il secchio era inutile, al massimo poteva fargli da cappello. Lo placcai inginocchiandomi su di lui e afferrandolo con le mani. Era una massa di muscoli palpitante e fremente, tanto grande che la coda spuntava alle mie spalle, martellando energicamente la zattera. Mi sentivo come un cow-boy in groppa a un cavallo selvatico. Ero scatenato ed euforico. Il dorado ha un aspetto magnifico: è un pesce grosso, carnoso e lucente, con una fronte sporgente che indica una forte personalità, una pinna dorsale ritta e orgogliosa come la cresta di un gallo e un manto di squame liscio e luminoso. Avendo la meglio su un avversario così notevole, mi pareva di dare uno schiaffo al destino. Quel pesce era la mia rivincita nei confronti del mare, del vento, delle navi che affondavano e di

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tutte le circostanze infauste. «Grazie, Vishnu, grazie!» urlai. «Una volta ti sei fatto pesce per salvare il mondo; ora hai fatto lo stesso per soccorrere me. Grazie, grazie!»

Lo uccisi senza problemi. Se non fosse stato per l'amo che gli era rimasto in bocca mi sarei risparmiato il disturbo: in fin dei conti era per Richard Parker, e lui l'avrebbe finito con tutta la disinvoltura dell'esperienza. Quel dorado appeso alla mia lenza era un trionfo: non credo sarei stato altrettanto contento se al suo posto ci fosse stata una tigre. Presi l'accetta e colpii forte il pesce alla testa con il manico (non avevo ancora il coraggio di usare la lama). Un attimo prima di andarsene, il dorado fece qualcosa di straordinario: cominciò a emanare lampi di tutti i colori. Bagliori blu, verdi, rossi, oro e violetti si inseguivano sulla sua pelle squamosa. Era come ammazzare di botte un arcobaleno. (In seguito scoprii che il dorado è famoso proprio per l'iridescenza in punto di morte.)

Quando fu immobile e opaco, recuperai l'amo e persino una parte di esca.Il fatto che in breve tempo fossi passato dalle lacrime per l'assassinio in sordina

del pesce volante all'esultanza nel percuotere a morte un dorado non deve stupire. Potrei giustificarmi dicendo che nel primo caso mi vergognavo per aver approfittato dell'errore di navigazione di un povero pesce volante, mentre nel secondo l'ingegnosa ed eccitante cattura di un grosso dorado mi aveva dato coraggio. Ma la spiegazione è un'altra, semplice e brutale: l'uomo si abitua a tutto, persino a uccidere.

Tirai la fune e mi avvicinai alla scialuppa con l'orgoglio del cacciatore. Con un tonfo pesante il dorado atterrò davanti alla tigre. Richard Parker lo annusò sospettoso per un istante, poi udii il biascichio della sua bocca. Perché gli fosse chiaro che il cibo fresco veniva da me, soffiai due volte con forza il fischietto. Prima di riguadagnare la zattera presi dei biscotti e una lattina d'acqua.

I cinque pesci volanti nel ripostiglio erano morti. Strappai loro le ali e le gettai via, poi li avvolsi nell'ormai consacrata "coperta del pesce".

Quando mi fui ripulito dal sangue, riposi l'attrezzatura da pesca e cenai. Ormai era notte. Un sottile strato di nuvole mascherava le stelle e la luna, il buio era fitto. Mi sentivo stanco, ma ancora eccitato per gli eventi delle ultime ore che mi avevano impedito di pensare alla mia triste condizione. Pescare, decisi, era un modo molto più proficuo di passare il tempo che non inventare favole o giocare a Indovina indovinello. Non appena fosse stato chiaro, avrei ricominciato.

Mi addormentai pensando al luccichio pirotecnico e intermittente del dorado in fin di vita.

CAPITOLO 62

Quella notte dormii solo a sprazzi. Poco prima dell'alba rinunciai a riaddormentarmi e mi sollevai su un gomito. Richard Parker era inquieto. Ruggiva e si lamentava aggirandosi per la scialuppa. Era una vista impressionante. Feci il punto della situazione. Non poteva essere affamato. O almeno, non pericolosamente affamato. Che avesse sete? La lingua gli penzolava fuori dalla bocca, ma solo di tanto in tanto, e non ansimava. Le zampe e la pancia erano ancora bagnate, anche se

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non più fradice. Probabilmente non era rimasta molta acqua a bordo. Presto avrebbe avuto bisogno di bere.

Alzai lo sguardo. La cortina di nuvole era svanita. Fatta eccezione per qualche ciuffo biancastro all'orizzonte, il cielo era limpido. Si preannunciava un'altra giornata calda e senza pioggia. Il mare si muoveva pigro, come se fosse già spossato dal caldo imminente.

Mi sedetti a riflettere con la schiena appoggiata all'albero. Pesci e biscotti avrebbero costituito la parte solida della nostra dieta. Il guaio era la parte liquida, così abbondante intorno a noi ma rovinata dal sale. Pensai di aggiungere un po' di acqua marina al laghetto privato di Richard Parker. Ma quella potabile restava un problema. Le lattine non sarebbero durate a lungo se le avessi divise con lui, cosa che per altro non avevo nessuna intenzione di fare. E affidarsi all'acqua piovana era una follia.

Osservai dubbioso i distillatori solari. Erano fuori da due giorni ormai. Notai che uno era un po' sgonfio. Tirai la fune per dargli un'occhiata. Dopo aver gonfiato il cono, senza veramente sperare in qualcosa allungai la mano sott'acqua per palpare la sacca di distillazione. Le mie dita afferrarono una sacca inaspettatamente pesante. Provai un brivido di eccitazione. Lo repressi. Con tutta probabilità, vi si era infiltrata dell'acqua marina. Seguendo le istruzioni, sganciai la sacca e la ripescai. Era rettangolare, di morbida plastica gialla, con delle piccole tacche su un lato. Bevvi. Sapeva d'acqua. Un altro sorso. Non era salata!

«Oh, mia dolce mucca marina!» mi rivolsi eccitato al distillatore «Hai fatto il latte, e che latte! Delizioso. Sa leggermente di gomma, ma non posso certo lamentarmi. Ecco, guarda come me lo bevo.»

Svuotai l'intera sacca. Poteva contenere un litro d'acqua, ed era quasi piena. Chiusi gli occhi abbandonandomi a un sospiro colmo di soddisfazione; poi rimisi la sacca al suo posto. Controllai gli altri distillatori: le loro mammelle avevano più o meno lo stesso peso. Munsi latte fresco, più di otto litri, direttamente nel secchio per i pesci. In un attimo quegli aggeggi tecnologici diventarono importanti per me quanto il bestiame per l'allevatore. E mentre fluttuavano placidamente disposti ad arco, mi sembravano davvero splendide mucche al pascolo. Li accudii teneramente, assicurandomi che ciascun distillatore contenesse acqua marina a sufficienza e che i coni e le camere d'aria fossero gonfi al punto giusto.

Dopo averci versato un po' di acqua salata, misi il secchio sulla panca laterale, appena oltre il confine dell'incerata. Svanita la frescura mattutina, Richard Parker si era ritirato nel suo rifugio.

Fissai il secchio con una fune ai ganci dell'incerata. Guardai sotto. Richard Parker era steso su un fianco. La sua tana era uno spettacolo disgustoso. I mammiferi morti erano ammucchiati uno sull'altro, una pila grottesca di resti putrefatti. Riuscii a distinguere una o due zampe, brandelli di pelle, parti di una testa, parecchie ossa. E tutt'intorno le ali dei pesci volanti.

Affettai un pesce volante e ne gettai un pezzo sulla panca. Poi presi dal ripostiglio tutto quello che mi sarebbe servito nel corso della giornata. Quando fui pronto ad andarmene, lanciai un altro pezzo di pesce in mezzo alla barca. Ottenni l'effetto

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desiderato. Mentre mi allontanavo, vidi che usciva allo scoperto per divorarlo. Poi girò la testa e notò il secondo boccone, nonché la presenza di un oggetto sconosciuto. Si sollevò sulle zampe posteriori. La testa enorme incombeva sul secchio. Temevo che lo rovesciasse, invece cominciò a lappare. Il secchio sempre più vuoto oscillava e sbatteva a ogni colpo di lingua. Quando rialzò la testa, lo fissai negli occhi con fare aggressivo e fischiai un paio di volte. Si dileguò sotto l'incerata.

Mi venne in mente che col passare dei giorni la scialuppa assomigliava sempre di più al recinto di uno zoo: Richard Parker aveva la sua area protetta per dormire e riposarsi, la sua scorta di cibo, il suo posto di avvistamento e adesso anche la sua pozza d'acqua.

La temperatura aumentò. Il caldo ben presto divenne soffocante. Passai il resto della giornata a pescare, all'ombra della tenda. Compresi che la cattura del primo dorado era stato un classico esempio di fortuna del principiante. Non presi nulla, nemmeno nel tardo pomeriggio, quando la vita marina si manifestò in tutta la sua abbondanza. Si avvicinò un'altra tartaruga. La animava la stessa fissa curiosità della prima, ma la specie era diversa. Non era un'embricata, era verde, più massiccia e con il guscio più liscio. La guardai senza prendere iniziative, pensando che era un peccato.

L'unico aspetto positivo di una giornata così afosa, era la vista dei distillatori: l'interno di ogni cono brillava di gocce e rivoli di condensa.

Giunse la sera. Calcolai che la mattina seguente sarebbe stata una settimana esatta da che era affondata la Tsimtsum.

CAPITOLO 63

La famiglia Robertson sopravvisse alla deriva per trentotto giorni. Il capitano Bligh - quello del celebre ammutinamento del Bounty - e i suoi compagni resistettero per quarantasette giorni. Steven Callahan per settantasei. Owen Chase - il cui racconto del naufragio della baleniera Essex ispirò Herman Melville - sopravvisse con due compagni per ottantatré giorni, interrotti da una settimana su un'isola inospitale. La famiglia Bailey, centodiciotto. Dicono che negli anni Cinquanta un marinaio coreano - un certo Poon, mi pare - abbia resistito nel Pacifico per centosettantatré giorni.

Io sopravvissi per duecentoventisette giorni. Più di sette mesi, ecco quanto durarono le mie tribolazioni.

Mi tenevo occupato, e fu quello il segreto della mia sopravvivenza. Su una scialuppa di salvataggio, persino su una zattera, c'è sempre qualcosa da fare.

La mia giornata tipo - se così si può dire - si svolgeva come segue:

Dall'alba a metà mattinata: - sveglia; - preghiere; - colazione per Richard Parker;

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- ispezione generale della zattera e della scialuppa, con attenzione particolare ai nodi e alle funi;

- manutenzione dei distillatori solari (asciugarli, gonfiarli, riempirli d'acqua); - colazione e ispezione delle provviste; - cattura e preparazione del pesce (sviscerarlo, pulirlo, tagliarlo a strisce e

appenderle in fila per farle essiccare al sole).

Da metà mattinata al tardo pomeriggio: - preghiere; - pranzo leggero; - riposo e attività rilassanti (aggiornare il diario, controllare croste e ferite,

sistemare attrezzi e ripostiglio, osservare Richard Parker, ripulire ossa di tartaruga eccetera).

Dal tardo pomeriggio al crepuscolo: - preghiere; - cattura e preparazione del pesce; - cura delle strisce di pesce da essiccare (rigirarle, tagliare via le parti putride); - preparativi per la cena; - cena per me e Richard Parker.

Al tramonto: - ispezione generale della zattera e della scialuppa (in particolare nodi e funi); - raccolta dell'acqua dai distillatori solari; - riordino di cibo e attrezzi; - preparativi per la notte (fare il letto, munirsi di razzi di segnalazione

nell'eventualità di un avvistamento e di recipienti per la pioggia); - preghiere.

Notte: - sonno disturbato; - preghiere.

Preferivo la mattina al tardo pomeriggio, quando il vuoto del tempo cominciava a pesare.

C'era una serie di fattori che poteva interferire con la mia routine. La pioggia, a qualsiasi ora del giorno e della notte, mi faceva interrompere ogni altra attività per sistemare i contenitori appositi in modo da raccogliere più acqua piovana possibile. La visita di una tartaruga rappresentava un'altra fonte di distrazione. Richard Parker, naturalmente, disturbava di continuo lo schema delle mie giornate. Soddisfarlo era una priorità che non potevo trascurare nemmeno per un istante. A parte mangiare, bere e dormire, non faceva granché, ma a volte si scuoteva dall'apatia e gironzolava per il suo territorio in preda al malumore, facendo versi terrificanti. Per fortuna sole e mare riuscivano a stremarlo piuttosto rapidamente; allora tornava sotto l'incerata e

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riprendeva la sua posizione, su un fianco o a pancia in giù, con la testa appoggiata sulle zampe incrociate.

Ma i miei rapporti con Richard Parker non erano dettati solo dalla necessità. Passavo ore intere a osservarlo, così per svago. Una tigre è sempre un animale affascinante, figuriamoci quando è la tua unica compagnia.

All'inizio scrutavo l'orizzonte ossessivamente, sperando di scorgere una nave. Ma dopo cinque o sei settimane, smisi quasi del tutto.

Sopravvissi perché decisi di dimenticare. La mia avventura ebbe inizio il 2 luglio 1977 e terminò il 14 febbraio 1978, ma in mezzo per me non ci furono date. Non contai i giorni, né le settimane, né i mesi. Il tempo è un'illusione che toglie il fiato. Così lo cancellai.

Tutto ciò che rammento sono episodi, incontri, abitudini, simili a rocce emerse dal piatto oceano della memoria. L'odore dei razzi di segnalazione consumati, le preghiere all'alba, l'uccisione delle tartarughe, la struttura delle alghe e così via.

Ma dubito di poter mettere in ordine per voi questi ricordi, annodati come sono in un viluppo compatto e inestricabile.

CAPITOLO 64

I miei vestiti si disintegrarono, vittime del sole e del sale. Prima divennero sottili come garza. Poi si strapparono. Restarono solo le cuciture, ma alla fine si ruppero anche quelle.

Per mesi vissi completamente nudo, a eccezione del fischietto che portavo appeso al collo.

Le vesciche rosse e infiammate che, a causa dell'esposizione costante all'acqua salata, mi coprivano il corpo, erano una lebbra degli oceani dolorosa e deturpante. Quando scoppiavano, la mia pelle diventava terribilmente sensibile, tanto che il più lieve sfregamento accidentale mi riduceva in lacrime, boccheggiante di dolore.

Naturalmente, le vesciche affliggevano soprattutto le parti più a diretto contatto con l'acqua e con la zattera, vale a dire la schiena. C'erano giorni in cui riuscivo a malapena a trovare una posizione tollerabile e adatta al riposo.

Il tempo e il sole guarivano le ferite, ma il processo era lungo, e se tornavo a bagnarmi prima che fosse completo, tutto ricominciava.

CAPITOLO 65

Passavo ore intere a cercare di decifrare i paragrafi del manuale riguardanti la navigazione. I consigli su come sopravvivere a bordo erano chiari ed esaustivi, ma l'autore dava per scontato che il lettore fosse in possesso delle nozioni nautiche elementari. Nella sua mente il naufrago era un marinaio che con una bussola, una mappa e un sestante, avrebbe saputo orientarsi nelle difficoltà.

Di conseguenza il manuale era zeppo di consigli tipo: «Ricordati, il tempo è

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distanza. Carica sempre il tuo orologio» e «Se necessario, puoi misurare la latitudine usando le dita».

Il mio orologio era negli abissi del Pacifico, lo avevo perso quando era affondata la Tsimtsum. Quanto a latitudine e longitudine, la mie conoscenze si limitavano alle creature che vivevano nel mare. Venti e correnti erano un mistero per me. Non conoscevo il nome di una sola costellazione. Un'unica stella regolava la vita della mia famiglia: il sole. Andavamo a letto presto e presto ci alzavamo.

Nella vita avevo ammirato un certo numero di notti stellate, quando con due soli colori e uno stile essenziale la natura riesce ad allestire il più grandioso degli spettacoli. Ne avevo tratto il senso della direzione da seguire, ma si trattava di una direzione spirituale, non geografica.

Non avevo la più pallida idea di come il cielo stellato potesse fungere da mappa stradale. Come potevano le stelle - per quanto luminose - aiutarmi a trovare la via, se cambiavano posizione di continuo? Rinunciai a scoprirlo. Imparare a orientarmi non mi avrebbe aiutato, dal momento che non avevo né timoni né vele né motore; solo remi e pochi muscoli.

Che senso avrebbe avuto progettare una rotta senza poterla seguire? Ma anche ammettendo che trovassi il modo di governare la barca, da che parte sarei andato? Verso ovest, da dove eravamo venuti? A est, in America? A nord, in Asia? A sud, dove passavano i mercantili? Ogni direzione mi pareva giusta e sbagliata insieme.

Così restavo in balia dei venti e delle correnti. Il tempo era distanza per me come per tutti i mortali, che giorno dopo giorno avanzano lungo il sentiero della vita.

Usavo le dita per fare tante cose, ma non per misurare la latitudine.Scoprii in seguito di aver viaggiato lungo un sentiero stretto: la controcorrente

equatoriale del Pacifico.

CAPITOLO 66

Gettavo la lenza a profondità variabili, con ami diversi a seconda del tipo di pesce che speravo di pescare. Il successo si faceva attendere e in generale lo sforzo mi sembrava sproporzionato rispetto al risultato. Le ore scorrevano lente, i pesci erano piccoli e Richard Parker aveva sempre fame.

Alla fine i crocchi si dimostrarono i miei alleati più preziosi.Erano formati da tre pezzi a incastro: due tubi che una volta avvitati fungevano da

asta, e un uncino dalla punta acuminata. Una volta assemblato ciascuno era lungo un metro e mezzo, leggero e resistente come una spada.

Inizialmente immergevo il crocco dove capitava, a volte con un pesciolino infilzato come esca, e aspettavo per ore, con i muscoli tesi e doloranti. Quando un pesce si trovava nel punto giusto, tiravo bruscamente il crocco. Col tempo capii che era meglio colpire solo quando avevo buone probabilità di riuscita, piuttosto che tentare ripetutamente e a casaccio; anche i pesci imparano dall'esperienza, e difficilmente cadono due volte nella stessa trappola.

Quando mi andava bene, il pesce rimaneva saldamente infilzato e potevo tirarlo a

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bordo senza problemi. Ma se era grosso e gli arpionavo lo stomaco o la coda, spesso accadeva che si liberasse con un guizzo e ripiombasse in mare. Ferito, diventava la preda di qualcun altro, un regalo che non avevo avuto alcuna intenzione di fare.

Per prendere i pesci grossi, puntavo all'area addominale sotto le branchie o alle pinne laterali, perché la reazione istintiva di un pesce infilzato era nuotare verso l'alto, cioè verso di me. A volte, più punzecchiato che arpionato, il pesce schizzava fuori dall'acqua e finiva dritto nelle mie mani. La mia repulsione nel toccare le creature marine era svanita rapidamente. Non dovevo più ricorrere alla coperta o ad altre complicazioni del genere. Ogni pesce che mi capitava a tiro doveva vedersela con un paio di mani disposte a tutto pur di acchiapparlo.

Se rischiava di riuscire a scappare, lasciavo andare il crocco - che avevo debitamente assicurato alla zattera - e lo agguantavo senza tanti complimenti. Le mie dita non erano affilate, ma molto più agili e svelte dell'amo.

Ingaggiavamo una lotta scatenata e frenetica. I pesci erano disperati e scivolosi, io disperato e basta. Se solo avessi avuto le braccia della dea Durga! Due mani per tenere i crocchi, quattro per afferrare il pesce e altre due per brandire l'accetta. Invece mi dovevo arrangiare con un solo paio. Infilavo le dita negli occhi acquosi delle mie vittime mentre ficcavo i palmi nelle branchie, e con le ginocchia schiacciavo gli stomaci molli, stringendo le code tra i denti. Insomma, facevo di tutto per tenere fermo il pesce il tempo necessario per afferrare l'accetta e mozzargli la testa.

Con il tempo e l'esperienza divenni un pescatore migliore, più audace e più pronto. Sviluppai l'intuizione.

Cominciai a usare una parte della rete da carico. Per pescare era inservibile, troppo rigida e pesante e con le maglie troppo larghe, ma come esca era perfetta. La lasciavo fluttuare nell'acqua e i pesci la trovavano irresistibile, soprattutto dopo che iniziò a ricoprirsi di alghe. Per alcuni era una sorta di complesso residenziale; per altri - di passaggio, come i rapidi dorado - un posticino ideale per una sosta. Né i residenti né i visitatori sospettavano che nella rete fosse nascosto un amo. C'erano giorni - troppo pochi purtroppo - in cui l'abbondanza di prede mi induceva a pescare ben oltre le mie necessità e possibilità di stoccaggio. Sulla scialuppa e sulla zattera lo spazio era insufficiente a far essiccare simili quantità di dorado, pesci volanti, lucci, cernie e sgombri. Allora tenevo quel che potevo e il resto lo davo a Richard Parker. Durante quei giorni fortunati, maneggiavo così tanti pesci che il mio corpo finiva per coprirsi di scaglie. Sfoggiavo quei frammenti argentei e scintillanti come fossero tika, i colorati simboli divini che noi indù portiamo in fronte. Se dei marinai mi avessero avvistato, di sicuro mi avrebbero scambiato per un dio-pesce seduto sul suo trono, e non si sarebbero fermati.

Quelli erano giorni magnifici. Ma rari.Catturare le tartarughe era facile, proprio come assicurava il manuale di

sopravvivenza. Sebbene fossero robuste come carri armati, non erano nuotatrici veloci né potenti: a trattenerne una bastava una mano stretta intorno alla zampa. Ma il manuale trascurava di specificare un fatto importante: prendere la tartaruga era solo l'inizio, poi occorreva issarla a bordo. E sollevare centosessanta chili di tartaruga è tutt'altro che semplice, un'impresa degna del dio Hanuman. Così prima

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tentavo di accostarla alla prua della scialuppa, in modo che il guscio toccasse lo scafo; poi le legavo una fune intorno al collo, a una zampa anteriore e a una posteriore. Quindi tiravo finché non sentivo che le mie braccia stavano per staccarsi e la testa per esplodere. Alla fine infilavo la fune nei ganci dell'incerata, sul lato opposto della prua e piano piano la tartaruga cedeva emergendo dall'acqua, centimetro dopo centimetro. Ci voleva tempo. Una volta, una tartaruga verde rimase appesa al fianco della scialuppa per due giorni, dibattendosi come un'indemoniata. Per fortuna, succedeva spesso che la preda, cercando di liberarsi finisse in realtà per aiutarmi. Inaspettatamente i nostri sforzi confluivano, ed ecco che a un tratto, con un colpo di scena sensazionale, la tartaruga scavalcava il bordo e scivolava sull'incerata. Io mi lasciavo cadere all'indietro, esausto ma esultante.

Le tartarughe verdi erano più carnose di quelle embricate, con la corazza addominale più sottile. Ma erano anche più grandi, spesso troppo perché un povero naufrago spossato riuscisse a tirarle fuori dall'acqua.

Dio mio. E pensare che sono un vegetariano intransigente.

CAPITOLO 67

Il fondo della zattera, perennemente a contatto con l'acqua, divenne la casa di una moltitudine di organismi marini, esattamente come era accaduto per la rete, ma in scala più ridotta. Tutto cominciò con una soffice alga verde che si attaccò ai giubbotti di salvataggio, seguita da altre più scure e consistenti. Crebbero fino a diventare belle folte e a quel punto arrivò la vita animale. I primi a presentarsi furono i gamberetti, minuscoli e traslucidi. Seguirono dei pesciolini altrettanto piccoli la cui pelle trasparente lasciava vedere gli organi interni, come se fossero esposti ai raggi X. Successivamente notai vermi neri dalle spine dorsali bianche, lumache verdi e gelatinose con abbozzi di membra primordiali, pesciolini variopinti e panciuti e, infine, dei granchietti marroni larghi più o meno un centimetro.

Assaggiai tutto tranne i vermi. Il sapore era sempre lo stesso: amaro ed eccessivamente salato. Unica eccezione, i granchi; quando comparivano me li infilavo in bocca uno dietro l'altro quasi fossero caramelle, finché non ne rimaneva nessuno. Non riuscivo a controllarmi. Invariabilmente, dovevo attendere parecchio prima di vedere arrivare la nuova generazione.

Anche lo scafo della scialuppa attirava la vita, nella forma di piccoli crostacei. Mi piaceva succhiarli e dalla polpa ricavavo ottime esche.

Mi affezionai a quegli autostoppisti dell'oceano, anche se appesantivano un po' la zattera. Come Richard Parker, erano una fonte di distrazione. Passai molte ore immobile, steso su un fianco, accanto a un giubbotto sollevato di qualche centimetro, a godermi la vista di una città capovolta, minuscola e silenziosa i cui abitanti vivevano in pace come gli angeli. Era un vero sollievo per i miei nervi logori.

CAPITOLO 68

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Sebbene riposassi molto, raramente riuscivo a dormire più di un'ora filata, anche di notte. Non erano il vento o il movimento incessante del mare a disturbarmi: sono cose a cui ci si abitua, come i bozzi nel materasso. A destarmi erano l'apprensione e l'angoscia. Dormivo incredibilmente poco.

Tutto il contrario di Richard Parker, il quale passava gran parte del tempo sotto l'incerata. Ma nelle giornate serene, quando il sole non era troppo caldo o durante le notti tranquille, usciva allo scoperto. Allora si stendeva sul sedile di poppa, con le zampe allungate sulle panche laterali. Era un bel pezzo di tigre da comprimere in uno spazio così stretto; Richard Parker riusciva a infilarcisi solo inarcando vistosamente la schiena. Se voleva dormire, adagiava la testa sulle zampe anteriori ma quando, leggermente più vigile, arrivava ad aprire gli occhi ogni tanto, girava la testa e appoggiava il mento al bordo.

Gli piaceva anche darmi la schiena, con le zampe posteriori sul fondo della barca e quelle anteriori sul sedile di poppa. Nascondeva la testa fra le zampe, come se stesse giocando a nascondino e toccasse a lui contare. In quella posizione tendeva a restare immobile, e solo un occasionale movimento delle orecchie indicava che non stava necessariamente dormendo.

CAPITOLO 69

Molte notti credetti di scorgere un chiarore in lontananza. Ogni volta lanciavo un razzo di segnalazione. Finiti i razzi, passai ai fuochi. Quelle luci, erano navi che non mi vedevano? O le stelle riflesse sull'oceano? Oppure onde, che la luna e le mie speranze trasformavano in miraggi? In ogni caso, finiva sempre allo stesso modo, in niente. E le mie illusioni crollavano. Col passare del tempo smisi di pensare che una nave mi avrebbe salvato. Quante erano le probabilità che, nell'immensità del Pacifico, una nave entrasse nel raggio del mio orizzonte? O, peggio ancora: che ci entrasse e mi vedesse? No, non potevo contare sul genere umano e sui suoi percorsi inaffidabili. Era la terra a cui dovevo puntare, concreta, solida e sicura.

Ricordo l'odore dei fuochi quando finivano di bruciare. Per qualche scherzo della chimica, sapevano di cumino. Annusavo quegli involucri di plastica e il ricordo di Pondicherry si animava nella mia mente. Era un'esperienza intensa e inebriante, quasi un'allucinazione. Un'intera città che sorgeva da un profumo. (Adesso, quando sento l'odore del cumino, vedo l'Oceano Pacifico.)

Richard Parker rimaneva impietrito di fronte al sibilo. I suoi occhi - le pupille tonde e piccole come capocchie di spillo - si fissavano su quell'esplosione di luce per me accecante, un cuore bianco dall'aureola rossastra, che mi costringeva a girarmi. Con il braccio teso, reggevo il fuoco più in alto che potevo e intanto lo facevo ondeggiare. Per un minuto il calore irrorava l'avambraccio e tutto si accendeva di una luce strana. L'acqua attorno alla zattera, fino a un momento prima nera e opaca, rivelava un fitto brulicare di pesci.

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CAPITOLO 70

Fare a pezzi una tartaruga è un lavoraccio. La mia prima vittima fu una piccola embricata. Era il suo sangue - «buono, nutriente e privo di sale», prometteva il manuale di sopravvivenza - a tentarmi. Tanta era la sete. La afferrai per il guscio e lottai con le zampe posteriori. Poi la girai a pancia in su e provai a trascinarla sulla zattera. La povera creatura si dimenava a più non posso. Non ce l'avrei mai fatta a ucciderla lì.

Avevo due alternative: lasciarla andare, oppure provare a issarla sulla scialuppa. Guardai il cielo. Era una giornata calda e limpida, di quelle in cui Richard Parker non faceva troppo caso alla mia presenza sulla prua, perché la temperatura lo costringeva a restare sotto l'incerata fino al tramonto.

Mentre con una mano tenevo la zampa della tartaruga, con l'altra tirai la fune e mi avvicinai alla scialuppa. Quando, non senza difficoltà, riuscii ad arrampicarmi a bordo, di scatto sollevai la tartaruga e la misi pancia all'aria sull'incerata.

Come avevo sperato, Richard Parker si limitò a un brontolio soffocato. Evidentemente, con quel caldo non se la sentiva di fare sforzi.

La mia determinazione era cupa e cieca. Sentivo di non aver tempo da perdere.Sfogliai il manuale di sopravvivenza come fosse un ricettario.«Mettete la tartaruga a pancia in su». Fatto. «Inserite una lama nel collo» per

recidere vene e arterie. Quale collo? La tartaruga si era ritratta nel guscio e tutto quello che vedevo della testa erano gli occhi e il becco, circondato da cerchi di pelle. Con espressione severa fissava l'essere capovolto di fronte a sé. Afferrai il coltello e, sperando di stanarla, colpii una zampa anteriore. Sprofondò nel guscio ancora di più. Serviva un approccio più diretto. Con estrema sicurezza, come se l'avessi fatto mille volte, infilai obliquamente il coltello alla destra del capo. Affondai la lama nelle pieghe della pelle e la rigirai. La tartaruga si ritirò ulteriormente, poi di colpo cacciò fuori la testa e tentò di mordermi. Mi scostai con un balzo. L'animale estrasse tutte e quattro le zampe in un vano tentativo di fuga. Dondolava sulla schiena, agitando furiosamente le zampe e contorcendo la testa. Presi l'accetta e la calai sul collo. Ne zampillò un sangue rosso vivo che raccolsi nel bicchiere graduato: circa trecento millilitri, più o meno il contenuto di una comune lattina.

