Vialibera Gen-Feb 2011

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VIALIBERA > numero UNO > Gennaio-Febbraio 2011 Poste Italiane s.p.a.- Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Rovigo «L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra». (Gen 9,16)

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Rivista di fede e cultura per giovani

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VIALIBERA > numero UNO > Gennaio-Febbraio 2011

Poste Italiane s.p.a.- Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Rovigo

«L’arco sarà sulle nubi,e io lo guarderò per ricordarel’alleanza eterna tra Dio e ogni essereche vive in ogni carne che è sulla terra».

(Gen 9,16)

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3 La perla preziosa Pensieri… SANTA TERESA DI GESÙ BAMBINO

5 Finestra biblica Il volto del Padre / 3 ALESSANDRO CAROLLO

15 Il sacramento della riconciliazione Inserto staccabile/5 La festa del perdono! FRALECS & FRLCZ

19 Le catechesi del papa Sant’Antonio di Padova BENEDETTO XVI

23 Giovani francescani Vivi nello Spirito! ALESSANDRO CAROLLO

31 Lettere alla Redazione Caro padre… EMERSON RODRIGUES

Caro lettore,attraverso la rivista ViaLibera, desideriamo offrire il nostro contributo per la crescita umana, cristiana e francescana dei giovani, facendo co no scere le attività del Servizio per la Pasto-rale Giovanile-Vocazionale dei Frati Cappuccini e condividen-do strumenti e sussidi utili per la formazione e la catechesi.Una tua offerta permetterà a Via Li bera di continuare questo servizio, così importante e delicato.

Ti ringraziamo fi n d’ora di quanto vor rai darci in piena libertà.

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n. 1 | Gennaio-Febbraio 2011Anno 18Rivista bimestrale di formazionefrancescana e vocazionaledei Frati Minori Cappuc cinidel Veneto-Friuli V.G.

Direttore responsabile:fr. Luciano Pastorello

Redazione:fr. Alessandro Ca rollo • fr. Gian ni De Rossi • fr. Marco Moretto •fr. Luca Zampieri

Convento CappucciniSantuario B.V. dell’Olmovia del Santuario, 936016 THIENE (VI)

Tel. 0445/368545Fax 0445/379468E-mail [email protected]

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Autorizzazione:Trib. di Rovigo n. 5 del 20.05.1994

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La tentazione peggiore per un peccatore è il pensiero che non può essere perdonato, mentre lo sforzo

più grande è quello di credere nell’amore di Dio.

Carlo Carretto

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Pensieri…

Santa Teresa di Gesù BAMBINO

la perla preziosa

Nei brevi istanti che ci restano, non perdiamo il nostro tempo: salvia-mo le anime!

Facciamo della nostra vita un conti-nuo sacrifi cio, un martirio d’amore, per consolare Gesù. Egli non vuole che uno sguardo, un sospiro, ma uno sguardo e un sospiro che siano per lui solo! Che tutte le creature ci sfi orino appena.

Desidero essere dimenticata, e non soltanto dalle creature, ma anche da me stessa. Vorrei essere ridotta a nulla fi no al punto da non avere più alcun deside-rio. La gloria del mio Gesù, ecco tutto! Quanto alla mia, l’abbandono a lui e, se pare che mi dimentichi, non importa. È libero di farlo, perché non appartengo più a me stessa, ma a lui. Si stancherà prima lui di farmi aspettare, che io di aspettare.

Quanto fa bene all’anima lavorare per Gesù solo, esclusivamente per lui! Oh, come è soddisfatto allora il cuore, come ci si sente leggeri!

on posso dire di avere ricevuto spesso delle con solazioni durante il mio ringraziamento del-

la Comunione: forse è il momento in cui ne ho meno. Ma questo lo trovo naturale, per-ché mi sono offerta a Gesù come una per-sona che desidera ricevere la sua visita non già per propria consolazione, bensì per il piacere di colui che si dà a me.

Il Signore è più tenero di una ma-dre.

Vedo che la sofferenza sola può ge-nerare le anime, e più che mai le subli-mi parole di Gesù mi svelano la loro profondità: «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano gettato nella terra non muore, rimane solo, ma se muore dà molto frutto» (cfr. Gv 12,24-25).

Senza l’amore tutte le cose sono niente anche le più splendide, come ri-suscitare i morti o convertire i popoli.

Dio tiene in mano sua il cuore del-le creature e le orienta come vuole.

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pensieri d’autoreNon conosco altro mezzo per

giungere alla perfezione fuorché l’amore. Amare! È per questo che è fatto il nostro cuore. Qualche volta cerco un’altra parola per esprimere l’amore, ma in questa terra di esilio le parole sono im-potenti a rendere tutte le vibra-zioni dell’anima. Così è necessa-rio attenersi a quest’unica parola: amare!

La speranza della patria m’in-fonde coraggio: presto saremo in cielo. Allora non ci sarà più né gior-no né notte, ma il volto di Gesù farà regnare una luce senza uguale.

Facciamo nel nostro cuore un piccolo tabernacolo dove Gesù pos-sa rifugiarsi. Allora sarà consolato e dimenticherà ciò che noi non pos-siamo dimenticare: l’ingratitudine delle anime che l’abbandonano in un tabernacolo deserto.

Poiché Gesù è stato solo a spre-mere il vino (cfr. Is 63,5) che ci offre da bere, non ci rifi utiamo a nostra volta di portare delle vesti tinte di sangue. Spremiamo per Gesù un vi-no nuovo che lo disseti, che gli renda amore per amore. Ah, non perdiamo una sola goccia del vino che possiamo dargli! Allora, guardando intorno a sé (cfr. Mt 12,50), vedrà che noi veniamo per aiutarlo.

Il tempo non è che un miraggio, un sogno. Già fi n d’ora Dio ci vede nel-la gloria e gioisce della nostra beatitu-dine eterna.

Mi sembra che l’amore possa sup-plire ad una lunga vita. Gesù non guar-da al tempo, che in cielo non esiste più. Non guarda che all’amore.

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Il voltodel Padre

Il capitolo 15 del terzo vangelo raccoglie le cosiddette “parabole della misericordia”, capolavori dell’arte narrativa di Luca. Esse dipingono il volto di un Dio non convenzionale, non scontato. In questa terza e ultima parte della catechesi, ci confronteremo con gli altri due personaggi della parabola più celebre di Luca:

il fi glio maggiore e il padre misericordioso.

f. Alessandro CAROLLO

fi nestra biblica

vedere? La giustizia non è visibile? Ep-pure sembra che il fi glio maggiore non si sia mai accorto che il padre lo ama…

Dopo questa informazione circa l’e-redità, il primogenito scompare dalla scena, per tornare solamente nell’ulti-ma parte del racconto. Al ritorno dal lavoro nei campi, incuriosito dalle mu-siche e dalle danze, egli si informa sul motivo della festa. Il servo descrive brevemente il ritorno del fratello e la decisione di imbandire solennemente la tavola uccidendo il vitello grasso, dal momento che il secondogenito è torna-to sano e salvo a casa. Ed è a questo punto che il lettore scopre tutto il ma-lessere che il fratello maggiore celava dentro il suo cuore.

Separato in casa

La prima informazione che il letto-re riceve sul fi glio maggiore riguarda l’eredità: il padre, infatti, divide tra i suoi due fi gli «le sue sostanze» (v. 12). Con questo non si intende che la parte di ere-dità del maggiore (corrispondente ai due terzi del patrimonio) fosse già disponibi-le e che potesse usarli come e quando voleva, dal momento che egli era rima-sto nella casa paterna. Egli potrà usufru-ire dei beni che gli spettano solo alla morte del genitore, quando toccherà al primogenito il ruolo di pater familias. Il padre non fa preferenze tra i suoi fi gli, tratta tutti alla stessa maniera, con amo-re e giustizia. L’amore non si dovrebbe

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fi nestra biblicaAstio e invidia nei confronti del fra-

tello, recriminazione e soggezione nei confronti del padre, c’è ogni sorta di sen-timento negativo nelle parole del fi glio maggiore. Egli è il prototipo di quei fari-sei e di quegli scribi che mormoravano perché Gesù accoglie i peccatori e man-gia con loro (Lc 15,2). Sì, il padre della parabola, contro le consuetudini e le buone maniere religiose, ha osato acco-gliere in casa il fi glio degenere e liberti-no e addirittura imbandire la tavola con il vitello grasso (cfr. v. 30). Probabilmen-te, il fi glio maggiore ce l’ha più con suo padre che con suo fratello. È bene riascol-tare le sue prime parole: «Ecco, io ti ser-vo da tanti anni e non ho mai disobbedi-to a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici» (v. 29).

