Viaggio di Solidarietà - V Edizione (Diario di Viaggio)
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08 Autunno
[Mire se vini ne Kosove]
b e l o v e r e v o l u t i o n . o r g
Diario del V Viaggio di Solidarietà 11 – 20 agosto 2012
di CORRADO SIRAGUSA
Sommario Introduzione ........................................................................................................................ 3 Da Palermo al Kosovo ....................................................................................................... 4 In viaggio, dai libri e lo studio, alle persone e i territori
Aeroporto di Palermo, 9 agosto 2012 Ti con nu, nu con Ti ........................................................................................................... 5 Montenegro: Perasto e Cattaro
12 agosto 2012 Mire se vini ne Kosove ...................................................................................................... 7 Peć - Goradzevac
13 agosto 2012 Nelle Enclavi ....................................................................................................................... 9 Dečani – Villaggio Italia – Velika Hoca
14 agosto 2012 Mondi balcanici ................................................................................................................ 12 Velika Hoca – Prizren
15 agosto 2012 Jelika, coraggio e umanità oltre ogni limite .................................................................. 15 Prizren – Silovo
16 agosto 2012 Da qui non si torna indietro ............................................................................................ 17 Cucine popolari – Grazanica – Mitrovica
17 agosto 2012 Belgrado ............................................................................................................................ 20 Settimo giorno
18 agosto 2012
3
Introduzione
Già la quinta edizione.
Da una necessità pratica – quella di portare a
destinazione gli aiuti raccolti – i Viaggi di
Solidarietà sono tramutati, nel corso del tempo, in
uno degli aspetti essenziali per il sostegno e lo
sviluppo delle stesse azioni di solidarietà.
Sotto il profilo umano e di percorso personale
garantiscono un’esperienza unica, a poche ore di
auto da casa, dove poter ricollocare le proprie
priorità in fatto di valori e di cose veramente
importanti;
l’aspetto sociale garantisce invece il fiorire di
nuove amicizie, anche – e soprattutto – tra
persone con diversi retroterra culturali, visioni del
mondo e atteggiamenti, che ‘a casa’ avrebbero
avuto difficilmente l’occasione di confrontarsi,
soprattutto con quel pathos e sincerità che si
creano naturalmente durante la visita e
l’esperienza di contesti difficili, di povertà e di
violenza;
l’aspetto solidaristico è quello che, più di tutti,
rende il viaggio, non il semplice macinare 3.500
km in poco più di una settimana, ma una meta
metafisica e simbolica che altro non è che il
trovare sé stessi, centrarsi, una metafora che riesce
a coniugare l’essere utili a qualcuno che ne a
bisogno con l’essere utili a sé stessi.
Niente di nuovo, comunque: io ho quel che ho
donato, recita il motto dannunziano.
Corrado è uno dei ragazzi che da deciso di
mettersi in discussione in un viaggio di otto giorni
tra esperienze nuove, con compagni di viaggio
sconosciuti, in una terra che aveva studiata grazie
al suo percorso di studi, culminando in una tesi
“Kosovo, una storia balcanica” che affronta la
storia della regione dall’etimologia del nome fino
ai fatti di violenza degli ultimi anni.
La sua esperienza e le sue emozioni li restituisce
in questo diario di viaggio.
È un pensiero personale la cui condivisione
riteniamo importante, non solo per il racconto in
sé, ma anche per lo slancio che può dare ad altre
persone a voler intraprendere una strada di ricerca
personale e di aiuto verso gli altri.
A lui va il nostro ringraziamento per avere
trasferito su carta i pensieri e le emozioni,
permettendoci di poterli quindi condividere con
tutti.
Cogliamo l’occasione per rivolgere un sincero
ringraziamento a Giorgio De Rocchis, instancabile
e prezioso nella creazione di relazioni e la raccolta
di materiali e aiuti; a Davide, Guido, Muppet,
Elisa (fotografa eccezionale), Massimo, Simone,
José, Carlo, Michael, Matteo e Chiara, Jacopo,
Marcello, Daniele, Stefano e Benedetta per la
compagnia, la pazienza e il pensiero che
giornalmente dedicano alle famiglie delle enclavi.
BeLoveRevolution
“L’essenziale è invisibile agli occhi” Il Piccolo Principe
Antoine De Saint-Exupéry
4
Da Palermo al Kosovo In viaggio. Dai libri e lo studio, alle persone e i territori
Aeroporto di Palermo, 9 agosto 2012
Sono circa le venti e sono in procinto di
imbarcarmi per Venezia, destinazione Sacile,
bellissima cittadina friulana già appartenente alla
Serenissima.
Lì mi aspetta “nonno” Fabio Franceschini, di
LOVE, un’associazione che da un po’ di tempo a
questa parte ha preso a cuore la drammatica
situazione in cui versano i serbi che abitano le
piccole enclavi del Kosovo, regione serba a
maggioranza albanese autoproclamatasi
indipendente quattro anni fa, sotto il bene placito
degli Stati Uniti e buona parte dell’Unione
Europea.
Nonostante la presenza delle forze di “pace” della
Nato, dell’Onu e della stessa Unione Europea, il
Kosovo è ancora oggi una zona molto instabile.
La disoccupazione è altissima e l’economia ruota
quasi del tutto intorno agli affari illeciti:
prostituzione, traffico di armi e di sostanze
stupefacenti.
La cosa più orribile rimane, però, un altro traffico:
quello di organi umani, adesso ristretto solo alle
“donazioni” dei poveri, costretti a questo dalla
fame, ma che in un passato abbastanza recente ha
visto coinvolti centinaia di serbi e dissidenti del
famigerato Uck (comandato da chi oggi siede
sulla poltrona di Premier - il “serpente” Thaci - e
di capo dell’opposizione, Haradjnai), rapiti,
seviziati e, infine, sezionati.
Il viaggio che mi accingo a intraprendere ha inizio
circa sei mesi addietro, quando, preso da
confusione e dubbi, ho scelto di imboccare una
nuova e tortuosa strada.
Del Kosovo sapevo poco. Una piccola regione dei
Balcani tormentata da guerre e violenze, così
come quasi tutte le terre di quella zona, la
polveriera d'Europa per antonomasia.
Non mi vergogno a dire che la mia curiosità e il
mio interesse avevano avuto inizio dopo aver
visto le “gesta” poco gentili di un hooligan serbo
in Italia. Azioni che venivano condannate ma che
non venivano spiegate a fondo. Una bandiera
albanese in fiamme, tanti striscioni inneggianti
alla ‘serbità’ del Kosovo, il saluto a tre dita dei
calciatori serbi verso gli ultras, interpretato come
monito a un'eventuale sconfitta a tavolino.
Ho iniziato a documentarmi e a parlarne con un
mio professore albanese, con il quale è sorto un
piacevole scambio di opinioni e libri, culminato
con una bella tesi di laurea e con un altrettanto
soddisfacente voto finale.