Avrei potuto prenderne di più, forse un litro, ma il becco del rettile era aguzzo e le zampe anteriori lunghe e potenti, munite di due artigli ciascuna. Il liquido rosso non aveva un odore particolare. Ne bevvi un sorso: era caldo, dal sapore animale, mi pare. Le prime impressioni si dimenticano rapidamente. Lo scolai fino all'ultima goccia.

Pensavo di rimuovere la robusta corazza addominale con l'accetta, ma la lama seghettata del coltello si dimostrò più adatta. Poggiai un piede al centro del guscio e l'altro un po' spostato, al riparo dalle sue zampe impazzite. La pelle ruvida si tagliava facilmente vicino alla testa, ma non in corrispondenza delle zampe. Segare il bordo del guscio invece richiese un certo sforzo, anche perché la tartaruga non stava ferma un attimo. Alla fine ero in un bagno di sudore. Sollevai la corazza che si staccò a

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fatica, con un rumore simile a un risucchio. La vita interna, pulsante e fremente, fu svelata: muscoli, grasso, sangue, viscere, ossa. E ancora la tartaruga si dimenava. Le aprii il collo fino alle vertebre. Non sortì alcun effetto: continuava a sbattere le zampe. Con due colpi di accetta la decapitai. Peggio ancora! La testa mozzata cercava di inspirare e sbatteva le palpebre. La gettai in mare. Raccolsi il resto (ancora vivo) e lo lanciai nel territorio di Richard Parker, che da qualche minuto si stava agitando, forse sul punto di emergere dalla sua tana. Di sicuro doveva aver fiutato il sangue della tartaruga. Mi precipitai sulla zattera.

Assistetti imbronciato al suo banchetto. Tra versi di grande apprezzamento, Richard Parker si impiastricciò gioiosamente dalla testa ai piedi. Ero sfinito. Tutta quella fatica per un misero bicchiere di sangue.

Mi ritrovai a pensare seriamente al mio rapporto con Richard Parker.Non mi bastava più che si mostrasse tollerante nei giorni sereni e caldi, ammesso

che di tolleranza si trattasse, e non di semplice pigrizia. Non volevo continuare a fuggire. Dovevo poter accedere tranquillamente al ripostiglio e alla parte superiore dell'incerata, indipendentemente dall'ora del giorno, dalle condizioni atmosferiche e dal suo umore. Avevo bisogno di diritti, il genere di diritti che derivano dal potere.

Era giunto il momento di impormi e di ritagliarmi il mio territorio.

CAPITOLO 71

A tutti coloro che dovessero trovarsi nella necessità di addomesticare un animale selvaggio in condizioni simili a quelle descritte fin qui, consiglierei di seguire il seguente programma:

1. Scegliete un giorno in cui le onde siano basse ma regolari. Colpendo la barca la sballotteranno quanto basta, senza minacciare di rovesciarla.

2. Gettate l'ancora affinché la scialuppa sia il più stabile possibile.Preparate un rifugio che vi consenta di abbandonare la barca in caso di bisogno

(sicuramente ce ne sarà bisogno). Trovate il modo di proteggervi il corpo. Quasi tutto può farvi da scudo; coperte e vestiti sono meglio di niente.

3. Adesso la parte più difficile. Dovete provocare l'animale che vi tormenta. Tigre, rinoceronte, struzzo, cinghiale, orso bruno, la specie non fa differenza, l'importante è farlo arrabbiare. La strategia migliore consiste nell'entrare rumorosamente nella zona neutrale. È quello che feci: superato il bordo dell'incerata, saltai sulla panca centrale e soffiai nel fischietto.

Il rumore che segnala le vostre intenzioni aggressive dev'essere costante e riconoscibile. Ma, attenzione, non esagerate con l'aggressività, o l'animale si sentirà spinto ad attaccarvi. Se vi attacca, che Dio vi aiuti. Vi farà a pezzi, vi schiaccerà, vi sbudellerà, probabilmente vi divorerà. Meglio evitarlo. L'animale dovrà essere irritato, infastidito, contrariato, non in preda a furia omicida. Evitate di invadere il

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suo territorio. Ripeto, aggressivi sì, ma fino a un certo punto: fissatelo dritto negli occhi, fischiate e copritelo di insulti.

4. Dopo aver provocato l'animale, il vostro obiettivo è indurlo a sconfinare a sua volta. Metteteci tutta la vostra mala fede. Indietreggiate piano piano, senza smettere di fare rumore. Mi raccomando, MAI ABBASSARE LO SGUARDO! Non appena l'animale posa una zampa nel vostro territorio, reagite. Non siate troppo pignoli nel valutare lo sconfinamento, ciò che conta è che l'animale abbia manifestato la chiara intenzione di farsi avanti. Agite come se aveste subito un grave affronto, non perdetevi in inutili tentativi d'interpretazione.

L'animale deve capire che il suo vicino di casa è un tipo decisamente suscettibile quando si tratta di difendere il suo territorio.

5. Che abbiate abbandonato la barca per raggiungere il vostro rifugio o no, FISCHIATE CON QUANTO FIATO AVETE IN GOLA e LEVATE L'ANCORA. Queste due azioni rivestono un'importanza fondamentale. Quindi agite in fretta. Aiutandovi con un remo, fate in modo che in pochi secondi la barca si ritrovi perpendicolare alle onde.

6. Fischiare in continuazione è spossante per un naufrago indebolito, ma non dovete mollare. L'animale allarmato deve associare la sua nausea crescente al suono acuto del fischietto. Per un effetto ancora più rapido, posizionatevi all'estremità della barca a gambe divaricate e oscillate al ritmo delle onde. Per quanto possiate essere magri, per quanto la scialuppa possa essere grande, il risultato vi stupirà: in un attimo la barca ballerà il rock and roll come Elvis Presley. Non dimenticate di continuare a fischiare, e attenzione a non rovesciare la scialuppa.

7. Insistete finché l'animale che è la vostra spada di Damocle - tigre, rinoceronte o quello che sia - non mostri di essere sufficientemente sopraffatto dal mal di mare. Non accontentatevi di constatare che ha una brutta cera verdastra; dovete sentirlo boccheggiare e deglutire con la gola contratta dai conati; dovete vederlo steso sul fondo alla scialuppa, con le zampe tremanti, gli occhi fuori dalle orbite e in bocca un rantolo mortale.

Nel frattempo, non cessate di spaccargli i timpani con il suono perforante del fischietto. Se neanche voi vi sentite troppo in forma, non vomitate in mare: sarebbe uno spreco. Il vomito è un'eccellente guardia di frontiera. Vomitate lungo i margini del vostro territorio.

8. Quando l'animale è ormai KO, potete fermarvi. Il mal di mare sopraggiunge in fretta, ma ci mette un po' a passare. Avete esposto i vostri argomenti, non è il caso che vi accaniate a ribadirli. La nausea non uccide, ma può seriamente intaccare la voglia di vivere di una creatura.

Gettate di nuovo l'ancora in modo che la barca si stabilizzi, poi, se l'animale è collassato al sole, cercate di procurargli una po' d'ombra. Assicuratevi che abbia a

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disposizione dell'acqua quando si riprende. Se ne avete, scioglieteci dentro delle pillole contro il mal di mare. Altrimenti il rischio della disidratazione è molto concreto. Poi ritiratevi nel vostro territorio e lasciatelo in pace.

Acqua, riposo, relax, una scialuppa stabile e tornerà come nuovo. Aspettate che si sia ripreso completamente prima di ricominciare dal punto numero 1.

9. Il programma va ripetuto fino a quando nella mente dell'animale l'associazione fra suono del fischietto e nausea intensa e debilitante non sia lampante e consolidata. Da quel momento, il solo fischietto basterà a censurare ogni atteggiamento indesiderabile da parte sua. L'addomesticamento può dirsi completo. Si raccomanda di fare ricorso al fischietto solo in caso di reale necessità.

CAPITOLO 72

Io, per proteggermi da Richard Parker durante l'addestramento, avevo trasformato un guscio di tartaruga in uno scudo, incastrando una fune in due tacche, una per lato. Era uno scudo più pesante di quanto avrei desiderato, ma ai soldati è forse concesso scegliere il proprio equipaggiamento?

La prima volta che lo utilizzai, Richard Parker mostrò i denti, roteò le orecchie, e con un breve ruggito partì alla carica. Un'enorme zampa dagli artigli spiegati si levò in aria e atterrò sul guscio di tartaruga, sbalzandomi fuori bordo.

Lasciai la presa e lo scudo svanì nel nulla, non senza prima aver rimbalzato dolorosamente contro il mio stinco.

Ero terrorizzato, e non solo a causa di Richard Parker. Immaginavo che da un momento all'altro uno squalo si sarebbe scagliato su di me. Nuotai verso la zattera con furia, scomposto. Era il sistema più sicuro per attirare l'attenzione degli squali, che però, fortunatamente, non si fecero vivi. Sulla zattera, lasciai scorrere la fune e mi sedetti, le braccia avvinghiate alle ginocchia e la testa china, sforzandomi di spegnere il fuoco della paura che divampava dentro di me. Ci volle molto tempo perché smettessi di tremare.

Restai sulla zattera tutto il giorno e tutta la notte, senza bere né mangiare.Non appena catturai un'altra tartaruga, ci riprovai. Il nuovo guscio era più piccolo

e più leggero, senz'altro più adatto a essere trasformato in scudo.Avanzai oltre il limite dell'incerata e pestai i piedi sulla panca centrale.Mi preme sottolineare come quel gesto non fosse frutto della follia o di un

inconscio desiderio suicida, ma della necessità.O riuscivo ad addomesticarlo, facendo in modo che accettasse una volta per tutte

che io ero il Numero Uno e lui il Numero Due, oppure sarei morto nell'istante stesso in cui, mettendo piede sulla scialuppa, lui avesse avuto qualcosa da ridire.

Se sopravvissi al mio tirocinio come domatore, fu perché Richard Parker non voleva veramente attaccarmi. Le tigri - anzi gli animali in genere - non scelgono mai la violenza come mezzo per saldare i conti. Quando combattono, lo fanno con l'intenzione di uccidere e la consapevolezza di rischiare la morte. Di conseguenza, si

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affidano a un intero arsenale di segnali "d'avvertimento" il cui scopo è evitare lo scontro. È molto raro che una tigre attacchi un altro predatore senza avvisarlo. Di solito si lancia ruggendo contro l'avversario, ma un attimo prima che sia troppo tardi si blocca. Un rantolo minaccioso le monta nella gola mentre valuta la situazione. Se decide che non c'è pericolo, si gira e si allontana, convinta che il messaggio sia stato recepito.

Per quattro volte Richard Parker mi inviò il suo messaggio. Per quattro volte mi colpì con la zampa destra spedendomi in mare, e per quattro volte persi lo scudo.

Inizialmente ero terrorizzato prima, durante e dopo l'attacco e alla fine mi rannicchiavo sotto la tenda, tutto tremante rimanendoci per diverse ore.

Con il tempo imparai a decifrare i suoi segnali d'avvertimento. Scoprii che orecchie, occhi, baffi, denti, coda e gola parlavano una lingua semplice, dalla punteggiatura assai espressiva, comunicandomi quale sarebbe stata la sua mossa successiva. E io indietreggiavo prima che sollevasse la zampa.

Poi venne il mio turno di inviargli un messaggio, le gambe divaricate, la barca in preda a un furioso rollio e una nota sola: FRIIII. Richard Parker boccheggiava e gemeva sul fondo della scialuppa.

Il mio quinto scudo durò fino alla fine dell'addestramento.

CAPITOLO 73

Il mio desiderio più grande - a parte la salvezza - era un libro. Un libro lunghissimo che contenesse una storia infinita. Un libro da leggere e rileggere ogni giorno con occhi diversi, per attingervi significati sempre nuovi. Purtroppo, non c'erano testi sacri a bordo. Ero un Arjuna sconsolato su un carro malridotto, senza neppure la consolazione delle parole di Krishna.

La prima volta che giunto in Canada, mi imbattei in una Bibbia sul comodino di una stanza d'albergo, scoppiai a piangere. Il giorno dopo spedii un'offerta in denaro ai Gideons, con una nota in cui li invitavo ad allargare il raggio della loro attività a tutti i luoghi frequentati dai viaggiatori stanchi in cerca di ristoro, e a non lasciare soltanto Bibbie, ma anche testi di altre religioni.

Non riesco a immaginare un modo più efficace di diffondere la fede. Basta con le accuse scagliate dal pulpito, con le minacce, con la pressione esercitata dalla maggioranza tradizionalista e benpensante. Solo un libro, che attende silenzioso di porgerti il suo saluto, delicato e persuasivo come il bacio di una ragazzina sulla guancia.

Se almeno avessi avuto un buon romanzo! Ma c'era solo il manuale di sopravvivenza. Nel corso di quei sette mesi lo lessi diecimila volte.

Tenevo un diario.Leggerlo non è facile. Scrivevo più piccolo che potevo, per timore di finire la

carta. Non è un granché. Parole scarabocchiate nel tentativo di comprendere una realtà troppo crudele. Lo cominciai circa una settimana dopo il naufragio della Tsimtsum. Le annotazioni non sono datate né numerate. Ciò che più mi colpisce

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sfogliandolo è la mia percezione del tempo. Giorni, settimane intere, concentrate in una pagina.

Scrivevo di ciò che succedeva, delle mie reazioni, di quello che pescavo e di quello che non riuscivo a pescare; raccontavo del mare e del tempo, dei problemi e delle soluzioni, di Richard Parker.

Tutte cose molto pratiche.

CAPITOLO 74

Avevo adattato i miei rituali religiosi alle circostanze: messe solitarie senza né preti né ostie consacrate, darshan senza murti, e puja con carne di tartaruga come prasad, atti di devozione ad Allah pronunciati in un arabo approssimativo ignorando da che parte fosse la Mecca.

Quelle pratiche mi davano conforto, senza dubbio, ma era dura, oh, com'era dura. La fede in Dio è apertura totale, abbandono, fiducia profonda, un libero atto d'amore. A volte però era così difficile amare! A volte il mio cuore appesantito dalla rabbia, dalla desolazione e dalla stanchezza sprofondava così velocemente che temevo di vederlo sparire negli abissi del Pacifico, dove non sarei più riuscito a ripescarlo.

In quei momenti mi sforzavo di elevarmi. Toccavo il turbante che mi ero fatto con i brandelli della camicia e gridavo: «QUESTO È IL CAPPELLO DI DIO!».

Mi accarezzavo i pantaloni strappati e urlavo: «LA VESTE DI DIO!».Indicavo Richard Parker ed esclamavo: «ECCO IL GATTO DI DIO!».Puntavo il dito in direzione della scialuppa: «L'ARCA DI DIO!».Allargavo le braccia a comprendere il mare ed esultavo: «IL VASTO CAMPO DI

DIO!».Alzavo lo sguardo al cielo: «E, SOPRA OGNI COSA, L'ORECCHIO DI DIO!».In quel modo mi ricordavo della creazione e del mio posto nell'universo.Ma il cappello di Dio mi scivolava sugli occhi in continuazione. La veste di Dio

cadeva a pezzi. Il gatto di Dio era una minaccia costante. L'arca di Dio era una prigione. Il campo di Dio mi uccideva lentamente. L'orecchio di Dio non mi stava a sentire.

La disperazione era un buio fitto e impenetrabile. Un inferno inesprimibile. Grazie a Dio, alla fine passava. Un banco di pesci accerchiava la rete o un nodo chiedeva a gran voce di venire rifatto. Oppure pensavo alla mia famiglia, alla quale quella lunga agonia era stata risparmiata. Il buio vacillava e si dissolveva e Dio rimaneva, uno scintillante punto di luce in mezzo al mio cuore.

Continuavo ad amare.

CAPITOLO 75

Nel giorno che calcolai essere il compleanno di mia madre, le cantai «Buon Compleanno» ad alta voce.

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CAPITOLO 76

Presi l'abitudine di pulire la scialuppa dopo che Richard Parker aveva fatto i suoi bisogni. Non appena capivo che era andato di corpo, intervenivo. Era una operazione rischiosa: sdraiato sull'incerata dovevo usare il crocco per avvicinare gli escrementi, quindi mi allungavo per raccoglierli.

Le feci possono essere infette, contaminate da parassiti. Per gli animali in libertà questo non rappresenta un problema; molti hanno con gli escrementi un rapporto assolutamente neutro: gli arboricoli non li guardano neppure; gli animali di terra in genere defecano e poi si allontanano.

Invece, nel territorio circoscritto di uno zoo le cose vanno diversamente: lasciare le feci nel recinto può portare al diffondersi di malattie, perché significa incoraggiare gli animali a mangiarsele. Non dimentichiamo che sono golosi di qualsiasi cosa assomigli anche vagamente al cibo. Ecco perché i recinti vengono puliti con frequenza, per tutelare la salute intestinale degli animali, non per risparmiare la vista e l'olfatto dei visitatori.

Ma io non pulivo la scialuppa per tenere alta la reputazione della famiglia Patel in fatto di standard igienici zoologici. Nel giro di poche settimane Richard Parker diventò stitico. Defecava solo una volta al mese, rendendo il rapporto rischi/benefici del mio lavoro di custode piuttosto svantaggioso, almeno dal punto di vista sanitario. La ragione per cui pulivo era un'altra: la prima volta che Richard Parker aveva defecato a bordo, il suo tentativo di nascondere il proprio prodotto aveva attirato la mia attenzione. Era un gesto molto eloquente. Lasciare le feci in bella mostra, libere di spargere ovunque il loro fetore sarebbe stato un segno di dominio sociale. Al contrario, nasconderle - o provare a farlo - era un segno di deferenza nei miei confronti.

Era evidente che quando pulivo Richard Parker si innervosiva. Rimaneva acquattato, la testa leggermente inclinata all'indietro e le orecchie appiattite, emettendo un lungo GRRR irritato.

Io procedevo senza fretta, attento non solo a preservare la pelle, ma anche a inviargli il giusto segnale. Prendevo in mano le sue feci e ci giocavo un po', di tanto in tanto avvicinandole al naso per annusarle rumorosamente. Lo fissavo a occhi sbarrati (per la paura, ma lui non poteva immaginarlo) abbastanza da renderlo inquieto, ma non da indurlo a reagire. A ogni occhiata, soffiavo forte nel fischietto. Lo aggredivo con lo sguardo (per tutti gli animali, esseri umani inclusi, fissare è un atto ostile) e continuavo a fischiare, scatenando associazioni minacciose nella sua mente. Il tutto per fargli capire che era mio diritto, mio sacrosanto diritto, palpeggiare e annusare le sue feci come e quando mi pareva.

Insomma, ciò che mi interessava non era giocare al guardiano, ma esercitare una forma piuttosto sofisticata di bullismo. Funzionò. Richard Parker non osava fissarmi di rimando; il suo sguardo fluttuava a mezz'aria, non si posava su di me ma neppure mi evitava. In quei momenti sentivo la mia supremazia crescere con la stessa

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chiarezza con cui percepivo le palle di feci nelle mie mani. E alla fine la tensione dell'addestramento mi lasciava sfinito ed elettrizzato al tempo stesso.

Dal momento che siamo in argomento, dirò che anch'io ero stitico come Richard Parker. La causa era la nostra dieta, troppo povera di acqua e troppo ricca di proteine. Andavo di corpo una volta al mese; un evento laborioso, impegnativo e doloroso che mi lasciava sudato e spossato come se avessi la febbre.

CAPITOLO 77

Man mano che le scorte di cibo calavano, ridussi i consumi di razione d'emergenza fino alla dose consigliata: due biscotti ogni otto ore. Avevo sempre fame. Il cibo era diventato la mia ossessione. Meno mangiavo, più grandi diventavano le porzioni che sognavo. I miei pasti immaginari raggiunsero le dimensioni dell'India. Un Gange di zuppa di lenticchie. Chapati caldi grandi come il Rajasthan. Piatti di riso come l'Uttar Pradesh. Sambar da inondare il Tamil Nadu. Coppe di gelato alte come l'Himalaya.

Divenni un grande esperto nell'arte di allestire quei banchetti: gli ingredienti erano sempre freschi e abbondanti, il forno o la padella caldi al punto giusto, le dosi perfette; nessuna pietanza bruciava o restava cruda, nessun piatto era troppo caldo o troppo freddo. Ogni pranzo era un capolavoro: peccato solo che non potessi toccarlo.

Le dimensioni del mio appetito aumentarono gradualmente. Se all'inizio, quando pulivo il pesce, scartavo la pelle schifato, in seguito mi limitavo a una sciacquata per lavare via la patina viscida prima di assaggiarlo, estasiato da tanta delizia. I pesci volanti erano saporiti, la loro carne bianca e rosa era tenera. I dorado avevano una consistenza più compatta e un sapore più forte. Invece di lanciare le teste a Richard Parker o di utilizzarle come esca, cominciai a mangiare anche quelle. Fu una gioia scoprire che gli occhi e le vertebre dei pesci più grossi contenevano un liquido dal sapore fresco. Le tartarughe non erano più scodelle di zuppa da scoperchiare e servire a Richard Parker ben calde ma il mio piatto preferito.

Guardavo una tartaruga viva e vedevo un succulento pranzo di dieci portate, piacevole diversivo dopo tanto pesce. A ripensarci mi sembra incredibile, ma era proprio così. Nelle vene delle tartarughe scorreva un lassi squisito, che però bisognava bere non appena zampillava dal collo, perché si coagulava in meno di un minuto. Nemmeno i migliori poriyal e kootu potevano competere con la loro carne, che apprezzavo sia fresca sia essiccata. Nessun payasam al cardamomo mi era mai parso dolce e nutriente quanto le loro uova cremose, o il grasso essiccato. Lo spezzatino di cuore, polmoni, fegato, polpa e intestino ripulito, cosparso di bocconcini di pesce e condito con salsa di tuorlo e siero, era un thali insuperabile, da leccarsi i baffi. In breve tempo arrivai a mangiare tutto quello che una tartaruga aveva da offrire, dai molluschi nascosti nelle alghe del guscio al contenuto del suo stomaco. Passavo ore a rosicchiare la giuntura di una zampa o a frantumare le ossa per succhiarne il midollo. E le mie dita non smettevano mai di scovare pezzettini di grasso o di carne secca rimasti attaccati all'interno del guscio: rovistavano in cerca di

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cibo nel modo febbrile e automatico tipico delle scimmie.I gusci si rivelarono molto utili. Non fungevano solo da scudi, ma anche da taglieri

per il pesce e da recipienti per mescolare il cibo. E quando gli elementi naturali distrussero definitivamente le coperte, li utilizzai per proteggermi dal sole: li appoggiavo gli uni contro gli altri e mi ci stendevo sotto.

Era spaventoso constatare fino a che punto il mio stato d'animo dipendesse da quel che avevo in pancia. Il senso di sazietà era la misura del mio buon umore. Il mio sorriso dipendeva dalla carne di tartaruga.

Quando svanì anche l'ultimo biscotto, cominciai a mangiare di tutto, senza più curarmi dei sapori. Masticavo e ingoiavo qualsiasi cosa mi infilassi in bocca; deliziosa, schifosa o insapore per me non faceva differenza, a patto che non fosse salata. Il mio corpo sviluppò una repulsione per il sale così profonda che mi condiziona ancora oggi.

Una volta provai addirittura a mangiare le feci di Richard Parker. La mia odissea era iniziata da poche settimane, il mio organismo non si era ancora adattato a convivere con la fame e la mia immaginazione scatenata mi spingeva a sperimentare ogni tipo di soluzione. Avevo appena versato l'acqua di un distillatore nel secchio di Richard Parker. Dopo averla bevuta d'un fiato, si era dileguato sotto l'incerata e io mi ero messo a trafficare nel ripostiglio. Quando decisi di controllare cosa stesse combinando, lo trovai accovacciato con la schiena inarcata e le zampe posteriori divaricate. La coda era sollevata e premeva contro l'incerata. La posizione non lasciava adito a dubbi.

Il mio primo pensiero fu di carattere alimentare. Poiché mi dava le spalle, l'operazione non presentava grossi rischi. Afferrai una tazza e tesi il braccio. Appena in tempo. Nell'attimo in cui accostavo il recipiente alla base della coda, l'ano di Richard Parker si dilatò e lasciò cadere una pallottola nera. Atterrò nel recipiente con un toc. A costo di far inorridire quanti non comprendono fino a che punto soffrissi, confesso che quel toc risuonò alle mie orecchie simile al tintinnio di una moneta da cinque rupie nella ciotola di un mendicante. Un ampio sorriso spaccò le mie labbra secche e riarse. Ero profondamente grato alla tigre.

Presi lo sterco fra le dita. Era caldo, ed emanava un odore discreto. Era grande quanto una grossa palla di gulab jamun, ma non altrettanto morbido, al contrario era duro come una roccia. Se l'avessi usato per caricare un moschetto, avrei potuto far fuori un rinoceronte.

Rimisi la palla nella tazza, aggiunsi un po' d'acqua, e la misi da parte. Mentre aspettavo, mi venne l'acquolina in bocca. Quando non riuscii più a resistere, la presi e me la cacciai in bocca. Ma non la mangiai. Aveva un sapore acre, anche se non fu quello a frenarmi. A convincermi a sputarla fu la constatazione ovvia e immediata del fatto che quello non poteva essere considerato cibo. La pallottola nera era composta esclusivamente da materiali di scarto, indigeribili e completamente privi di sostanze nutritive.

Scossi la testa, pentito di aver sprecato acqua preziosa. Presi il crocco e finii di raccogliere gli escrementi di Richard Parker. Poi li gettai ai pesci.

Di lì a un paio di settimane, il mio corpo cominciò a deteriorarsi. Piedi e caviglie

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si gonfiarono tanto che facevo fatica a stare in piedi.

CAPITOLO 78

C'erano tanti cieli. Il cielo invaso da grandi nuvole bianche, dalla base piatta ma tondeggianti e gonfie in cima. Il cielo assolutamente limpido, di un blu da sconvolgere i sensi. Il cielo come una pesante coltre grigia, soffocante e senza promessa di pioggia. Il cielo velato da un sottile strato biancastro. Il cielo punteggiato di soffici nubi. Il cielo con striature alte e sottili come batuffoli di cotone sfilacciati. Il cielo come una piatta cortina lattiginosa. Il cielo ingombro di masse scure che passavano senza versare una goccia. Il cielo con poche nuvole piatte simili a banchi di sabbia. Il cielo in un unico blocco che determinava un particolare effetto visivo all'orizzonte: l'oceano inondato di sole, i confini verticali fra luce e ombra perfettamente distinti. Il cielo simile a una cortina di pioggia grigia e distante. Il cielo con tante nuvole ad altezze diverse, alcune gonfie e opache, altre evanescenti come fumo. Il cielo nero che sputava pioggia sul mio viso sorridente. Il cielo nient'altro che acqua, un diluvio incessante che mi increspava e gonfiava la pelle gelandomi fino alle ossa.

C'erano tanti mari. Il mare che ruggiva come una tigre. Il mare che mi sussurrava alle orecchie come un amico che mi confidasse i suoi segreti. Il mare che tintinnava come monetine in tasca. Il mare che rimbombava come una valanga. Il mare che sfregava come carta vetrata sul legno. Il mare che gorgogliava come uno che vomita. Il mare con un silenzio di morte.

E fra cielo e mare c'erano tutti i venti.E tutte le notti e tutte le lune.Essere un naufrago significa essere un punto perennemente al centro di un cerchio.

Anche quando sembra che intorno a te le cose mutino - il mare che passa dalla quiete alla furia, il cielo che da azzurro diventa bianco e poi nero - la geometria rimane sempre la stessa. Il tuo sguardo è il raggio di un'immensa circonferenza. Sei stretto nel mezzo di un estenuante balletto di cerchi. Tu sei il fulcro di un cerchio, e sopra il tuo capo piroettano altri due cerchi. Il sole è spossante come una folla, una moltitudine rumorosa e invadente che ti costringe a tapparti le orecchie e a chiudere gli occhi, facendoti venire voglia di nasconderti.

La luna ti distrugge rammentandoti silenziosa la tua solitudine, che provi a scacciare spalancando gli occhi.

Quando alzi lo sguardo, a volte ti chiedi se al centro di una tempesta solare, se nel mezzo del Mare della Tranquillità, non ci sia un altro come te, prigioniero della geometria, che volgendo gli occhi al cielo lotta contro la paura, la rabbia, la follia, la disperazione, l'apatia.

Il naufrago è vittima di contrasti estenuanti e crudeli. Di giorno, l'immensità del mare è accecante e spaventosa. Di notte, l'oscurità è claustrofobica. Di giorno, fa caldo, sogni il gelato e ti rovesci addosso acqua di mare. Di notte, fa freddo, aneli piatti di curry bollenti e ti avvolgi nelle coperte. Quando fa caldo, muori di sete e

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vorresti nuotare. Quando piove, sei fradicio e vorresti stare all'asciutto. Quando c'è da mangiare, è troppo e sei costretto ad abbuffarti. Quando manca, muori di fame. Quando il mare è piatto e immobile, vorresti che si muovesse. Quando si solleva e il cerchio che ti imprigiona s'infrange sotto l'impatto di montagne d'acqua, ti senti soffocare e vorresti che tornasse la calma. Ma gli opposti spesso coesistono: quando il sole ti brucia fino a stroncarti, sai che per i distillatori è una benedizione e che le tue strisce di pesce essiccheranno più in fretta. Al contrario, quando la pioggia rimpingua le tue scorte d'acqua, temi che l'umidità danneggi le provviste essiccate, rendendole verdi e pastose. Quando una tremenda tempesta si placa e tu sei scampato all'assalto del cielo e alla perfidia del mare, la tua esultanza è venata di rabbia: pensi a tutta quell'acqua sprecata e ti convinci che morirai di sete prima della prossima pioggia.

La coppia di opposti più insidiosa è quella composta da noia e terrore. La tua vita è un pendolo che oscilla dall'una all'altro. Il mare è liscio come una tavola. Non c'è un filo di vento. Le ore sembrano eterne. Sei così annoiato che gradualmente sprofondi in uno stato di apatia simile al coma. Poi le acque si fanno agitate e le tue emozioni si impennano.

Tuttavia, persino questi due opposti talvolta si sovrappongono. Nella tua noia ci sono elementi di terrore: a un tratto scoppi a piangere, sei pieno di paura, urli, ti fai male deliberatamente. E nella morsa del terrore, nel bel mezzo della peggiore tempesta, riesci ancora a percepire la noia, una specie di stanchezza profonda e totale.

La vita su una scialuppa non è un granché. Ti prostra fisicamente e ti uccide moralmente. È come un finale di partita a scacchi in cui lo schema è semplice e la posta in gioco altissima. Per sopravvivere devi saperti adattare, sacrificando gran parte di te.