Egli si sente più servo che fi glio, più suddito obbediente che persona amata. Ha ridotto la sua relazione con il padre ad una serie di comandi da eseguire, con cieca fedeltà e con l’unica prospet-tiva di ricevere una ricompensa, ma non si era accorto – secondo le parole del padre – che egli era sempre con lui, che aveva già tutto (cfr. v. 31). Quanto è dol-ce e, allo stesso tempo, velata di tristez-za quell’espressione che il padre rivolge al cuore ingrato del fi glio: «Tu sei sem-pre con me» (v. 31). «Tu sei sempre con me, sei il mio fi glio amato, come puoi non accorgertene?». E invece il fi glio-suddito recrimina per un capretto non dato, un capretto per far festa non con i suoi familiari, ma con i suoi amici!

Critica e mormorazione

Il fratello maggiore rappresenta l’uo-mo della critica, della mormorazione: egli non vede il bene che il padre ha fatto a lui e al fratello. L’oggetto della sua con-testazione non è tanto l’amore del Pa-

dre, ma l’eccesso, lo spreco di amore per il fratello degenere e la diseguaglian-za, la mancanza di attenzione nei suoi confronti.

Il primogenito rappresenta, ancora l’uomo dell’invidia. Come fa a sapere che il fratello è andato con le prostitu-te? Nemmeno il testo della parabola è così chiaro a proposito… Forse è l’ec-cesso di rabbia che lo fa parlare così? Oppure accusa il fratello di qualcosa che egli stesso avrebbe voluto fare, se solo avesse avuto più coraggio? Il termi-ne «invidia» signifi ca, etimologicamente, «guadare male» o anche «non guardare». L’invidia è perciò una vista distorta, de-formata della realtà, che vede il male dove c’è il bene. Il fi glio maggiore è dav-vero “invidioso” perché non scorge il

Il figlio maggiore (Lc 15,25-32)

«Il figlio maggiore si trovava nei cam-pi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quel-lo gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ec-co, io ti servo da tanti anni e non ho mai di-sobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le pro-stitute, per lui hai ammazzato il vitello gras-so”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma biso-gnava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

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fi nestra biblicabene che il padre ha fatto e fa a lui e al fratello, non si accorge del suo amore paziente e misericordioso, mentre ri co no sce e amplifi ca esclusivamente il male e gli aspetti negativi.

Fratelli diversi?

A ben vedere, i due fi gli sono più si-mili di quanto si creda. Non è un caso che entrambi tornino a casa dai «cam-pi»: il primo lavorava nei campi del pa-dre (v. 25), il secondo pascolava i porci nei campi del padrone (v. 15). Quest’ulti-mo sa che, quando tornerà a casa, il pa-dre lo punirà, perciò cerca di anticipare la reazione paterna rinunciando alla dignità di fi glio per essere considerato semplicemente un salariato (e avere co-munque la pancia piena…). Il maggiore, invece, pretende una ricompensa (sem-pre qualcosa da mangiare: un capret-to…) per la sua fedeltà e obbedienza di lunga data, e per questo non riesce a ca-

pire, anzi, a tollerare il comportamento del padre verso il fratello, perché si trat-ta di qualcosa che esce dalla sua logica. Ricompensa per i giusti, punizione per i peccatori: la linea di pensiero dei due fratelli è esattamente la stessa! Non han-no capito proprio nulla dell’amore! Né l’uno né l’altro avevano una relazione fi gliale con il padre: perciò entrambi i fi -gli devono convertirsi alla sua logica!

Il più giovane, tuttavia, ha un atteg-giamento umile e remissivo, perché de-ve cercare di scampare la punizione, mentre il maggiore ha un tono aggressi-vo, urlato, tipico di chi sa di aver ragione. E proprio perché ha ragione, rifi uta di unirsi alla sua famiglia per festeggiare: non è un particolare di poco conto che egli rimanga fuori della porta di casa e che il padre debba uscire un’altra volta per cercare di convincere il fi glio, sup-plicandolo, forse invano…

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fi nestra biblicaIl rapporto del primogenito con i suoi

familiari assomiglia molto alla fede di tanti cristiani: una fede stanca, senza slanci, “standard”; una fede do ut des (da-re per ricevere): ho fatto questo, sono stato obbediente, mi sono comportato bene, perciò mi merito una ricompen-sa, anzi, la pretendo! «Io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando» (v. 29), dice, deluso e arrabbiato, il primogenito al padre, co-me se la fede si potesse ridurre ad una serie di precetti da eseguire. Ma Gesù è venuto a dirci questo? «Misericordia io voglio e non sacrifi ci», scrive Matteo 9,13, citando il profeta Osea (cfr. anche Mt 12,7). Come dire che l’obbedienza senza amore non serve a nulla! Una re-ligione basata sui meriti, sulla legge, sul fare, sui riti vuoti, non serve a nulla se non è accompagnata dalla misericordia, dall’amore, dal perdono.

Come un tempo erano i farisei che contestavano Gesù, così oggi sono i cristiani che lo mettono in diffi coltà, vi-vendo una fede smorta, arrabbiata, co-stretta, senza passione. Una fede che si accontenta del minimo. Chi di noi non si è mai fatto queste domande: «È festa di precetto o no?»; «Devo proprio pregare?»; «È obbligatorio confessar-si?». Sembra che, per essere cristiani, sia suffi ciente fare qualcosa, limitarsi a dei compiti prestabiliti, mentre non ci accorgiamo che il Signore Gesù non ci chiede un po’ di tempo o dei riti, ma tutta la vita e tutto il cuore, esattamen-te come Lui ha donato tutto se stesso per noi!

Il padre “prodigo” di misericordia

Il centro della parabola è costitui-to dalla scena che racconta l’incontro tra il fi glio minore e suo padre. I primi versetti descrivono l’allontanamento da

Il padre (Lc 15,20b-32)

«Quando [il figlio minore] era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassio-ne, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più de-gno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il pa-dre disse ai servi: “Presto, portate qui il ve-stito più bello e fateglielo indossare, mette-tegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Pren dete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musi-ca e le danze; chiamò uno dei servi e gli do-mandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ec-co, io ti servo da tanti anni e non ho mai di-sobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le pro-stitute, per lui hai ammazzato il vitello gras-so”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma biso-gnava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Come un tempo erano i farisei che conte-

stavano Gesù, così oggi sono i cristiani

che lo mettono in difficoltà, vivendo una

fede smorta, arrabbiata, costretta, senza

passione.

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casa e i progetti di ritorno del secondogenito. L’ultima parte narra il confronto acceso tra il fi -glio maggiore e il padre circa il trattamento riservato da quest’ul-timo al fratello degenere.

È il padre, dunque, il personag-gio centrale della parabola: egli, con il suo amore eccessivo ed eccedente, converte il cuore del fi glio minore e provoca la reazione del maggiore. Se c’è un personaggio “prodigo”, questi non è il fi glio che sperpera il denaro, ma il padre che diffonde amore e perdono a piene mani, senza alcun limite. Sì, il padre è prodigo di miseri-cordia!

Il tratto distintivo della parabola è proprio l’esagerazione. Il padre di-vide i beni tra i suoi fi gli senza chie-derne una spiegazione adeguata, la-sciando andare il fi glio alla deriva. La festa che il padre allestisce per il suo ritorno è degna di un banchetto regale. La reazione del fi glio maggio-re è forte, decisa, con tratti da “carica-tura”. Anche le parabole precedenti del capitolo 15 di Luca presentavano dei tratti eccessivi: per quale motivo un pa-store dovrebbe lasciare le proprie novan-tanove pecore nel deserto per cercarne solamente una, con il rischio di perderle tutte? Vale la pena fare festa con le ami-che per aver ritrovato una monetina? Eppure, proprio attraverso questi tratti eccessivi, si riesce ad intuire chiara-mente, nello svolgersi della narrazione, l’eccesso della misericordia, perfetta-mente coerente secondo la logica divina, ma chiaramente illogica secondo una prospettiva umana.