Ma non mi è bastato: quello che sapevo e che ho
riportato nel mio lavoro era comunque qualcosa di
“seconda mano”, non vissuto con la mia pelle né
visto coi miei occhi.
Questo viaggio ha rappresentato dunque il
culmine di questo lavoro, diciamo, intellettuale, e
perché no, il punto di partenza di un nuovo
percorso individuale.
Perasto
Ti con nu, nu con Ti Montenegro: Perasto e Cattaro
12 agosto 2012
Dopo diciotto ore di traghetto è la dogana
montenegrina a darci il benvenuto tenendoci
impalati un'ora al porto di Bar. Risaliti sul
pulmino, prendiamo la strada che porta a Perasto,
importante città appartenente alla repubblica della
Serenissima e l'ultima ad ammainare il gonfalone
con la bandiera di San Marco all'indomani del
tradimento di Napoleone e conseguente avanzata
in zona delle truppe austro-ungariche1.
1 Da cui la famosa allocuzione del Conte Giuseppe Viscovich, Capitano di Perasto, tenuta il 23 agosto 1797: In sto amaro momento, che lacera el nostro cor; in sto ultimo sfogo de amor, de fede al Veneto Serenissimo Dominio, el Gonfalon de la Serenissima Repubblica ne sia de conforto, o Cittadini, che la nostra condotta passada che quela de sti ultimi tempi, rende non solo più giusto sto atto fatal, ma virtuoso, ma doveroso per nu. Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l'Europa, che Perasto ha degnamente sostenudo fino all'ultimo l'onor del Veneto Gonfalon, onorandolo co' sto atto solenne e deponendolo bagnà del nostro universal amarissimo pianto. Sfoghemose, cittadini, sfoghemose pur; ma in sti nostri ultimi sentimenti coi quai In sto amaro momento, che lacera el nostro cor; in sto ultimo sfogo de amor, de fede al Veneto Serenissimo Dominio, el Gonfalon de la Serenissima Repubblica ne sia de conforto, o Cittadini, che la nostra condotta passada che quela de sti ultimi tempi, rende non solo più giusto sto atto fatal, ma virtuoso, ma doveroso per nu. Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l'Europa, che Perasto ha degnamente sostenudo fino all'ultimo l'onor del Veneto Gonfalon, onorandolo co' sto atto solenne e deponendolo bagnà del nostro universal amarissimo pianto. Sfoghemose, cittadini, sfoghemose pur; ma in sti nostri ultimi sentimenti coi quai
Il paesaggio che osserviamo risalendo lungo i
fiordi della scogliera montenegrina lascia senza
fiato. Boschi, verde e mare si mischiano, casette
di campagna e piccole chiese sorgono a ridosso di
queste piccole foreste quasi a strapiombo sul mare.
Grosse e pacchiane costruzioni a ridosso della
costa ed enormi scheletri di cemento lungo la via
fanno per un attimo ritornare bruscamente a quella
che da noi è la normalità, sebbene in scala minore.
Ma, si sa, è il progresso.
Perasto è un piccolo borgo veneziano affacciato
su un golfo circondato da ettari di bosco. A circa
cinquecento metri dalla spiaggia sorgono due
isolette con due piccole chiese. Un gioiello,
soprattutto al tramonto.
sigilemo la nostra gloriosa carriera corsa sotto el Serenissimo Veneto Governo, rivolzemose verso sta Insegna che lo rappresenta e su ela sfoghemo el nostro dolor. Per trecentosettantasette anni la nostra fede, el nostro valor l'ha sempre custodìa per tera e par mar, per tutto dove né ha ciamà i so nemici, che xe stai pur queli de la Religion. Per trecentosettantasette anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite le xe stae sempre per Ti, o San Marco; e felicissimi sempre se semo reputà Ti con nu, nu con Ti; e sempre con Ti sul mar nu semo stai illustri e vittoriosi. Nissun con Ti n'ha visto scampar nissun con Ti n'ha visto vinti o spaurosi! Se i tempi presenti, infeicissimi per imprevidensa, per dissension, per arbitrii illegai, per vizi offendenti la natura e el gius de le zenti, no Te avesse tolto dall'Italia, per Ti in perpetuo sarave stae le nostre sostanze, el sangue, la nostra vita, e piutosto che vederTe vinto e desonorà dai Toi, el coraggio nostro, la nostra fede se avarave sepelio soto de Ti!Ma za che altro no resta da far per Ti, el nostro cor sia l'onoratissima To tomba e el più puro e el più grande elogio, Tò elogio, le nostre lagreme.
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Nonostante l'abbondante presenza di turisti, pace e
tranquillità circondano il tutto, facendoci godere
pranzo e passeggiata digerente, conclusa con la
salita sul campanile del duomo, dove il buon
Fabio, impersonando per un attimo il suo
celeberrimo avo Giuseppe Viscovich, fa
sventolare – mi piace pensare – per la prima volta
dopo duecento anni la bandiera del leone “tibi
pax”.
le bocche di Cattaro
Concludiamo il pomeriggio con la consueta birra
in un simpatico locale sul molo, pieno di serbi e
montenegrini che ci guardano e sorridono,
incuranti del nostro frastuono ed entusiamo.
A cena ci spostiamo nella città di Cattaro,
distante poco meno di venti minuti da Perasto. Sul
lungo mare svettano gli yatch pluripiano degli
sceicchi dell'est, i russi, abili a far propria questa
splendida zona dell'Adriatico. Di fronte, in una
piazzetta, un gruppo folk inscena un balletto
intonando un canto popolare balcanico, dalle
melodie simili a quelli delle feste nuziali di Grecia.
Oltrepassiamo il gruppo e ci troviamo davanti le
mura dell'antica città e una porta ad arco , che
anticamente portava sul frontone lo stemma del
leone veneziano, sostituito nel 1942 da una poco
discreta stella comunista.
Entrati all'interno, rimango quasi senza parole alla
vista che mi si presenta davanti: una bellissima e
grande piazza lastricata in marmo e una
moltitudine di case antiche che si affacciano su di
essa, quasi a far perdere ogni concezione di tempo
e luogo.
Proseguendo tra viuzze e vicoli, lo spettacolo che
si fa avanti è sempre più bello e affascinante:
chiese, cappelle votive, negozi artigianali, locali
vari, tutti all'interno di questa suggestiva cornice.
Solo i maxi-schermi dei bar che trasmettono le
Olimpiadi rompono un po' l'atmosfera, ma si può
benissimo chiudere un occhio e far finta di niente.
La serata termina con l'ennesima bevuta e la
miliardesima battuta sulla bravura delle ragazze
autoctone. È l'una e siamo quasi tutti a letto.
Domani la sveglia è prevista alle 5.
Ci aspettano circa sei ore di viaggio, oltrepassare
la frontiera e giungere in Kosovo.