Trovi la felicità dove puoi. Sei negli abissi dell'inferno, ma incroci le braccia sorridente e ti senti l'uomo più fortunato del mondo. Perché? Perché ai tuoi piedi c'è un minuscolo pesce morto.

CAPITOLO 79

Apparivano squali ogni giorno, soprattutto squali mako e squali azzurri, ma anche squali oceanici dalle pinne bianche, e una volta persino uno squalo tigre che pareva uscito dal più nero degli incubi. Si facevano vedere di preferenza all'alba o al tramonto. Non ci minacciarono mai seriamente. Capitava che uno di loro urtasse lo scafo con la coda, come del resto facevano tartarughe e dorado, forse per indagare circa la natura della scialuppa, ma bastava un bel colpo sul muso perché sparisse negli abissi.

L'unico aspetto seccante degli squali era che mi impedivano di entrare in acqua tranquillo. Per il resto, col tempo mi affezionai a quelle creature. Erano come vecchi amici bisbetici che pur non ammettendo di volermi bene, venivano sempre a trovarmi. Gli squali azzurri, lunghi circa un metro e mezzo, erano i più belli: lucenti

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e slanciati, con la bocca piccola e le fessure branchiali poco vistose. La schiena era di un profondo blu oltremare e lo stomaco bianco neve, colori che sfumavano nel grigio o nel nero quando si inabissavano, ma in prossimità della superficie brillavano in modo sorprendente.

Gli squali mako erano più grandi, con la bocca terribilmente piena di denti e il corpo di un bell'indaco che scintillava al sole.

Gli squali dalle pinne bianche di solito erano più corti dei mako - che raggiungevano i tre metri e mezzo - e più massicci. Avevano enormi pinne dorsali che issavano sulla superficie del mare come bandiere di guerra, e si muovevano veloci.

Osservarli era snervante. Per di più, erano di un colore opaco poco attraente, una sorta di marrone grigiastro, con la punta delle pinne screziata di bianco.

Riuscii a prendere alcuni esemplari piccoli, quasi tutti squali azzurri, ma anche qualche mako. Sempre dopo il tramonto, quando la luce era fioca: si avvicinavano alla scialuppa e io li afferravo a mani nude.

Il primo che catturai fu il più lungo, un mako di circa un metro e venti. Si aggirava insistentemente attorno alla prua. Quando lo vidi passare per l'ennesima volta, istintivamente cacciai una mano nell'acqua e la strinsi attorno al punto in cui il suo corpo era più esile, poco sopra la coda. La pelle ruvida offriva un'ottima presa e senza pensare a quello che stavo facendo cominciai a tirare. Lo squalo diede un guizzo, strattonandomi violentemente. Con un misto di orrore ed esultanza, lo vidi volteggiare per aria in un'esplosione di spruzzi. Restai impietrito per un secondo. Anche se la mia preda era relativamente piccola, mi stavo comportando come un avventato Golia. Avrei fatto bene a lasciarlo andare, e invece mi girai di scatto e lo scaraventai a poppa. Persi l'equilibrio e caddi sull'incerata. Lo squalo atterrò con un tonfo. Si dimenava con un tale strepito da indurmi a temere per l'incolumità della barca.

Richard Parker rimase di stucco, ma in un istante lo attaccò.Ebbe inizio una battaglia epica. Gli zoologi troveranno senza dubbio interessante

quello che sto per raccontare: di fronte a uno squalo fuor d'acqua, una tigre non colpisce azzannando, preferisce usare le zampe anteriori. Richard Parker cominciò a percuoterlo. Ogni zampata mi faceva rabbrividire. Uno solo di quegli schiaffi a un essere umano avrebbe spezzato tutte le ossa. Che lo squalo non gradisse il trattamento era evidente dal modo in cui sbatteva la coda, contorcendosi e cercando di afferrare il suo avversario con i denti.

A un certo punto Richard Parker commise un errore. Con sconcerto mi resi conto che non era perfetto, che nonostante l'istinto finissimo anche lui poteva sbagliare. Infilò la zampa sinistra nella bocca dello squalo, che subito serrò le mandibole. La tigre indietreggiò sulle zampe posteriori, ma lo squalo mantenne la presa. Allora Richard Parker cadde sulla schiena, spalancò la bocca e lanciò un poderoso ruggito. Una folata calda mi investì e un tremolio smosse l'aria. Da qualche parte sull'oceano, a chilometri e chilometri di distanza, la sentinella di una nave probabilmente alzò lo sguardo stupita, annunciando di aver udito un miagolio a ore tre. Alcuni giorni più tardi, quel ruggito continuava a echeggiarmi nelle budella.

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Lo squalo è praticamente sordo. Così, io che non avrei mai osato azzannare la zampa di una tigre, vacillai e crollai a terra per effetto di quel ruggito vulcanico in piena faccia, mentre il pesce a cui il ruggito era diretto percepì solo una debole vibrazione.

Richard Parker si girò, piantò gli artigli nella testa dell'avversario e cercò di azzannarla. Lo squalo restava aggrappato alla sua zampa: era quella la sua unica strategia di attacco e difesa. Avvinghiati, i due ruzzolarono sul fondo. Allora mi riscossi e mi precipitai sulla zattera. Adesso vedevo solo lampi arancioni e blu, squarci di pelo e la scialuppa che dondolava furiosamente. I versi di Richard Parker erano a dir poco terrificanti.

Finalmente la scialuppa smise di dondolare. Dopo qualche minuto Richard Parker si issò a sedere e si leccò la zampa sinistra.

Nei giorni successivi passò molto tempo assorto in quella occupazione. La pelle di uno squalo è rivestita da minuscole protuberanze, ruvide come carta vetrata. Di sicuro Richard Parker si era tagliato colpendole. Dello squalo rimanevano solo la punta della coda e l'area intorno alla bocca, curiosamente intonsa. Il resto era uno scempio sanguinolento di carne grigia e interiora.

Servendomi del crocco riuscii ad appropriarmi di qualche avanzo. Constatai tristemente che le vertebre dello squalo non contengono fluidi; in compenso, però, la carne era gustosa e non sapeva di pesce. La cartilagine, poi, era un croccante diversivo dopo tanto cibo molle.

In seguito mi orientai su esemplari più piccoli, cuccioli, che ammazzavo io stesso. Scoprii che il modo più facile e veloce per raggiungere lo scopo era trafiggere loro gli occhi con il coltello, e non colpirli sulla testa con l'accetta.

CAPITOLO 80

Di tutti i dorado che vidi, ne ricordo uno in particolare, uno davvero speciale. Era l'alba di una giornata nuvolosa quando ci ritrovammo nel mezzo di una tempesta di pesci volanti. Richard Parker si dava un gran da fare mentre io mi ero rannicchiato dietro un guscio di tartaruga. Avevo appeso un pezzo di rete a un crocco proteso sull'acqua, sperando di acchiappare un po' di pesci volanti, ma con scarsi risultati. Uno di loro sfrecciò proprio davanti ai miei occhi, inseguito da un dorado. Il pesce volante spaventato riuscì a fuggire, mancando di un pelo la rete, ma il dorado colpì il bordo della scialuppa come una cannonata facendola oscillare. Un fiotto di sangue imbrattò l'incerata. La mia reazione fu rapida. Sfidando la grandinata di pesci, mi sporsi, ripescai il dorado da sotto il naso di uno squalo e lo tirai a bordo. Era morto, o quasi, e riluceva di ogni colore immaginabile. "Che colpo!" pensai eccitato. "Ti ringrazio, Gesù-Matsya."

Il pesce era grasso e carnoso. Doveva pesare circa venti chili. Avrebbe sfamato un esercito. I fluidi degli occhi e della spina dorsale sarebbero bastati a irrigare un deserto.

Ma con la coda dell'occhio vidi Richard Parker che girava l'enorme testa verso di

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me. I pesci volanti continuavano a sfrecciare, ma lui non era più interessato; la sua attenzione era tutta per ciò che tenevo tra le mani. Ci separavano due metri abbondanti. L'ala di un pesce volante gli penzolava dalla bocca socchiusa. Inarcò la schiena. Il fondoschiena fremette. La coda vibrò. Era chiaro: stava per attaccarmi. Era troppo tardi, per scappare, e anche per fischiare. Il mio momento era arrivato.

Ma quando è troppo è troppo. Avevo sofferto le pene dell'inferno ed ero affamato. Digiunavo da non so quanti giorni.

E così, in un momento di follia in cui mangiare mi premeva più che sopravvivere, senza alcun mezzo di difesa, nudo nel vero senso della parola, guardai Richard Parker dritto negli occhi. Di colpo la sua forza bruta mi sembrava solo debolezza morale. Non era niente in confronto alla forza nella mia mente. Lo fissavo con occhi sgranati e pieni di sfida. Chiunque lavori in uno zoo potrà confermare che le tigri, anzi, i felini in genere, non attaccano una preda quando questa li fissa: aspettano che il cervo, o l'antilope, o il bue selvatico distolgano lo sguardo. Ma saperlo è un conto, metterlo in pratica un altro (non provateci se il felino è in branco: mentre inchiodate un leone con il vostro sguardo ipnotico, un altro vi attaccherà alle spalle).

Per due, forse tre secondi, un ragazzino e una tigre si scontrarono in una straordinaria battaglia mentale per la supremazia. L'animale doveva solo spiccare un balzo per trionfare.

Ma io non abbassai lo sguardo.Richard Parker si leccò il naso, emise una sorta di grugnito e si girò, pronto a

sfogare la rabbia sul primo pesce volante. Avevo vinto. Rimasi a bocca aperta, incredulo; presi il dorado e corsi sulla zattera. Poco dopo ne lanciai un'equa porzione a Richard Parker.

Quel giorno mi convinsi che la mia autorità non era più in discussione, e cominciai a passare sempre più tempo sulla scialuppa, dapprima appollaiato a prua, poi, man mano che acquistavo sicurezza, sull'incerata, decisamente più comoda. Avevo ancora paura di Richard Parker, ma solo quand'era necessario. La sua presenza in sé non era più ragione di angoscia. Ci si abitua davvero a tutto... non l'ho già detto? Non è quello che raccontano tutti i sopravvissuti?

All'inizio mi stendevo sull'incerata e adagiavo la testa sul bordo arrotolato vicino alla prua. Da quella postazione leggermente rialzata riuscivo a tener d'occhio Richard Parker.

In seguito scoprii una posizione migliore, più riparata da vento e spruzzi, con la testa sulla panca centrale e la schiena rivolta a Richard Parker e al suo territorio.

CAPITOLO 81

Il fatto che sia sopravvissuto può sembrare incredibile, lo so. Io stesso stento a crederci.

Il mal di mare di Richard Parker e la mia determinazione a sfruttarlo non sono le uniche spiegazioni. Ce n'è almeno una terza, altrettanto importante: io ero la sua fonte di cibo e acqua.

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Richard Parker era arrivato allo zoo da cucciolo, e lì si era abituato a sfamarsi senza bisogno di alzare una zampa. Certo, quando pioveva e l'intera barca si trasformava in un abbeveratoio, capiva da dove venisse tutta quell'acqua. E quando un banco di pesci volanti ci piombava addosso, be', anche in quel caso il mio ruolo non era tanto evidente. Ma queste eccezioni non intaccavano la realtà dei fatti: se guardava fuoribordo, non vedeva nessuna giungla in cui cacciare, nessun fiume al quale dissetarsi. Eppure io, puntuale e miracoloso, gli davo da bere e da mangiare. E in quel modo acquistavo potere. Le prove? Rimasi in vita, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Non mi attaccò, nemmeno quando dormivo sull'incerata. E infine: sono qui a raccontarvi questa storia.

CAPITOLO 82

Conservavo l'acqua piovana e quella dei distillatori solari nel ripostiglio, lontano dagli occhi di Richard Parker, in tre sacche di plastica da cinquanta litri ciascuna chiuse con una corda. Non avrebbero potuto essere più preziose, neppure se avessero contenuto oro, zaffiri, rubini e diamanti. Nel mio incubo peggiore aprivo la botola una mattina e scoprivo che tutte e tre le sacche si erano rovesciate, o peggio, spaccate. Ci pensavo in continuazione. Per scongiurare il rischio di una simile tragedia, le avevo avvolte con alcune coperte e le spostavo il meno possibile per paura che si strappassero. I bordi mi preoccupavano in modo particolare: e se si fossero consumati a causa della fune? Come avrei fatto a sigillarle?

Quando la fortuna mi sorrideva, ovvero quando la pioggia era torrenziale e le sacche stracolme, riempivo anche i recipienti di sgottamento, i due secchi di plastica, i contenitori multiuso, i tre bicchieri graduati e le lattine vuote. Poi passavo ai sacchetti di plastica per il vomito. Se la pioggia continuava, usavo me stesso: mi infilavo in bocca il tubo del raccoglitore e bevevo, bevevo, bevevo.

Aggiungevo sempre dell'acqua marina al secchio di Richard Parker; un po' di più nei giorni successivi a un acquazzone, un po' meno nei periodi di siccità. All'inizio, lo avevo visto allungare la testa oltre il bordo della scialuppa, annusare il mare e bere qualche sorso; ma aveva smesso presto.

Nonostante tutto, riuscivamo appena a dissetarci. Per tutta la durata del viaggio, la penuria d'acqua potabile non smise di angosciarmi e tormentarmi.

Nella spartizione delle prede che catturavo, Richard Parker faceva la parte del leone, per così dire. Non avevo scelta. Non appena issavo a bordo una tartaruga, un dorado o uno squalo, lui se ne accorgeva, e io dovevo servirlo rapidamente e generosamente. Ero diventato velocissimo nel segare il guscio di una tartaruga. Quanto ai pesci, li facevo a pezzi ancora vivi.

Se ero così poco selettivo nel mangiare, la ragione non era solo una fame sconcertante. A volte non avevo il tempo di esaminare ciò che avevo davanti: se non me lo cacciavo in bocca in fretta e furia, Richard Parker lo reclamava soffiando impaziente e pestando le zampe al confine del suo territorio. Il giorno in cui, con una fitta al cuore, mi accorsi di mangiare come un animale, compresi quanto fossi caduto

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in basso: il modo frenetico e rumoroso che avevo di ingozzarmi era lo stesso di Richard Parker.

CAPITOLO 83

La tempesta arrivò lentamente, nel pomeriggio. Le nuvole galoppavano spaventate, inseguite dal vento e il mare entrò in scena puntuale. Cominciò a sollevarsi e a cadere con tale violenza che il mio cuore sprofondò.

Misi in salvo la rete e i distillatori solari.Il panorama era terrificante. I marosi più alti che avessi mai visto erano semplici

collinette a confronto di quelle montagne. Sotto di me si aprivano valli tanto profonde da essere avvolte dall'oscurità, e lungo i loro fianchi scoscesi la scialuppa scivolava veloce come una tavola da surf.

La zattera se la stava vedendo brutta. Sbalzata verso l'alto, ripiombava nell'acqua da altezze vertiginose per essere sommersa e strattonata in ogni direzione. Calai entrambe le ancore, a profondità diverse, in modo che non interferissero l'una con l'altra.

Arrampicandosi sulle onde, la scialuppa si aggrappava alle ancore come uno scalatore alle funi. Si impennava fino a raggiungere le creste bianco neve, un'esplosione di luce e schiuma oltre la quale c'era lo strapiombo. Da lassù la vista spaziava per chilometri e chilometri. Ma la montagna slittava oltre e la barca affondava a una velocità da ribaltare lo stomaco. In un baleno eravamo di nuovo a fondo valle, all'ombra di migliaia di tonnellate d'acqua. Solo lo scarso peso dell'imbarcazione faceva sì che fossimo ancora a galla. Il mare tornava a gonfiarsi e ricominciava il giro sulle montagne russe.

Quando, alla sommità dell'onda, rischiavamo di capottarci, le ancore, oltre la cresta, tiravano traendoci in salvo. Ogni volta era una deflagrazione di schiuma e spruzzi, e immancabilmente mi inzuppavo dalla testa ai piedi.

Poi arrivò un'onda seriamente intenzionata a portarci con sé e la prua scomparve sott'acqua. Ero sconvolto, folle di terrore. Per un pelo non mollai la presa. La scialuppa era mezza allagata. Udii il ruggito di Richard Parker e capii che la morte ci era addosso. Non mi restava che scegliere: preferivo morire annegato o sbranato? Scelsi di morire sbranato.

Mentre l'ennesima valle ci ingoiava, saltai sull'incerata e la srotolai fino a poppa, imprigionando Richard Parker. Se protestò, non lo udii. Fissai l'incerata ai ganci sui due lati della scialuppa, più veloce di una macchina da cucire. Stavamo di nuovo salendo, e mantenersi in equilibrio era tutt'altro che semplice. Adesso, con l'incerata ben tesa, la barca era protetta eccetto che per la prua. Mi ci rannicchiai e tirai il lembo dell'incerata sulla mia testa. Non avevo molto spazio. Fra la panca laterale, larga meno di mezzo metro, e il bordo della scialuppa c'erano appena trenta centimetri. Ma, pur convinto di essere in punto di morte, non trovai il coraggio di scendere sul fondo della barca.

L'incerata andava fissata agli ultimi ganci. Allungai il braccio attraverso l'apertura

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e con fatica ebbi ragione dei primi due. Ne rimanevano altrettanti.La barca si inerpicava senza sosta, inesorabilmente. Mi accorsi di scivolare verso

poppa. Con una frenetica torsione della mano, riuscii ad avvolgere la fune attorno a un altro gancio. In quella posizione, non potevo fare di più. Mi aggrappai alla fune con tutte le mie forze: la scialuppa aveva un'inclinazione di quarantacinque gradi.

L'inclinazione era aumentata quando fendemmo la cresta e passammo sul fianco opposto dell'onda. Una piccola parte del suo carico d'acqua ci investì con la forza di un pugno colossale.

La scialuppa si sbilanciò in avanti e un torrente d'acqua con una tigre a mollo mi venne incontro. Non avevo un'idea precisa di dove fosse Richard Parker, perché sotto l'incerata era buio pesto. Prima che la vallata successiva ci risucchiasse ero mezzo annegato.

Per il resto del giorno e nelle prime ore notturne, facemmo su e giù senza sosta, finché il terrore non divenne monotono e l'indifferenza si impadronì di me. Ero aggrappato alla fune con una mano e al sedile di prua con l'altra, il corpo schiacciato contro la panca laterale. L'acqua entrava e usciva, entrava e usciva, e l'incerata, sbattendo, mi riduceva in poltiglia. Ero fradicio, infreddolito e ferito: mi ero tagliato con frammenti di ossa e gusci di tartaruga.

Il fragore della tempesta era costante, come i ruggiti di Richard Parker.A un certo punto della notte, mi accorsi che il putiferio si era placato. La barca

beccheggiava tranquilla. Attraverso uno squarcio nell'incerata vidi il cielo notturno. Era stellato e senza nuvole. Liberai la prua dall'incerata e strisciai all'aperto. Mi sdraiai.

All'alba mi resi conto di aver perso la zattera. All'estremità della cima galleggiavano solo due remi e un giubbotto di salvataggio. Era come guardare l'unica trave annerita scampata all'incendio della tua casa. Perlustrai ogni centimetro dell'orizzonte. Nulla. La mia piccola città marina era svanita. Le ancore, miracolosamente, non si erano perse e, fedeli, continuavano a far sentire la propria presenza.

La scialuppa era ridotta male. L'incerata si era rotta in diversi punti, qua e là anche squarciata dagli artigli di Richard Parker. Molte provviste erano andate perse, finite in mare o distrutte dall'acqua. Ero tutto indolenzito e avevo un brutto taglio, gonfio e biancastro, sulla coscia.

Controllai il ripostiglio, terrorizzato da quel che avrei potuto scoprire.Ma, grazie a Dio, le sacche d'acqua erano intatte. La rete e i distillatori solari, che

non avevo sgonfiato del tutto, avevano impedito che fossero sballottate troppo violentemente.

Ero a pezzi, depresso. Sganciai l'incerata a poppa. Richard Parker era così silenzioso che mi domandai se non fosse affogato. No: mentre riavvolgevo parzialmente l'incerata, la luce del giorno lo raggiunse. Si mosse e soffiò. Quindi emerse dall'acqua e si sistemò sul sedile di poppa. Presi ago e filo e rammendai gli squarci nell'incerata.

Poi legai un secchio alla fune e iniziai a svuotare la scialuppa. Richard Parker mi guardava distrattamente. Avevo l'impressione che quasi tutto quello che facevo lo

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annoiasse. A causa del caldo procedevo lentamente. Una secchiata mi restituì qualcosa che avevo perso. La ripescai. Nel palmo della mia mano era racchiuso tutto ciò che mi separava dalla morte: l'ultimo fischietto arancione

CAPITOLO 84

Ero sull'incerata, avvolto in una coperta: dormivo e sognavo, poi mi svegliavo e fantasticavo; passavo il tempo insomma. Spirava una brezza costante. Di tanto in tanto, la frangia di un'onda bagnava la scialuppa. Richard Parker era nella sua tana. Non amava gli spruzzi e tantomeno il dondolio della scialuppa. Ma il cielo era blu e l'aria calda, il mare si muoveva ritmicamente.

Mi svegliò un'esplosione. Aprii gli occhi e vidi un fiotto d'acqua abbattersi su di me. Guardai verso l'alto. Solo limpido cielo blu. Poi un altro scoppio, alla mia sinistra, meno potente del primo. Richard Parker ruggì con ferocia. Mi piovve addosso dell'altra acqua. Aveva un odore sgradevole.

Mi sporsi oltre il bordo. Un grosso oggetto nero spuntava in superficie. Ci misi un momento a capire che cosa fosse, poi trovai un indizio, una ruga arcuata verso l'alto: un occhio! Era un occhio di balena, un occhio grande quanto la mia testa. Mi stava fissando.

Richard Parker spuntò dall'incerata e soffiò. Vidi il luccichio di quell'enorme occhio mutare impercettibilmente: stava osservando Richard Parker. Lo fissò per circa trenta secondi, poi si immerse lentamente. Temevo che ci colpisse con la coda, invece puntò verso il basso e svanì nel blu profondo. La sua coda era una gigantesca, evanescente parentesi.

Credo che fosse in cerca di un compagno. Evidentemente aveva deciso che non ero il tipo adatto; troppo piccolo e per di più già impegnato.

Vedemmo altre balene, ma nessuna da tanto vicino. Gli spruzzi ci avvertivano della loro presenza. Affioravano in superficie, a volte in gruppi di tre o quattro, come un effimero arcipelago di isole vulcaniche. Quei colossi dai modi gentili mi mettevano sempre di buonumore. Ero convinto che comprendessero la mia situazione e immaginavo che nel vedermi uno di loro esclamasse: "Oh! Ecco il naufrago di cui mi ha parlato Bamphoo, quello che viaggia con il micione. Poverino! Spero che abbia plancton a sufficienza. Devo ricordarmi di parlarne a Mumphoo, Tomphoo e Stimphoo. Chissà se nei dintorni c'è una nave da allertare. Di sicuro sua mamma sarebbe contenta di rivederlo. Arrivederci, ragazzo mio. Cercherò di aiutarti. Il mio nome è Pimphoo".

E così, grazie al tamtam, ogni balena del Pacifico era a conoscenza della mia esistenza. Mi avrebbero salvato molto prima se Pimphoo non avesse chiesto aiuto a una nave giapponese e se quei vigliacchi dell'equipaggio non l'avessero arpionata. La stessa sorte toccò a Lamphoo con una nave norvegese. La caccia alle balene è un crimine atroce.

I delfini ci facevano visita regolarmente. Una volta rimasero con noi un giorno e una notte. Erano molto allegri. I loro tuffi, le loro gare e i loro balzi sembravano non

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avere altro scopo che il puro divertimento. Provai a catturarne uno, ma stavano alla larga dal crocco. E se anche si fossero avvicinati, erano troppo veloci e troppo grossi. Alla fine lasciai perdere e mi limitai a guardarli.

Vidi in tutto sei uccelli. Ogni volta li scambiai per angeli, venuti ad annunciare che la terra era vicina. Invece erano uccelli di mare, in grado di attraversare il Pacifico con un frullo d'ali. Li guardavo pieno di meraviglia, invidia e un senso di autocommiserazione.

In due occasioni avvistai un albatro. Volava alto nel cielo senza neppure accorgersi della nostra presenza. Lo fissai a bocca aperta. Era un essere soprannaturale e incomprensibile.

Un'altra volta, poco lontano dalla scialuppa, vidi due uccelli delle tempeste di Wilson planare con le zampe che sfioravano il mare. Anche loro ci ignorarono, e mi lasciarono ugualmente sbalordito.

Finalmente attirammo l'attenzione di una berta a coda corta. Volteggiò sulle nostre teste, poi si abbassò. Mise le zampe in avanti, girò le ali e si posò sull'acqua. Fluttuava leggera come sughero. Mi guardò incuriosita. Senza perdere tempo, infilai un pezzo di pesce volante all'amo e lanciai la lenza verso di lei. Al terzo tentativo la berta si avvicinò all'esca che affondava e immerse la testa sott'acqua per afferrarla. Il cuore mi batteva per l'eccitazione. Aspettai qualche secondo prima di tirare la lenza. Quando diedi lo strattone, la berta lanciò un grido stridulo e rigurgitò quello che aveva appena ingoiato. Prima che potessi riprovarci, spiegò le ali e si librò in volo. Due, tre battiti d'ala, ed era già lontana.

Ebbi maggior fortuna con una sula mascherata. Sbucò dal nulla, planando verso di noi, le ali lunghe quasi un metro. Atterrò sul bordo della scialuppa, a un passo da me. Mi osservava con occhi tondi dall'espressione seria e stupita. Era un uccello enorme, il corpo bianco come la neve a eccezione dei tocchi corvini sulla punta delle ali e sul bordo. La testa grande e rotonda terminava in un becco appuntito color giallo-arancio e con quegli occhi rossi dietro la maschera nera sembrava un ladro reduce da una lunga notte di lavoro. Solo i piedi palmati, marroni e decisamente sproporzionati, lasciavano a desiderare quanto a eleganza. L'uccello non aveva paura. Passò diversi minuti a pizzicarsi le piume col becco, rivelando una soffice lanugine. Soddisfatto del suo operato, alzò lo sguardo e si mostrò per quello che era: un perfetto, bellissimo dirigibile aerodinamico. Quando gli offrii un boccone di dorado, lo becchettò dalla mia mano, punzecchiandomi il palmo.

Gli spezzai il collo, tenendoglielo fermo mentre con l'altra mano spingevo il becco all'indietro. Le piume erano così saldamente attaccate al corpo che quando cominciai a strapparle, venne via anche la pelle: più che spiumarlo, lo stavo facendo a brandelli. Era già abbastanza leggero, mero volume, così presi il coltello e lo scuoiai. Nonostante le dimensioni, il ricavato fu deludente: giusto un po' di carne sul petto. Aveva una consistenza più spessa rispetto al dorado, ma il sapore non mi sembrò molto diverso. Nello stomaco, a parte il boccone di dorado che gli avevo appena dato, trovai tre pesciolini. Dopo averli ripuliti dai succhi gastrici, me li mangiai. Divorai cuore, fegato e polmoni del volatile. Mandai giù occhi e lingua con un sorso d'acqua. Fracassai la testa ed estrassi il minuscolo cervello. Feci fuori persino le

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zampe palmate. Non rimasero che pelle, ossa e piume. Lanciai la carcassa oltre l'incerata, per Richard Parker, che non si era accorto di nulla. Spuntò una zampa arancione.

A distanza di giorni piume e lanugine continuavano a emergere svolazzando dalla sua tana. Il vento le spazzava via e ciò che cadeva in mare veniva ingoiato dai pesci. Nessun uccello annunciava la terraferma.

CAPITOLO 85

Una volta si scatenò una tempesta di lampi.Era giorno, ma il cielo era così nero che sembrava notte. Pioveva a dirotto. Si

udivano i tuoni in lontananza. Ero convinto che non si sarebbero avvicinati. Ma si alzò il vento, e scaraventò pioggia dappertutto. Poco dopo una scheggia luminosa precipitò dal cielo e perforò le onde. Un viluppo di radici bianche attraversò l'acqua; e un albero celestiale si stagliò brevemente sull'oceano. Non avevo mai immaginato che fosse possibile: i lampi colpivano il mare. Il fragore dei tuoni era tremendo. Il bagliore della luce incredibilmente vivido.

Mi girai verso Richard Parker: «Guarda, Richard Parker, un fulmine!» urlai. Non era difficile capire che cosa ne pensasse. Giaceva appiattito sul fondo della scialuppa, con le zampe allargate e tremanti.

Quello spettacolo ebbe su di me l'effetto opposto. Mi innalzò al di sopra del mio limitato orizzonte mortale e mi gettò in uno stato di estatica meraviglia.

All'improvviso un fulmine cadde molto vicino. Forse era quello destinato a colpirci. La scialuppa aveva appena iniziato la sua discesa lungo il fianco di un'onda quando la scarica si abbatté sulla cresta. Ci fu un'esplosione d'aria e acqua calda. Per due, forse tre secondi, un'enorme, accecante lama di vetro piovuta da qualche finestra cosmica danzò nel cielo, immateriale ma potentissima. Diecimila trombe e ventimila tamburi non avrebbero potuto eguagliare il boato di quel tuono assordante.

Il mare diventò bianco e tutti i colori svanirono. Ogni cosa era luce pura o pura ombra. Il fulmine si dileguò veloce come era apparso, prima ancora che la cortina di acqua calda si rovesciasse su di noi. L'onda così duramente punita ritornò nera e rotolò oltre indifferente.

Ero stordito, fulminato nel vero senso della parola, o quasi. Ma non spaventato.«Lode ad Allah, il Signore dei Mondi, il Compassionevole, il Misericordioso, il Re

del Giorno del Giudizio!» mormorai. E a Richard Parker gridai: «Basta tremare! Questo è un miracolo. Uno squarcio sul divino. È... è...». Non riuscivo a dire cosa fosse, quel fenomeno così vasto e fantastico. Ero senza fiato e senza parole. Mi distesi sull'incerata, le braccia e le gambe allargate come una stella marina. La pioggia mi gelava le ossa ma sorridevo. Quell'incontro ravvicinato con l'elettroshock e le ustioni di terzo grado furono una delle poche occasioni di felicità che conobbi nel corso del viaggio.

Nei momenti di meraviglia, è facile abbandonare i pensieri piccini per quelli che coprono il raggio dell'universo, catturando il tuono e il tintinnio, ciò che è etereo e

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ciò che è pesante, ciò che è vicino e ciò che è lontano.

CAPITOLO 86

«Un nave, Richard Parker, una nave!» Ebbi la gioia di gridare un giorno. Ero travolto dalla felicità. Il dolore e la frustrazione svanirono, ardevo di contentezza.