È interessante notare come Luca presenti la fi gura del padre. All’inizio egli sembra remissivo, quasi lontano: di-vide le sostanze senza protestare, senza cercare di fermare il fi glio. È un padre

che lascia liberi, che corre il rischio del-la libertà, che offre un “credito di fi du-cia” al fi glio, ritenendo – forse un po’ in-genuamente – che egli saprà usare bene questa possibilità, sfruttando al meglio l’ansia di libertà. Non sarà così, ma tut-to ciò non getta il padre nella delusione

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fi nestra biblicao nella disperazione. Il fi glio “prodigo” rimane pur sempre suo fi glio!

Se da una parte l’allontanamento sembra irreversibile, tuttavia alcuni in-dizi del testo ci fanno comprendere co-me il cuore del padre sia sempre ac-canto a quello del fi glio. Anzitutto, è il ricordo della casa paterna che smuove il fi glio, spingendolo a ritornare sui suoi passi, seppur per motivi non certo no-bili. Ma è ancora più bello notare una fi nezza nel testo della parabola. Si dice, al v. 13, che il fi glio partì «per un paese lontano». Nel momento del ritorno, il pa-dre lo scorge «quando era ancora lonta-no». Sembra quasi che il genitore abbia seguito con il suo sguardo di tenerez-za e d’amore il peregrinare del fi glio lontano da casa e dalla vita. Una cosa è certa: il padre non lo ha mai abbando-nato, nemmeno per un istante. Il fi glio stesso aveva portato con sé una parte della bìos, della «vita», dell’«eredità» pa-terna (cfr. Lc 15,12).

Questo sguardo “buono” del padre per il fi glio lontano (niente a che vede-re con lo sguardo “invidioso” del fratel-lo!) mi fa tornare alla memoria il brano dell’arresto di Gesù, già ricordato pri-ma. Solamente Luca, tra i vangeli sinot-tici, racconta l’incrocio di sguardi tra il Maestro e il discepolo che l’aveva appe-na rinnegato per la terza volta: «Allora il Signore si voltò e fi ssò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E, uscito fuori, pianse ama-ramente» (Lc 22,61-62).

La scena è un gioco di sguardi. Ac-canto al fuoco, una serva aveva fi ssato attentamente Pietro prima di rivolger-gli l’accusa (cfr. Lc 22,56); e Pietro ave-va mentito, incapace di fi ssare gli occhi della giovane. Un altro uomo, poi, lo aveva visto, lanciando subito dopo la

sua accusa: «Anche tu sei uno di loro» (Lc 22,58). Ma Pietro aveva negato an-cora, sostenendo non solo di non cono-scere Gesù, ma rinnegando anche il rapporto con gli altri discepoli. Pietro si trova così ad essere completamente solo: senza Gesù, senza i suoi compa-gni… L’ultimo, tragico rinnegamento coincide con il canto stridulo del gallo. Potrebbe essere la fi ne di Pietro, ma Gesù non lo abbandona: il Maestro «si voltò e fi ssò lo sguardo» (Lc 22,61) sul discepolo. Uno sguardo di amore, di misericordia, che rende ancora più ama-ro il pianto di Pietro (cfr. Lc 22,62). Non

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fi nestra biblica

è la fi ne, ma la dura consapevolezza da parte del discepolo di un lungo cammi-no di riabilitazione. Pietro sarà perdo-nato e accolto. Lo aveva già detto Gesù: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta conver-tito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32).

La scena dell’incontro

L’incontro tra il padre e il fi glio mi-nore, fuori della casa, è davvero com-movente. Il padre lo scorge in lonta-nanza: chissà quante volte sarà salito

sul tetto della sua casa (come è usanza in Israele) per vedere se, per caso, fos-se in arrivo il fi glio. Nel momento stes-so in cui ne distingue i tratti, il genito-re prova una compassione e un amo-re di madre nel suo cuore: il verbo splagchnìzomai, usato al v. 20, deriva dal sostantivo che indica l’utero, cioè la sede dei sentimenti più profondi di amore e di compassione che la madre prova per il proprio fi glio. Se nella pa-rabola manca ogni riferimento alla madre o a una sorella, non si può dire che il padre non possieda sentimenti materni! E così questi corre incontro al fi glio, sfi dando il decoro che esige che una persona anziana non manifesti in modo eccessivo i suoi sentimenti, gli si getta al collo e lo bacia, manifestando nei gesti ciò che le parole non possono esprimere.

In una parola, il padre ha già accolto e perdonato il fi glio, perché non ha mai smesso di amarlo! Non sono le belle pa-role – forse non troppo sincere – del se-condogenito a determinare l’agire del padre: egli era là che lo aspettava, e non gli dà nemmeno il tempo di fi nire il suo bel discorso. È il comportamento del padre che ritrasforma il possibile futuro salariato in un fi glio redivivo.

È interessante notare che il padre si rivolge ai suoi servi, quando si tratta di dare corso al suo progetto di fare fe-sta per il fi glio: è a loro che dice cosa preparare, non al fi glio. In questo mo-do, sembra quasi che il fi glio non possa essere interpellato, non possa blocca-re o almeno frenare l’iniziativa del pa-dre: questi ha già deciso come com-portarsi, questa volta è il fi glio che de-ve fare come vuole il genitore. È il ro-vesciamento di quanto accaduto nei primi versetti della parabola.

L’abbraccio, il bacio, le vesti lussuo-se, l’anello, tutti questi elementi hanno

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dei paralleli biblici (Gn 41,42; 45,14-15; 1Re 20,8; Est 3,10; 8,8.10; 2Cro 28,15; 1Mc 6,15). Il vestito rappresenta la nuo-va dignità di fi glio: egli non è più un pastore di porci e non sarà mai un sa-lariato nella casa paterna; è invece fi -glio accolto e amato; l’anello con il si-gillo indica il potere, la capacità ammi-nistrativa; i calzari di lusso sono sim-bolo della libertà ritrovata; il vitello grasso è segno di una festa immensa, senza fi ne.

Così è offerto al fi glio infi nitamente di più di quanto aveva osato sperare. En-trambi i fi gli, a ben vedere, vogliono qualcosa: il primo desiderava un ca-pretto per fare festa con gli amici e, for-se, un po’ di attenzione; il secondo pre-tende la sua parte di eredità, quindi cerca di convincere il padre ad acco-glierlo nuovamente in casa come sala-riato, almeno per poter mangiare qual-cosa e sopravvivere. Tuttavia, il padre dà ai fi gli molto di più, infi nitamente di più: al primo ricorda che «tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31), al secondo restitui-sce la vita, l’onore e la dignità.

Il volto del padre

Vorrei approfondire ancora un po’ la fi gura del padre, prodigo di amore.

L’amore vero rifugge ogni recrimi-nazione. L’amore non dice mai: «Te l’a-vevo detto!». L’amore è disarmante. L’a-more è consolante. Così, il padre non giudica il fi glio minore per aver dilapi-dato i beni o per la vita dissoluta, come fa il fratello maggiore; semplicemente, per lui il fi glio era «perduto» e «morto», ma è stato «ritrovato» ed è «tornato in vita» (v. 24.32). È interessante notare che il padre riconosce la gravità della situazione del fi glio negli stessi termi-ni. Infatti, il giovane afferma: «io qui muoio di fame» (v. 17); allo stesso mo-

do il padre giustifi ca il suo comporta-mento per il fatto che il fi glio era «mor-to» (v. 24.32). Si tratta di un altro, picco-lo indizio con cui il narratore ci fa capi-re come lo sguardo amorevole del ge-nitore non abbia mai smesso di seguire e custodire il cammino errante del giovane.

L’amore sa perdere. L’amore va in-contro all’altro. L’amore sa correre il rischio dell’incomprensione. L’amore è gratuito. Così, il padre esce fuori di casa per andare incontro ai due fi gli: egli non esige rispetto e riverenza, ma offre amo-re a piene mani. Questo comportamento spiazza tutte le nostre pretese secondo le quali deve essere sempre l’altro a ve-nirmi incontro e a capirmi…

L’amore richiede dedizione assolu-ta. L’amore non segue la logica del con-traccambio. L’amore che perdona è un

“comandamento”, perché non è sponta-neo, non è scontato, ma richiede di en-trare in una logica diversa, quella del dono. Così, il padre ricorda al maggio-re dei suoi fi gli che «bisognava» fare fe-sta, che non si poteva farne a meno.