Dove, quasi certamente, voglia di stare allegri ce
n'è ben poca,
sul Passo di Kula, tra Montenegro e Kosovo
Mire se vini ne Kosove Peć - Goradzevac
13 agosto 2012 La levataccia all’alba ci fa mettere subito in
marcia per il Kosovo. Percorrendo le montagne
del Montenegro i panorami che si susseguono
sono sempre più suggestivi e affascinanti: boschi,
colline, scogliere ed enormi foreste, su fino al
confine kosovaro.
Circa otto ore di pulmino ci fanno arrivare
finalmente a destinazione, dopo un percorso
montanaro a dir poco ardito. Giungiamo alla
dogana e un cartello scritto in albanese,
accompagnato dalla bandiera blu a sei stelle (che
raramente incontreremo nel nostro soggiorno) ci
dà il benvenuto in Kosovo. Al posto di frontiera
abbiamo modo di assistere ad una scena
emblematica: un gruppo di bambini che vendono
bibite in lattine ormai scolorite, accerchiano i
nostri mezzi cercando di venderci qualcosa.
Immediatamente, i pochi spiccioli raccolti,
finiscono nelle mani del loro capo, un ragazzino
di dodici anni seduto a bere e a fumare all'ombra
di un albero.
Riprendiamo il tragitto e arriviamo dopo qualche
minuto a Peć, città sede del Patriarcato di Serbia.
Anche qui la prima impressione non è delle
migliori: bandiere americane e albanesi un po'
ovunque, monumeti all'Uck e cimiteri nei giardini
di casa, decine e decine di autolavaggi e pompe di
benzina.
Pranziamo e ci mettiamo in cammino per visitare
il bellissimo monastero, già patrimonio
dell'Unesco.
Ad attenderci all'ingresso una pattuglia di soldati
sloveni della KFOR2, un blindato e diversi metri
2 La forza di intervento che a seguito della campagna aerea è entrata e si è dislocata in Kosovo è denominata Kosovo FORce (KFOR). L'Italia partecipa alla Forza sotto comando NATO con una Multinazional Task Force - West (MNTF-W) insieme a Spagna, Ungheria, Slovenia e Romania. L'area di responsabilità affidata alla MNTF - W è il settore Ovest del Kosovo. La Missione Internazionale a guida NATO è stata autorizzata dalla Risoluzione n. 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 10 giugno 1999. La forza della Missione è di circa 16.000 uomini suddivisi fra le seguenti nazioni: Estonia, Ungheria, Olanda, Norvegia, Portogallo e Regno Unito nell'ambito del
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di cavallo di frisia. Anche questo luogo di culto,
come tanti altri sparsi in Kosovo, ha subito le
violenze degli scontri recenti, costringendo le
monache a far costruire un enorme muro di cinta a
protezione.
tra le mura affrescate della chiesa del Patriarcato
La serenità e la pace respirate all'interno si
scontrano brutalmente con quello che la città di
Peć ci offre fuori: sporcizia, fogne a cielo aperto,
povertà e macchinoni targati Germania o Svizzera.
Ci fermiamo a pranzare per poi ripartire
immediatamente alla volta di Goradzevac, la
seconda meta del nostro viaggio odierno. Qui il 13
agosto del 2003 un commando di terroristi
albanesi fece fuoco su un gruppo di persone che
facevano il bagno nel vicino torrente3. Il bilancio
fu atroce: due ragazzini uccisi e diversi feriti. Comando Kfor a Pristina; Repubblica Ceca, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Slovacchia e Svezia nell'ambito della MNTF - C; Francia, Belgio, Danimarca, Grecia, Luxemburgo, Marocco, Estonia nell'ambito della MNTF - N; Germania, Austria, Azerbaijan, Bulgaria, Georgia, Svizzera e Turchia nell'ambito della MNTF - S; Italia, Ungheria, Romania, Slovenia, e Spagna nell'ambito della MNTF - W; Stati Uniti d'America, Armenia, Grecia, Lituania, Polonia, Romania e Ucraina nell'ambito della MNTF - E. Un totale di 34 Nazioni. Il Comando della MNTF - W, a guida italiana, è dislocato a Belo Polje (PEC). Iniziata il 12 giugno 1999 la missione è tutt'ora in corso. 3 Per un gruppo di ragazzi serbi, l’unica speranza di trovare qualche ora di refrigerio e di divertimento (si fa per dire, siamo in Kosovo…) è quella di prendere le biciclette, percorrere pochi metri ( anche se il rischio è alto, altissimo, quando si varcano i “confini” di quella “riserva indiana” che è l’enclave) e bagnarsi nel fiume, il Bistric, che passa appena fuori la piccola enclave di Goradzevac, unico abitato serbo (circa 800 persone) nella parte occidentale del Kosovo, ormai territorio quasi completamente monoetnico albanese, dopo la “fine” della guerra e l’intervento “umanitario” della NATO. Una corsa in bicicletta, una nuotata nel fiume … un’idea “normale”: ma in Kosovo per i Serbi non c’è niente di “normale”, non c’è alcun dirittto, alcuna garanzia, neanche quella elementare, per dei ragazzi, di fare il bagno in un fiume in un caldo giorno d’estate. Così “l’imprudenza” di ragazzi innocenti ha come immediato risultato la pronuncia (forse decisa da ragazzi come loro, della stessa età) di una condanna a morte collettiva: estremisti albanesi fanno fuoco contro i ragazzi, dalla riva opposta del fiumicciatolo. Due ragazzi serbi, uno di 11 anni, Pantelja Dakic, e uno di 19, Ivan Jovovic, muoiono subito, altri tre sono feriti gravemente; uno, Bogdan Bukumiric, di 15 anni, è in coma. Gli ospedali gestiti da medici albanesi si rifiutano di accoglierli; i feriti sono trasportati all’ospedale militare di Belgrado, mentre ai monaci di Decani e alle suore di Pec viene impedito di raggiungere il luogo dell’eccidio. Una strage senza precedenti, dalla cosiddetta “fine” della guerra a oggi. (Maria Lina Veca, Tibereide, agosto 2003)
L'atmosfera in questa enclave è surreale, come del
resto lo sarà in tutte le altre che avremo modo di
visitare. La sera, dopo aver cenato nella locanda
del grande Berti, ex-nazionale jugoslavo di sci ed
irriducibile compagno comunista, ci spostiamo in
quattro verso il centro di Goradzevac. I primi
sguardi a metà tra curiosità e diffidenza degli
abitanti del luogo, si sciolgono brevemente in una
bevuta rilassata e goliardica. Ci dicono di essere
tifosi della Stella Rossa. Li conquistiamo parlando
di calcio, è ovvio, e del nostro viaggio. Dusan,
uno dei ragazzi presenti, parla un buon italiano.
Mi racconta delle difficoltà a vivere in un luogo
che non offre nulla a un giovane, costretto solo a
scappare da lì. Lui ha 22 anni, così come Darko, il
proprietario del minuscolo chioschetto di plastica
e lamiera che sorge su Piazza Italia. Ci parlano
benissimo degli italiani della Kfor, che qui han
fatto un ottimo lavoro di protezione e che, da poco,
riescono a garantire qualche posto di lavoro anche
ai serbi, su a Villaggio Italia. Vedo un sacco di
giovani guardarci e alzare la voce per farsi notare.