«Ce l'abbiamo fatta! Siamo salvi! Hai capito, Richard Parker? SIAMO SALVI! Ah, ah, ah, ah!»

Cercai di contenermi.E se la nave non si fosse avvicinata? Se non ci avesse visto? Dovevo lanciare un

razzo di segnalazione? Ma no, non ce n'era bisogno!«Viene proprio verso di noi, Richard Parker! Oh, ti ringrazio, Ganesha! Che tu sia

benedetto in tutte le tue manifestazioni, Allah-Brahma!»Non poteva non avvistarci. Esiste felicità più grande della salvezza? La risposta è

no, ve l'assicuro. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sforzai di reggermi in piedi.«Ma ci credi, Richard Parker? Altre persone, cibo, un letto. La vita è di nuovo

nostra. Oh, che benedizione!»La nave si avvicinò ancora.Sembrava una petroliera. La forma della prua si faceva sempre più distinta.La mia salvezza indossava una tunica di metallo nero orlata di bianco.«E se...?»Non osai terminare la frase. Chissà, forse c'era una remota probabilità che papà,

mamma e Ravi fossero ancora vivi. La Tsimtsum aveva ben più di una scialuppa di salvataggio. Magari erano già arrivati in Canada da settimane e aspettavano con ansia mie notizie. Forse ero l'unica vittima del naufragio che ancora mancava all'appello.

«Dio, come sono grandi le petroliere!»Era una montagna che scivolava verso di noi.«Forse i miei sono già a Winnipeg. Come sarà la nostra casa? Che ne pensi,

Richard Parker, le case canadesi avranno il cortile interno come quelle del Tamil Nadu? Probabilmente no. D'inverno si riempirebbe di neve. Peccato. Non esiste pace paragonabile a quella che si prova in un cortile assolato. Chissà che spezie coltivano a Manitoba?»

La nave era molto vicina. Avrebbe fatto meglio a frenare subito o a virare bruscamente.

«Sì, chissà quali spez...? Oh, mio Dio!»Inorridii nel rendermi conto che la petroliera non stava venendo verso di noi: ci

stava venendo addosso! La prua era un muro di metallo che a ogni secondo diventava sempre più immenso. L'onda che la circondava avanzava inesorabile.

Anche Richard Parker avvertì la valanga imminente. Si voltò con un «Woof! Woof!» non da cane, tigresco: potente, spaventoso e perfettamente appropriato alla situazione.

«Richard Parker, ci travolgerà! Cosa facciamo? Presto, presto, un razzo! No! Devo

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remare. Il remo nello scalmo... ecco! HUMPF! HUMPF! HUMPF! HUMPF! HUMPF! HUM!»

L'onda della petroliera ci sollevò.Richard Parker si accucciò e i suoi peli si rizzarono. La scialuppa scivolò

sull'onda, allontanandosi di mezzo metro dalla rotta del gigante.La nave ci scivolò lentamente davanti. Pareva lunga un chilometro, come la nera

parete di un canyon, come un castello fortificato senza neppure una sentinella che si accorgesse di noi, condannati a languire giù nel fossato.

Lanciai un razzo di segnalazione, ma sbagliai mira. Invece di raggiungere il ponte e di esplodere in faccia al capitano, rimbalzò sul fianco della nave e finì dritto nel Pacifico, dove si spense con un sibilo. Fischiai a più non posso. Urlai a squarciagola. Tutto inutile.

Con i motori che rombavano e le eliche che affettavano l'acqua furiosamente, la petroliera ci superò, lasciandoci a ballonzolare sulla sua scia schiumosa.

Dopo tante settimane immerso nei suoni della natura, quei rumori meccanici mi parvero strani e terrificanti e mi rintronarono fino a ridurmi al silenzio.

In meno di venti minuti una nave di trecentomila tonnellate diventò un puntino all'orizzonte. Quando infine distolsi lo sguardo, Richard Parker la stava ancora fissando.

Dopo pochi secondi anche lui si girò e i nostri occhi si incontrarono brevemente. I miei traboccavano di rimpianto, dolore, angoscia, solitudine. Richard Parker poteva solo sentire che era appena accaduto qualcosa di enorme, un evento drammatico oltre i limiti della sua comprensione.

Non sapeva che quel qualcosa era la salvezza mancata di un soffio. L'unica cosa certa, dal suo punto di vista, era che l'esemplare alfa, tigre quanto mai strana e imprevedibile, si era eccitato parecchio.

Si mise comodo e si preparò a dormicchiare un altro po'. Il suo solo commento all'intero episodio fu un miao malmostoso.

«Ti voglio bene!» gli dissi.Parole spontanee e libere, sconfinate. Il mio cuore traboccava di sentimento. «Dico

sul serio. Ti voglio bene, Richard Parker. Se ora non ci fossi tu, non so cosa farei. Non penso che reggerei. No, senza dubbio morirei di disperazione. Non arrenderti, Richard Parker, non arrenderti. Ti porterò in salvo, te lo prometto, te lo prometto!»

CAPITOLO 87

Uno dei miei modi preferiti per sfuggire alla realtà quotidiana era il gioco del «dolce soffocamento». Mi bastava un pezzo di stoffa tagliato dai resti di una coperta. L'avevo chiamato lo Straccio dei sogni. Prima lo bagnavo appena appena con l'acqua marina in modo che fosse umido ma non gocciolante; poi mi stendevo comodamente sull'incerata e mi mettevo lo Straccio dei sogni sul viso, adattandolo ai miei lineamenti. Sprofondavo in uno stato di torpore, cosa facile per chi, come me, era afflitto da una seria forma di letargia. Ma lo Straccio dei sogni conferiva una qualità

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speciale al mio stordimento. Forse perché riduceva la quantità d'aria che inspiravo e dunque l'ossigeno che mi arrivava al cervello. Mi apparivano i sogni, le allucinazioni, le visioni, i pensieri, le sensazioni, i ricordi più straordinari. E il tempo spariva. Quando uno spasmo o un rantolo mi scuotevano, lo straccio cadeva e io riaffioravo nel mondo reale, felice di scoprire che la lancetta del mondo aveva fatto un po' di strada. Oppure, me ne accorgevo dal fatto che lo straccio era quasi asciutto. Soprattutto, sentivo che le cose erano cambiate, che il momento attuale era diverso da quello precedente.

CAPITOLO 88

Un giorno ci imbattemmo in un mucchio di spazzatura. Dapprima l'acqua brillò di chiazze d'olio. Poi si materializzarono rifiuti domestici e industriali: soprattutto plastica di varie forme e colori, ma anche pezzi di legno, lattine di birra, bottiglie di vino, brandelli di stoffa, pezzetti di corda, il tutto circondato di schiuma giallastra.

Ci inoltrammo nel pattume. Io lo osservavo nella speranza di recuperare qualcosa di utile. Raccolsi una bottiglia vuota ma tappata.

La scialuppa cozzò contro un frigorifero che aveva perso il motore. Galleggiava con lo sportello rivolto al cielo. Mi allungai per afferrare la maniglia e lo spalancai. Ne uscì un odore così pungente e disgustoso che sembrò imbrattare l'aria.

Esaminai il contenuto del frigo con la mano premuta sulla bocca. C'erano macchie di muffa, succhi torbidi, verdure completamente marce, latte cagliato che assomigliava a una gelatina verdastra, e i resti di un animale in uno stadio così avanzato di nera putrefazione da non essere più identificabile. A giudicare dalle dimensioni poteva essere un agnello.

Nei confini umidi e chiusi del frigorifero, l'odore aveva avuto il tempo di svilupparsi, fermentare, e diventare aspro e aggressivo. Assaltò i miei sensi con una rabbia troppo a lungo repressa, e la testa cominciò a girarmi, lo stomaco si rivoltò, le gambe cominciarono a tremare. Fortunatamente, il mare riempì subito l'orrenda cavità e l'oggetto sprofondò negli abissi. Lo spazio lasciato libero dal frigorifero venne colmato da altra spazzatura.

Ce la lasciammo alle spalle, ma per molte ore il vento continuò a portarne l'odore, e il mare impiegò un giorno intero a lavare le macchie d'olio dai fianchi della scialuppa.

Infilai un messaggio nella bottiglia: «Tsimtsum, nave mercantile giapponese, bandiera panamense, affondata nel Pacifico 2 luglio 1977, a quattro giorni da Manila. Nome: Pi Patel; sono a bordo di scialuppa. Ho acqua, cibo, e serio problema con tigre Bengala. Prego avvertire mia famiglia a Winnipeg, Canada. Aiuto molto gradito. Grazie». Tappai la bottiglia e, aiutandomi con del filo di nylon, avvolsi il tappo in un pezzo di plastica. Poi la lanciai in mare.

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CAPITOLO 89

Tutto soffriva. Tutto si consumava per effetto del sole e degli elementi. La scialuppa, la zattera prima che andasse persa, l'incerata, i distillatori, le sacche di plastica, i fili, le coperte, la rete: tutto si sciupava, diventando logoro, scolorito, allentato, crepato, secco, marcio, lacero. Ciò che era arancione sbiadì in un bianco rosato. Ciò che era liscio divenne ruvido. Ciò che era ruvido divenne liscio. Ciò che era appuntito si smussò. Ciò che era integro si sgretolò. Sfregare regolarmente pelle di pesce o grasso di tartaruga sopra le cose per proteggerle un poco non sortì alcun effetto. Il sale divorava tutto con le sue mille bocche affamate. Il sole arrostiva ogni cosa. Intontiva Richard Parker. Ripuliva le carcasse, cuocendole fino a farle risplendere di un bianco abbacinante. Bruciò i miei vestiti, e mi avrebbe bruciato anche la pelle, benché fosse scura, se non l'avessi protetta con coperte e gusci di tartaruga. Quando il caldo era insopportabile, prendevo un secchio e mi rovesciavo addosso acqua salata così calda da sembrare sciroppo.

Il sole faceva sparire gli odori. Non ne ricordo nessuno, a parte quello dei fuochi. Avevano l'odore del cumino, ve l'ho già detto, no? Non ricordo nemmeno l'odore di Richard Parker.

Deperimmo. Avvenne lentamente, quasi impercettibilmente. Ma a tratti me ne rendevo conto. Eravamo due mammiferi emaciati, prosciugati e affamati. Il manto di Richard Parker perse la sua lucentezza, le spalle e le anche divennero un po' spelacchiate. Calò di molti chili, si ridusse a uno scheletro avvolto da un'enorme sacca di pelo sbiadito. Anch'io rinsecchii, l'umidità fu risucchiata dal mio corpo e le ossa spuntarono ben visibili sotto il sottile strato di carne.

Come Richard Parker cominciai a dormire un numero incredibile di ore. Non era sonno vero e proprio, ma uno stato di semincoscienza dove i sogni a occhi aperti e la realtà erano quasi indistinguibili.

Ecco le ultime pagine del mio diario:

«Oggi visto squalo più grande di tutti. Mostro primordiale di sei metri. Striato. Squalo tigre, molto pericoloso. Ci girava intorno. Pensavo avrebbe attaccato. Sopravvissuto a una tigre, ho avuto paura di finire in pasto a un'altra. Non ha attaccato. È fluttuato via. Tempo nuvoloso, ma niente».

«Niente pioggia. Solo grigiore mattutino. Delfini. Ho provato a infilzarne uno. Non mi reggevo in piedi. R.P. debole e di cattivo umore. Sono sfinito, se mi attacca non riuscirò a difendermi. Chi ce l'ha la forza di fischiare?»

«Mare piatto e giornata rovente. Sole senza pietà. Il cervello mi frigge. Sto malissimo.»

«Corpo e mente prostrati. Morirò presto. R.P. respira ma non si muove. Morirà anche lui. Non mi ucciderà.»

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«Salvezza. Un'ora di pioggia scrosciante, deliziosa, bellissima. Riempito la bocca, le sacche e le lattine, riempito il corpo fino a esplodere. Sciacquato via sale. Strisciato a vedere R.P. Nessuna reazione. Raggomitolato, coda inerte. Pelo umido e arruffato. Più piccolo quando è bagnato. Ossuto. Era morto? Toccato per la prima volta. No. Corpo caldo. Magnifico al tatto. Persino adesso, solido, muscoloso, vivo. Toccandolo un piccolo fremito, come se fossi un insetto. Aveva mezza testa immersa nell'acqua. Si è mosso. Meglio bere che affogare. Scatto della coda. Pezzo di tartaruga davanti al naso. Niente. Alla fine si è sollevato per bere. Ha mangiato. Non si è alzato completamente. Un'ora a leccarsi tutto. Sonno.»

«Non c'è più niente da fare. Oggi morirò.»

«Morirò oggi.»

«Morirò.»

La mia ultima annotazione. Continuai a vivere dopo quella pagina, non mi arresi, ma non scrissi più nulla. Guardate le spirali invisibili ai margini del foglio: temevo di finire la carta e invece furono le penne a finire.

CAPITOLO 90

«Richard Parker, cosa c'è che non va? Sei diventato cieco?» domandai agitando la mano davanti al suo naso.

Per un giorno, forse due, non aveva smesso di strofinarsi gli occhi e di miagolare sconsolato, ma io non avevo dato importanza alla cosa. Dolori e malesseri erano l'unico elemento della nostra dieta che avevamo in abbondanza.

Catturai un dorado. Eravamo digiuni da settantadue ore. Il giorno prima una tartaruga si era avvicinata alla scialuppa, ma ero troppo debole per provare a issarla a bordo. Tagliai il pesce e lo divisi a metà. Richard Parker mi guardava. Gli lanciai la sua porzione. Mi aspettavo che l'azzannasse al volo, invece il mezzo pesce andò a sbattere contro il suo muso dall'espressione assente. Richard Parker si sporse in avanti. Dopo aver fiutato un po' a destra e a sinistra, trovò il pesce e cominciò a morderlo. Ormai mangiavamo lentamente.

Gli esaminai attentamente gli occhi. Non sembravano diversi dagli altri giorni. Forse aveva la secrezione agli angoli interni un po' più abbondante, ma non era grave, conclusi, specialmente tenuto conto del suo stato generale. Quell'odissea ci aveva ridotti entrambi a pelle e ossa.

Ebbi la risposta fissando i suoi occhi con l'intensità di un oculista: mi restituiva uno sguardo appannato e solo una tigre cieca avrebbe reagito in quel modo.

Provai pena per Richard Parker. La nostra fine era vicina.Il giorno successivo cominciai ad avvertire un bruciore agli occhi. Li strofinai a

lungo, ma il fastidio non se ne andò. Al contrario, peggiorò, e a differenza di Richard

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Parker, i miei occhi iniziarono a stillare pus. Poi, in un battito di ciglia, scese l'oscurità.

All'inizio era un punto nero al centro di ogni cosa. Poi diventò una chiazza che dilagava verso i confini del mio campo visivo.

La mattina successiva, tutto quello che riuscivo a vedere del sole era una fessura luminosa sopra il mio occhio sinistro, come una finestrella piazzata troppo in alto. A mezzogiorno era buio pesto.

Mi aggrappai alla vita. Ero debole e sconvolto. Il caldo era infernale. Ero così esausto che non riuscivo più a tenermi in piedi. Le mie labbra erano secche e screpolate, la bocca arida e pastosa, ricoperta da uno strato di saliva appiccicosa dal sapore e dall'odore ugualmente disgustosi. La pelle era bruciata, i muscoli prosciugati e indolenziti. Gli arti, soprattutto i piedi, erano gonfi e doloranti. Avevo fame, e, ancora una volta, non c'era niente da mangiare. Quanto all'acqua, Richard Parker ne beveva così tanta che io mi limitavo a cinque cucchiai al giorno. Ma i patimenti fisici non erano niente a confronto dell'inferno psicologico che mi attendeva. L'attimo in cui persi la vista segnò l'inizio della mia sofferenza estrema. Non so dirvi quando successe. Il tempo, come ho detto, era diventato irrilevante. Fu tra il centesimo e il duecentesimo giorno. Ero certo che sarei morto prima dell'indomani.

La mattina seguente avevo smesso di temere la morte, e avevo iniziato ad attenderla.

Conclusi con tristezza che non avrei più potuto prendermi cura di Richard Parker. Come custode avevo fallito. La certezza della sua morte mi affliggeva più dell'imminenza della mia. Ma ormai, nello stato in cui ero, non potevo davvero fare nulla per lui.

Il mondo affondava velocemente. Percepivo una debolezza fatale insinuarsi dentro di me. Me ne sarei andato prima del tramonto. Per rendere l'ultimo viaggio più confortevole decisi di soddisfare la sete intollerabile con cui avevo convissuto così a lungo. Buttai giù tutta l'acqua che potevo. Se solo avessi avuto un ultimo boccone di cibo! Ma il mio desiderio sembrava destinato a rimanere tale. Mi appoggiai al bordo arrotolato dell'incerata, al centro della barca. Chiusi gli occhi e attesi che il respiro abbandonasse il mio corpo. Mormorai: «Addio, Richard Parker. Mi dispiace di averti deluso. Ho fatto del mio meglio. Addio. Caro papà, cara mamma, caro Ravi, tanti cari saluti. Il vostro amato figlio e fratello sta per raggiungervi. Da che vi ho visti per l'ultima volta non è trascorsa un'ora senza che vi pensassi. Il momento in cui vi riabbraccerò sarà il più felice della mia vita. E ora lascio l'intera faccenda nelle mani di Dio, che è amore, e che amo».

«C'è qualcuno?» udii chiamare.È incredibile quello che senti quando sei solo nel buio pesto del tuo cervello

morente. Un suono senza forma e colore è strano. Se smetti di vedere, anche l'udito si trasforma.

Di nuovo le stesse parole: «C'è qualcuno?».Conclusi che ero impazzito. Triste ma vero.Il dolore ha bisogno di compagnia, e la follia lo accontenta volentieri.

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«C'è qualcuno?» la medesima voce, insistente.Il realismo di quell'allucinazione uditiva era sconvolgente. La voce aveva un

timbro ben definito, era roca, affaticata e stanca. Decisi di stare al gioco.«Certo che c'è,» risposi «c'è sempre qualcuno. Se no chi starebbe facendo la

domanda?»«Intendevo dire qualcun altro.»«Qualcun altro? Ti rendi conto della situazione in cui sei? Se questo frammento

della tua immaginazione non ti soddisfa, scegline uno diverso. La fantasia è un albero dagli infiniti frutti.»

"Hmm. Frutti. Frutta. Non mi dispiacerebbe un po' di frutta!" pensai.«Allora non c'è nessuno?» fece la voce.«Zitto... sto sognando la frutta.»«Frutta! Hai della frutta? Posso averne un po'? Ti prego. Solo un pochino. Sto

morendo di fame.»«Ne ho a tonnellate. Un intero frutteto.»«Un intero frutteto! Oh, per favore, dammene un po'. Io...»La voce - quello scherzo nato dal sussurro del vento o delle onde - sfumò.«Ho un fico, un albero grande. I frutti sono tondi, pesanti e profumati» continuai.

«I rami si piegano sotto il loro peso. Ce ne saranno più di trecento.»Silenzio.La voce riprese. «Parliamo di cibo...»«Che idea deliziosa.»«Che cosa mangeresti se potessi avere tutto ciò che desideri?»«Ottima domanda. Vorrei un magnifico buffet. Per cominciare riso e sambar. Riso

al curry, riso e lenticchie e...»«Io vorrei...»«Non ho finito. Sambar di tamarindo piccante, un po' di sambar di cipolle e...»«Nient'altro?»«Un attimo. Anche sagu di verdure miste e korma vegetale e masala di patate e

vadai di cavolo e masala dosa e rasam di lenticchie piccante e...»«Ho capito.»«Aspetta. Melanzane ripiene condite con cocco grattugiato e yam kootu al cocco e

idli di riso e vadai di formaggio di soia e bajji di verdure e...»«Quanta roba.»«Ho già detto le salse piccanti? Salsa piccante di cocco, alla menta e peperoncini

verdi e uva spina in salamoia, il tutto accompagnato dal pane: nan, popadom, paratha e puri, naturalmente.»

«Mi sembra...»«E insalata! Insalata di mango e formaggio di soia e una semplice insalata di

cetrioli freschi. E come dessert, payasam di mandorle e payasam al latte e una crèpe allo zucchero di palma e croccante di arachidi e burfi di cocco e gelato alla vaniglia ricoperto di cioccolato denso e fumante.»

«Finito?»«E per concludere una caraffa da dieci litri di acqua ghiacciata, fresca e pulita. E

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un caffè.»«Niente male.»«Altroché!»«Dimmi, che cos'è lo yam kootu al cocco?»«Un piatto paradisiaco, ecco che cos'è. Per prepararlo ci vogliono patate dolci,

noce di cocco grattugiata, banane verdi, peperoncino in polvere, pepe nero, curcuma in polvere, semi di cumino e di senape e un po' di olio di cocco. Si fa rosolare il cocco grattugiato finché non diventa dorato...»

«Posso darti un suggerimento?»«Cosa?»«Al posto di yam kootu al cocco, ti consiglio un bel piatto di lingua di bue bollita

con salsa di mostarda.»«Non si direbbe un piatto vegetariano.»«Non lo è. E trippa.»«Trippa? Prima fai fuori la lingua di quella povera bestia e poi passi allo

stomaco?»«Sì! Sogno un bel piatto di tripes à la mode de Caen bollente, e anche un po' di

animelle.»«Animelle? Interessante. Di cosa si tratta?» «Si prepara con il pancreas del

vitello.»«Il pancreas!»«Brasato e condito con salsa di funghi, è semplicemente squisito.»Da dove venivano quelle ricette disgustose e sacrileghe? Ero corrotto al punto da

contemplare l'idea di cucinarmi una mucca e il suo figlioletto? All'incrocio di quali terribili venti ero capitato? La scialuppa galleggiava forse in una nuova chiazza di spazzatura?

«Quale sarà il prossimo affronto?»«Cervella di vitello in salsa di burro dorata!»«Eccoci alla testa!»«Soufflé di cervella!»«Mi viene da vomitare. C'è qualcosa che non mangeresti?»«Cosa darei per una bella zuppa di coda di bue! Per un maialino arrosto ripieno di

riso, salsiccia, albicocche e uvetta. Per un rognone di vitello con salsa al burro, mostarda e prezzemolo. Per un coniglio in umido marinato al vino rosso. Per delle salsicce di fegatini di pollo. Per un paté di fegato con fettine di vitello. Per un piatto di rane. Ah, datemi un piatto di rane...»

«Non ce la faccio più.»Tremavo dalla nausea. La follia della mente era una cosa, ma che mi prendesse lo

stomaco era intollerabile.All'improvviso capii.«Che mi dici di un piatto di carne di manzo cruda e sanguinante?» chiesi.«Certo! Adoro la tartare.»«E il sangue congelato di un maiale morto?»«Lo condirei con salsa di mele.»

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«Mangeresti tutto di un animale, persino le frattaglie?» «Insaccati e salsicce! Me ne farei un piatto intero!»

«E una carota? Mangeresti una semplice carota cruda?»Nessuna risposta.«Mi hai sentito? Te la mangeresti una carota?»«Ho sentito. Be', se potessi scegliere, non la mangerei. Francamente non vado

matto per quel tipo di cibo. Anzi, lo trovo decisamente sgradevole.»Lo sapevo. Scoppiai a ridere. Non stavo immaginando nessuna voce. Non ero

impazzito. Era Richard Parker a parlarmi! Quel mascalzone di un carnivoro! Dopo tutto quel tempo passato insieme, aveva scelto l'ora prima della morte per decidersi a parlare. Ero esaltato: stavo chiacchierando con una tigre! Fui subito preso da una curiosità morbosa, la stessa curiosità che le star del cinema eccitano nei loro fan.

«Sono curioso, dimmi, hai mai ucciso un uomo?»Ne dubitavo. Tra gli animali, i mangiatori di esseri umani sono rari quanto gli

assassini fra gli uomini. E poi Richard Parker era stato catturato da cucciolo. Ma chissà, forse sua madre, prima di essere acciuffata da Thirsty, aveva acciuffato un uomo...

«Che domanda» si stupì Richard Parker.«Mi sembra logica.»«Logica?» «Sì.»«Perché?»«Con la reputazione che hai...»«Quale reputazione?»«Come, possibile che tu ne sia all'oscuro?»«Credimi, è così.»«Allora lascia che metta in chiaro ciò che evidentemente non vuoi vedere: hai

proprio quel genere di reputazione. E adesso rispondi, hai mai ucciso un uomo?» Silenzio. «Su, parla.»

«Sì.»«Oh ! Mi fai rabbrividire. Quanti?» «Due.»«Hai ucciso due uomini?»«No. Un uomo e una donna.»«Insieme?»«No. Prima l'uomo, poi la donna.»«Sei un mostro! Scommetto che ti sei divertito. Avrai goduto un mondo nel vederli

dimenarsi e gridare.» «Non proprio.»«Erano buoni?»«Buoni?»«Sì. Non fare l'ottuso. Avevano un buon sapore?»«No, non avevano un buon sapore.»«Come pensavo. Ho letto che negli animali è un gusto acquisito. Allora perché li

hai uccisi?»

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«Per necessità.»«La necessità di un mostro. Provi rimorso?»«Non avevo scelta: o io o loro.»«Ecco un'ottima definizione di necessità, in tutta la sua immorale semplicità. Ma

ora, a posteriori, provi rimorso?»«È stato l'impulso del momento. Le circostanze.»«Istinto, si chiama istinto. Però non hai risposto alla mia domanda: sei pentito?»«Non ci penso.»«Un animale fatto e finito, ecco cosa sei.»«E tu chi sei?»«Un essere umano, se non ti dispiace.»«Che insopportabile superbia!»«È la pura verità.»«Quindi sei pronto a scagliare la prima pietra, non è così?»«Hai mai assaggiato l'oothappam?»«No, mai. Che cos'è?»«È tanto buono.»«Il nome promette bene. Dimmi di più.»«Il più delle volte l'oothappam si prepara con la pastella che avanza. Raramente un

ripensamento culinario ha raggiunto tali vette di memorabile squisitezza.»«Riesco già a sentirne il sapore.»Mi addormentai. O, piuttosto, sprofondai nello stato di delirio che precede la

morte.Ma un pensiero mi infastidiva. Non avrei saputo dire quale, esattamente. Qualsiasi

cosa fosse, stava rovinandomi la morte.Rinvenni. Capii cosa mi disturbasse.«Scusa?»«Sì?» rispose remota la voce di Richard Parker.«Perché parli con quell'accento?»«Io non ho nessun accento. Tu, semmai.»«Ti sbagli. E hai la erre moscia.»«Non ho la erre moscia, come dici tu. Senti la tua erre, piuttosto. È come se avessi

delle biglie calde in bocca. Hai l'accento indiano.»«E tu ti mangi le parole, come se la tua lingua fosse una sega e le parole di legno.

Hai l'accento francese.»Non quadrava proprio per niente. Richard Parker era nato in Bangladesh e

cresciuto in Tamil Nadu. Perché avrebbe dovuto parlare a quel modo? D'accordo, Pondicherry un tempo era stata una colonia francese, ma nessuno avrebbe potuto convincermi del fatto che gli animali dello zoo avessero frequentato i corsi dell'Alliance Française in rue Dumas.

Ero perplesso.Sprofondai di nuovo nella confusione.Mi svegliai di soprassalto, colpito da una rivelazione. C'era qualcuno! La voce che

giungeva alle mie orecchie non era quella del vento né quella di un animale che si

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era messo a parlare. Era qualcun altro!Il cuore mi batteva impazzito, sforzandosi di pompare quel po' di vita residua del mio organismo deperito. La mia mente lottava per carpire un'ultima scintilla di lucidità.

«Niente più che un'eco, temo» disse la voce ormai appena udibile.«Aspetta, sono qui!» urlai.«L'eco del mare...»«No, sono io!»«Ah, se questo supplizio si decidesse a finire.»«Amico mio!»«Mi sto spegnendo...»«Non te ne andare, non te ne andare!»Si stava allontanando.Urlai.Urlò di rimando.Era troppo. Stavo per impazzire.Ebbi un'idea.«IL MIO NOME,» gridai rivolto agli elementi, con tutto il fiato che mi restava «È

PISCINE MOLITOR PATEL.» Un'eco non avrebbe potuto inventarsi un'identità, o sbaglio? «Mi senti? Mi chiamo Piscine Molitor Patel, da tutti conosciuto come Pi Patel!»

«Cosa? C'è qualcuno?»«Sì, c'è qualcuno.»«Davvero?!? Per favore, hai del cibo? Qualsiasi cosa. Non ho più niente da

mangiare. Non mangio da giorni. Ho bisogno di mettere qualcosa sotto i denti. Ti sarò grato qualsiasi cosa mi darai. Ti supplico.»

«Ma neppure io ho da mangiare» risposi costernato. «Anch'io non mangio da giorni. Speravo che tu avessi qualcosa da darmi. Hai almeno dell'acqua? Io ne ho pochissima.»

«No, purtroppo. Sicuro di non avere neanche una briciola?»«Niente di niente.»Seguì il silenzio, un silenzio pesante.«Dove sei?» domandai.«Qui» rispose con voce stanca.«Qui dove? Non ti vedo.»«Perché non mi vedi?»«Sono diventato cieco.»«Che dici mai!» esclamò.«Sono cieco. Non vedo. Sbatto le palpebre inutilmente. Da due giorni ormai, se la

pelle non mi inganna. Solo quella può dirmi se sia giorno oppure notte.»Levò un terribile lamento.«Che ti succede, amico mio?»Altri gemiti.«Per favore, rispondimi. Che c'è? Sono cieco e non abbiamo né cibo né acqua, ma

abbiamo l'un l'altro. È qualcosa. Qualcosa di prezioso. Allora cosa c'è, fratello?»

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«Anch'io sono cieco!»«Come?»«Anch'io sbatto le palpebre invano.»Ero esterrefatto. Avevo incontrato un altro cieco, un naufrago come me alla deriva

nel Pacifico!«Ma com'è possibile?» mormorai.«Un corpo deperito, stremato e mal lavato si ammala facilmente.»Scoppiammo tutti e due a piangere. Lui gemeva, io singhiozzavo. Era troppo, era

veramente troppo.«Ho una storia da raccontarti» dissi dopo un po'.«Una storia?» «Sì.»«Che me ne faccio di una storia? Ho fame.»«È una storia che parla di cibo.»«Le parole non hanno calorie.»«Cerca il cibo dove puoi trovarlo.»«È un'idea.»Silenzio. Un silenzio affamato.«Dove sei?» mi chiese.«Sono qui. E tu?»«Qui.»Udii il rumore di un remo che fendeva l'acqua.Mi allungai e a tentoni trovai un remo ma pesava troppo. Con le mani cercai lo

scalmo più vicino. Ci infilai il remo. Mi aggrappai al manico. Ero sfinito. Ma vogai a mia volta, come meglio potevo.