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fi nestra biblicaEgli invita il primogenito ad entrare nella logica dell’amore che perdona, dell’amore che si dona. Il fratello per-duto non è stato semplicemente ritro-vato: è stato ritrovato dallo sguardo d’amore del padre. Il fratello perduto non è semplicemente tornato in vita: è stato suo padre a ridonargli la vita, con il suo abbraccio, con il suo bacio, con le sue viscere di compassione, con il suo amore che perdona. E questi sono mo-tivi più che suffi cienti per fare festa.

Gioia… incompiuta!

Il capitolo 15 del vangelo di Luca raccoglie le cosiddette tre “parabole della misericordia”. Il tema che le ac-comuna è quello della gioia del ritro-vamento: il pastore ritrova la pecora, la donna ritrova la moneta, il padre ritrova il fi glio. È su questo punto – e non tanto sulle circostanze della per-dita – che Luca punta l’attenzione. Co-

me non ricordare le splendide parole che il profeta Ezechiele mette in bocca a Dio stesso: «Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che era-no state disperse, così io passerò in rasse-gna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nu-volosi e di caligine» (Ez 34,11-12).

Alla fi ne della parabola, resta tutta-via un senso di incompiutezza. Il fi glio minore è stato ritrovato. Ma il maggio-re? Il testo evangelico non specifi ca se quest’ultimo è rientrato in casa oppure se è rimasto fuori della porta. Così, la stessa decisione è rivolta anche al let-tore: tu che leggi, sei disposto ad en-trare nella logica “inversa” dell’amore che perdona?

Le ultime parole del padre («Biso-gnava far festa e rallegrarsi») hanno un sapore diverso, a seconda dei diversi personaggi della parabola:

– per il fi glio minore si tratta di una salvezza gratuita, insperata, eccessiva;

– per il padre, invece, esse indicano una necessità ineludibile, quella dell’a-more senza calcolo e del perdono sen-za condizioni;

– per il fratello maggiore rappresen-tano, infi ne, un appello a rivedere l’im-magine che si era fatta del genitore, entrando nella logica del (per)dono.

Anche il lettore, tuttavia, è coin-volto in questo «bisognava». La pa-rabola è stata scritta perché ciascu-no di noi si identifi chi con il fratello maggiore. Infatti – come ho già nota-to – il parallelismo tra le tre parabo-le del capitolo 15 del vangelo di Luca riguarda strettamente solamente il fi glio minore; il fratello maggiore è invece associato ai farisei e agli scribi che criticano aspramente il

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fi nestra biblicacomportamento di Gesù e che sono – al pari dei lettori di oggi – i destinatari della parabola stessa. Proprio per que-sto, ognuno di noi è chiamato ad assu-mersi la responsabilità di decidere co-me la storia andrà a fi nire: il fi glio maggiore ed io con lui resteremo sulla

porta, adirati con il padre per il suo comportamento e invidiosi del tratta-mento riservato al fratello degenere, oppure accetteremo la sfi da di aprirci ad un amore e a un perdono senza con-dizioni, senza limiti, gratuito ed ecces-sivo, come quello di Dio?

Rifletti & Condividi

1. Quali spunti della catechesi ti hanno mag-giormente colpito? Per quali motivi?

2. In quale occasione Dio ti ha “trovato”? Quando, in un momento di particolare dif-

ficoltà e lontananza, hai sperimentato l’a-more e il perdono di Dio?

3. Quali sono gli atteggiamenti descritti a proposito dei tre personaggi della para-bola del padre “prodigo” di amore che ritrovi anche nella tua vita?

Ti senti più figlio minore o figlio maggio-re?

In che modo la figura del padre risulta “pro-vocante” nella tua esperienza di fede?

4. Che cosa pretendi dagli altri? Ti comporti anche tu come quelle persone che chie-dono sempre aiuto, ma non sono mai di-sponibili ad aiutare?

5. Che cosa evoca, nella tua vita, l’immagi-ne dell’«eredità» da richiedere al padre: indipendenza? libertà? sogni irrealizzati?

6. Conosci Gesù personalmente o per “sen-tito dire”?

7. Quando, nella tua vita, hai toccato il fon-do? Come l’hai superato?

8. Quale potere ha su di te il denaro, l’ido-lo per eccellenza?

9. Quanto è presente nella tua vita la “mor-morazione”, la “critica”?

Sei anche tu “invidioso”? Riesci a scorge-re la presenza di Dio nella tua esistenza?

10. Vivi anche tu una fede smorta, arrabbia-ta, che si accontenta del minimo?

Ti limiti ad osservare i comandi di Dio, o pensi di amarlo?

11. Hai fatto esperienza dell’amore gratuito (sia dato che ricevuto), come quello de-scritto nella parabola?

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La festadel perdono!

FRALECS & FRLCZ

Inserto staccabile sul sacramento della confessione/5

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2 Inserto sulla confessione / 5

La festa del perdonoIl salmo 51, la preghiera penitenzia-

le per eccellenza, è legato in modo di-rettamente all’episodio di Davide che abbiamo approfondito. Si legge, infatti, nell’introduzione (Sal 51,2), che esso fu composto da Davide in seguito all’in-contro con il profeta Natan, che era ve-nuto per denunciare il suo peccato.

Questa meravigliosa preghiera di sup-plica manifesta al tempo stesso la pro-fonda fede di Davide: egli riconosce il proprio peccato – un peccato nascosto a tutti, ma non a Dio – perché ha una pro-fonda fede in Lui e nel suo amore miseri-cordioso. Da una parte, infatti, il peccato segna la rottura e l’allontanamento da Dio: Davide riconosce il suo peccato ed esclama: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13), riconoscendo così che l’a-dulterio e l’omicidio da lui perpetrati non sono solamente delle colpe contro Uria, ma anche e soprattutto contro Dio, che lo aveva scelto e prediletto, affi dandogli un compito – quello di essere re – che richiedeva un costante abbandono a Lui e alla sua volontà.

Dall’altra parte, il pentimento di Da-vide apre ad una nuova e ancora più radicale fi ducia nel Signore. La perce-zione profonda del proprio errore è di-rettamente proporzionale e stretta-mente connessa alla propria percezio-ne di Dio, alla propria fede in Lui. In altre parole, tanto più è profonda la convinzione dell’amore di Dio per me, tanto più sarò in grado di riconoscere e smascherare anche il più piccolo ri-fi uto di tale amore. È perché Davide si sente amato e scelto da Dio che avrà il coraggio di riconoscere di aver sbaglia-to, senza tentennamenti, senza scusan-ti e senza eufemismi.

Riconoscersi peccatori davanti a Dio, riconoscere di aver continuamente bisogno del suo aiuto, della sua miseri-cordia, del suo perdono è un atteggia-

mento assolutamente liberante. Molto spesso, si ritiene che le nostre colpe di-spiacciano al Signore, e in parte è vero; ma ciò che dispiace maggiormente a Lui è il fatto che noi crediamo che, a causa dei nostri peccati, egli possa smette-re di amarci (con la conseguenza di perdere la stima e la fi ducia che egli nu-tre per noi), o che la nostra colpa sia co-sì grande che egli non possa perdonar-la. Niente di più falso. Il Signore Gesù – che ci svela il vero volto di Dio – non ha mai allontanato alcun peccatore, anzi, li ha perdonati e ha restituito loro la di-gnità perduta, mentre proprio non sop-portava coloro che non si ritenevano bisognosi della misericordia di Dio.

Non dobbiamo, dunque, aver paura di chiedere perdono a Dio, come ha fat-to Davide. Tale atteggiamento del gio-vane re di Israele è passato anche at-traverso l’accettazione delle conse-guenze negative e dolorose del male che ha commesso: la morte del fi glio, il dolore di Betsabea, le disavventure che accadranno durante il suo regno non dipendono direttamente dal pec-cato commesso da Davide, come se ne fossero l’effetto diretto; tuttavia, in un modo misterioso, ogni male, ogni col-pa, ogni rifi uto dell’amore di Dio pro-ducono una serie di conseguenze ne-gative non previste, ma che ugualmen-te comportano sofferenza e dolore. Tut-tavia, non c’è nulla che non possa esse-re perdonato, se uno ha il coraggio di chiedere perdono a Dio.

Il salmo 51 inizia con quattro impe-rativi: «Abbi pietà», «cancella», «lavami» e «rendimi puro» (Sal 51,3-4).