Dusan mi spiega come per loro sia impossibile
andare a Peć o semplicemente allontanarsi dal
villaggio. Hanno amici albanesi, ma il vederli
assieme causerebbe parecchie rogne a tutti.
Facciamo una foto insieme mentre sullo sfondo
gli altri ragazzi ci salutano in italiano.
So che questa serata sarà per loro motivo di
conversazione per tanto e tanto tempo ancora.
So che questa serata sarà un'esperienza che non
scorderemo più.
il Monastero di Visoki Dečani
Nelle Enclavi Dečani – Villaggio Italia – Velika Hoca
14 agosto 2012
Salutato Berti e il suo amico a quattro zampe
Fidel, ripartiamo col pulmino alla volta di Dečani.
Alla denominazione ufficiale di Kosovo si associa
il secondo nome di Metochia, terra dei monasteri.
È proprio qui, a Dečani, che sorge forse il
monastero più importante della Serbia e per i serbi.
Da qui è nata la storia di questo popolo e di questa
terra, è qui che si respirano arte, storia e tradizione.
Ed è qui che anche il più ateo al mondo corre il
serio rischio di fare alcuni passi indietro.
Francesco ci accompagna. È siciliano come me,
ha circa cinquant’anni, una moglie e figli e da
qualche tempo ha deciso di intraprendere la via
dell'ortodossia. Ha un carisma e un'arte oratoria
talmente forte che è difficile non rimanere
ipnotizzati dalle sue spiegazioni.
Spesso si reca a Dečani, dove vive con i monaci
del monastero. È membro e attivissimo
organizzatore di eventi dell’associazione “Amici
di Dečani” di cui fan parte, tra gli altri, anche il
filosofo Massimo Cacciari e Vittorio Sgarbi.
Oggi ci ha fatto da guida, spiegandoci passo passo
e per più di un'ora la magnifica storia di questo
luogo quasi incantato e immune al passare del
tempo.
La chiesa custodisce uno dei pezzi di storia ai
quali i serbi sono legati a doppio filo, la battaglia
di Kosovo Polje4.
4 La battaglia della Piana dei Merli, venne combattuta il 15 giugno 1389 (il giorno di San Vito) dall'esercito serbo contro l'esercito ottomano, nella "Piana dei Merli", (odierna Kosovo Polje a nord di Pristina. L'esercito cristiano, guidato dal principe serbo Lazar Hrebeljanović, contava circa 25.000 uomini ben armati. L'esercito ottomano era guidato dal sultano Murad I e contava circa 50.000 uomini. La battaglia iniziò favorevolmente per i serbi, ma gli Ottomani furono raggiunti da cospicui rinforzi e la situazione ribaltò. Pressoché tutta la nobiltà serba si fece uccidere sul posto insieme al Knez Lazar.
10
Nel 1392, la regina Milica, moglie del principe
Lazar, alla morte del proprio amato e dei suoi due
figli in battaglia, fece raccogliere tutte le armi dei
guerrieri serbi sparse nella piana dei merli, le fece
fondere e col ferro ottenuto fece costruire un
grandissimo lampadario circolare, sul quale
campeggiano le quattro “S” simbolo di Serbia e i
nomi dei più illustri guerrieri caduti in quella
battaglia.
l’incontro con il col. Longo
Il tempo passato in compagnia di Francesco nel
monastero vola inesorabile, diamo l'arrivederci ai
monaci per la cena e ripartiamo alla volta di
Villaggio Italia, la base militare dei nostri soldati
in Kosovo.
Colonnello, capo missione e cappellano ci
attendono all'ingresso, salutandoci molto
calorosamente.
Parlare davanti al cibo è sempre la cosa migliore,
si sa, e così andiamo con loro nella mensa, ad
In seguito gli ottomani annetterono il resto del Regno di Serbia, completandone la conquista nel 1459. La fine dell'indipendenza serba fu l'evento che diede la possibilità all'esercito ottomano di arrivare fino alle porte di Vienna. La battaglia della Piana dei Merli è considerata dai Serbi uno degli eventi più importanti della loro storia, fonte di gran parte del loro sentimento nazionale. La battaglia e la sorte dei cavalieri cristiani divennero il soggetto di molta poesia epica medievale serba, parte della quale composta presso la corte della vedova di Lazar, Milica. Il principe Lazar venne canonizzato dalla Chiesa ortodossa serba.
appurare che – effettivamente – il cibo dei militari
non è come quello di casa.
L’incontro è cordiale e istruttivo e, dopo un caffè,
salutiamo e ringraziamo per l’ospitalità.
Usciamo dalla base e, attraversando nuovamente
Peć, ci dirigiamo verso un'altra enclave serba,
quella di Osojane, mentre un altro gruppo riprende
la strada del monastero per andare a visitare gli
eremi affrescati.
in cammino verso gli eremi
A Osojane e Zac Visitiamo tre famiglie che ci
accolgono come fossimo vecchi amici. Nella
prima troviamo tre splendide bambine di quattro e
due anni e una appena nata.
Al padre hanno bruciato il garage, ma lui è fiero
di mostrarmi il suo raccolto e il suo trattore, e non
bada di certo a quelle chiazze annerite sul soffitto
e ai muri. Ci sorride, ci abbraccia e ci versa della
rakija, naturalmente.
Attraversiamo il marciapiede e ci troviamo ospiti
di un'altra famiglia, quattro bambini dai sette ai
quindici anni e il padre che ci saluta snocciolando
due parole in italiano e offrendoci l'ennesima
rakija, naturalmente.
A Nikola, il secondo uomo di casa, il nostro
Michael regala la maglia della squadra di rugby di
cui lui è l'orgoglioso e vulcanico presidente.
La terza e ultima famiglia ci aspetta qualche
centinaio di metri più avanti. Bimbi sorridenti ci
corrono incontro insieme ai loro cani, i genitori ci
11
attendono pronti ad abbracciarci. Anche qui il
lavoro svolto dalle associazioni LOVE, Comunità
Giovanile e Amici di Dečani è ben visibile. Grazie
a un nuovo progetto pronto a partire le nuove case,
ricostruite dopo gli atti terroristici perpetrati dagli
estremisti albanesi, saranno finalmente dotate di
un cappotto e colorate; anche la scuola può
contare sul fondamentale aiuto del generatore di
corrente, donato per sopperire costantemente ai
frequenti black out di energia elettrica, e di
un’aula computer per gli studenti.
in visita a Osojane
Salutiamo quest'ultima famiglia, non prima di
aver dato fondo all'ultimo bicchiere di rakija5,
naturalmente.
Ritornati al monastero, abbiamo l'onore di poter
cenare nel refettorio dei monaci.
