Visite a domicilio- tra il contratto del medico e i diritti dei pazienti
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Visite a domicilio: tra il contratto del medico e i diritti dei pazienti
Il medico di famiglia è obbligato a fare visite domiciliari? E può farsi pagare?
Domande semplici che tutti, pazienti e medici, prima o poi pongono ma che comportano
una risposta non sempre scontata.
Il medico, dopo che i familiari del malato insistono per la visita a domicilio (perché,
secondo loro, la persona non è in grado di andare in ambulatorio), si presenta a casa e,
dopo aver visitato il paziente, fatto la diagnosi e prescritto la cura, può chiedere di essere
pagato. A volte il medico non lo chiede e i familiari buttano lì un: “Le dobbiamo qualcosa
per il disturbo?”. A volte il medico risponde fissando una cifra. Il pagamento avviene,
spesso nell’imbarazzo generale, e quando il professionista è uscito di casa, scattano le
lamentele. Ma il punto è se il medico possa o meno ricevere denaro per la visita a casa di
uno dei suoi mutuati. Se può, occorre sapere quando può farlo e, possibilmente, quanto
può chiedere. Quando non sussistono i presupposti per farsi pagare, commette un reato e
può essere denunciato.
L’articolo 44 del decreto 484 del 1996, che ha fatto diventare legge il contratto dei
medici con il ministero della Sanità, stabilisce i casi in cui un medico di medicina generale
può chiedere di essere pagato. In cima alla lista ci sono le “visite domiciliari eseguite nei
giorni e negli orari coperti dal servizio di continuità assistenziale”. Questa norma deve
essere letta insieme all’articolo 47 del contratto, il quale stabilisce che “l’attività medica
viene prestata nello studio del medico o a domicilio avuto riguardo alla non trasferibilità
dell’ammalato”.
Il nodo della questione è, quindi, se il malato possa essere trasferito, cioè portato
in ambulatorio. L’articolo del contratto dà anche delle regole alla visita domiciliare, che
deve essere eseguita nell’arco della giornata se la richiesta arriva entro le 10 del mattino.
Se la richiesta viene fatta dopo le 10, il medico è tenuto ad andare a casa del paziente
entro le 12 del giorno successivo. Se la richiesta arriva il sabato - giorno in cui il medico
non è tenuto a prestare servizio in ambulatorio - questo deve comunque fare la visita a
casa del paziente, se è stata chiesta entro le 10 e quelle che il giorno prima erano state
chieste dopo le 10.
C’è anche una disciplina per i casi di “chiamate urgenti”. Il contratto dice che
queste devono essere soddisfatte “entro il più breve tempo possibile”. Ma anche per
queste vale il requisito della “non trasferibilità”.
Il punto è che la legge non dice che cosa significhi “non trasferibilità dell’ammalato”
e quindi quando il medico è davvero tenuto a visitare il suo assistito a casa. Il concetto di
non trasferibilità può essere molto soggettivo. Un ammalato che ha la febbre a 40 e non
ha nessuno che possa accompagnarlo in ambulatorio quasi sicuramente si considererà
non trasferibile oppure i familiari di un anziano immobilizzato a letto probabilmente lo
considereranno tale. Ma in entrambi i casi gli si può obiettare che qualcuno che ti
accompagni in ambulatorio lo si trova sempre e la febbre si può abbassare con un
antiinfiammatorio tipo paracetamolo e che se l’anziano è davvero in pessime condizioni
conviene chiamare il “118” e non aspettare oltre, rischiando complicanze se non trattato in
tempo.
Una volta stabilito che il medico verrà a casa, c’è l’ulteriore incognita se questi
dovrà essere pagato. Mettendo insieme le norme e le pronunce dei giudici se ne ricava
che il medico può farsi pagare se, a posteriori, stabilisce che la visita a casa non era
necessaria. Dunque, in questo caso, il medico non commette un illecito se chiede il
pagamento. Nella fattura che il professionista è tenuto a rilasciare dovrà scrivere “visita
non necessaria” o “inutile” e quindi da considerarsi eseguita nell’ambito della libera
professione ai sensi dell’articolo 44 del contratto.