«Sentiamo un po' la tua storia» mi incoraggiò, ansimante.«C'era una volta una banana. La banana crebbe. Diventò grande, gialla e

profumata. Poi cadde a terra. Un tipo la raccolse e se la mangiò.»Lui smise di remare. «Che bella storia!»«Grazie.»«Ho le lacrime agli occhi.»«Avrei qualcosa da aggiungere» continuai.«Cosa?»«La banana cadde a terra, un tipo la raccolse, se la mangiò e dopo si sentì meglio.»«Davvero avvincente!» commentò.«Grazie.»Ci fu una pausa.«Sicuro di non avere neppure una banana?»«No. Per colpa di un orango.»«Una scimmia?»«È una lunga storia.»«Ce l'hai del dentifricio?»«No.»«È delizioso sul pesce. Sigarette?»«Sono mesi che ho mangiato l'ultima.»

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«Te le sei mangiate?»«Ho ancora i filtri. Posso darteli, se li vuoi.»«I filtri? Che me ne faccio di filtri di sigaretta senza tabacco? Come hai fatto a

mangiarti le sigarette?» «Cos'altro avrei dovuto fare? Non fumo.»«Dovevi conservarle per barattarle.»«Barattarle? E con chi?»«Con me!»«Fratello, quando le ho mangiate ero solo su una scialuppa in mezzo al Pacifico.»«Allora?»«Allora l'eventualità di incontrare qualcuno interessato alle mie sigarette non mi è

sembrata molto probabile.»«Dovevi pensarci, sciocco! Adesso non hai nulla da barattare.»«Se anche avessi qualcosa da barattare, per cosa lo baratterei? Cos'hai tu che io

possa desiderare?»«Uno scarpone» rispose.«Uno scarpone?»«Sì, un bello scarpone di pelle.»«Che me ne faccio di uno scarpone di pelle su una scialuppa nel Pacifico? Credi

forse che faccia escursioni, nel tempo libero?»«Potresti mangiarlo.»«Mangiare una scarpa? Che idea.»«Se ti sei fatto fuori le sigarette, perché non uno scarpone?»«Il solo pensiero mi dà il voltastomaco. A proposito, di chi è lo scarpone?»«Come faccio a saperlo?»«Mi stai proponendo di mangiare lo scarpone di un perfetto sconosciuto?»«Che differenza fa?»«Sono sbalordito. Uno scarpone! Mettendo da parte per un momento il fatto che

sono un indù e che per noi indù le mucche sono sacre, resta il fatto che mangiare uno scarpone vuol dire inghiottire tutta la sporcizia che trasuda un piede, oltre alla spazzatura che si raccoglie sotto la suola camminando.»

«Quindi niente scarpone.»«Prima fammelo vedere.»«No.»«Come? Credi che io baratterei qualcosa con te senza prima vedere la merce di

scambio?»«Consentimi di rammentarti che siamo ciechi tutti e due.»«Allora descrivimelo! Che razza di commerciante sei? Non mi meraviglia che tu

abbia una fame disperata di clienti.»«Hai ragione, sono a caccia di clienti.»«Allora, questo scarpone?»«È uno scarpone di pelle.»«Che tipo di scarpone di pelle?»«Normale.»«Cosa significa?»

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«Uno scarpone con stringa, ganci, linguetta e soletta interna. Un modello standard.»

«Colore?»«Nero.»«In che stato è?»«Un po' consumato. La pelle è morbida ed elastica, piacevolissima al tatto.»«E l'odore?»«Caldo e profumato.»«Devo ammettere, devo ammettere... che mi tenta!»«Scordatelo.»«Perché?»Silenzio.«Fratello, non mi rispondi?»«Non c'è nessuno scarpone.»«Niente scarpone?»«No.»«Che brutta notizia.»«L'ho mangiato.»«Lo scarpone?»«Sì.»«Era buono?»«No. E le sigarette?»«Neppure. Non sono riuscito a finirle.»«E io non sono riuscito a finire lo scarpone.»«C'era una volta una banana. La banana cominciò a crescere. Diventò grande,

gialla e profumata. Poi cadde a terra, un tipo la raccolse, se la mangiò e si sentì meglio.»

«Mi dispiace. Scusa per quello che ho detto e che ho fatto. Sono una persona spregevole» proruppe.

«Ma che dici! Sei la persona più preziosa, più meravigliosa del mondo. Vieni, fratello, vieni da me e godiamoci la compagnia reciproca.»

«Sì!»Il Pacifico non è il posto adatto per i vogatori, soprattutto se sono deboli e ciechi,

le loro scialuppe sono grandi e poco maneggevoli e il vento si rifiuta di collaborare. Era vicino, poi lontano. Alla mia sinistra, e un attimo dopo alla mia destra. Davanti a me... dietro di me. Ma alla fine ci riuscimmo: le nostre barche si toccarono con un tonfo leggero. Mi gettò una cima e legai la mia scialuppa alla sua. Spalancai le braccia per abbracciarlo e per farmi abbracciare. I miei occhi erano colmi di lacrime e sorridevo. Era di fronte a me, una presenza luminosa pur nella cecità.

«Mio dolce fratello» sussurrai.«Eccomi» replicò.Percepii un flebile ringhio.«Fratello, aspetta. C'è una cosa che devi sapere.»Mi cadde addosso. Finimmo distesi l'uno sull'altro, il busto sull'incerata e le

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gambe sulla panca di mezzo. Le sue mani si allungarono verso la mia gola.«Fratello,» ansimai nella stretta di quell'abbraccio fin troppo affettuoso «il mio

cuore è con te, ma devo suggerire di spostarci con urgenza in un altro punto della mia umile imbarcazione.»

«Dici bene quando dici che il tuo cuore è con me!» disse «E così il tuo fegato e la tua carne!»

Lo sentii scivolare dall'incerata verso la panca centrale; poi, fatalmente, poggiò un piede sul fondo della scialuppa.

«No, no, fratello! Non siamo...»Provai a trattenerlo, ma sfortunatamente, era troppo tardi. Prima che riuscissi a

dire la parola soli, mi ritrovai di nuovo solo. Udii il ticchettio discreto degli artigli, non più forte del suono di un paio di occhiali che cade per terra. Un attimo dopo il mio caro fratello cacciò un urlo a pochi millimetri dalla mia faccia: non avevo mai sentito un grido simile in vita mia. Mollò la presa.

Quello fu il terribile prezzo di Richard Parker. Mi restituì una vita - la mia - ma in cambio ne prese un'altra. Strappò la carne di dosso a quell'uomo e gli fracassò le ossa. L'odore del sangue mi riempì le narici. Qualcosa dentro di me morì in quell'istante e non è più tornato in vita.

CAPITOLO 91

Mi trasferii sull'imbarcazione dello sconosciuto. La esplorai con le mani e scoprii che mi aveva mentito. Possedeva un po' di carne di tartaruga, una testa di dorado, e persino - che gioia! - alcune briciole di biscotti. E acqua. Finì tutto nella mia pancia. Ritornai sulla mia scialuppa e slegai la sua.

Piansi molto, il che giovò un po' a miei occhi. Nella finestrella in alto a sinistra del mio campo visivo si aprì una fessura. Mi sciacquai gli occhi con acqua di mare. A ogni sciacquo, la finestrella si apriva un po' di più. Nel giro di due giorni mi tornò la vista.

Quello che vidi mi fece desiderare di essere rimasto cieco. Il corpo dell'uomo, squarciato e smembrato, giaceva sul fondo della scialuppa. Richard Parker ne aveva divorato gran parte, incluso il viso: così non seppi mai chi era. Il busto sviscerato, con le costole a pezzi e arcuate come la struttura di una nave, fradicio di sangue e ridotto in modo penoso, sembrava una versione miniaturizzata della scialuppa.

Confesso che agganciai una delle sue braccia con il crocco e ne usai dei brandelli come esca. Confesso anche che, spinto dall'eccesso dei miei bisogni e dalla follia che scatenavano dentro di me, mangiai un po' della sua carne. Piccoli pezzi, strisce che avevo preparato per l'uncino del crocco, ma che una volta essiccate non erano diverse dalla carne di un animale. Me le feci scivolare in bocca senza pensarci. Cercate di capirmi, la sofferenza non mi dava tregua e lui era già morto. Smisi non appena catturai un pesce.

Prego per la sua anima tutti i giorni.

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CAPITOLO 92

Feci una scoperta botanica sensazionale. Anche se molti di voi non ci crederanno la racconterò lo stesso, perché fa parte della mia storia, ed è una cosa successa veramente.

Era l'una, forse le due del pomeriggio di una giornata con un sole tiepido e una brezza leggera. Disteso su un fianco mi ero appisolato, un sonno leggero e privo di sogni che non mi aveva riposato per niente. Mi girai sull'altro fianco, cercando di sprecare meno energia possibile, e aprii gli occhi.

Vidi alcuni alberi non troppo lontani, ma non reagii. Di sicuro era un'illusione che sarebbe scomparsa con qualche battito di ciglia.

Gli alberi però non scomparvero. Anzi, si trasformarono in una foresta che ricopriva parte di un'isola pianeggiante. Mi tirai su. Continuavo a non credere ai miei occhi, ma mi eccitava quell'illusione così perfetta. Gli alberi erano bellissimi, come non ne avevo mai visti in vita mia: la corteccia chiara, i rami, distribuiti in modo uniforme, incredibilmente carichi di foglie, e le foglie di un verde smeraldo così luminoso che a confronto la vegetazione durante i monsoni pareva grigia e olivastra.

Strizzai varie volte gli occhi, aspettandomi che le palpebre ottenessero l'effetto di una squadra di tagliaboschi. Gli alberi però non se ne andarono.

Guardai più attentamente e rimasi al tempo stesso soddisfatto e deluso da ciò che vidi. L'isola era senza terra. Non che gli alberi spuntassero dal mare, sembravano piuttosto emergere da una densa massa di vegetazione, dello stesso verde brillante delle foglie. Chi aveva mai sentito parlare di un'isola senza terra? Di alberi che crescevano nella vegetazione? Ero soddisfatto, perché una simile struttura geologica confermava che si trattava di una chimera, di un scherzo della mente. Ma ero deluso, perché mi sarebbe tanto piaciuto imbattermi in un'isola, anche strana come quella.

Visto che gli alberi non accennavano a sparire, io continuai ad ammirarli. Che sollievo per i miei occhi riempirsi di verde, dopo tutto quel blu. Il verde è un colore delizioso. È il colore dell'islam. È il mio colore preferito.

La corrente avvicinò dolcemente la scialuppa all'illusione. Non avendo né sabbia né ciottoli, le sponde dell'isola non assomigliavano certo a una spiaggia; e non si udiva lo sciabordio del mare. Le onde che la lambivano venivano come inghiottite da quella porosità vegetale. Circa trecento metri all'interno, dopo una lieve salita, l'isola digradava verso il mare; proseguiva per una trentina di metri sotto il pelo dell'acqua e all'improvviso, scompariva negli abissi del Pacifico: senza dubbio la più piccola piattaforma continentale del pianeta.

Mi stavo abituando a quell'inganno della mente. E per farlo durare decisi di non metterlo alla prova. Quando la scialuppa sfiorò l'isolotto, non mi mossi e continuai a sognare. Era una massa fitta e intricata di alghe tubolari, spesse un paio di centimetri. "Che strano posto" pensai.

Dopo qualche minuto, strisciai fino al bordo della scialuppa. «Cercate il verde» consigliava il manuale di sopravvivenza. Be' senza alcun dubbio quello era verde. Il paradiso della clorofilla. Un verde più brillante dei coloranti alimentari e delle luci al

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neon. Un verde inebriante. «Ricordatevi che l'unico vero giudice della terraferma è il piede» continuava il manuale. L'isolotto era a due passi da me. Chiedere aiuto al mio giudice - e rimanere deluso - o lasciar perdere? Quello era il dilemma.

Decisi di tentare. Mi guardai attorno in cerca di squali, ma non ne vidi. A pancia in giù, aggrappandomi all'incerata, calai lentamente una gamba e immersi il piede nel mare. L'acqua era piacevolmente fresca. Poco più sotto l'isolotto scintillava tremolante. Allungai il piede. La bolla d'illusione poteva scoppiare da un minuto all'altro.

Non lo fece. Il mio piede scese nell'acqua limpida e incontrò la resistenza gommosa di qualcosa di elastico, ma solido. Provai a spingere un po'. Ancora, l'illusione non svanì. Caricai il piede con tutto il peso del corpo. Continuavo a non affondare. E continuavo a non crederci.

Alla fine, fu il mio naso il giudice della terraferma. L'odore delle alghe, rigoglioso, fresco, travolgente, colpì il mio olfatto. Annaspai. Dopo mesi di acqua salata, la densa fragranza della sostanza organica vegetale era sin troppo intensa. A quel punto non potei che crederci, e l'unica cosa che affondò fu la mia mente. I pensieri divennero confusi e cominciarono a tremarmi le gambe.

«Mio Dio! Mio Dio!» esclamai in lacrime.Caddi dalla scialuppa.Lo shock della terraferma e dell'acqua fredda mi diedero la forza di spingermi

all'interno dell'isola. Farfugliai ringraziamenti incoerenti a Dio, poi crollai.Ma non riuscivo a stare fermo. Ero troppo eccitato. Provai invano ad alzarmi. Il

sangue mi defluì dalla testa. La terra tremava violentemente. A un tratto vidi tutto nero. Credetti di svenire. Cercai di calmarmi ma avevo l'affanno. Riuscii a sedermi.

«Richard Parker! Terra! Terra! Siamo salvi!» gridai.L'odore delle alghe era straordinariamente pungente, mentre quel verde era così

fresco e rilassante che forza e serenità penetrarono nel mio corpo attraverso gli occhi.Che cos'erano quelle strane piante tubolari, così fitte e aggrovigliate? Si potevano

mangiare? Sembravano alghe, ma al tatto erano molto più dure del normale, umide e quasi friabili. Ne afferrai una che si spezzò senza fatica. Osservai l'interno dell'alga e vidi che era composta da due tubicini concentrici: quello esterno, verde brillante, umido e leggermente ruvido, e un altro interno, bianco, che racchiudeva il cuore della pianta. Mi avvicinai l'alga al naso. A parte la piacevole fragranza tipica delle piante, non aveva un odore particolare.

La leccai. Il mio battito cardiaco accelerò. Era bagnata di acqua dolce.La morsi. Le mie mandibole erano pronte allo shock. Il tubo interno era molto

salato, quello esterno però non solo era commestibile, ma persino squisito. La mia lingua cominciò a fremere come un dito che sfoglia un dizionario in cerca di una parola dimenticata da tempo. La trovò, e i miei occhi si socchiusero di piacere nell'udirla: dolce. Non buono, ma zuccherino. Possiamo dire molte cose di tartarughe e pesci, ma mai e poi mai che sono zuccherini. L'alga era dolce e delicata, ancora più deliziosa della linfa degli aceri in Canada. Potrei paragonarla alle castagne d'acqua.

Nella mia bocca secca e pastosa cominciò a colare prepotente la saliva. Emettendo gemiti di piacere cominciai a staccare le alghe che mi circondavano. I due tubicini si

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separavano facilmente. Mi abbuffai a piene mani di quelli dolci; non masticavo in modo così veloce e impegnativo da molto tempo. Continuai a ingoiare alghe finché non feci il vuoto attorno a me.

A circa sessanta metri dalla riva si stagliava un albero solitario, l'unico che non si trovava sulla cresta dell'isola che a me pareva lontanissima. Forse la parola cresta vi darà un'impressione sbagliata: in realtà non era affatto alta. Come vi ho già detto, l'isola era pianeggiante, a pelo d'acqua. La pendenza superava di poco i quindici metri, ma a me, nello stato in cui ero, sembrava una montagna. L'albero era davvero invitante. Vedevo l'ombra ai suoi piedi. Riprovai ad alzarmi. Riuscivo a stare rannicchiato, ma non appena tentavo di rizzarmi mi girava la testa e perdevo l'equilibrio. E anche se mi fossi messo in piedi, le mie gambe erano totalmente prive di forza. Ma non la mia volontà. Ero determinato ad andare avanti. Strisciando e rotolando, pian piano raggiunsi l'albero.

Non proverò mai più una gioia così immensa come quella che mi invase quando mi immersi nell'ombra tremula e screziata e udii il fruscio secco e fragrante del vento tra le foglie. L'albero non era imponente come quelli all'interno dell'isola. E, più esposto agli elementi, non si era sviluppato in modo uniforme, era persino un po' storto. Ma era un albero. E un albero, dopo che sei stato in mare per molto, troppo tempo, è una benedizione. Cantai la gloria di quell'albero, la sua purezza solida e pacata, la sua quieta bellezza. Oh, se fossi stato come lui, radicato in terra ma con le mani sollevate verso il cielo per lodare Dio! Scoppiai a piangere.

Mentre il mio cuore esaltava Allah, la mia mente cominciò a esaminare attentamente le sue opere. L'albero cresceva in mezzo alle alghe, proprio come mi era parso dalla scialuppa. Di terra nemmeno l'ombra. I casi erano due: o la terra era molto più in profondità, oppure quell'albero era un esempio straordinario di commensale, o parassita vegetale. Aveva un tronco largo più o meno come il torace di un uomo. La corteccia verde-grigia, sottile e liscia, tanto morbida che riuscivo a scalfirla con le unghie. Le foglie larghe, con un'unica punta. La cima era graziosamente rotonda come quella del mango; ma non era un mango. Dall'odore mi sembrava un albero di loto; ma non era neppure quello, né una mangrovia, né nessun altro albero che conoscevo. Sapevo solo che era bellissimo, verde e lussureggiante.

Udii un brontolio. Mi voltai. Richard Parker mi osservava dalla scialuppa. Anche lui scrutava l'isola. Voleva scendere a riva ma aveva paura. Soffiò e si agitò per parecchio tempo, ma alla fine balzò giù. Mi portai il fischietto alla bocca, ma vidi che non aveva alcuna intenzione di aggredirmi. Stare in equilibrio era già una sfida per lui; barcollava esattamente come me. Avanzò strisciando, con le zampe tremanti, come un cucciolo appena nato. Si tenne alla larga da me dirigendosi verso la cima dell'isola, poi si dileguò.

Passai la giornata mangiando, riposando, cercando di stare in piedi e sguazzando nella beatitudine. Se mi sforzavo troppo mi veniva la nausea. Avevo l'impressione che la terra si spostasse di continuo e che potevo cadere da un momento all'altro, persino quando stavo seduto immobile.

Sul finire del pomeriggio cominciai a preoccuparmi per Richard Parker. Il territorio era cambiato e non sapevo come avrebbe reagito se mi avesse incontrato.

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Riluttante, solo per una questione di sicurezza, strisciai verso la scialuppa. Richard Parker poteva anche impossessarsi dell'intera isola, ma la prua e l'incerata rimanevano il mio territorio. Cercai qualcosa a cui ormeggiare, ma ebbi la conferma che la vegetazione ricopriva completamente la riva. Alla fine risolsi il problema conficcando un remo nell'intrico di quelle alghe tubolari e legandovi la barca.

Strisciai sull'incerata. Ero esausto, sfiancato dal troppo cibo, e anche teso e nervoso per l'inaspettata fortuna. Quando il giorno era ormai al termine, ricordo vagamente che udii ruggire Richard Parker in lontananza; ma il sonno ebbe la meglio.

Mi svegliai di notte, con una sensazione strana e fastidiosa all'intestino. Sembrava un crampo, forse mi ero avvelenato con le alghe.

Udii un rumore e vidi Richard Parker sulla scialuppa.Era salito a bordo mentre dormivo. Miagolava e si leccava sotto le zampe. Mi

sembrò strano che fosse tornato, ma non stetti a pensarci: il crampo era sempre più lancinante. Piegato in due dal dolore, tremavo come una foglia. Fu allora che si mise in moto qualcosa dentro di me, un processo normale, ma che io avevo dimenticato da tempo: la defecazione. Fu molto doloroso, ma poi caddi nel sonno più tranquillo e riposante da quando era affondata la Tsimtsum.

La mattina seguente mi sentivo decisamente in forze. Strisciai verso l'albero solitario con molta più energia. Di nuovo i miei occhi si lasciarono estasiare da quella visione e il mio stomaco dalle alghe. La colazione fu così abbondante che per la seconda volta feci il vuoto intorno a me.

Ancora, Richard Parker esitò per ore prima di saltare giù dalla scialuppa. A mattino inoltrato si decise, ma dopo essere atterrato riprovò subito a tornare indietro, cadendo a metà nell'acqua. Mi sembrava molto teso. Soffiò e fendette l'aria con una zampa. Si comportava in modo strano. Non avevo la minima idea di cosa stesse facendo. Una volta che si fu calmato, con passo visibilmente più sicuro del giorno prima scomparve al di là della cresta.

Quel giorno, appoggiandomi all'albero, riuscii ad alzarmi in piedi. Solo se chiudevo gli occhi e mi aggrappavo, però, la terra smetteva di girare. Quando provai ad allontanarmi caddi subito. La terrà precipitò verso di me prima che riuscissi a muovere un piede. Non mi feci niente. L'isola era ricoperta da una vegetazione così fitta e gommosa che decisamente non c'era posto migliore per reimparare a camminare. Il giorno successivo, passata un'altra notte riposante in compagnia di Richard Parker, che puntualmente era ritornato sulla scialuppa, ce la feci. Dopo qualche caduta, raggiunsi l'albero. Le mie forze aumentavano ora dopo ora. Con il crocco afferrai un ramo, quindi lo spezzai e staccai un po' di foglie. Erano morbide e non oleose ma amare. Richard Parker doveva essersi affezionato al suo rifugio sulla barca: ecco perché di notte vi tornava sempre.

Quella sera lo vidi rientrare al tramonto. Ancora una volta avevo legato la scialuppa al remo incastrato nelle alghe e, a prua, stavo controllando che la fune fosse ben assicurata. Comparve di colpo. All'inizio non lo riconobbi. Il magnifico animale che spuntò galoppando come un fulmine non poteva essere la tigre apatica e malridotta, mia compagna di sventura. Invece era proprio Richard Parker, e correva

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veloce verso di me. Aveva un'aria sicura, con la testa abbassata che lasciava intravedere il collo maestoso. Il manto e i muscoli fremevano a ogni passo. Udivo il suo corpo tuonare pesante sulla terra.

Ho letto che esistono due paure incontrollabili: quella che ci fa sussultare per un rumore inaspettato, e le vertigini. Io ne aggiungerei una terza: il rapido e inarrestabile avvicinamento di un noto assassino.

Cercai freneticamente il fischietto. Quando Richard Parker era a circa trenta metri da me, fischiai con tutto il fiato che avevo in corpo. Un urlo lancinante squarciò l'aria.

Ottenni l'effetto desiderato: Richard Parker si bloccò. Ma era chiaramente intenzionato a procedere. Fischiai di nuovo. Rimase dov'era, e cominciò a girare e saltellare in modo strano, come fanno i cervi. Contemporaneamente ringhiava furioso. Fischiai per la terza volta.

Gli si drizzarono tutti i peli. Mostrò gli artigli. Era estremamente agitato. Temevo che la barriera protettiva dei miei fischi crollasse, e che lui mi attaccasse.

Invece Richard Parker fece la cosa meno prevedibile: saltò in mare. Ero stupefatto. Non me lo sarei mai aspettato. Fu un salto deciso e maestoso. Nuotò verso la poppa della scialuppa. Stavo per fischiare ancora una volta, ma poi aprii il coperchio del ripostiglio e mi sedetti, rifugiandomi nel mio territorio.

Quando Richard Parker salì a poppa, fradicio e sgocciolante, la prua si sollevò. Rimase in equilibrio fra il bordo e il sedile di poppa per qualche istante fissandomi. Il mio cuore rallentò. Non ce l'avrei fatta a fischiare ancora. Lo guardai distrattamente. Saltò sul fondo della scialuppa e scomparve sotto l'incerata. Da dietro il coperchio della botola riuscivo a scorgerlo in parte. Mi gettai sull'incerata, lontano dalla sua vista ma esattamente sopra di lui. Provai il desiderio irrefrenabile di avere le ali e volare via.

Mi calmai sforzandomi di ricordare che quella situazione non era affatto nuova per me: ormai vivevo seduto sopra una tigre.

Mentre il mio respiro rallentava, sopraggiunse il sonno.Durante la notte mi svegliai e, dimenticando la paura, guardai verso di lui.

Sognava scuotendosi e soffiando così rumorosamente che mi aveva svegliato.La mattina, come al solito, sparì oltre la cresta.Decisi che non appena ne avessi avuto le forze avrei esplorato l'isola. Sembrava

piuttosto grande: a destra e a sinistra, la curva della costa era assai graduale, il che lasciava intuire una discreta circonferenza. Passai la giornata a camminare - e a cadere - dalla riva all'albero e viceversa, nel tentativo di rimettere in sesto le gambe. A ogni caduta facevo una scorpacciata di alghe.

Quando verso sera Richard Parker fece ritorno, un po' più presto del giorno precedente, io lo stavo aspettando. Ero seduto ben eretto e non fischiai. Si avvicinò alla scialuppa e con un balzo portentoso la raggiunse. Avanzò nel suo territorio senza sconfinare, limitandosi a far dondolare la barca. Stava recuperando le forze in modo quasi terrificante.

La mattina successiva, dopo aver lasciato a Richard Parker un ampio vantaggio, andai a esplorare l'isola. Camminai fino alla cresta. Non ci misi molto a raggiungerla:

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muovevo orgoglioso un piede dopo all'altro con un'andatura spiritata e allo stesso tempo un po' goffa. Se le mie gambe fossero state più deboli, non avrebbero retto allo spettacolo che mi si presentò.

Cominciamo dai dettagli. Tutta l'isola, non solo la riva, era ricoperta di alghe. Si trattava di un largo altopiano verde con al centro una foresta altrettanto verde. La foresta era circondata da centinaia di minuscoli laghetti perfettamente identici e distribuiti in modo uniforme. Fra una pozza e l'altra c'erano file rade e ordinate di alberi. Sembrava che ogni cosa, in quel paesaggio seguisse uno schema preciso.

Ma furono i suricati a imprimersi in modo indelebile nella mia mente. Al primo colpo d'occhio mi parvero centinaia di migliaia. Il paesaggio brulicava ovunque di suricati. E quando mi videro, si girarono tutti verso di me, sorpresi come polli nell'aia, e si alzarono.

Nel nostro zoo non c'erano suricati. Io però li conoscevo perché avevo letto di loro sui libri. Un suricato è un piccolo mammifero dell'Africa meridionale simile alla mangusta: lungo circa trenta centimetri, raggiunge il chilo in età adulta, è snello e con una struttura che ricorda la donnola. Ha il muso appuntito, gli occhi perfettamente allineati, le zampe corte con quattro dita e lunghi artigli non retrattili, e una coda di circa venti centimetri. Il pelo è marrone chiaro o grigio, con strisce nere o marroni sulla schiena, mentre la punta della coda, le orecchie e i caratteristici cerchi attorno agli occhi sono neri. È una creatura diurna, agile, dalla vista acuta e socievole. Nella sua zona d'origine, il deserto del Kalahari in Africa meridionale, si nutre anche di scorpioni essendo completamente immune al loro veleno. Quando è all'erta, il suricato assume una peculiare posizione: simile a un treppiedi sta in equilibrio sulla punta delle zampe posteriori bilanciandosi con la coda.

Spesso accade che si mettano in quella posizione a gruppi: eretti, tutti con lo sguardo fisso nella stessa direzione come pendolari in attesa dell'autobus. Con la faccia seria e le zampe anteriori che ciondolano, assomigliano a bambini in posa per una foto, o a pazienti che, completamente nudi nello studio di un dottore, cercano pudicamente di coprirsi i genitali.

Quella fu la scena che si presentò ai miei occhi: centinaia di migliaia di suricati - forse un milione - girati verso di me e sull'attenti, quasi mi dicessero: «Sissignore». Badate bene, un suricato in posizione eretta non è alto neppure mezzo metro, perciò non furono le dimensioni di quelle creature a impressionarmi, ma la quantità. Rimasi inchiodato, senza parole. Se li avessi spaventati, un milione di suricati si sarebbero messi in fuga, scatenando un caos indescrivibile. Ma il loro interesse nei miei confronti fu di breve durata. Dopo una manciata di secondi, ripresero le attività interrotte dalla mia apparizione: mordicchiare le alghe o fissare i laghetti. La vista di quelle creature che si chinavano in perfetta sincronia mi ricordava il momento della preghiera in una moschea.

Sembrava che i suricati non avessero paura. Mentre proseguivo giù per la collina, non uno di loro si allontanò o mostrò il minimo turbamento per la mia presenza. Se avessi voluto, avrei potuto toccarli, anche prenderli in braccio. Ma non feci nulla del genere. Mi limitai ad addentrarmi in quella che doveva essere la più grande colonia di suricati del mondo; fu una delle esperienze più strane e meravigliose della mia

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vita. Un rumore incessante riempiva l'aria: i suricati squittivano, stridevano, pigolavano, urlavano. Erano così tanti che quel baccano concitato e bizzarro andava e veniva come uno stormo di uccelli; a tratti si avvicinava e mi turbinava attorno, poi in un attimo si spegneva, quando i suricati più vicini si azzittivano. Allora cominciavano a farsi sentire quelli più distanti.

Una domanda mi attraversò la mente: non avevano paura perché ero io a doverli temere? Ma la risposta fu subito chiara: erano innocui. Decisi di avvicinarmi a un laghetto e dovetti scostarli con i piedi per non calpestarli. Presero le spinte senza offendersi, e mi aprirono un varco come una folla benevola. Sentii i loro corpi caldi e pelosi contro le mie caviglie mentre osservavo quel laghetto.

Tutti i laghetti erano ugualmente rotondi e avevano un diametro di circa dodici metri. Mi aspettavo che fossero bassi. Ma l'acqua era profonda e limpida. Anzi, sembrava che il fondo non ci fosse proprio. E, almeno fin dove giungeva il mio sguardo, le pareti erano muri di alghe verdi. Evidentemente avevano invaso tutta l'isola.