Cena tutta a “km 0”, come direbbero i nuovi
esperti di marketing e turismo.
Tutto straordinariamente semplice e squisito.
Prima di andare via mi fermo due minuti a parlare
con Padre Damaskin, l'addetto allo shop del
monastero. Acquisto un paio di splendide icone
fatte a mano e iniziamo a chiacchierare alla cassa.
5 La rakija è un superalcolico simile alla grappa, creato per distillazione o fermentazione di frutta, molto popolare nei Balcani. Il suo contenuto alcolico è normalmente del 40%, ma nella rakija fatta in casa può essere superiore, tipicamente dal 50 al 60%. È rakija è considerata la bevanda nazionale della Serbia. Nella forma più comune, Šljivovica, è prodotta con la prugna. Altri frutti comuni sono l'uva, le pesche, albicocche, le mele, i fichi e le amarene. La rakija fatta con le prugne e quella con l'uva possono essere mischiate dopo la distillazione con altri aromi, come erbe, miele, mele acerbe e noci. Il 70% delle prugne raccolte in Serbia vanno a finire nella produzione della Sljivovica.
Nota le mie spalle e mi chiede se faccio
sollevamento pesi. Gli mostro alcuni miei video di
allenamento e si gasa, raccontandomi di alcuni
suoi forti amici sollevatori.
Gli racconto della mia tesi, della mia passione per
i canti popolari dei Balcani e di quanto mi piaccia
la loro storia. Mentre faccio per salutarlo e andare
via, mi invita a prendere un cd da uno scaffale, me
lo regala e mi dice: “portaci sempre nel cuore”.
Impossibile descrivere l'emozione a quelle parole.
Ripartiamo per Velika Hoca, il posto in cui
passeremo la notte.
Anche Velika è un'enclave di circa cinquecento
serbi e la strada per raggiungerla è buia e spesso
deserta.
Incontriamo solo Djiacovica sul nostro percorso,
una cittadina buia illuminata dalle insegne dei
seicento autolavaggi e dei bar eternamente pieni.
Dečani
12
foto di gruppo davanti alla scuola di Velika Hoca, in prima fila Jovanka e il piccolo Jovan
Mondi balcanici Velika Hoca – Prizren
15 agosto 2012
Sono da poco passate le due e passeggio da solo
nell'enclave di Velika Hoca dopo aver bevuto e
chiacchierato tutta la sera con Giorgio, Braz e gli
altri ragazzi del gruppo. La serata è piacevole, il
cielo è solo stelle ma il buio della strada dà
sempre quella sensazione di smarrimento e
sconforto.
Trovare una strada illuminata in Kosovo è un
fenomeno quasi paranormale, figuriamoci nelle
enclavi dimenticate ed emarginate. Eppure qui si
respira un'aria più umana e più vera di tutte le
altre zone vissute. Perfino migliore – per certi
tratti – della nostra quotidianità.
Il bello di questi posti credo sia il sorriso e la
vivacità dei bambini. Non hanno niente, ma
possiedono uno sguardo che ti conquista e che ti
fa riflettere. Anche gli adulti mi hanno colpito. Al
di là di ogni romantico slogan, di terra, patria e
nazione, i serbi che ho incontrato finora hanno un
carattere orgoglioso sì, ma spesso goliardico e
molto autoironico. Tutto il contrario della cupezza
e dell'aggressività incontrate spesso in altre zone
dei Balcani. Che, tuttavia, mi affascinano
ugualmente.
Stamattina, dopo aver affrontato e battuto la
colazione offerta da Padre Marko, abbiamo
incontrato il preside e i bambini della piccola
scuola di Velika. Tanto è stato fatto e tanto ancora
verrà realizzato da Love, da Comunità Giovanile,
13
Amici di Dečani e tutte le altre realtà e persone
che hanno a cuore questo lembo di terra, per
questo piccolo istituto, così come per tanti altri
sparsi qui in Kosovo. Tanti bambini sono venuti a
salutarci e a “saccheggiare” lo scatolone pieno di
giocattoli raccolti per loro in Italia. In cambio
sorrisi belli e grandi come il sole e tante foto
scattate insieme.
Lasciamo temporaneamente Velika e ci
incamminiamo per Prizren. A metà tragitto Fabio
e Francesco ci fanno scendere a osservare tre
grosse case, apparentemente in costruzione (come
appaiono realmente quasi tutte quelle abitate del
Kosovo albanese, totalmente prive di intonaco e
parapetti esterni), ma che invece nascondono un
lugubre mistero. Sul terreno dove sono state
edificate sorgeva un cimitero serbo. Dal momento
in cui sono ripresi gli scontri etnici e i serbi
cacciati via, qualcuno ha pensato bene di
appropriarsi di quel lotto di terreno, profanare e
buttare sul ciglio della strada vicina i cadaveri e
alzare queste tre case. Due di esse sono state
abitate per un paio di mesi, la terza è rimasta
incompleta. Si dice che rumori, urla, oggetti che si
spostavano, porte che si aprivano e altri fenomeni
simpatici, abbiano indotto i poveri inquilini a far
le valigie e scappare. Mai sottovalutare i serbi,
neppure da morti.
Un po' sconvolti riprendiamo la via per Prizren.
È quasi ora di pranzo e ci rechiamo presso il
monastero dei Santi Arcangeli, dove ci aspetta
impaziente il monumentale Padre Mihaijlo. Ci
mostra la parte nuova dell'edificio, appena
ricostruito dopo che un terribile incendio lo aveva
distrutto quasi del tutto.
È incredibile come fede e forza d'animo riescano a
trionfare sull'odio e sulla violenza più becera.
Terminato il piccolo tour, ci accomodiamo sotto
un bellissimo gazebo di legno di fresca fattura.
Dopo la benedizione, ci viene servito uno dei più
strani ma straordinari pranzi di ferragosto che
abbia mai mangiato. Zuppa di fagioli e olive,
formaggi, insalate varie e trote affumicate.
Il tutto ovviamente preceduto dalla quarta rakija
della giornata e annaffiato sapientemente con
ottimo vino prodotto in luogo.
Anche questo monastero ha una storia terribile da
ricordare. Uno dei suoi ultimi abati, Padre
Ariton Lukic, durante una delle recenti feroci
ondate di violenza antiserba, venne rapito mentre
faceva la spesa e il suo corpo fu ritrovato
decapitato solo qualche giorno dopo.
La Serbia lo volle fortemente Santo, perché qui il
popolo può decidere chi amare e pregare, senza il
passaggio burocratico-lucroso di tribunali e
sPećialisti vari.
La grossa mano di Padre Mihaijlo ci stringe la
mano e ci augura buona fortuna per il futuro.
Dopo pochi minuti raggiungiamo Prizren, la più
bella città del Kosovo. Importante tanto per gli
albanesi, che qui nel 1878 posero le basi della
costruzione di una Grande Albania, tanto per i
serbi, che qui mandano i loro giovani a studiare
nel seminario più importante della nazione.