Ma trovare la giusta via di mezzo tra i casi in cui davvero l’ammalato non è
trasferibile e quelli in cui ne approfitta perché farsi visitare a casa è più comodo è
veramente difficile. Il concetto di “non trasferibilità” è indubbiamente una zona grigia e
l’unica soluzione alla difficile interpretazione della legge è il buon senso delle persone.
Non c’è legge che possa disciplinare caso per caso. Però è importante sapere
cosa ha deciso la Corte di Cassazione su un caso che riguarda la questione.
Un medico di Milano è stato condannato dal tribunale a 20 mesi di reclusione per il reato di
corruzione in atto d’ufficio. Il professionista si era fatto pagare 100.000 lire per la visita a
casa ad una ragazza sedicenne con la febbre alta per influenza. A denunciarlo erano stati i
familiari della ragazza ritenendo che la visita era compresa nelle prestazioni cui è tenuto il
medico e pagate, a quota fissa, dal Sistema sanitario nazionale. Il tribunale lo condannò
soprattutto perché, secondo i giudici, avrebbe dovuto avvisare prima, per telefono, che la
visita sarebbe stata a pagamento. La Cassazione ha invece ribaltato la pronuncia
assolvendo il medico “perché il fatto non sussiste”, quindi con la cosiddetta formula piena.
Per la Cassazione non solo la ragazza era trasferibile ma il medico non poteva annunciare
prima la necessità di pagamento perché ha potuto rendersi conto della trasferibilità
soltanto dopo la visita.
Come può un medico dichiarare prima di visitare un paziente se questi sia
trasferibile o no? Nella sentenza c’è un passaggio che può essere utile per definire che
cosa si intenda per trasferibilità. La Corte ha dichiarato: “È da ritenere che un infermo non
sia trasferibile quando si trova in uno stato soggettivo, dipendente, anzitutto, dalla natura e
dallo stadio di evoluzione della malattia ovvero dal trauma sofferto, ma anche da fattori
complementari come età e condizioni generali della persona, tale che il solo fatto dello
spostamento, sia pure con opportune cautele, con l’ausilio di familiari o di altri e con l’uso
dei normali mezzi di trasporto, possa, con rilevante probabilità, causare gravi rischi per la
salute o creare condizioni di vita particolarmente penose (si pensi, a quest’ultimo
proposito, al malato terminale che ha bisogno di assistenza per una lieve ferita)”.
La Corte di Cassazione con sentenza n°41646 del 20/11/2001 definisce NON
TRASFERIBILE "il paziente che si trovi in uno stato soggettivo tale che il solo fatto dello
spostamento possa con rilevante probabilità causare grave danno alla salute o creare
condizioni di vita particolarmente penose".
La sentenza della Cassazione è utile perché fa capire che, fino a quando un
medico non ha visitato il paziente, non può stabilire quali sono le sue reali condizioni. In
genere il medico sente i familiari al telefono e dalle indicazioni che gli vengono fornite
cerca di farsi un’idea di come sta l’ammalato. Poi, se ritiene, fa la visita a casa, ma se
rileva che il malato poteva venire in ambulatorio, chiesto il pagamento, deve avere il
coraggio di scrivere sulla fattura che la visita era inutile, non necessaria. Questo è il modo
di fare più corretto al mio parere.
Conclusioni. Il medico di base non commette un reato se si fa pagare per la visita
a casa. L’importante è che certifichi, con ricevuta di pagamento o fattura, che si trattava di
una visita domiciliare non necessaria. Non può nemmeno annunciare prima se, all’esito
della visita domiciliare, si farà pagare oppure no.
Il paziente ha, dalla sua, il diritto di pretendere la visita se davvero corre gravi
rischi a spostarsi e, in extremis, a pretendere la ricevuta di pagamento se il medico si fa
pagare.