Non riuscii a vedere niente che potesse spiegare la curiosità insistente dei suricati, e avrei rinunciato a risolvere il mistero se da un laghetto vicino non fossero giunti squittii e grida. I suricati saltellavano, tremendamente eccitati. Tutt'a un tratto presero a tuffarsi nel laghetto, a centinaia. Quelli più lontani cominciarono a correre per raggiungere il laghetto, facendosi strada a forza di spintoni. La frenesia era collettiva, persino i cuccioli si precipitavano verso l'acqua, trattenuti invano dalle madri. Non credevo ai miei occhi. Quelli non erano normali suricati del Kalahari. I suricati del Kalahari non si comportano come rane. Doveva trattarsi di una sottospecie che si era evoluta in modo bizzarro e sorprendente.

Raggiunsi il laghetto, muovendomi con cautela, appena in tempo per vedere i suricati che nuotavano - nuotavano sul serio! - portando a riva dozzine di pesci, e nemmeno tanto piccoli. Alcuni erano dorado, che nella mia fantasia si erano già trasformati in un banchetto pantagruelico sulla scialuppa. I suricati erano più piccoli dei dorado. Come facevano a catturarli?

Nel trascinare il loro bottino fuori dall'acqua, dimostravano un'eccezionale abilità nel lavoro di gruppo. Mi colpì uno strano particolare: tutti i pesci, senza alcuna eccezione, erano già morti. Morti da poco. I suricati stavano portando a riva pesci che non avevano ucciso loro.

Spinsi via alcuni animaletti fradici ed eccitati per inginocchiarmi sulla riva. Toccai l'acqua. Era più fredda di quanto mi aspettassi. Ci doveva essere una corrente gelata che proveniva dal fondo. Con le mani a coppa raccolsi un po' d'acqua e me la portai alla bocca. Ne bevvi un sorso.

Era dolce! Ecco perché i pesci erano morti: è naturale, se mettete un pesce di mare in acqua dolce, in men che non si dica si gonfierà e morirà. Ma cosa ci facevano lì quei pesci? Come ci erano arrivati?

Mi avvicinai a un altro laghetto, e mi aprii di nuovo un varco in mezzo ai suricati. Acqua dolce anche lì. Un altro laghetto, uguale. Lo stesso con il quarto.

Acqua dolce ovunque. Da dove veniva? mi chiesi. Ovvio, mi risposi, dalle alghe. Le alghe desalinizzavano ininterrottamente l'acqua marina in modo naturale. Ecco

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perché il nucleo era salato e l'esterno era dolce: la pianta distillava acqua dolce. Non mi chiesi il perché di tale fenomeno, né come e dove finisse il sale. La mia mente cessò di farsi domande. Scoppiai a ridere e mi tuffai in un laghetto. Facevo fatica a stare a galla perché ero ancora molto debole e il mio corpo non aveva abbastanza grasso. Mi aggrappai alla sponda. L'effetto di quel bagno nell'acqua dolce, pulita, pura, è impossibile da descrivere a parole. Dopo tutto quel tempo passato in mare, la mia pelle era dura come il cuoio e i miei capelli lunghi, aggrovigliati e appiccicosi come carta moschicida. Sembrava che il sale mi avesse consumato persino l'anima. Così, sotto lo sguardo di migliaia di suricati, mi misi a mollo, e lasciai che quell'acqua dissolvesse tutti i cristalli di sale che mi stavano corrodendo.

I suricati guardarono altrove. Lo fecero come un sol uomo: si girarono tutti contemporaneamente nella stessa direzione. Uscii dall'acqua per vedere cos'era. Richard Parker. Il che confermò una mia ipotesi: i suricati avevano vissuto per così tante generazioni senza predatori che qualsiasi nozione di distanza di sicurezza, fuga, paura era stata geneticamente eliminata. Lui si fece strada fra la folla, lasciando dietro di sé una scia di morte e caos, divorando un suricato dopo l'altro, con il sangue che gli colava dalla bocca. E loro, faccia a faccia con una tigre, rimanevano lì a saltellare, come se gridassero: «Tocca a me! Tocca a me! Tocca a me!». Avrei visto quella scena molte volte. Niente poteva turbare la tranquilla esistenza dei suricati: osservare i laghetti e sbocconcellare le alghe. Che Richard Parker si appostasse con astuzia per poi piombare su di loro ruggendo come un tuono, o che camminasse in mezzo al branco dinoccolato e noncurante, non faceva la minima differenza: non si scomponevano. Regnava la mansuetudine.

Ne uccise molti più del necessario. Non li mangiava tutti. Negli animali l'istinto di uccidere è separato dal bisogno di mangiare. Richard Parker era stato per tanto tempo senza prede e di colpo se ne ritrovava una moltitudine a disposizione, perciò il suo istinto di cacciatore, a lungo represso, si scatenò in maniera eccessiva.

Ero lontano da lui. Quindi non ero in pericolo, almeno per il momento.La mattina successiva, dopo che se ne andò, pulii la scialuppa. Era indispensabile.

C'era uno scempio di ossa animali e umane, per non parlare dei resti di pesci e tartarughe. Quell'ammasso fetido e disgustoso finì in mare, ma non osai mettere piede sul fondo della scialuppa per paura di lasciare una traccia tangibile della mia presenza nel territorio di Richard Parker. Finii di pulire servendomi del crocco, che manovravo stando sull'incerata o addirittura fuori dalla barca, con le gambe in acqua. Completata l'opera, riempii il secchio e mi diedi da fare per eliminare chiazze e fetore.

Quella sera, Richard Parker s'infilò nel suo rifugio pulito e rimesso a nuovo senza commenti. Stringeva fra i denti un paio di suricati morti che divorò durante la notte.

Passai i giorni successivi a mangiare, bere, farmi il bagno, osservare i suricati, passeggiare, correre, riposare e riprendere le forze. Correvo in modo naturale e spontaneo e mi sentivo euforico. La pelle guarì. Dolori e malesseri mi abbandonarono. In parole povere, ritornai alla vita.

Esplorai l'isola. Provai anche a fare tutto il giro, ma ci rinunciai. Stimai che doveva avere un diametro di circa dieci, undici chilometri, ovvero una circonferenza

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superiore ai trenta. Ciò che vidi mi fece intuire che la riva doveva essere tutta uguale: ovunque lo stesso verde accecante, la stessa altura che digradava verso l'acqua, e, qua e là, lo stesso albero storto a interrompere la monotonia del paesaggio. Quell'esplorazione mi rivelò un fatto straordinario: le alghe, e di conseguenza anche l'isola, mutavano altezza e densità a seconda del clima. Nei giorni torridi, l'intreccio vegetale diveniva fitto e denso, e l'isola cresceva in altezza; di conseguenza anche la cresta era più alta e la salita più ripida. Non era un processo veloce. Succedeva solo quando il caldo era eccessivo e prolungato. Ma era inconfondibile. Aveva sicuramente a che fare con la conservazione dell'acqua, visto che in quel caso la superficie delle alghe era meno esposta ai raggi del sole.

Il fenomeno inverso avveniva più velocemente, in modo più spettacolare, e con una ragione più evidente. Contemporaneamente l'altura si abbassava e la piattaforma continentale - se vogliamo chiamarla così - si allungava. L'intreccio di alghe che ricopriva la riva si allentava a tal punto che i miei piedi rimanevano intrappolati. Questo succedeva con il tempo nuvoloso, più rapidamente se il mare era agitato.

Mentre ero sull'isola, mi trovai nel bel mezzo di una tempesta. Dopo quell'esperienza ero sicuro che avrei potuto affrontare anche il peggiore degli uragani. Fu uno spettacolo maestoso; seduto su un albero, ammiravo le onde gigantesche che sfidavano l'isola, pronte a conquistare la cima della collinetta e a scatenare pandemonio e caos, ma che poi scomparivano come se si fossero imbattute nelle sabbie mobili. L'isola reagiva in maniera gandhiana, opponendo resistenza passiva. Le onde scomparivano senza fragore, solo con un po' di spuma. L'unico indizio di quella forza straordinaria nel paesaggio erano il tremore e le piccole increspature che corrugavano la superficie dei laghetti. Le onde sommergevano l'isola, notevolmente rimpicciolita, e dopo averla attraversata proseguivano per il loro cammino. Che strano spettacolo, le onde che si allontanano dalla riva. La tempesta, con tutte le sue scosse, non disturbò minimamente i suricati, che continuarono a fare le loro cose come se gli elementi naturali non esistessero.

L'assoluta mancanza di vita sull'isola era un enigma ancora più grande. Non avevo mai visto un ecosistema così "vuoto". Nell'aria non c'erano né mosche né farfalle, né api né insetti di alcun tipo. Sugli alberi non vivevano uccelli. Le pianure non ospitavano roditori, larve, vermi, serpenti o scorpioni, e a parte quegli alberi non c'era altra vegetazione, arbusti, erba o fiori. I laghetti non avevano pesci d'acqua dolce. La riva non brulicava di flora, né di granchi, gamberi, coralli, ciottoli o rocce. Con l'unica e considerevole eccezione dei suricati, sull'isola non c'era la minima particella estranea, organica o inorganica. Solo alghe e alberi verde brillante.

Un giorno scoprii che gli alberi non erano parassiti: alla base di uno piuttosto piccolo strappai così tante alghe che giunsi a vedere le radici. Notai che non erano conficcate nelle alghe, ma un tutt'uno con esse. Gli alberi perciò vivevano in relazione simbiotica con le alghe - un rapporto di scambio che garantiva vantaggi reciproci - o più semplicemente erano parte integrante di esse. Propendevo per la seconda ipotesi, visto che gli alberi non producevano né fiori né frutti. Dubito che un organismo indipendente, anche se ha instaurato una relazione simbiotica con un altro essere, abbandoni una parte essenziale della vita come la riproduzione.

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L'abbondanza, le dimensioni delle foglie e quel verde stupefacente testimoniavano il loro appetito di sole; ciò mi fece sospettare che gli alberi avessero la funzione di raccogliere energia. Ma era solo una congettura.

Voglio fare un'ultima osservazione, che nasce dall'intuito e non da prove concrete. L'isola non era un'isola nel vero senso della parola, vale a dire una piccola porzione di terra radicata nell'oceano; ma piuttosto un organismo che galleggiava libero, una ciclopica palla di alghe. E sospetto che i laghetti raggiungessero il fondo di quell'immensa massa galleggiante e sbucassero nell'oceano. Ecco spiegata la presenza dei dorado e degli altri pesci marini.

Ci sarebbero voluti studi più approfonditi, ma sfortunatamente in seguito persi le alghe che avevo raccolto per conservarle.

Proprio come io tornai alla vita, così fece Richard Parker. A furia di ingozzarsi di suricati aumentò di peso, il pelo gli tornò lucido, e riprese l'aspetto sano di un tempo. Conservò l'abitudine di ritornare sulla scialuppa al crepuscolo. Io facevo sempre in modo di esserci prima di lui, e marcavo il mio territorio con abbondanti quantità di urina in modo che non dimenticasse i nostri ruoli e i nostri spazi. Poi, alle prime luci dell'alba, se ne andava, spingendosi molto più lontano di me. L'isola era tutta uguale, e io di solito me ne stavo sempre nello stesso posto.

Durante il giorno lo vedevo pochissimo. E mi innervosivo. Scorgevo i segni delle sue zampe sugli alberi: lasciava buchi larghi e profondi nei tronchi. Cominciai anche a udire il suo ruggito roco, quel roarr opulento come l'oro o il miele e spaventoso come le profondità di una miniera pericolante o mille api arrabbiate.

Non era il fatto che cercasse una compagna in sé a preoccuparmi, ma che sull'isola si sentisse così a suo agio da pensare addirittura di riprodursi. Temevo che nella sua nuova condizione potesse trovare intollerabile la presenza di un altro maschio nel suo territorio, soprattutto in quello notturno, e specialmente se nessuno rispondeva alle sue grida insistenti, come sarebbe ovviamente stato.

Un giorno passeggiavo per la foresta, camminando con passo energico perso nei miei pensieri, quando, oltrepassato un albero, praticamente andai a sbattere contro di lui. Rimanemmo entrambi sorpresi. Richard Parker soffiò e si impennò sulle zampe posteriori: torreggiava su di me, pronto a schiacciarmi. Non riuscii a muovermi, paralizzato dalla paura e dallo shock. Ridiscese e si allontanò. Dopo qualche passo, si voltò e si rizzò di nuovo, soffiando. Io rimasi immobile come una statua. Fece qualche altro passo e ripetè la stessa minaccia per la terza volta. Definitivamente convinto che non rappresentavo un pericolo, si allontanò a passo lento. Non appena ripresi fiato e smisi di tremare, mi portai il fischietto alle labbra e cominciai a corrergli dietro. Aveva già percorso un bel pezzo di strada, ma riuscivo ancora a vederlo. Correvo veloce. Si girò, mi scorse, si rannicchiò e poi fuggì. Fischiai con tutta la forza che avevo, nella speranza che quel fischio viaggiasse in lungo e in largo come il grido di una tigre solitaria.

Quella notte, mentre dormiva a poco più di mezzo metro sotto di me, giunsi alla conclusione che era il momento di tornare nella pista del circo.

La maggior difficoltà nella doma degli animali sta nel fatto che essi agiscono per istinto o per abitudine. Le scorciatoie mentali che permettano nuove associazioni

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sono abbastanza rare. Quindi, affinché l'animale associ nella sua mente una certa azione - per esempio rotolarsi - a un premio, è necessaria una reiterazione estenuante. È un processo lento, i cui risultati dipendono vuoi dalla fortuna vuoi dal duro lavoro, tantopiù se l'animale è adulto.

Fischiai finché non mi fecero male i polmoni. Mi battei il torace tanto da riempirmi di lividi. Urlai migliaia di volte «Hep! Hep! Hep!», che significava «Fallo!» nel mio linguaggio tigresco. Gli gettai centinaia di pezzetti di suricati che avrei volentieri mangiato io. Domare una tigre non è un'impresa facile. Le tigri sono notoriamente meno flessibili di altri animali abitualmente ammaestrati nei circhi e negli zoo, come le foche e gli scimpanzé. Ma non voglio prendermi tutto il merito di quello che riuscii a fare con Richard Parker: avevo la fortuna dalla mia parte, una fortuna che mi salvò la vita, dato che non solo era un esemplare giovane, ma anche un esemplare sottomesso, un animale omega, per intenderci.

Temevo però che le condizioni sull'isola si rivelassero sfavorevoli; con l'abbondanza di cibo e acqua, e tutto quello spazio a disposizione Richard Parker poteva rilassarsi e acquisire sicurezza, diventando meno influenzabile. Ma rimase inquieto. Poiché lo conoscevo bene, ero in grado di percepirlo. Di notte era irrequieto e rumoroso. Attribuii quello stato al nuovo ambiente; ogni minimo cambiamento, anche se positivo, crea tensione in un animale. Comunque, continuava a mostrarsi pronto a collaborare, anzi, aveva bisogno di collaborare.

Lo addestrai a saltare in un cerchio che mi ero costruito con alcuni rami sottili. Una semplice serie di quattro salti. Per ogni salto un pezzo di suricato. Mentre si avvicinava rumorosamente, tenevo il cerchio con la mano sinistra, a meno di un metro da terra. Dopo che aveva saltato e completato la sua corsa, afferravo il cerchio con la mano destra e, dandogli le spalle, gli ordinavo di saltare ancora. Per il terzo salto mi inginocchiavo e tenevo il cerchio sopra la testa. Vederlo arrivare era snervante. Avevo sempre paura che invece di saltare mi attaccasse. Fortunatamente non lo fece mai. Per finire mi alzavo e lanciavo il cerchio facendolo ruotare in aria. Richard Parker doveva corrergli dietro e saltarci dentro prima che cadesse. Non fu mai particolarmente bravo in quell'ultimo esercizio, a volte perché non lanciavo il cerchio nel modo giusto, a volte invece la sua rincorsa era goffa. Ma almeno lo seguiva, e così si allontanava da me. Rimaneva sempre interdetto quando il cerchio cadeva per terra. Lo fissava, come fosse un altro grosso animale, crollato improvvisamente mentre correvano insieme. Rimaneva vicino al cerchio e lo annusava. Gli gettavo l'ultimo pezzo di suricato e me ne andavo.

Alla fine abbandonai la scialuppa. Era assurdo passare la notte in un posto così affollato, in compagnia di una belva che aveva bisogni sempre più ingombranti, quando c'era un'isola intera a disposizione. Decisi che era più sicuro dormire sopra un albero: non potevo considerare il sonno notturno di Richard Parker una certezza, e la volta che avrebbe deciso di farsi la passeggiata di mezzanotte, non sarebbe certo stata una buona idea farmi trovare fuori dal mio territorio, indifeso e addormentato per terra.

Così un giorno lasciai la scialuppa con la rete, una fune e alcune coperte. Individuai un bell'albero al confine della foresta e lanciai la fune sul ramo più basso.

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La mia forma fisica ormai mi consentiva di sollevarmi con le braccia e arrampicarmi sull'albero senza problemi. Trovai due rami robusti vicini e paralleli, e legai la rete. Al crepuscolo ritornai sull'albero.

Avevo appena finito di piegare le coperte che dovevano fungere da materasso, quando mi accorsi che era scoppiato un putiferio fra i suricati. Scostai i rami per vedere meglio. Guardai ovunque, fino all'orizzonte. Non c'erano dubbi. I suricati stavano fuggendo dai laghetti - a ben guardare dall'intera pianura - e si dirigevano di corsa verso la foresta. Un'intera nazione di suricati in fuga, le schiene curve, i piedi appena visibili. Mi stavo chiedendo quali altre sorprese avessero in serbo quelle creature quando notai, costernato, che i suricati del laghetto più vicino avevano circondato il mio albero e si stavano arrampicando. Il tronco scomparve sotto un'ondata irrefrenabile. Ero convinto che volessero attaccarmi. Ecco perché Richard Parker dormiva sulla scialuppa: di giorno i suricati erano docili e innocui, ma di notte quel gigantesco ammasso di creature schiacciava i nemici senza pietà. Ero impaurito e indignato allo stesso tempo. Sopravvivere così a lungo su una scialuppa in compagnia di una tigre del Bengala di duecento chili, solo per venire ucciso su un albero da suricati sotto il chilo era una tragedia troppo ingiusta e ridicola da tollerare.

Ma non si dimostrarono aggressivi. Si arrampicarono fino a me, sopra di me e intorno a me, poi mi scavalcarono. Si appostarono su ogni ramo dell'albero che alla fine era stracarico. Si appropriarono persino del mio letto. E stava succedendo la stessa cosa ovunque. Invasero ogni albero. L'intera foresta diventò marrone, come in un subitaneo autunno. Tutti insieme, mentre zampettavano a frotte per impossessarsi degli alberi rimasti vuoti, facevano più rumore di un branco di elefanti in fuga.

La pianura si spopolò.Da un letto a castello con una tigre a un dormitorio sovraffollato di suricati: mi

credete quando dico che la vita è davvero sorprendente? Lottai con i suricati per avere un po' di posto nel mio letto. Si rannicchiarono vicino a me non lasciando libero nemmeno un centimetro quadrato.

Poi si sdraiarono e smisero di squittire. Sull'albero calò il silenzio. Ci addormentammo.

Mi svegliai all'alba coperto dalla testa ai piedi da una pelliccia viva. Alcuni cuccioli avevano scovato le parti più calde del mio corpo. Mi ritrovai con un soffocante e sudaticcio collare di minuscoli suricati, e doveva essere la madre quella comodamente accucciata accanto alla mia testa. Altri avevano preferito la zona inguinale.

Se ne andarono come erano arrivati, all'improvviso e senza tante cerimonie. Lo stesso da tutti gli altri alberi. Di nuovo la pianura pullulava di suricati, e le attività rumorose della loro giornata ripresero a riempire l'aria.

Gli alberi parevano svuotati. E anch'io mi sentivo un po' svuotato. Però mi ero divertito a dormire con loro.

Cominciai a dormire sull'albero tutte le notti. Portai via dalla scialuppa ogni oggetto utile e mi costruii una bella stanza da letto fra i rami. Mi abituai ai graffi dei suricati che si arrampicavano su di me. L'unico problema erano quelli più in alto, che di tanto in tanto facevano i loro bisogni sulla mia testa.

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Una notte mi svegliarono con schiamazzi e fremiti. Mi sedetti e seguii la direzione del loro sguardo ipnotizzato. La luna piena splendeva in un cielo senza nuvole. La terra era stata derubata dei suoi colori. Tutto riluceva stranamente di ombre nere, grigie e bianche: mi accorsi che venivano da un laghetto. Forme argentate si muovevano nell'acqua, emergendo dalle profondità per infrangere la superficie scura.

Pesci. Pesci morti. Affioravano dagli abissi e galleggiavano in superficie. Il laghetto - ricordate? dodici metri di diametro - si riempì di ogni specie di pesci morti, finché la superficie nera divenne argentata. E da come la superficie si agitava era evidente che continuavano ad affiorarne.

Quando comparve, silenzioso, uno squalo morto, i suricati furono travolti dall'eccitazione; strillavano come uccelli tropicali. L'isteria contagiò gli alberi vicini. Era assordante. Mi chiesi se avrebbero trasportato lo squalo sull'albero.

Ma non un animale scese per andare al laghetto. Non ci provarono nemmeno. Si limitarono a esprimere la loro frustrazione a gran voce.

Che spettacolo sinistro. C'era qualcosa di inquietante in tutti quei pesci morti.Mi sdraiai di nuovo, ma faticai ad addormentarmi per il fracasso dei suricati. Alle

prime luci dell'alba mi svegliarono scendendo dall'albero in massa. Sbadigliai, mi stiracchiai, poi diedi un'occhiata al laghetto, la causa del trambusto e del baccano della notte precedente.

Era vuoto. O quasi. Ma non erano stati i suricati. Solo ora cominciavano a tuffarsi per racimolare quello che era rimasto.

I pesci erano scomparsi. Mi sentivo confuso. Stavo forse guardando il laghetto sbagliato? No, era quello, non avevo dubbi. Ero certo che non fossero stati i suricati a svuotarlo? Assolutamente sì. Impossibile che fossero riusciti a tirare fuori dall'acqua uno squalo, a caricarselo in spalla e a svanire con il bottino. Richard Parker? Nemmeno lui poteva farsi fuori un intero lago di pesci morti in una sola notte!

Un vero e proprio mistero. Ma continuando a fissare il laghetto dalle pareti verdi non l'avrei certo risolto. La notte seguente mi appostai per vedere cosa succedeva, ma non comparvero altri pesci.

La soluzione del mistero giunse qualche tempo più tardi.Al centro della foresta gli alberi erano più grandi e più vicini. Non c'era

sottobosco, ma la volta era così fitta che non si vedeva nemmeno uno spicchio di cielo; o, per dirla con altre parole, il cielo era completamente verde. I rami si intersecavano e si attorcigliavano, tanto che era difficile dire quali appartenessero a un albero e quali a un altro. Notai che i tronchi erano lisci e puliti, senza tracce delle unghie dei suricati. Ne intuii subito la ragione: si spostavano da un albero all'altro senza bisogno di salire e scendere. A conferma della mia ipotesi, ne trovai diversi al limite della foresta con la corteccia interamente tagliuzzata. Quelli erano senza dubbio le porte della città arborea dei suricati, una città più caotica di Calcutta.

Poi lo trovai. Non era un albero più grande degli altri, non si trovava al centro esatto della foresta, né era particolare per altri motivi. I suoi rami erano belli e lisci, tutto qui. Mi sembrò un ottimo punto per osservare il cielo o la vita notturna dei suricati.

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Posso dirvi con esattezza quando mi imbattei in quell'albero: il giorno prima che lasciassi l'isola.

Mi colpì perché sembrava avere dei frutti. Ovunque la volta della foresta era di un verde uniforme, perciò quei pomi scuri risaltavano sullo sfondo. Erano appesi a rami aggrovigliati in maniera strana. Li osservai con attenzione. Un'intera isola ricoperta da alberi sterili a eccezione di uno. Per giunta, i frutti crescevano solo su una piccola porzione dell'albero. Forse mi ero imbattuto nell'equivalente botanico di un'ape regina; mi chiesi se la stranezza di quelle alghe avrebbe mai smesso di sorprendermi.

Volevo assaggiare un frutto, ma l'albero era troppo alto. Ritornai con una corda. Se l'alga era deliziosa, come sarebbe stato il suo frutto?

Legai la corda al ramo più basso, e passo dopo passo, ramo dopo ramo, mi feci strada verso quel piccolo, prezioso frutteto.

Da vicino i frutti erano di un verde smorto, con la forma e le dimensioni di un'arancia. Ogni frutto era avvolto da un intreccio di ramoscelli che, pensai, servivano a proteggerlo.

Man mano che mi avvicinavo, intuii un'altra funzione di quei ramoscelli. Sostenevano i frutti. Ognuno di essi infatti aveva una dozzina di piccioli che lo collegavano ai ramoscelli. Dovevano essere polposi e pieni di succo, pensai. Mi avvicinai ancora.

Allungai la mano per afferrarne uno. Rimasi deluso: era leggero. Non pesava quasi niente. Lo tirai e staccai tutti i suoi piccioli.

Mi misi comodo su un ramo robusto, con la schiena appoggiata al tronco. Sopra di me un tetto fluttuante di foglie verdi, trafitto dai raggi del sole. Intorno a me, le strade sinuose di una grande città sospesa ondeggiavano in cielo. Una brezza piacevole smuoveva gli alberi. Ero proprio curioso. Esaminai il frutto.

Ah, come vorrei non averlo mai fatto! Ma se non l'avessi fatto, forse sarei vissuto per anni - magari per il resto della mia vita - sull'isola. Pensavo che niente mi avrebbe mai spinto a ritornare sulla scialuppa, alla sofferenza e alle privazioni che avevo patito, niente! Che motivo avrei avuto di abbandonare l'isola? C'era tutto quello di cui il mio corpo aveva bisogno: avevo più acqua dolce di quella che avrei bevuto in tutta la mia vita, più alghe di quelle che avrei potuto mangiare. E se mi veniva voglia di variare menu, c'erano tutti i suricati e i pesci che potevo desiderare. L'isola galleggiava e si muoveva: chissà, magari si sarebbe mossa nella direzione giusta. E se si fosse rivelata una nave vegetale e mi avesse condotto alla terraferma? Nel frattempo, non c'erano quei deliziosi suricati a farmi compagnia? E poi Richard Parker aveva ancora bisogno di migliorare il suo quarto salto. Da quando ero arrivato, il pensiero di abbandonare l'isola non mi aveva neppure sfiorato. Erano già passate molte settimane, non saprei dire quante, e ce ne sarebbero state molte altre. Ne ero sicuro.

Come mi sbagliavo.Se quel frutto conteneva un seme era il seme della mia partenza.Il frutto non era un frutto. Era una palla di foglie fittamente sovrapposte. I piccioli

erano attaccati alle foglie, e a ogni picciolo che tiravo ne veniva via una.Dopo qualche strato scoprii che le foglie non avevano più il picciolo e aderivano

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perfettamente alla palla. Ne afferravo le estremità con le unghie e le strappavo. Sbucciai gli strati uno dopo l'altro, come fosse una cipolla. Avrei potuto semplicemente spaccare il "frutto" a metà - continuo a chiamarlo così in mancanza di una definizione migliore - ma volevo soddisfare la mia curiosità lentamente.

Dalle dimensioni di un'arancia il frutto passò a quelle di un mandarino. Il mio grembo e i rami sotto di me erano ricoperti di foglie sottili e morbide.

Adesso il frutto aveva le dimensioni di un rambutan.Mi vengono ancora i brividi al pensiero.Le dimensioni di una ciliegia.E poi venne alla luce. Una perla maledetta al centro di un'ostrica verde.Un dente umano.Un molare, per essere più preciso. Con la superficie macchiata di verde e tutta

bucherellata.L'orrore montò lentamente. Ebbi il tempo di sbucciare altri frutti.Ogni frutto conteneva un dente.Un canino.Un premolare.Un incisivo.Un altro molare.Trentadue denti. Una dentatura umana completa. Non ne mancava nemmeno uno.Mi fu tutto chiaro.Non urlai. Solo nei film l'orrore è sonoro. Mi limitai a rabbrividire e mi allontanai

dall'albero.Passai il resto della giornata in preda all'ansia, a soppesare le mie opzioni. Tutte

pessime.Quella notte, sull'albero, verificai le mie congetture. Afferrai un suricato e lo

lanciai dal ramo.Squittì mentre volava per aria, e quando toccò terra, tornò subito verso l'albero.Con la tipica ingenuità animale, riprese il suo posticino vicino a me. E cominciò a

leccarsi energicamente le zampe. Sembrava molto turbato. Ansimava trafelato.A quel punto mi sarei potuto fermare. Ma volevo sperimentare di persona. Scesi

dall'albero e afferrai la fune, a cui avevo fatto dei nodi per potermi arrampicare più facilmente. Quando raggiunsi la base avvicinai i piedi a due centimetri da terra. Esitai.

Poi li poggiai.All'inizio non sentii nulla. Quindi un dolore improvviso e bruciante mi aggredì i

piedi. Urlai. Temevo di cadere. Riuscii ad aggrapparmi alla fune e mi sollevai da terra. Strofinai energicamente le piante dei piedi contro il tronco dell'albero. Servì, ma non troppo. Mi arrampicai di nuovo sul mio ramo. Immersi i piedi nel secchio d'acqua che tenevo vicino al letto. Poi li asciugai con le foglie. Presi il coltello e ammazzai due suricati per cercare di alleviare il dolore con il loro sangue e le loro viscere. I piedi mi bruciavano ancora. Mi bruciarono per tutta la notte. Il dolore unito all'agitazione mi tennero sveglio.

L'isola era carnivora. Ecco perché i pesci scomparivano nei laghetti. Prima li

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attirava nei tunnel sotterranei: non so come ci riuscisse, magari i pesci erano semplicemente ghiotti di alghe come me. Finivano in trappola. Forse si smarrivano. Forse le aperture verso il mare si chiudevano. Forse il sale nell'acqua diminuiva gradualmente, in modo così impercettibile che quando i pesci se ne accorgevano era ormai troppo tardi. Comunque sia, rimanevano intrappolati nell'acqua dolce e morivano. Alcuni affioravano in superficie: quelli erano gli avanzi che pescavano i suricati.

Di notte - grazie a un processo chimico a me sconosciuto ma ovviamente inibito dalla luce del sole - le alghe predatrici diventavano fortemente acide e i laghetti si trasformavano in vasche che digerivano i pesci. Ecco perché tutte le notti Richard Parker tornava sulla scialuppa! Ecco perché i suricati dormivano sugli alberi. Ecco perché non avevo visto nient'altro che alghe sull'isola.