3 Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;nella tua grande misericordiacancella la mia iniquità.4 Lavami tutto dalla mia colpa,dal mio peccato rendimi puro.

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La festa del perdonoPiù che una preghiera, il re (e chiun-

que prega con queste parole) sta espri-mendo una certezza, una realtà: egli non chiede a Dio se, per caso, è dispo-sto a perdonare e a quale condizione. No. Egli ordina a Dio il perdono. Perché è sicuro che Dio perdona, sempre e co-munque. Questo atteggiamento di piena fi ducia non deve tuttavia trarci in in-ganno, autorizzandoci a commettere ogni sorta di colpa, con la certezza che, tanto… Dio è buono e ci perdona! Si tratterebbe di una presa in giro bella e buona, anzi, peggio, di un abuso!

Piuttosto, il fatto che Dio è buono e ci perdona ci deve spingere alla con-versione (cfr. Rm 2,4), a riconoscere cioè quanto il suo amore è importante e necessario nella nostra vita, e come la nostra vita senza di Lui non sarebbe altro che un rimanere impigliato nei lacci corrosivi e distruttivi del peccato.

«Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora pec-catori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).

Se questo è vero – ed è profonda-mente vero! – allora non ci resta che affermare che noi siamo talmente pre-ziosi e importanti per Dio che egli ha preso su di sé i nostri peccati mediante la croce di Gesù, per liberarci da un peso insopportabile. E lo ha fatto solo per amore. Perché l’amore di Dio, che si spinge fi no al perdono di tutte le no-stre colpe, ci fa tornare quelle splendi-de e meravigliose creature che noi sia-mo e ci dimentichiamo di essere, crea-ture amate e predilette e fi gli di un unico e dolcissimo Padre.

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La storia del sacramento della confessione

4 Inserto sulla confessione / 5

La festa del perdono

La forma del sacramento della con-fessione è cambiata diverse volte lungo il corso della storia.

Nei primi secoli della Chiesa, chi voleva diventare cristiano – generalmente un adul-to – chiedeva il battesimo. Dopo un lungo periodo di preparazione (detto catecume-nato), era ammesso alla “comunione dei santi”, cioè nella comunità cristiana. In quel tempo, il peccato significava separarsi co-scientemente e deliberatamente dalla fa-miglia dei figli di Dio. Per i cristiani dei pri-mi tempi, il peccato rappresentava qualco-sa di così grave da esser convinti che un battezzato che avesse peccato potesse una volta sola ricominciare la sua vita ed esse-re riammesso nella comunità cristiana.

Questa riammissione veniva compiuta secondo un rito prestabilito: chi aveva pec-cato chiedeva la penitenza nella sua con-fessione individuale al vescovo o al sacer-dote a ciò delegato e questa gli veniva im-partita con l’imposizione delle mani.

Il penitente riceveva quindi un abito pe-nitenziale e doveva, durante i servizi reli-giosi, prender posto in un posto particolare all’interno dell’assemblea liturgica e non poteva fare la Comunione. Trascorso il tem-po della penitenza, avveniva la cerimonia di riconciliazione davanti alla comunità, du-rante le celebrazioni del Giovedì santo; da quel momento il penitente poteva riacco-starsi al l’Eucaristia.

Fino al VII e all’VIII secolo, nella Chiesa d’Occidente, si seguiva questa tradi-zione: la penitenza si poteva ricevere nella vita una sola volta. Soprattutto sotto l’in-flusso dei missionari irlandesi si fece stra-da una nuova prassi penitenziale: il peni-tente cerca un sacerdote, confessa a lui le sue colpe, recitano insieme lunghe pre-ghiere, i cosiddetti salmi penitenziali; poi

viene imposta la penitenza dal sacerdote, il quale chiede al penitente se crede vera-mente nel perdono dei peccati e se vuole adempiere la penitenza assegnata. Quin-di, il penitente riceve l’assoluzione oppure

– la prassi non è ovunque e sempre identi-ca – dopo aver adempiuto la penitenza, torna dal sacerdote per un atto di riconci-liazione.

La penitenza – in questo modo – non è più un atto pubblico e, inoltre, poteva es-sere ripetuta. Le penitenze avevano una durata limitata: per esempio, consistevano in un digiuno, nell’astensione da bevande alcoliche o dalla carne, in elemosine, nel compiere pellegrinaggi o nella recita di pre-ghiere. Queste penitenze corrispondevano al numero e alla tipologia dei peccati, se-condo una specie di prontuario in cui veni-va stabilita quale penitenza fosse adegua-ta per un certo tipo di peccato.

Nello sviluppo successivo – che poi è rimasto fino ai nostri giorni pressoché im-mutato – la penitenza ha subito una conti-nua svalutazione. Si è sottolineata mag-giormente la confessione dei peccati fino al punto di ritenerla fondamentale e dare al sacramento il nome di Confessione. Si affermò dovunque la prassi che il peniten-te ricevesse l’assoluzione subito dopo la confessione e potesse fare in seguito la pe-nitenza.

Oggi, nella prassi penitenziale della Chiesa, la confessione individuale e la litur-gia penitenziale hanno ciascuna il loro po-sto particolare e insieme queste forme esprimono che penitenza, perdono e ricon-ciliazione appartengono in modo inscindi-bile alla vita della Chiesa.

(da: HANS SCHALK, Confessarsi è difficile: perché?, Roma 1989)

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Sant’Antonio di Padova

Il Papa continua la serie di Catechesi sul Medioevo,toccando la fi gura di uno dei fi gli più eminenti

dell’Ordine francescano: sant’Antonio di Padova.Molto più del “Santo dei miracoli”…

Benedetto XVI

le catechesi del papa

L’incontro con i missionari francescani

Antonio ha contribuito in modo si-gnifi cativo allo sviluppo della spiritua-lità francescana, con le sue spiccate doti di intelligenza, di equilibrio, di ze-lo apostolico e, principalmente, di fer-vore mistico.

Nacque a Lisbona da una nobile fa-miglia, intorno al 1195, e fu battezzato con il nome di Fernando. Entrò fra i Canonici che seguivano la regola mo-nastica di sant’Agostino, dapprima nel monastero di San Vincenzo a Lisbona e, successivamente, in quello della San-ta Croce a Coimbra, rinomato centro culturale del Portogallo. Si dedicò con interesse e sollecitudine allo studio del-la Bibbia e dei Padri della Chiesa, acqui-sendo quella scienza teologica che mise

ari fratelli e sorelle,dopo aver presentato […] la fi gura di France-

sco di Assisi, questa mattina vorrei parlare di un altro santo appartenente alla prima generazione dei Frati Mino-ri: Antonio di Padova o, come viene an-che chiamato, da Lisbona, riferendosi alla sua città natale. Si tratta di uno dei santi più popolari in tutta la Chiesa Cattolica, venerato non solo a Padova, dove è stata innalzata una splendida Basilica che raccoglie le sue spoglie mortali, ma in tutto il mondo. Sono ca-re ai fedeli le immagini e le statue che lo rappresentano con il giglio, simbolo della sua purezza, o con il Bambino Gesù tra le braccia, a ricordo di una miracolosa apparizione menzionata da alcune fonti letterarie.

ad[…

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le catechesi del papaa frutto nell’attività di insegnamento e di predicazione.

A Coimbra avvenne l’episodio che impresse una svolta decisiva nella sua vita: qui, nel 1220 furono esposte le re-liquie dei primi cinque missionari fran-cescani, che si erano recati in Maroc-co, dove avevano incontrato il martirio. La loro vicenda fece nascere nel giova-ne Fernando il desiderio di imitarli e di avanzare nel cammino della perfezio-ne cristiana: egli chiese allora di lascia-re i Canonici agostiniani e di diventare Frate Minore. La sua domanda fu accol-ta e, preso il nome di Antonio, anch’egli partì per il Marocco, ma la Provvidenza divina dispose altrimenti. In seguito a una malattia, fu costretto a rientrare in Italia e, nel 1221, partecipò al famoso “Capitolo delle stuoie” ad Assisi, dove incontrò anche san Francesco. Succes-sivamente, visse per qualche tempo nel totale nascondimento in un convento presso Forlì, nel nord dell’Italia, dove il Signore lo chiamò a un’altra missione. Invitato, per circostanze del tutto ca-suali, a predicare in occasione di un’or-dinazione sacerdotale, mostrò di esse-re dotato di tale scienza ed eloquenza, che i Superiori lo destinarono alla pre-dicazione.