Anche in questo caso ci troviamo davanti
un'immagine impietosa. Francesco ci mostra la
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parte nuova del seminario, ove attualmente
studiano sedici ragazzi. Costruzione nuova ed
accogliente, aule di studio e di informatica,
palestre e campi sportivi in costruzione, pronti ad
accogliere nuovi iscritti. Ma proprio di fronte a
questa struttura sorge il vecchio seminario,
interamente distrutto nel marzo del 2004 all'inizio
dei pogrom antiserbi. Prizren venne praticamente
devastata, diverse migliaia di serbi furono costretti
a lasciare di notte e di corsa le proprie case che
andavano in fiamme.
tra le rovine della Bogorodica Ljeviska a Prizren
La cattedrale fu devastata, insieme alla chiesa
della Bogorodica Ljeviska, altro patrimonio
dell'umanità. Andiamo via in silenzio, ma i
commenti di rabbia vengon fuori da soli.
Sederci in un bar vicino non aiuta tanto a rilassare
l'atmosfera. La maglia del nostro gruppo, recante
la scritta “KOSOVO E METOCHIA” urta
particolarmente un tipo vestito anni '70, e con
capelli di trent'anni prima, seduto al tavolo
accanto a noi.
Ci dice che la Metochia non esiste, che questa è
Repubblica del Kosovo.
Inutile quanto insensato cercar di dare una
risposta. Riprendiamo con le battute di sempre e
ritorniamo a Velika.
Una cosa che mi ha colpito del Kosovo è
l'assoluta differenza di cultura di due popoli che
comunque han convissuto insieme a lungo, senza
amarsi ma senza neppure odiarsi così tanto,
almeno fino al recente passato.
Ho notato i cimiteri: sparsi qua e là, spesso anche
nei giardini di casa, quelli kosovari; abbandonati
per ovvie ragioni ma comunque più ordinati,
quelli serbi.
Ho osservato le case. Paradossalmente, quelle
albanesi sembrano essere parte di tante enclavi a
sé, protette da mura enormi e da cancelli quasi
blindati, dove all'interno abitano almeno venti
persone che sembrano non voler avere nulla a che
fare con ciò che succede all'esterno.
Differentemente, le case serbe sono molto più
piccole e più vicine all'idea occidentale di
abitazione, con un giardinetto, un piccolo steccato
e un pezzo d’orto.
Due mondi, due culture, due civiltà opposte.
Riassumendo: Balcani.
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la dottoressa Jelica
Jelica, coraggio e umanità oltre ogni limite Prizren – Silovo
16 agosto 2012
La vita in enclave sembra ferma, irreale, quasi
incantata. Al nostro risveglio troviamo solo padre
Marko e uno sparuto gruppo di anziani a
presidiare la minuscola piazzetta di questa
comunità. Dopo la solita colazione, salutiamo
Marko e le poche persone che intanto han preso
posto sulle panchine e riprendiamo il nostro
cammino. Uscendo da Velika salutiamo in
silenzio il monumento agli scomparsi tra il '98 e il
'99, circa sessanta persone, molti giovanissimi. Si
pensa morti in guerra. Si dice squartati vivi e i
loro organi spediti chissà dove.
Ritorniamo a Prizren, stavolta dall'altra parte, se
vogliamo, della barricata. Portiamo dei giocattoli
in un asilo gestito da suore cattoliche, nel cuore
della città. Sembrerebbe un'oasi di pace, a sentire
le parole della superiora, che ci spiega come qui
bimbi musulmani e cattolici convivano in gioia e
allegria, rispettandosi l'uno con l'altro. C'è
un'unica nota stonate: all'interno dell'edificio non
compare nessun segno religioso cattolico, nessuna
statua di Gesù o della Madonna. Ancora più
sbalorditivo vedere le suore non portare alcun
crocifisso al collo. Chiedo proprio alla superiora il
perché. Mi risponde che è solo una questione di
rispetto verso i membri dell'altra religione che,
altrimenti, si sentirebbero infastiditi alla vista di
taluni simboli sacri “avversi”. Superfluo dire che
mi sia sentito preso dai turchi proprio in una città
turca. Foto di gruppo, salutiamo e andiamo via.
Prizren regala un centro storico ricco di arte e
cultura. Fino a prima della guerra era considerata
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la Sarajevo dei bassi Balcani, crocevia di ben
quattro religioni, luogo dove i popoli vivevano se
non in pace, almeno in reciproca indifferenza.
durante la visita dell’asilo cattolico di Prizren
Prima di far sosta obbligata al solito bar, mi fermo
– spinto dalla curiosità e attratto dalla valchiria
sull'uscio – in un negozio d’integratori alimentari.
Scambiamo due parole e le dico che vorrei vedere
altra roba. Ovvio, non il suo bicipite tre volte il
mio, né il suo sedere striato. Mi fa l'occhiolino e
mi porta dietro il bancone, dove con una
naturalezza disarmante tira fuori un paio di flaconi
contenenti diversi tipi di anabolizzanti. Le faccio
simpatia e mi spara il prezzo “buono”. Con
altrettanta simpatia le dico che non mi interessa la
roba e che comunque, sollevando pesi, degli
anabolizzanti gonfia vacche non avrei comunque
che farmene. Ci salutiamo cordialmente e mi dice
di passare ancora. Magari troverò novità…
Bevuto il caffè, montiamo di nuovo sulla LOVE-
machine, recante il logo dell'associazione
pensionati “San Francesco”, e raggiungiamo
Jelica, un medico-coraggio alla Gino Strada, che
rispetto Emergency mi sembra avere un universo
in più di coraggio, lealtà e apertura mentale.
Lavora nell'ospedale di Silovo, altra enclave serba.
I problemi che deve fronteggiare ogni giorno sono
davvero tanti. Mancanza di luce e farmaci,
ambulanze insufficienti, carenza di personale.
Inoltre, dal primo giugno, le sono state revocate le
targhe dell'automobile, senza una spiegazione
valida. A lei poco importa, un'auto viaggia lo
stesso, anche senza targa. Ci racconta tutti i
particolari di quella vita in trincea, di come sia
difficile aiutare tutti e lottare contro un mostro a
cento teste che non dà tregua. Ci dice pure che
quei kosovari che la aggrediscono sono gli stessi
che si affidano alle sue cure o a quelle di Belgrado,
quando tumori e leucemie bussano inesorabili alle
loro porte. Ma c'è un giuramento da onorare, e
un'umanità e una forza che vanno oltre ogni limite
immaginabile.
gli aiuti per Silovo, grazie al prezioso aiuto dei Carabinieri
A tarda serata salutiamo Jelica e la comunità di
Silovo. Ad attenderci ci sono i monaci del
monastero di Draganac, pronti per farci gustare
un'altra ottima cena.