Ed ecco il perché dei denti: un poveraccio aveva raggiunto quelle sponde maledette prima di me. Quanto tempo lui - o lei - aveva trascorso sull'isola? Settimane? Mesi? Anni? Quante ore desolate aveva passato in quella città arborea con la sola compagnia dei suricati? Quanti sogni di una vita felice si erano infranti? Quante speranze irrealizzate? Quante parole conservate e morte prima di essere pronunciate? Quanta solitudine aveva sopportato? Quanta disperazione aveva provato? E dopo tutto questo, cos'era rimasto di lui? Cosa si era lasciato dietro?

Solo qualche dente, come una manciata di spiccioli. Quel naufrago era sicuramente morto sull'albero. Di malattia? Di incidente? Di depressione? Quanto ci vuole perché uno spirito distrutto uccida un corpo che ha trovato cibo, acqua e riparo? Anche gli alberi erano carnivori, ma avevano un livello di acidità inferiore, perciò erano un rifugio abbastanza sicuro su cui passare la notte mentre il resto dell'isola ribolliva. Ma quando quel naufrago era morto e aveva smesso di muoversi, l'albero si era avvolto lentamente attorno al suo corpo e l'aveva digerito, e le sue ossa si erano gradualmente consumate fino a disintegrarsi. Col tempo sarebbero svaniti anche i denti.

Guardai le alghe attorno a me. Fui invaso dall'amarezza. Nel mio cuore la promessa radiosa che offrivano di giorno venne sostituita dalla perfidia che irradiavano di notte.

Mormorai: «Sono rimasti solo i denti! Soltanto i DENTI!».Quando giunse l'alba, avevo ormai preso la mia triste decisione. Preferivo partire e

morire in cerca di altri esseri umani piuttosto che vivere una mezza vita solitaria fatta di comodità fisiche e di morte spirituale sull'isola assassina. Riempii le mie riserve di acqua dolce e bevvi come un cammello. Mangiai alghe per tutto il giorno finché il mio stomaco non ce la fece più. Uccisi e scuoiai tutti i suricati che potevo conservare nel ripostiglio e sul fondo della scialuppa. Raccolsi i pesci morti dai laghi. Tagliai le alghe con l'accetta, misi insieme un grosso mucchio che legai con una fune, poi lo assicurai alla scialuppa.

Non potevo abbandonare Richard Parker. Lasciarlo sull'isola equivaleva a ucciderlo. Non sarebbe sopravvissuto alla prima notte. Me ne sarei stato tutto solo sulla scialuppa al tramonto, pensando che stava bruciando vivo. O che si era buttato in mare ed era affogato. Attesi il suo ritorno. Sapevo che non avrebbe tardato.

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Quando salì a bordo, ce ne andammo. Per un paio di ore le correnti ci tennero vicini all'isola. Il rumore del mare mi infastidiva. E non ero più abituato al dondolio della scialuppa. La notte passò al rallentatore.

La mattina seguente l'isola era scomparsa, come pure il mucchio di alghe che ci eravamo portati dietro. Non appena era scesa la notte, le alghe avevano corroso la fune.

Il mare era cupo, il cielo grigio.

CAPITOLO 93

Ero sempre più stanco della mia situazione, priva di senso come il tempo. Ma la vita non mi abbandonò. Il resto della mia storia non è altro che sofferenza, dolore e sopportazione.

Se l'alto porta al basso, il basso ricerca l'alto. Ve l'assicuro, se vi foste trovati nelle mie terribili condizioni, anche voi avreste elevato i vostri pensieri. Più ci si trova in basso, più in alto la mente vuole volare. Era naturale che, solo e disperato com'ero, in preda a continui tormenti, mi rivolgessi a Dio.

CAPITOLO 94

Quando raggiungemmo la terraferma, il Messico per l'esattezza, ero così debole che ebbi appena la forza di gioire. Approdare non fu affatto facile. La scialuppa quasi si rovesciò. Calai completamente le ancore - o meglio, quello che ne era rimasto - in modo da rimanere perpendicolari alle onde. Poi, non appena cominciammo a cavalcare un'onda, le sollevai. Continuai a calarle e sollevarle per provare a navigare sulla cresta delle onde, e così ci avvicinammo a riva. Era rischioso. Ma beccammo un'onda nel punto giusto che ci trasportò per un bel pezzo, superando le pareti d'acqua pronte a crollarci addosso. Levai le ancore un'ultima volta e per il resto del tragitto ci lasciammo sospingere dal mare. La scialuppa si arenò nella sabbia con un sibilo.

Scivolai fuori dalla barca. Ma avevo paura di abbandonarla, adesso che ero così vicino alla libertà temevo di affogare in poco più di mezzo metro d'acqua. Guardai oltre la scialuppa per vedere quanta strada mi mancava. Quell'attimo mi regalò una delle ultime immagini di Richard Parker, che balzò fuori dalla scialuppa. Vidi il suo corpo - così smisuratamente vitale - allungarsi in aria sopra di me: un fugace, peloso arcobaleno. Atterrò in acqua - le zampe posteriori divaricate, la coda eretta - e raggiunse la spiaggia con pochi salti. Si diresse verso sinistra, lasciando impronte profonde sulla sabbia bagnata; ma poi cambiò idea e si girò. Mi passò davanti. Non mi guardò.

Corse per un centinaio di metri lungo la riva prima di svoltare. La sua andatura era goffa e impacciata. Cadde diverse volte. Arrivò al confine della giungla e si fermò. Ero sicuro che si sarebbe girato verso di me. Che mi avrebbe guardato. Che avrebbe

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abbassato le orecchie. Che avrebbe emesso un qualche verso, a conclusione della nostra relazione. Non fece niente del genere. Fissò solo la giungla. Poi Richard Parker, compagno di patimenti, e animale feroce e spaventoso che mi aveva tenuto in vita, sparì per sempre dalla mia vita.

Avanzai a fatica verso la riva e crollai sulla sabbia. Mi guardai attorno. Ero veramente solo, orfano non solo della mia famiglia, ma adesso anche di Richard Parker e forse, pensai, di Dio.

Ma naturalmente non era così. La spiaggia, così soffice, solida e immensa assomigliava alla guancia di Dio, e da qualche parte due occhi stavano brillando di gioia e una bocca stava sorridendo per la mia presenza.

Dopo qualche ora un esemplare della mia specie mi trovò. Se ne andò e ritornò con un gruppo di sei o sette persone. Si avvicinarono tappandosi il naso e la bocca con le mani. Mi chiesi il perché. Mi parlarono in una lingua strana. Trascinarono la scialuppa a riva. Mi portarono via. Mi strapparono di mano l'unico pezzo di carne di tartaruga che mi ero portato dalla scialuppa e lo gettarono lontano.

Piansi come un bambino. Non piangevo per la gioia di essere sopravvissuto al mio calvario, anche se ne ero sopraffatto. Né per la presenza dei miei fratelli e delle mie sorelle, anche se era commovente.

Piangevo perché Richard Parker mi aveva lasciato in modo così brusco.Che cosa terribile, gli addii frettolosi. Sono una persona che crede nella forma,

nell'armonia dell'ordine. Quando è possibile, dovremmo dare alle cose una forma significativa. Per esempio, sareste in grado di raccontare questa mia storia confusa, in cento capitoli esatti, non uno di più, non uno di meno? Se c'è una cosa che odio del mio soprannome è quella cifra che non finisce mai. Nella vita è importante che ogni cosa abbia una giusta conclusione. Solo così si trova la pace. Altrimenti rimangono le parole che avresti voluto dire e che non hai mai detto, e il tuo cuore è pesante e colmo di rimorso. Quell'addio malriuscito mi fa ancora male. Come vorrei averlo guardato per un'ultima volta sulla scialuppa, averlo provocato un po' in modo che si ricordasse di me. Come vorrei avergli detto - sì, lo so che è una tigre, ma non importa -: "Richard Parker, è finita. Siamo sopravvissuti. Ci credi? Ti sono grato, molto più di quanto riesca a esprimere. Non ce l'avrei mai fatta senza di te. Mi piacerebbe dirtelo in modo formale: Richard Parker, grazie. Grazie per avermi salvato la vita. E adesso va' dove devi andare. Hai conosciuto la libertà nella prigione dello zoo per quasi tutta la tua vita, e adesso conoscerai la libera prigione della giungla. Ti auguro tutto il meglio. Fai attenzione all'Uomo. Non è tuo amico. Ma spero che ti ricorderai di me come di un amico. Non ti dimenticherò mai, ne sono certo. Sarai sempre con me, nel mio cuore. Ma che cos'è questo sibilo? Ah, la nostra barca ha toccato la sabbia. Allora addio, Richard Parker, addio. Che Dio sia con te".

Le persone che mi trovarono mi portarono al loro villaggio e lì alcune donne mi fecero il bagno: mi strofinarono così forte che mi domandai se avessero capito che la mia pelle era scura per natura, e non ero un ragazzo bianco molto sporco. Cercai di spiegarglielo. Mi fecero un cenno col capo e sorrisero mentre continuavano a strigliarmi come se fossi il ponte di una nave. Pensai che mi avrebbero scorticato vivo. Ma mi diedero da mangiare. Cibo squisito. E una volta che cominciai a

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mangiare, non riuscii più a fermarmi. Ero convinto che non avrei mai smesso di avere fame.

Il giorno dopo venne una macchina della polizia che mi portò all'ospedale.Qui finisce la mia storia.Ero sopraffatto dalla generosità dei miei soccorritori.Della povera gente che mi diede cibo e vestiti. Dei dottori e infermiere che si

presero cura di me come se fossi un bambino prematuro. Degli ufficiali messicani e canadesi che mi aprirono tutte le porte possibili: dalla spiaggia in Messico alla casa della mia mamma adottiva fino alle aule dell'Università di Toronto ci fu un solo lungo corridoio, facile da percorrere. A tutte queste persone vanno i miei più calorosi ringraziamenti.

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PARTE TERZA

Ospedale Benito Juàrez,

Tomatlàn, Messico

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CAPITOLO 95

Tomohiro Okamoto, funzionario del Dipartimento Marittimo del ministero dei Trasporti giapponese, attualmente in pensione, mi raccontò che lui e il suo assistente dell'epoca, Mister Atsuro Chiba, si trovavano a Long Beach, in California - il principale porto commerciale della costa occidentale americana, vicino a Los Angeles - quando furono informati del fatto che l'unico sopravvissuto del mercantile giapponese Tsimtsum, scomparso senza lasciare tracce nelle acque internazionali del Pacifico diversi mesi prima, era approdato vicino alla cittadina di Tomatlàn, sulla costa del Messico.

Il Dipartimento li incaricò di incontrare il sopravvissuto per cercare di far luce sulla vicenda. I due acquistarono una cartina del Messico.

Sfortunatamente, la piegatura della cartina attraversava Baja California in corrispondenza di una piccola cittadina costiera, Tomatàn, il cui nome era scritto in caratteri piccolissimi.

Okamoto lesse Tomatlàn. E siccome Baja California non era lontana, decise che il mezzo più veloce per arrivarci era la macchina.

Partirono con un'auto a noleggio.Quando raggiunsero Tomatàn, ottocento chilometri a sud di Long Beach, e si

resero conto che non era Tomatlàn, Okamoto pensò di proseguire per Santa Rosalia, duecento chilometri più a sud, e da lì di raggiungere in traghetto Guaymas, attraversando il Golfo della California.

Il traghetto partì in ritardo, e in più era lentissimo. Da Guaymas a Tomatlàn c'erano altri milletrecento chilometri.

Le strade erano in pessime condizioni. Forarono una gomma. La macchina si ruppe, e il meccanico a cui si rivolsero pensò bene di rubare alcuni componenti del motore sostituendoli con pezzi di ricambio usati, che in seguito i due funzionari furono costretti a ricomprare a proprie spese.

L'auto così "riparata" si fermò una seconda volta. Il nuovo meccanico pretese una tariffa esorbitante. Okamato mi confidò che lui e il suo assistente erano esausti quando arrivarono all'ospedale Benito Juàrez di Tomatlàn, che non si trova affatto in Baja California, ma cento chilometri a sud di Puerto Vallarta, nello stato di Jalisco, più o meno all'altezza di Città del Messico. Viaggiavano da quarantuno ore filate. «Lavoriamo sodo» scrisse Okamoto.

Lui e Chiba parlarono con Piscine Molitor Patel, in inglese, per quasi tre ore.Il brano che segue è un estratto di quella conversazione che fu registrata e

trascritta verbatim. Sono grato a Mister Okamoto per avermi fornito una copia della registrazione e della relazione finale. Per maggiore chiarezza, ho indicato il nome dell'interlocutore tutte le volte che l'ho ritenuto necessario.

Le parti trascritte con un carattere diverso sono stralci di conversazione in giapponese, da me tradotte.

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CAPITOLO 96

«Salve, Mister Patel. Mi chiamo Tomohiro Okamoto. Lavoro per il Dipartimento Marittimo del ministero dei Trasporti giapponese. Le presento il mio assistente, Atsuro Chiba. Siamo qui per parlare con lei del naufragio della Tsimtsum, a bordo della quale lei viaggiava con la sua famiglia. Ci conferma la sua disponibilità?»

«Sì, certo.»«Grazie. Molto gentile da parte sua. Allora, Atsurokun, questa è

un'esperienza nuova per te, quindi apri le orecchie e cerca di imparare»

«Sì, Okamoto-san»«Il registratore è acceso?»«S컫Bene. Come sono stanco! Cominciamo: oggi è il 19 febbraio

1978. Inchiesta numero 250663. Scomparsa della nave mercantile Tsimsum. Tutto bene, Mister Patel?»

«Sì, grazie. E voi?»«Noi stiamo benissimo.»«Siete venuti fin qui da Tokyo?»«Ci trovavamo a Long Beach, in California. Siamo venuti in macchina.»«Come è andato il viaggio?»«Una meraviglia.»«Il mio è stato orribile.»«Sì, lo sappiamo. Abbiamo parlato con la polizia, che ci ha mostrato la scialuppa.»«Ho un po' fame.»«Le andrebbe un biscotto?»«Oh, sì!»«Ecco qui.»«Grazie.»«Di nulla. È solo un biscotto. Allora, Mister Patel, se la sente di raccontarci tutto

quello che le è capitato, nel modo più dettagliato possibile?»«Con piacere.»

CAPITOLO 97

La storia.

CAPITOLO 98

Okamoto: «Molto interessante».Chiba: «Che storia!».

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«Ci ha preso per fessi. Mister Patel, che ne dice di fare una piccola pausa e riprendere fra un po'?» «Benissimo. Ha per caso un altro biscotto?»

«Sì.»Chiba: «Ne ha già presi più che abbastanza. E il bello è che non li

mangia: sono lì sotto il lenzuolo».«Dagliene un altro. Dobbiamo assecondarlo. Torniamo subito.»

CAPITOLO 99

Okamoto: «Mister Patel, non crediamo alla sua storia».«Mi dispiace, questi biscotti sono buoni ma tendono a sbriciolarsi. Non so che

dire. Perché no?»«Non sta in piedi.»«Che significa?»«Le banane non galleggiano.»«Scusi?»«Ci ha detto che l'orango è arrivato galleggiando su un'isola di banane.»«È così.»«Le banane non galleggiano.»«Sì che galleggiano.» «Sono troppo pesanti.»«No, niente affatto. Ecco, provate. Due banane.» Chiba: «Da dove le ha tirate fuori? Che altro nasconde sotto

quel lenzuolo?».Okamoto: «Al diavolo. No, non importa».«Di là c'è un lavandino.»«Non ce n'è bisogno.»«Insisto. Riempite il lavandino di acqua, buttateci dentro le banane e vedremo chi

ha ragione.» «Preferiremmo proseguire con l'inchiesta.»«Insisto, davvero.»[Silenzio]Chiba: «Che facciamo?».Okamoto: «Ho la sensazione che sarà un'altra giornata

lunghissima».[Rumore di una sedia che viene spostata. Scroscio d'acqua da un rubinetto in

lontananza.]Pi Patel: «Come sta andando? Da qui non vedo niente».Okamoto [da lontano]: «Sto riempiendo il lavandino».«Ci ha già messo le banane?»[Da lontano] «No.»«E adesso?»[Da lontano] «Sì, ce le ho messe.»«E?»

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[Silenzio]Chiba: «Galleggiano?»[Da lontano] «Galleggiano.»«Allora, galleggiano?»[Da lontano] «Galleggiano.»«Cosa vi avevo detto?»Okamoto: «Sì, sì. Ma per reggere un orango ci vuole un bel mucchio di banane».«Quasi una tonnellata. Sto ancora male quando penso a tutte quelle banane che si

allontanano sull'acqua, sprecate in quel modo quando avrei potuto raccoglierle e mangiarle.»

«Che peccato. Adesso, riguardo a...»«Posso riavere le mie banane, per favore?»Chiba: «Vado a prenderle».[Rumore di una sedia che viene spostata][Da lontano] «Guarda qua! Galleggiano veramente.»Okamoto: «Cosa mi dice dell'isola di alghe?».Chiba: «Ecco le sue banane».Pi Patel: «Grazie. Allora?».«Mi dispiace dirglielo in modo così diretto - non voglio rischiare di ferire i suoi

sentimenti - ma davvero si aspetta di essere creduto? Alberi carnivori? Un'alga che mangia i pesci e produce acqua dolce? Roditori acquatici che vivono sui rami? Queste cose non esistono.»

«Solo perché non le avete mai viste.»«Appunto. Crediamo a ciò che vediamo.»«Come Colombo. Cosa fate quando siete al buio?»«Da un punto di vista botanico la sua isola è inconcepibile.»«Così disse la mosca appena prima di posarsi sulla pianta carnivora.» «Com'è

possibile che nessun altro si sia imbattuto nell'isola?»«È un oceano immenso e le navi lo attraversano veloci. Io invece viaggiavo

lentamente, guardandomi intorno.»«Nessuno scienziato crederebbe alla sua storia.»«Gli scienziati non hanno creduto a Copernico né a Darwin. Hanno forse scoperto

tutte le piante esistenti? Nella foresta equatoriale, per esempio?»«Lei piante che lei descrive contraddicono le leggi della natura.»«Che voi conoscete perfettamente, non è così?»«Le conosciamo abbastanza da saper distinguere ciò che è possibile da ciò che non

lo è.»Chiba: «Ho uno zio che si intende di botanica. Vive nella campagna vicino a Hita-

Gun. È un esperto di bonsai».Pi Patel: «Un esperto di che?».«Di bonsai. Sa, i bonsai sono alberi minuscoli.»«Piantine?»«No, alberi veri e propri. I bonsai sono piccoli alberi. Sotto il mezzo metro

d'altezza. Si possono tenere in braccio e vivono molto a lungo. Mio zio ha un bonsai

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di trecento anni.»«Alberi di trecento anni alti appena mezzo metro che si tengono in braccio?»«Sì. Sono molto delicati. Hanno bisogno di grandi attenzioni.»«E chi ha sentito mai parlare di questi alberi? Da un punto di vista botanico sono

inconcepibili.»«Ma io le assicuro che esistono, Mister Patel. Mio zio...»«Io credo a quello che vedo.»Okamoto: «Ci scusi un attimo, per cortesia. Atsuro, con il dovuto

rispetto per tuo zio che vive nella campagna vicino a Hita-Gun, non siamo qui per conversare di botanica».

«Sto solo cercando di dare una mano.» «I bonsai di tuo zio si nutrono di carne?»

«Non credo»«Sei mai stato morso da uno di quei bonsai?»«No.»«Allora i bonsai di tuo zio non ci sono d'aiuto. Di cosa stavamo

parlando?»Pi Patel: «Di alberi alti, normalmente sviluppati e con le radici piantate per terra».

«Mettiamoli da parte, per ora.» «Vorrebbe sradicarli e portarli via in braccio? La avverto, non sarà semplice.»

«Lei è un tipo spiritoso, Mister Patel. Ah, ah, ah!»Pi Patel: «Ah, ah, ah!».Chiba: «Ah, ah, ah! Non era poi così divertente».Okamoto: «Continua a ridere. Ah, ah, ah!».Chiba: «Ah, ah, ah!».Okamoto: «Quanto alla tigre, be', abbiamo qualche dubbio».«Cosa intende dire?»«Che è difficile crederci.»«È una storia incredibile.» «Esattamente.»«Non so come ho fatto a sopravvivere.» «È stata dura, ne siamo certi.»«Posso prendere un altro biscotto?» «Sono finiti.»«Cosa c'è in quel sacchetto?» «Niente.»«Posso vedere?»Chiba: «Addio pranzo».Okamoto: «Tornando alla tigre...».Pi Patel: «Una brutta storia. Però, che sandwich deliziosi».Okamoto: «Sì, hanno un'aria appetitosa».Chiba: «lo ho fame».«Non è stata trovata alcuna traccia della tigre. È un po' difficile da credere, non è

d'accordo? In America le tigri non esistono. Se ce ne fosse una in libertà, non pensa che a quest'ora la polizia ne avrebbe sentito parlare?»

«Evidentemente non conoscete la storia della femmina di leopardo nero che fuggì dallo zoo di Zurigo in pieno inverno.»

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«Mister Patel, la tigre è terribilmente pericolosa. Come avrebbe potuto sopravvivere su una scialuppa con un animale selvaggio di quel genere? È...»

«Quello che non capisce è che gli animali selvatici ci considerano una specie strana e minacciosa. E hanno una gran paura di noi. Ci sono voluti secoli per vincere la paura delle specie più remissive: si chiama addomesticamento. Se gli animali ci attaccano, è per pura disperazione. Quando sentono di non avere altra scelta, allora combattono. È la loro ultima risorsa.»

«Su una scialuppa? Per favore, Mister Patel, non dica sciocchezze! È semplicemente incredibile!»

«Incredibile? Volete sentire una storia incredibile? Ebbene, nel 1971, Bara, un orso polare, scappò dallo zoo di Calcutta. Da allora nessuno ha più saputo niente di lui, né la polizia né i cacciatori né i bracconieri né nessun altro. Si sospetta che viva libero sulle sponde del fiume Hoogly. State attenti se andate a Calcutta, miei cari signori. Lavatevi i denti dopo aver mangiato il sushi, o potreste finir male. Prendete la città di Tokyo, rivoltatela come un guanto e scuotetela. Vedrete cadere ogni sorta di bestie: tassi, lupi, boa, varani di Komodo, coccodrilli, struzzi, babbuini, capibara, cinghiali, leopardi, lamantini e ruminanti in quantità incredibili. Non dubito che giraffe e ippopotami abbiano vissuto in libertà a Tokyo per intere generazioni senza che nessuno se ne sia mai accorto. Provate a confrontare quello che resta appiccicato alle suole delle vostre scarpe quando camminate in città con i resti che si accumulano sul fondo delle gabbie dello zoo. E voi vi aspettate di trovare una tigre nella giungla messicana! È ridicolo, semplicemente ridicolo! Ah! Ah! Ah!»

«Giraffe e ippopotami che se ne vanno a zonzo per Tokyo e un orso polare che vive libero a Calcutta. Molto interessante. Resta il fatto che noi non crediamo che ci fosse una tigre a bordo della scialuppa.»

«Ecco l'arroganza della gente di città! Nelle vostre metropoli potete avere tutti gli animali del creato, ma alla mia barca negate una semplice tigre del Bengala!»

«Mister Patel, per favore si calmi.»«Se ciò che è difficile a credersi vi turba tanto, per cosa vivete? Non è forse

difficile credere all'amore?»«Mister Patel...»«E non pensate di ingannarmi con i vostri modi gentili! È difficile credere

all'amore, chiedetelo a qualsiasi innamorato. È difficile credere alla vita, chiedetelo a qualsiasi scienziato. È difficile credere in Dio, chiedetelo a qualsiasi fedele. Che cosa c'è di tanto strano in una storia incredibile?»

«Cerchiamo solo di essere razionali.»«Anch'io! La ragione è stata la mia salvezza. È indispensabile quando bisogna

procurarsi cibo, acqua, un riparo. La ragione è una preziosa cassetta degli attrezzi. Niente è meglio della ragione per tenere lontane le tigri. Ma se siete troppo razionali, rischiate di buttare via l'universo con l'acqua sporca.»

«Si calmi, Mister Patel, si calmi.»Chiba: «Acqua sporca? Che cosa c'entra adesso l'acqua

sporca?».«Come faccio a stare calmo? Avreste dovuto vedere Richard Parker!»

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«Sì, sì.»«Enorme. Con dei denti così! Con artigli come scimitarre!»Chiba: «Cosa sono le scimitarre?».Okamoto: «Chiba-san, invece di farmi stupide domande, perché

non ti rendi utile? Questo ragazzo è una brutta gatta da pelare. Datti da fare!».

Chiba: «Ecco, prenda una barretta di cioccolato».Pi Patel: «Che meraviglia!».[Un lungo silenzio]Okamoto: «Si è già fatto fuori tutto il nostro pranzo. Fra un po' ci

chiederà un piatto di tempura».[Un lungo silenzio]Okamoto: «Stiamo divagando. Siamo qui per far luce sul naufragio di una nave

mercantile. Lei è l'unico sopravvissuto. Era un semplice passeggero. Non ha alcuna responsabilità in quello che è successo. Noi...».

«Che buona questa cioccolata!»«Non vogliamo accusare nessuno. Lei è la vittima innocente di una tragedia.

Stiamo solo cercando di capire come e perché la Tsimtsum sia affondata. Forse lei ci può aiutare, Mister Patel.»

[Silenzio] «Mister Patel?»[Silenzio]Pi Patel: «Le tigri esistono, le scialuppe esistono, gli oceani esistono. Ma siccome

nelle vostra limitata esperienza questi tre elementi non si sono mai incontrati, vi rifiutate di credermi. La verità è che la Tsimtsum li ha fatti incontrare, e poi è affondata».

[Silenzio]Okamoto: «E il francese?».«Cosa?»«Due scialuppe con a bordo due ciechi che si incontrano nel mezzo del Pacifico:

una coincidenza un po' inverosimile, no?»«Sì.»«A noi sembra molto improbabile.»«Come vincere alla lotteria. Però c'è sempre qualcuno che vince.»«Estremamente improbabile.»«Concordo.»«Maledizione, avremmo dovuto prenderci un giorno di vacanza.

Avete parlato di cibo?»«Sì.»«Era un esperto in materia.»«Se quello si può chiamare cibo.»«Il cuoco della Tsimtsum era francese.»«Ci sono francesi ovunque nel mondo.»«Forse il francese che ha incontrato era il cuoco.»

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«Forse. Come posso saperlo? Non l'ho mai visto. Ero cieco, e poi Richard Parker l'ha sbranato vivo.»

«Un'altra bella coincidenza!»«Niente affatto. Fu terribile, per non parlare della puzza. A proposito, come

spiegate le ossa dei suricati sulla scialuppa?» «Sì, le ossa di un animale di piccola taglia...»

«Era più di uno!»«... di alcuni animali sono state rinvenute a bordo della scialuppa. Forse venivano

dalla nave.»«Non c'erano suricati nel nostro zoo.»«Non ci sono prove che si trattasse veramente di ossa di suricati.»Chiba: «Forse quelle erano ossa di banane! Ah, ah, ah!».«Atsuro, chiudi quella bocca.»«Scusi, Okamoto-san. Sono stanco.»«Il tuo comportamento nuoce alla reputazione del

Dipartimento!»«Mi dispiace tantissimo, Okawoto-san.»Okamoto: «Forse si trattava di ossa di altri piccoli animali».«Erano suricati.»«Magari manguste.»«Le manguste del nostro zoo non le ha volute nessuno. Sono rimaste in India.»«Forse le manguste infestavano la nave, come i ratti. Sono molto comuni in

India.»«Manguste su una nave?»«Perché no?»«Manguste che nuotano in branco fra le onde del Pacifico e raggiungono una

scialuppa di salvataggio? Difficile da credere, no?»«Sempre meglio di quello che abbiamo ascoltato fin qui. È possibile che si

trovassero sulla scialuppa da prima che la calassero in mare, come il ratto di cui ci ha parlato.»

«Quanti animali su quella barchetta. È pazzesco.»«Davvero.»«Una giungla.»«Sì.»«Quelle erano ossa di suricati. Fatele esaminare da un esperto.»«Non è rimasto un granché. E mancano le teste.»«Le ho usate come esche.»«È difficile che un esperto possa dirci se sono ossa di suricati o di manguste.»«Trovatevi uno anatomozoologo.»«Va bene, Mister Patel! Ha vinto lei. Non possiamo spiegare la presenza delle ossa

di suricati sulla scialuppa. Ma non siamo qui per questo. Siamo qui perché una nave mercantile giapponese di proprietà della Compagnia di Navigazione Oika battente bandiera panamense è affondata nel Pacifico.»

«Credete che non lo sappia? Ci penso ogni minuto. Tutta la mia famiglia è morta

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nella tragedia.»«Siamo molto dispiaciuti.»«Non quanto me.»[Un lungo silenzio]Chiba: «Adesso che facciamo?».Okamoto: «Non lo so».[Un lungo silenzio]Pi Patel: «Volete un biscotto?».Okamoto: «Sì, grazie, volentieri».Chiba: «Grazie».[Un lungo silenzio]Okamoto: «È una bella giornata».Pi Patel: «Sì. Piena di sole».[Un lungo silenzio]Pi Patel: «È la prima volta che venite in Messico?».Okamoto: «Già, la prima volta».«Anche per me.» [Un lungo silenzio]Pi Patel: «Dunque la mia storia non vi è piaciuta?».Okamoto: «Al contrario, ci è piaciuta moltissimo. Vero, Atsuro? Ce la

ricorderemo per molto, molto tempo».Chiba: «Sì, certo».[Silenzio]Okamoto: «Ma ai fini della nostra indagine, ci piacerebbe sapere com'è andata

veramente».«Com'è andata veramente?» «Sì.»«Quindi volete un'altra storia.»«Mmm... no. Vorremmo che ci raccontasse ciò che è successo veramente.»«Non è forse la stessa cosa?»«Nella sua lingua, può darsi. In giapponese una storia contiene sempre un

elemento di invenzione. Noi non vogliamo invenzioni. Vogliamo fatti nudi e crudi.»«Raccontare qualcosa, nella mia lingua o nella vostra, non è di per sé

un'invenzione? Osservare il mondo non è forse una forma di invenzione?»«Mmm...»«Il mondo è come lo percepiamo, giusto? Nel percepirlo, ci aggiungiamo sempre

qualcosa, e la vita diventa una storia.»«Ah! Ah! Ah! Lei è davvero molto intelligente, Mister Patel.»Chiba: «Di cosa sta parlando?».«Non ne ho la minima idea.»«Insomma, volete delle parole che riflettano perfettamente la realtà?»«Sì.»«Parole che non contraddicano la realtà?» «Esatto.»«Ma le tigri non contraddicono la realtà.»