Predicatore e teologo

Iniziò così in Italia e in Francia, un’at-tività apostolica tanto intensa ed effi ca-ce da indurre non poche persone che si erano staccate dalla Chiesa a ritorna-re sui propri passi. Fu anche tra i primi maestri di teologia dei Frati Minori, se non proprio il primo. Iniziò il suo inse-gnamento a Bologna, con la benedizio-ne di Francesco, il quale, riconoscendo le virtù di Antonio, gli inviò una breve lettera, che si apriva con queste parole: «Mi piace che insegni teologia ai frati».

Antonio pose le basi della teologia fran-cescana che, coltivata da altre insigni fi gure di pensatori, avrebbe conosciu-to il suo apice con san Bonaventura da Bagnoregio e il beato Duns Scoto.

Diventato Superiore provinciale dei Frati Minori dell’Italia settentrionale, continuò il ministero della predicazio-ne, alternandolo con le mansioni di go-verno. Concluso l’incarico di Provincia-le, si ritirò vicino a Padova, dove già altre volte si era recato. Dopo appena un anno, morì alle porte della Città, il 13 giugno 1231. Padova, che lo aveva accolto con affetto e venerazione in vi-ta, gli tributò per sempre onore e devo-zione. Lo stesso Papa Gregorio IX, che dopo averlo ascoltato predicare lo ave-va defi nito “Arca del Testamento”, lo ca-nonizzò nel 1232, anche in seguito ai miracoli avvenuti per sua intercessione.

Gli scritti del Santoe la centralità della preghiera

Nell’ultimo periodo di vita, Anto-nio mise per iscritto due cicli di “Sermo-ni”, intitolati rispettivamente “Sermoni domenicali” e “Sermoni sui Santi”, de-stinati ai predicatori e agli insegnanti degli studi teologici dell’Ordine france-scano. In essi egli commenta i testi del-la Scrittura presentati dalla Liturgia, utilizzando l’interpretazione patristico-medievale dei quattro sensi, quello let-terale o storico, quello allegorico o cri-stologico, quello tropologico o morale, e quello anagogico, che orienta verso la vita eterna. Si tratta di testi teologi-co-omiletici, che riecheggiano la predi-cazione viva, in cui Antonio propone un vero e proprio itinerario di vita cri-stiana. È tanta la ricchezza di insegna-menti spirituali contenuta nei “Sermo-ni”, che il Venerabile Papa Pio XII, nel 1946, proclamò Antonio Dottore della

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le catechesi del papaChiesa, attribuendogli il titolo di “Dot-tore evangelico”, perché da tali scritti emerge la freschezza e la bellezza del Vangelo; ancora oggi li possiamo leg-gere con grande profi tto spirituale.

In essi, egli parla della preghiera co-me di un rapporto di amore, che spinge l’uomo a colloquiare dolcemente con il Signore, creando una gioia ineffabile, che soavemente avvolge l’anima in ora-zione. Antonio ci ricorda che la preghie-ra ha bisogno di un’atmosfera di silen-zio che non coincide con il distacco dal rumore esterno, ma è esperienza inte-riore, che mira a rimuovere le distrazio-ni provocate dalle preoccupazioni del-l’anima. Secondo l’insegnamento di que-sto insigne Dottore francescano, la preghiera è articolata in quattro atteg-giamenti, indispensabili, che, nel latino di Antonio, sono defi niti: obsecratio, ora-tio, postulatio, gratiarum actio. Potrem-mo tradurli così: aprire fi duciosamente il proprio cuore a Dio, colloquiare affet-tuosamente con Lui, presentargli i no-stri bisogni, lodarlo e ringraziarlo.

In questo insegnamento di sant’An-tonio sulla preghiera cogliamo uno dei tratti specifi ci della teologia francesca-na, di cui egli è stato l’iniziatore, cioè il ruolo assegnato all’amore divino, che entra nella sfera degli affetti, della vo-lontà, del cuore, e che è anche la sor-gente da cui sgorga una conoscenza spi-rituale, che sorpassa ogni conoscenza.

Scrive ancora Antonio: «La carità è l’anima della fede, la rende viva; senza l’amore, la fede muore» (Sermones Do-minicales et Festivi).

La cura dei poveri

Soltanto un’anima che prega può compiere progressi nella vita spiritua-le: è questo l’oggetto privilegiato della predicazione di sant’Antonio. Egli cono-

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le catechesi del papasce bene i difetti della natura umana, la tendenza a cadere nel peccato, per cui esorta continuamente a combattere l’in-clinazione all’avidità, all’orgoglio, all’im-purità, e a praticare invece le virtù del-la povertà e della generosità, dell’umil-tà e dell’obbedienza, della castità e del la purezza.

Agli inizi del XIII secolo, nel conte-sto della rinascita delle città e del fi ori-re del commercio, cresceva il numero di persone insensibili alle necessità dei poveri. Per tale motivo, Antonio più vol-te invita i fedeli a pensare alla vera ric-chezza, quella del cuore, che rendendo buoni e misericordiosi, fa accumulare tesori per il Cielo. «O ricchi – così egli esorta – fatevi amici… i poveri, acco-glieteli nelle vostre case: saranno poi essi, i poveri, ad accogliervi negli eter-ni tabernacoli, dove c’è la bellezza del-la pace, la fi ducia della sicurezza, e l’o-pulenta quiete dell’eterna sazietà» (Ser-mones Dominicales et Festivi).

Non è forse questo, cari amici, un in-segnamento molto importante anche og-gi, quando la crisi fi nanziaria e i gravi squilibri economici impoveriscono non poche persone, e creano condizioni di miseria? Nella mia Enciclica Caritas in ve-ritate ricordo: «L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamen-to, non di un’etica qualsiasi, bensì di un’e-tica amica della persona» (n. 45).

Gesù Cristo al centro

Antonio, alla scuola di Francesco, mette sempre Cristo al centro della vita e del pensiero, dell’azione e della predi-cazione. È questo un altro tratto tipico della teologia francescana: il cristocen-trismo. Volentieri essa contempla, e in-vita a contemplare, i misteri dell’umani-tà del Signore, in modo particolare, quel-lo della Natività, che gli suscitano senti-

menti di amore e di gratitudine verso la bontà divina.

Anche la visione del Crocifi sso gli ispira pensieri di riconoscenza verso Dio e di stima per la dignità della perso-na umana, così che tutti, credenti e non credenti, possano trovarvi un signifi ca-to che arricchisce la vita. Scrive Anto-nio: «Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi nella cro-ce come in uno specchio. Lì potrai co-noscere quanto mortali furono le tue ferite, che nessuna medicina avrebbe potuto sanare, se non quella del sangue del Figlio di Dio. Se guarderai bene, po-trai renderti conto di quanto grandi sia-no la tua dignità umana e il tuo valore… In nessun altro luogo l’uomo può meglio rendersi conto di quanto egli valga, che guardandosi nello specchio della croce» (Sermones Dominicales et Festivi).

Cari amici, possa Antonio di Pado-va, tanto venerato dai fedeli, intercede-re per la Chiesa intera, e soprattutto per coloro che si dedicano alla predica-zione. Questi, traendo ispirazione dal suo esempio, abbiano cura di unire so-lida e sana dottrina, pietà sincera e fer-vorosa, incisività nella comunicazione.

In quest’anno sacerdotale, preghia-mo perché i sacerdoti e i diaconi svol-gano con sollecitudine questo ministe-ro di annuncio e attualizzazione della Parola di Dio ai fedeli, soprattutto at-traverso le omelie liturgiche. Siano es-se una presentazione effi cace dell’eter-na bellezza di Cristo, proprio come An-tonio raccomandava: «Se predichi Ge-sù, egli scioglie i cuori duri; se lo invo-chi, addolcisci le amare tentazioni; se lo pensi, ti illumina il cuore; se lo leggi, egli ti sazia la mente» (Sermones Domi-nicales et Festivi).

CITTÀ DEL VATICANO10 febbraio 2010

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Vivinello Spirito!