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con Padre Ilarion, durante le visita alle cucine popolari
Da qui non si torna indietro Cucine popolari – Grazanica – Mitrovica
17 agosto 2012
La giornata più intensa è appena terminata.
L'ultimo giorno di viaggio in Kosovo regala al
gruppo delle emozioni discordanti. La sveglia,
suonata dai monaci del monastero di Draganc,
dove abbiamo trascorso la notte in camerette con
le brande militari e con doccia fatta a pezzi nella
sorgente sacra, è un po' frastornante. Padre
Ilarion, un monaco sulla quarantina di una
simpatia unica, ci porta a visitare le cucine
popolari, un grosso capannone di un'enclave
vicina molto simile a una mensa per poveri nelle
nostre città. A differenza di queste, però, le cucine
non prevedono una sala dove accogliere i
bisognosi; tocca agli operai girare tra le campagne
e le colline e consegnare il pasto caldo del
mezzogiorno a bordo di furgoncini che percorrono
al giorno circa cento chilometri, in posti non
proprio tranquilli. Seguiamo anche noi uno di
questi mezzi, assistendo a scene che nel 2012 mai
avrei potuto immaginare. Gente che dai boschi e
dalle povere case si riversa in strada all'ora esatta,
come fa un cane affezionato al proprio padrone,
portando con sé i secchi vuoti contenenti un
tempo vernice da riempire di minestra calda.
Tra di noi cala il silenzio, passa la voglia di ridere
e scherzare. Salutiamo questa gente che, come dal
primo giorno a Goradzevac, ci saluta e ci benedice.
Al ritorno, facciamo sosta nuovamente al
capannone per aspettare l'altro gruppo. Una
signora molto anziana mi fa segno di avvicinarmi,
mi chiede da dove vengo, mi saluta e mi mostra la
sua casa.
A occhio, credo che lo scantinato dove io mi
alleno sia più grande e, di sicuro, più confortevole.
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Mi mostra il suo armadio ormai distrutto e mi
chiede se al prossimo viaggio posso fargliene
avere uno di più nuovo.
Lui è Milos.
Ha perso il figlio nella guerra del '99 e sua moglie nel 2003 per un tumore probabilmente dovuto all'uranio impoverito per poi
subire le sevizie nell'anno successivo dovute ai pogrom anti-serbi.
Vive da solo in una stalla che gli sta cadendo in testa, senza acqua, servizi sanitari, luce, gas, medicinali, cibo (le pecore che possedeva gli sono state rubate con le cattive, con tanto di mitra usato per spaventarlo). Milos tiene dei sacchetti di plastica in un angolo perchè gli hanno detto che se li mette in testa può morire,
quando ci ha visti portargli un pezzo di pane è scoppiato in lacrime e noi con lui. Alla domanda del perché non volesse
abbandonare la sua "casa" ha risposto: Abito qui da sempre, mio padre abitava qui, il mio cognome è
qui da 700 anni ed è tutto ciò che mi rimane.
Vorrebbe offrirci qualcosa, ma per fortuna Padre
Ilarion ci toglie da quella situazione che per noi è
a metà tra imbarazzo e strazio.
Ripartiamo, ancora in silenzio e divorati da sensi
di colpa che in questi momenti ti assalgono come
leoni su gazzelle indifese.
Ritroviamo un po' di vitalità passando per Pristina
e osservano l'orribile statua di Clinton, tributata al
presidente liberatore dal popolo kosovaro, che
sorge proprio in Bill Clinton boulevard.
Iniziamo a respirare un po' appena fuori la
capitale, andando a visitare la piana dei merli e il
monumento edificato qui poco più di venti anni
addietro da Milosevic in ricordo della storica
battaglia di Kosovo Polje del 1389.
Salendo su questa torre, sulla cui base è incisa la
maledizione del principe Lazar ai traditori del
popolo serbo, è possibile notare – a poco più di
trecento metri – il mausoleo che ospita il corpo
del sultano Murad I, anch'egli caduto in questa
battaglia tra le fila ottomane.
Scattate le foto è tempo di ripartire. A mezz'ora ci
aspetta la città che ogni romantico d'Europa
vorrebbe abitare, se non fosse che oltre alla
facciata, di romantico c'è ben poco.
Entriamo a Mitrovica da sud, lato albanese.
Sporcizia, autolavaggi e cimiteri ovunque, come
in ogni altra parte del Kosovo. Ci addentriamo e ci
accorgiamo che l'atmosfera va gradualmente
cambiando. Improvvisamente ci ritroviamo a nord,
a costeggiare il fiume Ibar. Scendiamo dai mezzi
e facciamo un giro sul ponte dove sorge la più
grossa barricata della città.
Poliziotti kosovari, insospettiti da tale movimento,
ci fermano chiedendoci cosa facciamo lì.
Trasecolano appena si risponde “per turismo”,
quasi vorrebbero ammanettarci, ma capiscono che
di loro ce ne frega ben poco e che l'unico motivo
per cui attraversiamo il ponte verso sud è per
portare un saluto ai Carabinieri che presidiano la
zona.
Kosovoska Mitrovica, il pnote sull’Ibar
Quattro chiacchiere, due occhiate e ti rendi conto
che nel palazzo di fronte vi è una postazione di
cecchini. Gianluca, che ci accompagna, ci
richiama a un comportamento composto.
Mi ha sempre affascinato Mitrovica.
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Ne ho parlato nella mia tesi, descrivendola come
la Belfast dei Balcani. E lo è, almeno in parte.
Nell'aria respiri tensione, le scritte contro Nato ed
Eulex sono praticamente su ogni muro, un
bellissimo murales recita in cirillico che “Da qui
non c'è ritorno”.
Rimango folgorato, le bandiere serbe sventolano
alte, la gente ci guarda stupita ma sorride appena
sente che siamo italiani, che conosciamo Krasic e
Milanovic.
Facciamo un giro dopo aver preso il caffè e
cerchiamo l'altra grossa barricata. Con enorme
stupore troviamo la strada libera ma la grossa
croce fissa tra il cemento e i legni che bloccavano
l'accesso alla parte nord adesso è un monumento
circondato da aiuole che formano un piccolo
spartitraffico. La Nato, evidentemente, ha trovato
pane per i suoi denti.
Ci sistemiamo in un grazioso albergo a pochi km
dal centro della città. Cena, risate, commenti,
pareri sul viaggio. E nuovo giro in città. Beviamo
la prima birra, la gente ci guarda incuriosita ma
diffidente. Vediamo passare davanti a noi
centinaia di ragazze, una più bella dell'altra. Le
donne slave hanno un non so che di magnetico,
non legato esclusivamente alla bellezza. Sono
forti, fiere. Dolci ma, allo stesso tempo, dure
come roccia.
Questa serata ha un qualcosa di magico. Siamo
seduti a bere birra a poco più di duecento metri da
una barricata che separa un mondo dall'altro. Un
mondo identitario, orgoglioso, tradizionale, e un
altro mondo che non sa neppure a quale bandiera
votarsi, e se lo fa, è solo per poter sopravvivere
nella convinzione di essere libero.