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«Oh la prego, basta con le tigri.»«Ho capito cosa volete: una storia che non vi sorprenda. Una storia che confermi

quello che già sapete, che non vi faccia vedere le cose in modo più profondo o semplicemente diverso. Una storia piatta. Immobile. Solo la sterile e insipida realtà.»

«Be'...»«Una storia senza animali.» «Sì!»«Senza tigri e senza oranghi.»«Giusto.»«Senza iene o zebre.» «Sì.»«Senza suricati o manguste.»«Esatto, non ne vogliamo.»«Senza giraffe o ippopotami.»«Abbasso gli ippopotami!»«Ho capito. Una storia senza animali.»«Vogliamo una storia senza animali che spieghi l'affondamento della Tsimtsum.»«Datemi un minuto, per favore.»«Certo. Forse ci siamo. Speriamo che non ci racconti altre

fesserie.»[Un lungo silenzio]«Ecco un'altra storia.»«Bene.»«La nave affondò. Con un rumore simile a un mostruoso rutto metallico. Gli

oggetti ribollirono in superficie e poi svanirono. Mi ritrovai a mollo nell'Oceano Pacifico. Nuotai verso la scialuppa di salvataggio. Fu la nuotata più difficile di tutta la mia vita. Mi sembrava di non avanzare di un millimetro. Continuavo a ingoiare acqua. Faceva molto freddo. Le forze mi stavano abbandonando. Non ce l'avrei fatta se il cuoco non mi avesse lanciato un salvagente e issato a bordo. Salii sulla scialuppa e crollai lungo disteso.

Eravamo sopravvissuti in quattro. Mia madre si aggrappò a un grosso casco di banane galleggianti e raggiunse la scialuppa. Il cuoco era già a bordo insieme al marinaio.

Si mangiava le mosche. Il cuoco, intendo. Eravamo sulla scialuppa da meno di un giorno; avevamo cibo e acqua sufficienti per settimane, l'attrezzatura per la pesca e i distillatori solari; non c'era ragione di dubitare che presto sarebbero venuti a salvarci. Eppure lui non smetteva un secondo di agitare le braccia: catturava le mosche e le ingoiava con avidità. Lo spettro della fame lo terrorizzava, fu chiaro fin dal primo minuto. Ci dava degli idioti perché rifiutavamo di unirci a lui nel banchetto. Noi eravamo offesi e disgustati, ma cercavamo di non farglielo capire. Dopo tutto era un estraneo, e per di più straniero. Mia madre sorrideva e scuoteva la testa in segno di rifiuto. Era un uomo disgustoso. La sua bocca era meno selettiva di un bidone della spazzatura. Si mangiò anche il ratto. Lo tagliò a pezzi e lo mise a essiccare al sole. Io - devo ammetterlo - ne assaggiai un pezzo. Un pezzettino, di nascosto da mia madre.

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Ero così affamato. Ma il cuoco era proprio un bruto; con un pessimo carattere e in più ipocrita.

Il marinaio era giovane. A dire il vero meno di me, doveva avere all'incirca vent'anni; ma quando saltò dalla nave si ruppe una gamba, e la sofferenza lo trasformò in un bambino. Era bello. Con la carnagione chiara e luminosa e senza un'ombra di barba. I lineamenti - il viso largo, il naso appiattito, gli occhi a mandorla - erano così eleganti. Assomigliava a un imperatore cinese. Soffriva in modo terribile. Non parlava neanche un briciolo di inglese, non sapeva dire nemmeno sì o no, ciao o grazie. Parlava cinese. Non capivamo una parola di quello che diceva. Sicuramente si sentiva molto solo. Quando piangeva, la mamma gli accarezzava la testa appoggiandosela in grembo e io gli stringevo la mano. Era tutto molto triste. Soffriva e non potevamo farci niente.

Aveva una brutta frattura alla gamba destra. L'osso sporgeva dalla coscia. Gridava per il dolore. Gli immobilizzammo la gamba come meglio potemmo e ci assicurammo che mangiasse e bevesse. Ma la gamba si infettò. Peggiorò, benché tutti i giorni la ripulissimo dal pus. Il piede divenne nero e gonfio.

Fu un'idea del cuoco. Era una bestia. La sua aggressività gli dava potere. Ci disse sussurrando che anche il resto del corpo sarebbe diventato nero e che bisognava amputare la gamba. Sarebbe bastato recidere la carne e fermare il sangue con un laccio. Riesco ancora a sentire i suoi sussurri diabolici. Si offrì di amputargliela lui stesso, se noi avessimo pensato a tenerlo fermo. Il fattore sorpresa sarebbe stato il nostro unico anestetico. Ci buttammo sul marinaio. La mamma e io gli immobilizzammo le braccia mentre il cuoco si mise a sedere sulla sua gamba sana. Il marinaio si dimenava e strillava. Il suo torace si sollevava e si abbassava furiosamente. Il cuoco fu veloce con il coltello. La gamba si staccò. Io e la mamma lasciammo subito la presa e ci allontanammo, sperando che smettesse di contorcersi. Non fu così. Si alzò subito a sedere. Le sue grida erano incomprensibili, e perciò ancora più terribili. Lo fissavamo paralizzati. C'era sangue dappertutto. Il contrasto tra le contorsioni frenetiche del povero marinaio e la serena immobilità della sua gamba adagiata sul fondo della barca era insopportabile. Continuava a guardarla, come implorandola di ritornare al suo posto. Alla fine si lasciò cadere all'indietro. Ci mettemmo subito al lavoro. Il cuoco coprì l'osso fratturato con un lembo di pelle. Avvolgemmo il moncherino in una coperta e legammo una fune poco sopra la ferita per bloccare l'emorragia. Adagiammo il marinaio su un materasso improvvisato con i giubbotti di salvataggio, in modo che fosse comodo e al caldo.

Dubitavo che sarebbe servito a qualcosa. Un essere umano, così credevo, non poteva sopravvivere a un dolore tanto intenso, a uno scempio del genere. Continuò a lamentarsi per tutta la sera e la notte. Il suo respiro era faticoso e irregolare. Delirava. Ero certo che sarebbe morto prima dell'alba.

Si aggrappò alla vita. Il mattino dopo era ancora vivo. A tratti cadeva in uno stato d'incoscienza, poi si svegliava. La mamma gli diede dell'acqua. La vista della gamba amputata mi toglieva il respiro. Nel trambusto della sera prima era stata spinta da parte e dimenticata nel buio. Aveva perso liquidi e adesso era più sottile. Presi un giubbotto di salvataggio e usandolo come guanto, raccolsi la gamba.

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"Che stai facendo?" mi chiese il cuoco."La butto in mare" risposi."Non essere stupido. Ci servirà come esca. Perché amputargliela, altrimenti?"Sembrò pentirsi di aver pronunciato quelle parole, perché improvvisamente la sua

voce si affievolì. Si girò dall'altra parte."Perché amputargliela?" Chiese mia madre. "Cosa significa?"Il cuoco finse di non aver sentito.La voce di mia madre salì di un'ottava. "Vuol forse dire che non abbiamo

amputato la gamba di questo poveretto per salvargli la vita, ma per procurarci un'esca con cui pescare?"

Il bruto rimase zitto."Mi risponda!" urlò mia madre.Lui alzò uno sguardo furioso da bestia in trappola. "Le nostre provviste stanno per

finire" ringhiò. "Abbiamo bisogno di cibo, o siamo spacciati."La mamma gli restituì l'occhiataccia. "Le nostre provviste non stanno per finire!

Abbiamo acqua e cibo in abbondanza. Abbiamo un mucchio di biscotti per tirare avanti finché non ci salveranno." Afferrò il contenitore di plastica dove conservavamo le confezioni di biscotti aperte. Lo trovò stranamente leggero. Lo agitò. "Cosa?!" Aprì il contenitore. "Dove sono finiti i biscotti? La notte scorsa era pieno!"

Il cuoco distolse lo sguardo. Io feci lo stesso."Lei è un mostro, un egoista!" urlò la mamma. "L'unico motivo per cui le

provviste non basteranno è che lei si ingozza senza alcun riguardo!""Li ha mangiati anche lui" disse l'uomo indicandomi.Gli occhi della mamma si posarono su di me. Il mio cuore sprofondò."Piscine, è vero?""Era notte, mamma. Ero mezzo addormentato e avevo così fame. Mi ha dato un

biscotto. L'ho mangiato senza pensarci...""Uno solo?" sogghignò il cuoco.Questa volta fu la mamma a voltarsi dall'altra parte.La rabbia l'aveva abbandonata. Tornò a prendersi cura del marinaio, senza

aggiungere una parola.Avrei preferito che si arrabbiasse. Avrei voluto una punizione, qualsiasi cosa

sarebbe stata più sopportabile di quel silenzio. Con la scusa di sistemare il giaciglio del marinaio mi avvicinai a lei. Mormorai: "Mi dispiace, mamma, mi dispiace". I miei occhi erano colmi di lacrime. Quando alzai lo sguardo, vidi che anche lei piangeva. Ma non mi guardò. I suoi occhi, fissi a mezz'aria, contemplavano un ricordo.

"Siamo soli, Piscine, completamente soli" mi disse, con un tono che spezzò ogni speranza dentro di me. In tutta la mia vita, non avevo mai provato una desolazione così totale.

Eravamo sulla scialuppa già da due settimane ed era sempre più difficile credere che papà e Ravi potessero essere sopravvissuti.

Di lì a poco il cuoco afferrò la gamba amputata per la caviglia e la mise sull'acqua

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a scolare. La mamma coprì gli occhi del marinaio.Morì in silenzio, la sua vita colò via come quel liquido dalla sua gamba. Il cuoco

lo fece subito a pezzi. La gamba non si rivelò molto utile come esca. La carne putrefatta non voleva saperne di restare attaccata all'amo, si dissolveva a contatto con l'acqua. Ma quel mostro non era disposto a sprecare alcunché. Fece tutto a pezzettini, centimetro per centimetro. Si prese persino i genitali. Quando finì con il busto, passò alle braccia e alle spalle e a quel che rimaneva delle gambe. La mamma e io eravamo sopraffatti dalla tristezza e dall'orrore. La mamma sbottò: "Come può fare una cosa simile? Lei è un mostro! Dov'è la sua umanità? Non ha un minimo di decenza? Cosa le ha fatto quel povero ragazzo? Mostro! Lei è un mostro!". Il cuoco le rispose con una sequela di oscenità.

"Almeno gli copra il viso, per amor di Dio!" La vista di quel bellissimo volto, così nobile e sereno, attaccato a un corpo martoriato spezzava il cuore. Il cuoco si avventò sulla testa del marinaio e, sotto i nostri occhi, lo scotennò e gli strappò la faccia. Io e la mamma vomitammo.

Alla fine gettò la carcassa in mare. Subito dopo, stese le strisce di carne e gli organi fatti a pezzi a essiccare sulla scialuppa. Ci sforzavamo di non guardare. Ma la puzza non se ne andava.

Non appena il cuoco le capitò a tiro, la mamma gli mollò uno schiaffo, un ceffone così forte che risuonò nell'aria con uno schiocco fragoroso. Fu un gesto scioccante ed eroico, ispirato dal senso di oltraggio e di pietà e di dolore e di coraggio.

Ero sconvolto. E anche il cuoco. Rimase immobile senza dire una parola, mentre la mamma lo fissava dritto negli occhi. Notai che lui evitava il suo sguardo.

Ci ritirammo nel nostro angolino. Rimasi accanto a lei, in preda a un misto di ammirazione e paura.

La mamma lo teneva d'occhio. Due giorni più tardi, lo colse in flagrante. Cercava di essere discreto, ma lei lo vide portarsi la mano alla bocca. Urlò: "L'ho vista! Ne ha appena mangiato un pezzo! Ha detto che sarebbe servito come esca! Lo sapevo. Mostro! Animale! Come ha potuto? È un essere umano, appartiene alla sua stessa specie!". Se si aspettava che sputasse il boccone, che scoppiasse a piangere mortificato o che si scusasse, si sbagliava. Continuò a masticare. Anzi, sollevò la testa e, senza il minimo pudore, si infilò in bocca quello che rimaneva della striscia di carne. "Sa di maiale" mormorò. La mamma tremava per l'indignazione. Il cuoco mangiò un'altra striscia. "Mi sento già più forte" borbottò. Poi si concentrò sulla pesca.

Io e la mamma occupavamo un'estremità della barca, il cuoco quella opposta. La forza di volontà può innalzare muri altissimi. Giorni interi trascorrevano senza che gli rivolgessimo la parola.

Ma non potevamo ignorarlo del tutto. Era un bruto, ma ci serviva. Ci sapeva fare con le mani e conosceva il mare. E aveva un sacco di idee utili. Fu lui che pensò di costruire una zattera per agevolare la pesca. Lo dovevamo a lui se eravamo ancora vivi. Lo aiutavo come potevo. Aveva poco pazienza, mi sgridava di continuo, mi insultava.

Io e la mamma non toccammo neppure i resti del marinaio, nonostante avessimo

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grande bisogno di recuperare un po' di forze. Cominciammo a mangiare quello che il cuoco pescava. Mia madre, vegetariana da sempre, si costrinse a mandar giù carne cruda di pesce e di tartaruga, senza riuscire a superare il disgusto. Per me fu più semplice. Scoprii che la fame rendeva più buono qualsiasi cibo.

Quando la sofferenza ti concede una tregua, è impossibile non provare un po' di gratitudine verso la persona che l'ha resa possibile. Guardare il cuoco che trascinava a bordo una tartaruga o che pescava un bel dorado era elettrizzante. Quella vista ci riaccendeva il sorriso, ci illuminava il cuore, e la luce durava per ore. La mamma e il cuoco ricominciarono a comunicare in modo civile, persino a scherzare. C'erano tramonti spettacolari, quando la vita sulla scialuppa non era poi così male. In quei momenti lo guardavo - sì - con tenerezza. Con amore. Immaginavo che fossimo amici per la pelle.

Era volgare anche quando era di buonumore, ma noi facevamo finta di niente, persino con noi stessi. Diceva che presto o tardi ci saremmo imbattuti in un'isola. Ci consumavamo gli occhi a furia di scrutare l'orizzonte in cerca di quell'isola che non arrivò mai. Intanto lui ne approfittava per rubare cibo e acqua.

Il Pacifico piatto e infinito era una muraglia gigantesca che si innalzava intorno a noi. Ero convinto che non saremmo mai riusciti ad aggirarla.

L'ammazzò. Il cuoco ammazzò mia madre. Stavamo morendo di fame. Ero debole. Mi feci sfuggire una tartaruga, la perdemmo per colpa mia. Lui mi colpì. La mamma lo colpì. Lui la colpì. Lei si voltò verso di me e disse: "Scappa!" e mi spinse verso la zattera. Con un balzo tentai di raggiungerla. Pensavo che la mamma mi avrebbe seguito. Finii in mare. Mi arrampicai sulla zattera. Lottavano. Non potei fare altro che restare a guardare mia madre che combatteva contro un uomo.

Lui era malvagio e muscoloso. Le afferrò il polso e lo torse. La mamma strillò e cadde. Si buttò sopra di lei. Estrasse un coltello. Lo levò in aria, lo abbassò, e tornò a sollevarlo: era imbrattato di rosso. Era sul fondo della barca e non potevo vederla. Il cuoco alzò la testa e mi guardò. Lanciò qualcosa nella mia direzione. Uno schizzo di sangue mi sferzò il viso. Nessuna frusta avrebbe potuto infliggermi un dolore tanto grande. Stringevo fra le mani la testa di mia madre. La lasciai cadere in acqua. Affondò in una nuvola rossa, con la treccia ondeggiante come una coda. Fu seguita da una spirale di pesci, finché la lunga ombra grigia di uno squalo non incrociò la sua traiettoria. Adesso il cuoco era nascosto sul fondo della scialuppa. Ricomparve per gettare in mare il corpo di mia madre. Aveva la bocca insanguinata. L'acqua pullulava di pesci.

Passai il resto della giornata e tutta la notte sulla zattera, a osservarlo. Non scambiammo una parola. Avrebbe potuto tagliare la fune che teneva legata la zattera alla scialuppa. Ma non lo fece. Preferì lasciarmi nei paraggi, come la coscienza sporca.

La mattina seguente, sotto il suo sguardo, mi aggrappai alla fune e salii sulla scialuppa. Ero molto debole. Lui non disse niente. Io nemmeno. Catturò una tartaruga e mi offrì il sangue da bere. La fece a pezzi e mise da parte sulla panca centrale i bocconi migliori, per me. Mangiai.

Poi ci battemmo e io lo uccisi. Il suo viso non tradiva alcuna emozione, né

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disperazione né rabbia, né paura né dolore. Si arrese. Lasciò che lo uccidessi, pur continuando a combattere. Sapeva di essersi spinto troppo in là; troppo in là persino per una bestia. Aveva superato ogni limite e non voleva continuare a vivere. Ma non disse mai: "Mi dispiace". Perché ci aggrappiamo alle nostre parti più malvagie?

Il coltello era ben in vista sulla panca. Lo sapevamo tutti e due. Era stato lui a metterlo lì. Ma fui io ad afferrarlo. Lo accoltellai allo stomaco. Fece una smorfia atroce ma rimase in piedi. Estrassi la lama e lo trafissi di nuovo. Il sangue zampillava. Eppure non cadde. Mi guardò negli occhi e sollevò impercettibilmente la testa. Stava cercando di dirmi qualcosa? Forse sì. Lo accoltellai alla gola, vicino al pomo di Adamo. Cadde stecchito. Non disse nulla. Non pronunciò le sue ultime parole. Tossì sangue. Un coltello ha una terribile forza dinamica: quando comincia a colpire fermarlo diventa difficile. Lo infilzai più volte. Il suo sangue fu un sollievo per le mie mani screpolate. Il cuore, attaccato a tutti quei tubi, mi fece sudare sette camicie. Riuscii a estrarlo. Aveva un sapore delizioso, migliore di quello della tartaruga. Mangiai il fegato e feci a pezzi la carne.

Era un uomo malvagio. Ma il peggio è che risvegliò il male dentro di me: egoismo, rabbia, crudeltà. Da allora non sono più lo stesso.

Cominciò la mia solitudine. Mi rivolsi a Dio. Sopravvissi.»[Un lungo silenzio]«Va meglio? Ci sono parti poco credibili? Volete che cambi qualcosa?»Chiba: «Che storia orribile».[Un lungo silenzio]Okamoto: «La zebra si è rotta una zampa come il marinaio cinese,

te ne sei accorto?».«No, non ci ho fatto caso.»«E la iena ha staccato a morsi la zampa della zebra proprio

come il cuoco ha amputato la gamba del marinaio.»«Ohhh, Okamoto-san, lei è così acuto.»«Il francese cieco dell'altra scialuppa ha ammesso di avere

ucciso un uomo e una donna, o sbaglio?»«Non sbaglia.»«Il cuoco ha ammazzato il marinaio e la madre.»«Impressionante!»«Le due storie coincidono.»«Dunque il marinaio è la zebra, la madre è l'orango, il cuoco è la

iena, e lui... la tigre!»«Già. La tigre ha ucciso la iena, cioè il cuoco.»Pi Patel: «Avreste un'altra tavoletta di cioccolata?».Chiba: «Eccola!».«Grazie.»Chiba: «Ma cosa significa, Okamoto-san?».«Non ne ho idea.»«E l'isola? Chi sono i suricati?»

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«Non lo so.»«E quei denti? Di chi erano i denti sull'albero?»«Non lo so. Non sono mica nella testa del ragazzo.»[Un lungo silenzio]Okamoto: «Perdoni la mia domanda, ma il cuoco le ha detto niente a proposito

dell'affondamento della Tsimtsum?».«Nella seconda storia?»«Sì.»«No.»«Non disse nulla a proposito della mattina del 2 luglio, nessun dettaglio utile a

spiegare quello che accadde?»«No.»«Nessun problema meccanico o strutturale?»«No.»«Nessuna collisione con una nave o altro?»«No.»«Non sapeva spiegare il naufragio della Tsimtsum?»«No.»«Non le raccontò perché non inviarono una richiesta di soccorso?»«E se anche l'avessero fatto? Secondo la mia esperienza, quando affonda un

rottame simile, vecchio e arrugginito, nessuno ci fa caso, a meno che, naturalmente, non trasporti petrolio: tonnellate di petrolio, sufficienti a distruggere interi ecosistemi.»

«Quando la Oika si rese conto che qualcosa era andato storto, era troppo tardi. Le navi della zona furono allertate, ma non videro nulla.»

«In ogni caso non era solo la nave a lasciare parecchio a desiderare. I membri dell'equipaggio erano scontrosi e ostili, lavoratori indefessi sotto lo sguardo degli ufficiali, gran fannulloni non appena i superiori si allontanavano. Non parlavano una parola di inglese e non ci prestavano alcuna attenzione. Alcuni di loro puzzavano di alcol già a metà pomeriggio. Chi può dire cosa abbiano combinato quegli idioti? Gli ufficiali...»

«Cosa intende dire?»«Come?»«Cosa intende con "Chi può dire cosa abbiano combinato quegli idioti?"»«È possibile che alcuni di loro, in preda a un attacco di follia etilica, abbiano

liberato gli animali.»Chiba: «Chi aveva le chiavi delle gabbie?».«Mio padre.»Chiba: «Come avrebbe fatto l'equipaggio ad aprire le gabbie, senza le chiavi?».«Non lo so. Forse hanno usato dei piedi di porco.»Chiba: «Perché avrebbero dovuto fare una cosa del genere?».«Non lo so. Posso solo dirvi quello che è successo. Gli animali non erano nelle

gabbie.»Okamoto: «Durante la traversata, ha visto qualcuno degli ufficiali agire in preda ai

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fumi dell'alcol?».«No.»«Ma ha visto dei membri dell'equipaggio ubriachi.» «Sì.»«Gli ufficiali si sono comportati in modo competente e professionale?»«Non avevano molto a che fare con noi. Non si sono mai avvicinati agli animali.»«Intendo dire dal punto di vista della gestione della nave.»«Come faccio a saperlo? Parlavano inglese, ma non erano molto più disponibili

dell'equipaggio. La nostra presenza nella sala comune sembrava quasi infastidirli e raramente ci rivolgevano la parola durante i pasti. Conversavano in giapponese, come se noi non ci fossimo. Eravamo solo una modesta famiglia indiana con un carico ingombrante. Alla fine cominciammo a mangiare per i fatti nostri nella cabina di mamma e papà. "L'avventura ci chiama!" diceva Ravi. Ecco come siamo riusciti a sopportare il viaggio: grazie al nostro senso dell'avventura. Passavamo la maggior parte del tempo a spalare escrementi, sciacquare le gabbie e nutrire gli animali, mentre papà faceva il veterinario. Se gli animali stavano bene, noi stavamo bene. Non so se gli ufficiali fossero competenti o no.»

«Lei ci ha detto che la nave si è inclinata verso sinistra.»«Sì.»«E anche da prua a poppa.» «Sì.»«Quindi la poppa si è inabissata per prima?» «Sì.»«Non la prua?» «No.»«È sicuro?» «Sì.»«È possibile che si sia scontrata con un'altra imbarcazione?»«Non ho visto nessuna imbarcazione.»«Ha urtato contro qualcos'altro?»«Non mi risulta.»«Si è incagliata?»«No, è affondata.»«Non ha notato problemi meccanici dopo la partenza da Manila?»«No.»«Secondo lei il carico sulla nave era regolare?»«Era il mio primo viaggio in nave. Non ho idea di come si debba caricare una

nave.» «Ha sentito un'esplosione?»«Sì.»«Altri rumori?»«Un'infinità.»«Si trattava di rumori che potrebbero spiegare l'affondamento?»«No.»

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«Ha detto che la nave è affondata velocemente.»«Sì.»«Può fare una stima di quanto tempo abbia impiegato?»«È difficile stabilirlo. Poco. Credo meno di venti minuti.»«E in mare c'erano un mucchio di rottami e detriti.» «Sì.»«La nave è stata colpita da un'onda anomala?»«Non credo.»«Era in corso una tempesta?»«Il mare era burrascoso. Pioveva e tirava vento.» «Quanto erano alte le onde?»«Alte. Fra i sette e i nove metri.»«Non troppo alte, tutto sommato.»«Alte per una scialuppa di salvataggio.»«Certo, ma non per una nave mercantile.»«Il tempo era brutto e avevo paura. È tutto quello che so.»«Ha raccontato che il tempo è migliorato rapidamente. La nave è affondata e poco

dopo il tempo era bello, non è così?»«Sì.»«Una burrasca passeggera.»«Che però ha fatto affondare la nave.»«Appunto.»«Ho perso tutta la mia famiglia.»«Ci dispiace molto.»«Dispiace più a me.»«Insomma, Mister Patel, cos'è successo? Siamo confusi. Era tutto normale e

poi...?»«Poi la normalità è affondata.»«Perché?»«Non lo so. Gli esperti siete voi. Applicate la vostra scienza.»«Non riusciamo a capire.»[Un lungo silenzio]Chiba: «E adesso?».Okamoto: «Ci arrendiamo. Le cause del naufragio della Tsimtsum

giacciono sul fondo del Pacifico».[Un lungo silenzio]Okamoto: «Basta così. Andiamocene. Bene, Mister Patel, penso che sia

sufficiente. Le siamo grati per la collaborazione. Ci è stato di grande aiuto».«È stato un piacere. Ma prima che ve ne andiate, voglio chiedervi una cosa.»«Sì?»«La Tsimtsum è affondata il 2 luglio 1977.»«Sì.»«E io, unico essere umano sopravvissuto, ho raggiunto la costa del Messico il 14

febbraio 1978.»

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«Esatto.»«Duecentoventisette giorni separano le due date. Vi ho raccontato due storie che

coprono quest'arco di tempo.»«Già.»«Nessuna delle due storie spiega l'affondamento della Tsimtsum.»«Giusto.»«Nessuna fa una sostanziale differenza per voi.»«Ha ragione.»«Non potete provare quale storia sia vera e quale falsa. Dovete fidarvi della mia

parola.»«Pare di sì.»«In tutte e due le storie la nave affonda, la mia famiglia muore e io soffro.»«Senza dubbio.»«Allora ditemi, visto che per voi non fa nessuna differenza e che non avete alcun

modo di scoprire quale sia la storia giusta, quale preferite? Qual è la storia più bella, quella con gli animali o quella senza animali?»

Okamoto: «È una domanda interessante...».Chiba: «La storia con gli animali».Okamoto: «Sì. La storia con gli animali è indubbiamente la più bella».Pi Patel: «Vi ringrazio. È così anche per Dio».[Silenzio]Okamoto: «Scusi?».Chiba: «Che cos'ha detto?».Okamoto: «Non lo so».Chiba: «Oh, guarda, sta piangendo».[Un lungo silenzio]Okamoto: «Sulla strada del ritorno guideremo con molta cautela. Non vorremmo

imbatterci in Richard Parker».Pi Patel: «Non vi preoccupate, non lo incontrerete. Si nasconde dove non lo

troverete mai».Okamoto: «Grazie per averci dedicato il suo tempo, Mister Patel. Le siamo grati.

Ci dispiace davvero per quello che le è capitato».«Grazie.»«Cosa farà adesso?»«Credo che me ne andrò in Canada.»«Non torna in India?»«No. Non c'è più niente per me in India. Solo tristi ricordi.»«Naturalmente riceverà i soldi dell'assicurazione. Lo sapeva?»«Oh.»«Sì. La Oika si metterà in contatto con lei.»[Silenzio]Okamoto: «Adesso dobbiamo andare. Le auguriamo tutto il meglio, Mister Patel».Chiba: «Sì, tutto il meglio».«Vi ringrazio.»

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Okamoto: «Arrivederci».Chiba: «Arrivederci».Pi Patel: «Volete un po' di biscotti per il vostro lungo viaggio?».Okamoto: «Sì, perché no!».«Ecco, tre per ciascuno.»«La ringrazio.»Chiba: «Grazie».«Prego. Arrivederci. Dio sia con voi, fratelli.»«Grazie. E con lei, Mister Patel.»Chiba: «Arrivederci».Okamoto: «Sto morendo di fame. Andiamo a mangiare. Spegni quell'affare».

CAPITOLO 100

Nella lettera a me indirizzata, Okamoto rievoca quell'interrogatorio «difficile e memorabile» con un Piscine Molitor Patel «molto magro, molto tenace, molto intelligente».

Ecco i punti essenziali della sua relazione: L'unico sopravvissuto non ha fornito alcun chiarimento sulle cause dell'affondamento della Tsimtsum. A quanto pare la nave è affondata molto velocemente, il che sembrerebbe indicare la presenza di una grossa falla nello scafo. La notevole quantità di rottami notata da Mister Patel supporta questa teoria. Ma non è possibile determinare le cause della falla. Quel giorno non si registrò nessuna perturbazione di particolare rilievo. La valutazione delle condizioni atmosferiche fornita dal sopravvissuto è approssimativa e inattendibile, il maltempo potrebbe al limite aver rappresentato una concausa. È probabile che la vera ragione del naufragio sia da ricercarsi all'interno della nave. Il sopravvissuto sostiene di aver sentito un'esplosione, forse proveniente da una caldaia, ma si tratta di speculazioni. La nave aveva ventinove anni (Cantiere Navale «Erlandson & Skank», Malmö, 1948), ed era stata rimessa a punto nel 1970. Nessun altro incidente navale fu riportato quel giorno in quell'area, quindi è improbabile che si sia trattato dello scontro tra due navi. La collisione con rottami di qualche natura è solo ipotizzabile, non verificabile. La collisione con una mina galleggiante spiegherebbe l'esplosione, ma è una teoria fantasiosa e improbabile considerando che la poppa si inabissò per prima: con tutta probabilità lo squarcio nello scafo si trovava a poppa. Il sopravvissuto nutre dubbi sulla professionalità dell'equipaggio, ma non ha niente da dire sul conto degli ufficiali. La Compagnia di Navigazione Oika dichiara di non essere stata a conoscenza di alcun problema riguardante gli ufficiali o i membri dell'equipaggio e garantisce l'assoluta legalità del carico.

È impossibile determinare la causa dell'affondamento con le prove a disposizione. La Compagnia può avviare la procedura standard di richiesta indennizzo. Non sono necessarie ulteriori misure. Si raccomanda di chiudere il caso.

In via non ufficiale, aggiungo che l'unico sopravvissuto, Mister Piscine Molitor Patel, cittadino indiano, è stato protagonista di un'incredibile storia di coraggio e

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di resistenza, in un contesto straordinariamente tragico e difficile. Che io sappia, la sua vicenda non ha precedenti. Pochissimi naufraghi possono affermare di essere sopravvissuti così a lungo in mare. Nessuno era in compagnia di una tigre del Bengala.