La catechesi biblica su 1Cor 12,1-31 è stata la traccia di rifl essione per l’incontro che la fraternità regionale dei Giovani Francescani

ha vissuto a Chiampo (13-14 novembre 2010), assieme alla Gi.Fra. regionale del Veneto. Ecco la seconda parte.

f. Alessandro CAROLLO

giovani francescani

la capacità di saper predire il futuro, come spesso oggi viene inteso il termi-ne. Piuttosto, la profezia è il dono di sa-per leggere la situazione presente alla luce di Dio, scorgendo i segni della sua presenza e individuando la corretta di-rezione da assumere secondo le indi-cazioni del vangelo.

La glossolalia, invece, è un dono del tutto diverso. La parola è composta dal termine glòssa («lingua») e dal verbo la-lein («parlare») e signifi ca, letteralmen-te, «parlare in lingue (sconosciute)». Si tratta di un parlare sotto l’impulso dello Spirito in una situazione estatica, dove si dicono cose misteriose e incompren-sibili, usando una lingua sconosciuta (cfr. 1Cor 14,2.6-11). Immaginiamoci un credente che, in preda ad una specie di raptus, crei scompiglio durante un’as-semblea liturgica, dimenandosi e dicen-

La fantasia dello Spirito: i carismi

Nella sua predicazione a Corinto, Paolo doveva aver sottolineato a più ri-prese l’importanza di conformare la propria vita di cristiani agli impulsi e alle ispirazioni della grazia divina. Ma questo approccio, pur affascinante, pre-sentò una serie di diffi coltà. I Corinzi, infatti, giunsero a considerare alcune particolari manifestazioni dello Spirito (i cosiddetti «carismi»), quali la profezia o la glossolalia, come le più importanti (e le più desiderate…) per la vita della comunità.

Per profezia (cfr. 1Cor 12,10) si inten-de quel particolare dono dello Spirito che rende capaci di rivolgersi all’as-semblea dei credenti «per loro edifi ca-zione, esortazione e conforto» (1Cor 14,3). Niente a che vedere, dunque, con

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giovani francescani

rato in termini di edifi cazione: è più im-portante quello che aiuta maggiormen-te la comunità a crescere nella fede, è più importante quello che rende i cri-stiani capaci di vivere le relazioni per-sonali nella comunione fraterna e nel-l’attenzione reciproca.

È questo il contesto che spinge Pao-lo a trattare il tema della varietà dei doni dello Spirito. È vero – afferma Paolo in 1Cor 12,4-6 –, ci sono molteplici «cari-smi», «ministeri» e «attività», ma la fon-te da cui essi provengono è unica: «Tut-te queste cose le opera l’unico e mede-simo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole» (1Cor 12,11). La fantasia dello Spirito è davvero senza limiti…

Tali doni, oltre ad avere un’unica fon-te, possiedono anche una medesima fi -nalità: il «bene comune» (1Cor 12,7), cioè l’utilità di tutti (da non intendersi in sen-

do parole sconclusionate, motivandole come una presunta manifestazione del-lo Spirito. Tali eventi richiamavano a Paolo le cerimonie pagane, durante le quali le folle, sull’onda dell’entusiasmo, erompevano in grida incoerenti e fre-netiche. Per questo motivo, l’apostolo, in 1Cor 12,2, ricorda ai membri della co-munità la loro origine pagana: la glosso-lalia, se non viene interpretata (cfr. 1Cor 14,5), non solo non è utile alla chiesa, ma addirittura può correre il rischio di esse-re compresa come una pratica pagana.

Ebbene, nella visione di Paolo l’im-portanza del «carisma» non è dovuta al fatto che esso si manifesti in un mo-do più o meno sensazionale. Piuttosto, il valore del dono dello Spirito va misu-

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giovani francescani

so politico, ovviamente!). Sebbene si trat-ti di doni distinti e personali, essi non sono tuttavia un possesso es clusivo del-la persona: i propri talenti, le proprie capacità, le proprie competenze devono essere messe a servizio di tutti, devono essere usate in favore della comunità, hanno uno scopo fraterno. I carismi non servono per esaltare il singolo, ma per co-struire fraternità e comunione, per strin-gere relazioni, per venire incontro al più debole. Non si vive secondo lo Spirito se si usano i propri talenti e i propri «cari-smi» per ergersi sopra gli altri, per met-tersi su un piedistallo, facendo magari pesare sugli altri la nostra presunta su-periorità.

C’è un modo “spirituale” (cioè se-condo lo Spirito) di mettere a servizio i propri carismi, ed è quello che crea legami, che non esclude nessuno, che sa ascoltare le esigenze di tutti, so-

prattutto dei più deboli e indifesi; in una parola, un modo che edifi ca la fraternità. C’è invece un modo “carnale” (cioè contrario allo Spiri-to) di usare i propri doni, ed è quel-lo che crea competizione, invece di comunione, che crea tensioni e divisioni, invece di relazioni fra-terne.

Come il corpo, come il pane…

Per rendere ancora più effi -cace e incisivo il suo messaggio, Paolo paragona la comunità cri-stiana al corpo umano: come le diverse membra contribuiscono a formare l’unità del corpo e a offrire benessere ad ogni singo-lo membro, così è della comuni-tà ecclesiale, che è costituita e

attuata dalla pluralità e diversità dei doni spirituali.

Anche se può sembrare strano e pa-radossale, l’unità precede e fonda la di-versità. Non basta gettare a casaccio mattoni, sabbia, acqua e cemento per costruire una casa. Ci vuole un proget-to e qualcuno che lo esegua. La tessera di un puzzle è poco più di una macchia di colore dai contorni indefi niti, fi no a quando non è agganciata alle altre e non viene collocata nel posto appro-priato. Ma se non si conosce il disegno che ne dovrà risultare, sarà impossibi-le ricostruire il puzzle!

Allo stesso modo, il corpo umano è qualcosa di più della semplice giunzio-ne e collaborazione delle diverse parti: è lo Spirito Santo – donato attraverso il battesimo (cfr. 1Cor 12,13) – che, a par-tire dalla diversifi cazione delle mem-bra (che rappresentano i cristiani do-tati di carismi differenti), crea una re-altà nuova, che è il «Corpo di Cristo» (1Cor 12,27).

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giovani francescanimalcontento, per il fatto che un componente aveva più o meno doni di un altro… Eppure, a ben vedere, nessuno di noi è un’iso-la! Ogni persona, nella comuni-tà, è chiamata a dare il suo con-tributo, altrimenti rimarrà uno spazio vuoto, che non potrà essere preso da nessun altro. È lo Spirito, in defi nitiva, che è al tempo stesso artefi ce dell’u-nità e principio della diversità: Egli è come un pittore che dà alla tela tutte le sfumature del colore e della luce, crean-do un capolavoro di valore inestimabile!

Se vogliamo tirare le con-seguenze di tutto questo, ne deriva che nessuno di noi, da solo, può essere «Corpo di Cristo», nessuno di noi, da solo, può arrivare alla pienezza della vita cristiana. È solamente all’interno del-la comunità ecclesiale (e,

per noi, della fraternità fran-cescana) che si può scoprire e realiz-zare la propria vocazione, mettendo a servizio l’uno dell’altro i carismi che lo Spirito ha distribuito a ciascuno.

Non possono esistere un credente, un santo, un francescano, ma solo una comunità di credenti, una comunità di santi, una fraternità francescana, esat-tamente come non può esistere un cor-po fatto di un solo membro. La dimen-sione di fede, se da una parte richiede l’adesione personale, franca e coerente alla persona di Gesù, dall’altra possie-de una caratteristica essenzialmente comunitaria, perché il Signore ci ha chiamati a far parte della sua Chiesa, che è il suo Corpo.

Per questo i campanilismi, le ten-sioni tra i diversi gruppi cristiani in no-me di una presunta superiorità – quasi

Certo, le caratteristiche proprie di ciascuna delle membra rimangono in-variate (il piede non è l’orecchio, la ma-no non è l’occhio), ma tutte insieme formano il corpo. Anche il pane è fatto così: tanti grani macinati insieme, im-pastati con l’acqua e insaporiti dal sale, vengono cotti per formare la fragrante pagnotta. Da qui all’Eucaristia, il pas-so è breve…

Nel corpo umano, come nella co-munità ecclesiale, la diversità non è un ostacolo, ma una necessità; non è un rischio, ma un’opportunità. E tuttavia, l’immagine utilizzata dall’apostolo suggerisce che all’interno della comu-nità di Corinto – e forse anche all’inter-no delle nostre comunità – c’era del

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che nella Chiesa ci fossero comunità elitarie ed altre di serie B – l’incapacità di accet-tare un’osservazione o una critica, la diffi coltà nell’atten-dere chi non ha il nostro pas-so spedito, la fatica nell’acco-gliere e nel perdonare il fra-tello sono i sintomi diffusi di una malattia estremamente diffusa oggi: l’individualismo, che altro non è che la nega-zione pratica della comunità come «corpo».