Il secondo giro per la movida mitrovizese ci porta
in un bar dove suonano musica live.
Immediatamente ci si avvicina un tizio. Ci chiede,
in italiano, se siamo italiani. Poi la butta lì e mi
chiede se siamo ventidue e cosa facciamo.
Rispondo che siamo in otto e che vogliamo
prendere una birra. Ci si presenta, si chiacchiera,
ma la diffidenza rimane alta. Ed è comprensibile.
Scambiate due chiacchiere ritorniamo in albergo.
Mentre scrivo, sento i ragazzi intonare alcune
canzoni, accompagnate dalla chitarra di Chiara.
Mitrovica sullo sfondo è pura bellezza.
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in viaggio verso Belgrado, con sosta presso probabilmente l’unico ristorante serbo messicano del pianeta
Belgrado Settimo giorno
18 agosto 2012
È già tempo di far ritorno verso casa. Salutiamo
Mitrovica, alla quale lasciamo tutti un pezzo di
cuore e la promessa di ritornare presto.
Percorriamo la strada che verso nord porta al
confine serbo, avendo modo di passare per
l'ultima barricata, presidiata – anche questa –
costantemente da gruppi di serbi che ormai da
anni e contro ogni intemperia climatica, e
americana, sono lì a difendere ogni centimetro di
terra e di serbità.
Ci fermiamo a pranzare nell'unico ristorante
serbo-messicano del pianeta, un locale tanto
enorme quanto orribile, ma dal cibo discretamente
commestibile.
Arriviamo a Belgrado intorno alle 16,
incontrando un po’ traffico per le strade del centro.
Doccia veloce e subito in giro, a goderci una delle
città più belle d'Europa. Misto di slavità, di austro
e ungarico, di turco. Trovare una ragazza brutta è
un'impresa, anche le meno appariscenti hanno un
qualcosa di misterioso che ti ipnotizza e non ti fa
abbassare lo sguardo.
Dopo un paio di discese per Knez Mihailova, la
strada dello shopping non invasa ancora dai
marchi e dalle griffe da centinaia di euro, incontro
Marija, mia ex-collega di studi all'università di
Atene.
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Marija ha una storia particolare alle spalle. Serba
della Croazia, insieme alla famiglia è scampata
per un pelo alla pulizia etnica messa in corso dai
croati in quelle zone nella guerra di Jugoslavia dei
primi anni '90. Trasferita a Belgrado, ha avuto
anche modo di vedersi cadere addosso le bombe
del '99, quando la Nato decise che la capitale
serba doveva essere distrutta e che uno stato
mafioso doveva nascere dove le pietre, ancora
oggi, parlano serbo.
La trovo diversa, ma sono felice di rivederla dopo
sei anni. Mi fa da guida e mi fa scoprire le
bellezze di Belgrado.
La basilica di San Sava è un capolavoro che ti
lascia davvero senza parole. Grandissima, si erge
poco fuori il centro della città, su parco
Karadjiorde. È un continuo via vai di turisti da
tutta la Serbia e dai vicini paesi ortodossi, un
punto di riferimento per l'arte, la cultura e la
religione slava qui nel centro dei Balcani.
il Maracàna, lo stadio di Belgrado
Dal sacro al profano, prendiamo un vecchio tram
e arriviamo al Maracàna, il tempio della Stella
Rossa. Un paio di foto ai murales e siamo di
nuovo fuori. Marija mi indica una casa, proprio di
fronte all'ingresso principale dello stadio. È
grande, su più piani, con un paio di macchine nere
blindate posteggiate davanti al cancelletto. E'
l'umile dimora della Tigre Arkan, al secolo Zelico
Raznatovic, il capo delle famigerate Tigri, gruppo
paramilitare che operò durante la guerra di Bosnia
e Kosovo.
Prendiamo la strada del ritorno rigorosamente a
piedi, godendoci il freschetto della sera e le luci
della città bianca. Arrivati al Kalemegdan, ex
fortezza turca, divenuto adesso un luogo di ritrovo
e di osservazione, mi porta davanti al punto in cui
è possibile osservare l'incontro tra i grandi fiumi
di Serbia, il Sava e il Danubio, con gli enormi
barconi, che accolgono ristoranti e discoteche, a
fare la spola da una riva all'altra carichi di giovani
e turisti.
Giungono altri suoi amici, simpatici e molto
accoglienti. A essere sincero non ho trovato fino
ad oggi un serbo scortese.
Prima di bere l'ultima birra della serata, mi
portano davanti ad un enorme edificio bombardato.
Era la sede della televisione di stato, non a caso
rasa quasi al suolo dagli esportatori di democrazia
in quei terribili settantotto giorni di
bombardamenti del 1999. E tra quegli infami
attacchi, purtroppo, c'erano anche i nostri piloti.
Trascorriamo un'oretta tutti insieme,
chiacchierando un po' in greco, tanto in inglese e
provando – invano – a pronunciare qualche parola
in serbo. E ovviamente tanta rakija, chè oggi è il
mio compleanno e non posso far altro che
festeggiare alla serba l'evento.
Un'ultima passeggiata per le vie del centro, ci
salutiamo e ci diamo l'arrivederci a presto.
Resto solo a godermi una Belgrado ormai quasi
deserta. Mi fanno compagnia i venditori
ambulanti di mais e qualche gruppetto di ragazze
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che commentano, vocianti, le vetrine di un
negozio di scarpe italiane.
Passeggiando lentamente torno nel vicino hotel.
Alzo ancora una volta la testa e rivedo da lontano
uno scorcio dell’edificio bombardato.
Mi viene in mente una canzone spagnola:
Has visto las bombas caer a millares
Jóvenes armados Correr por las calles
El fuego avanzar, jamás te rendiste
Voy a morir hoy en belgrado,
Pero mi patria vivirá
No es fácil morir con veinte años,
Yugoslavia triunfará”
Belgrado.
il ritorno verso casa
23
Cosa puoi fare tu?
√ contribuire a raccogliere materiale scolastico (quaderni, penne, colori, blocchi, gomme, pastelli,
ecc. …) per le scuole di Velika Hoča, Osojane, ecc…
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mamma di Orahovac;
√ contribuire a raccogliere abiti nuovi e usati in buono stato, di qualsiasi genere e per qualsiasi età;
√ aiutarci a entrare in contatto con qualche supermercato o grande distribuzione che si vuole
impegnare con costanza nel sostegno delle cucine popolari di Svetlana;
√ aiutarci a entrare in contatto con qualcuno che vuole donare o vendere – con una mano sul cuore –
un “caravan caldo” per la distribuzione dei pasti delle cucine popolari;
√ contribuire a raccogliere materiale medico, ospedaliero e medicine per l’ospedale di Osojane (in
particolare: soluzione fisiologica, deflussori, lacci emostatici, aghi a farfalla G21 e G23; ceftriexone
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