Un passaggio delle paro-le di Paolo doveva risuonare in modo particolare agli orec-chi dei Corinzi, ed è il se-guente (1Cor 12,22-26):

Proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del cor-po che riteniamo meno onorevo-li le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose so-no trattate con maggiore decen-za, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un mem-bro soffre, tutte le membra sof-frono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioi-scono con lui.

Le parole dell’apostolo la-sciano intravvedere, dietro la metafora, la realtà concreta della comunità di Corinto. Egli rileva anzitutto l’aspetto paradossale che regola i rap-

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giovani francescanimembra abbiano cura le une delle altre (1Cor 12,24b-25)». A questo punto, di-venta chiaro il motivo per cui Paolo si esprime così. La comunità di Corinto si trovava ad essere come un corpo dove ci sono «divisioni» (schìsma, in greco: lo stesso termine è usato anche in 1Cor 1,10; 12,25), e questo per il fatto che le membra più forti non si prendevano cura delle più «deboli» (l’aggettivo as-thenès è usato anche in 1Cor 8,7.9.10 per indicare coloro che non possiedo-no una fede solida e matura).

Paolo ha lasciato alla comunità un invito esplicito: prendersi cura l’un l’al-tro, in particolare del più debole. È que-sto che rende sano e armonioso il cor-

porti tra le diverse membra del corpo. Infatti, proprio le membra più deboli sono le più necessarie; quelle disono-revoli sono circondate con maggiore rispetto; quelle che mancano di decoro (come gli organi preposti ai bisogni fi -siologici e alla riproduzione) sono trat-tate con maggiore decenza.

Inoltre, alla fi ne del brano, l’Aposto-lo fa notare come un tale trattamento corrisponda ad una disposizione divi-na: infatti, è stato Dio che ha composto «il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie

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giovani francescanipo ecclesiale. È questo l’antidoto con-tro il diffuso individualismo che colpi-sce anche le nostre comunità. Come ogni parte del corpo dipende da un’al-tra, così ogni fratello della comunità dipende dall’altro.

Se un membro è malato, lo si deve curare, altrimenti tutto il corpo ne ri-sentirà. E lasciarsi curare non è meno importante di curare: a volte, a motivo di una falsa umiltà, non permettiamo che qualcuno possa occuparsi di noi, donandoci tempo e attenzione, e allo stesso tempo siamo pronti ad accusare gli altri di non aver fatto nulla per risol-levare la nostra situazione di sofferen-za… Così la ricchezza e la bellezza del-la diversità si trasforma in un incubo per tutti, dove si assiste impotenti alla morte della comunità.

La via più sublime…

Dopo aver parlato di carismi mol-teplici, di membra diverse che forma-no un unico corpo, ci si può chiedere: c’è un carisma essenziale, fondamen-tale, un dono che non deve mai manca-re, a nessun cristiano e per nessun motivo?

Paolo risponde a questa domanda, affermando che la «via più sublime» è

quella dell’amore! Se è vero che «l’amo-re di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5), allora il carisma per eccellenza dello Spirito è proprio la «carità» (1Cor 13,1-8):

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sa-rei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.

E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.

E se anche dessi in cibo tutti i miei be-ni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfi a d’orgoglio, non manca di rispet-to, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tut-to spera, tutto sopporta.

La carità non avrà mai fi ne.

Si potrebbe dire che la vita secondo lo Spirito è tutta qui! E allora, vivi nello Spirito! Vivi d’amore!

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Rifletti & Condividi

1. Dove riconosci la presenza nascosta ma reale dello Spirito di Dio nella tua vita? Preghi lo Spirito?

2. Quali comportamenti che hai assunto e quali scelte che hai fatto sono segnati dallo Spirito? Quali invece dalla «carne»?

3. Ti è mai capitato di aver tirato in ballo Dio oppure la fede per giustificare le tue scelte che poco avevano a che fare con lo Spirito? Perché l’hai fatto? Ti sei reso/a conto di aver sbagliato? Come ti sei sentito/a in quell’occasione? Come hai superato quel momento? Chi o cosa ti ha aiutato a superarlo?

4. «Non si tratta solo di confessare la fede a parole, ma di viverla: occorre, in altri termini, fare nostra “la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6), non quella che rimane a livello del-le buone intenzioni o dei buoni proposi-ti. Se Gesù è il termine di paragone per la vita del cristiano, allora occorre chie-dersi sempre: “Come si comporterebbe Gesù in questa occasione?”; “Questa scelta è fatta secondo lo stile del Vange-lo o secondo il mio pensiero e il mio in-teresse?”; “In quale modo lo Spirito de-sidera in questo momento che assomi-gli a Gesù?”».

Quali riflessioni, quali provocazioni, qua-li indicazioni di vita ti suggerisce questo paragrafo?

5. In quale parte del corpo “ecclesiale” ti identifichi? Quale dono o carisma perso-nale ti senti chiamato/a a mettere a di-sposizione della tua fraternità e della Chiesa?

6. Ci sono state delle occasioni in cui hai usato i tuoi doni personali, i tuoi «cari-smi» non per costruire fraternità e co-munione, ma per metterti su un piedi-stallo, magari facendo pesare agli altri la tua superiorità?

Sai riconoscere con serenità i tuoi doni e quelli degli altri?

7. «I campanilismi, le tensioni tra i diversi gruppi cristiani in nome di una presunta superiorità – quasi che nella Chiesa ci fossero comunità elitarie ed altre di se-rie B – l’incapacità di accettare un’osser-vazione o una critica, la difficoltà nell’at-tendere chi non ha il nostro passo spe-dito, la fatica nell’accogliere e nel perdonare il fratello sono i sintomi diffu-si di una malattia estremamente diffusa oggi: l’individualismo, che altro non è che la negazione pratica della comunità come “corpo”».

Quali di questi sintomi avverti nella tua vita?

8. Sai prenderti cura dei più deboli? Chi so-no questi “deboli” di cui sei chiamato/a ad occuparti?

Permetti che gli altri si prendano cura di te?

9. In quale ambito della tua esistenza fai maggiormente fatica a vivere la carità come dono dello Spirito?

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perché la nostra vita, Tuo Vangelo in-carnato,

sia espressione nel mondo:del Tuo gesto,del Tuo insegnamento ,della Tua Parola.Signore, rimani con noi:Vogliamo vivere in Te.Vogliamo:Essere la Tua presenza nel mondo.Amare come Tu ci amiIlluminare con la Tua LuceCostruire la pace, seguendo i Tuoi pas-

si.Perché il mondo creda in Te, Dio del-

la Vita.Aiutaci a trasformarci completamen-

te in Te, nella contemplazione del Tuo mistero,

perché nella comunione siamo sem-pre portatori:

della Tua Pacedel Tuo Amoredella Tua Salvezza. Amen.

Un abbraccio,

Fra Emerson, cappuccino

aro padre Luciano Pasto-rello, sono Fra Emerson Rodrigues, cappuccino brasiliano; abito presso

il Collegio San Lorenzo di Roma, e leg-go sempre con piacere la vostra rivista ViaLibera.

Ho scritto questa preghiera che pen-savo di condividere con voi e con i let-tori di ViaLibera, se lo ritenete opportuno.

Preghiera di Contemplazione

Signore Gesù,convertici ed apri i nostri cuori total-

mente.Tu che ci amiTu che ci chiami:Vogliamo seguirTi.Tu sei la sorgente della nostra vita.Dacci la Tua forza.Trasforma la nostra vita nella Tua vita.La nostra preghiera sia il frutto di un

dialogo amoroso con il Padre.La nostra intimità con la Trinità ci por-

ti ad approfondire il mistero.Vogliamo pregare molto per amare

molto…Ti chiediamo di vivere in noi,

Caro padre…

Pubblichiamo il testo di un’email giunta in Redazione qualche giorno fa,scritta da un nostro confratello brasiliano.

f. Emerson RODRIGUES

Lettere alla R

edazione

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la rivista in “ordine inverso” per giovani “secondo Dio”1gennaio-

febbraio

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