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V - I CASTELLI NEI TERRITORI DIOCESANI DI POPULONIA-MASSA EROSELLE-GROSSETO (SECC. X-XIV)
Il presente contributo ha avuto ad oggetto lo studio del fenomeno castrense nelle diocesi di Po-pulonia-Massa 1 e Roselle-Grosseto durante i secoli X-XIV, con particolare riferimento all’im-patto insediativo sul territorio, alle strutture materiali, ai rapporti tra incastellamento e preesistente assetto del popolamento, nonché al ruolo dei castelli nella definizione della geografia del potere. Strumento privilegiato per il conseguimento dei risultati esposti in questa sede è stata la banca dati sui siti fortificati della Toscana, costituita presso l’insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università di Siena 2.
1. LA DEFINIZIONE DEL CAMPIONETERRITORIALE
Il campione territoriale che rappresenta l’ogget-to del nostro studio è costituito dalle diocesi medievali di Populonia-Massa e Roselle-Grosseto, nei termini in cui le rispettive aree sono state definite nelle ricostruzioni cartografiche allegate all’edizione delle Rationes Decimarum di fine Duecento e di primo Trecento 3. Sotto il profilo geografico si tratta di un territorio contrassegnato da una fascia costiera pianeggiante solcata da corsi d’acqua di una certa portata (Ombrone, Bruna, Pecora e Cornia) – spesso occupata nel Medioevo da aree umide di acqua dolce o salata – cui si contrappone un en
1. È esclusa dal campione analizzato la porzione insularedell’antico territorio diocesano di Populonia-Massa, comprendente le isole di Elba, Capraia, Montecristo e Pianosa. 2. L’architettura della banca dati è stata realizzata, sotto la direzione scientifica di Riccardo Francovich, nell’am-bito del laboratorio di informatica applicata all’archeo-logia coordinato da Marco Valenti presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena; la redazione grafica delle mappe è stata effettuate dallo scrivente e da Federico Salzotti. Nel corpo del testo e in quello delle note sono proposti tra parentesi tonde i rimandi alle corrispondenti voci delle tabelle. 3. Sul contesto storico che vide la traslazione della sedevescovile populoniense in Massa tra IX e XI secolo e quella della sede rosellana in Grosseto nel 1138 cfr., da ultimo, GARZELLA 1995, GARZELLA 1996, RONZANI 1996.
troterra collinare dotato di risorse minerarie. Qualsiasi definizione di un campione territoriale effettuata sulla base di ripartizioni amministrative storicamente attestate – siano esse di carattere civile o religioso – influenza i risultati delle ricerche e comporta problemi di analisi. Un campione modellato sulla base delle circoscrizioni civili medievali sarebbe stato più funzionale alla nostra indagine, diretta principalmente ad approfondire tematiche legate alle fasi di incastellamento risalenti ai secoli X-XII, periodo in cui, come vedremo, il controllo dei castelli appare egemonizzato da soggetti laici e, in particolare, da esponenti di famiglie che avevano detenuto uffici pubblici di vertice in questi territori ricchi di beni fiscali; a ciò osta, però, la povertà della documentazione disponibile, troppo avara di informazioni utili alla definizione di tali territori per il periodo in questione 4. Al contrario, risulta assai più agevole determinare il campione rifacendosi alle circoscrizioni ecclesiastiche, sia per la ricchezza di fonti di inquadramento disponibili a partire dalla fine del Duecento (Rationes Decimarum ed elenchi analoghi), sia per la presenza di alcuni atti di confinazione dei territori diocesani già per il periodo compreso tra l’XI secolo e la prima metà del XIII secolo. Comunque, procedere per circoscrizioni diocesane nella definizione del campione territoriale, se rappresenta di fatto una scelta obbligata, costituisce per molti versi un limite, sia in considerazione dei soggetti che promossero l’incastella-mento, sia per le modalità cui fu improntato il costituirsi dei distretti castrensi. In primo luogo nell’area indagata non è documentato un ruolo attivo degli episcopati locali nell’erezione di castelli e neppure un loro precoce intervento per il controllo di queste strutture: probabilmente ciò è il risultato della debolezza delle città maremmane – incapaci di soste
4. Per i più convincenti tentativi in tal senso cfr. SCHNEIDER 1914 e CECCARELLI LEMUT, Le strutture civili del territorio di Roselle-Grosseto nei secoli XI-XII: contea e signorie territoriali. Relazione presentata al convegno grossetano del settembre 1989.
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nere una efficace azione politica del presule – e, in certa misura, anche della scarsa capacità dei vescovi di esercitare un ruolo guida per l’aristo-crazia minore della diocesi 5. Inoltre, per quanto concerne il periodo successivo alla metà del XII secolo, possiamo rilevare che i distretti dei castelli – come del resto la maggior parte dei dominati signorili costituiti da più centri castrensi – spesso si estendevano a cavallo di due territoridiocesani senza rispettarne i limiti. Se accettiamo l’ubicazione del confine tra le diocesi di Roselle e Sovana in corrispondenza del basso corso dell’Ombrone, i distretti dei castelli “rosellani” di Istia, Grosseto e, forse, Campagnatico, così come sono attestati nella documentazione tar-do-medievale, risultano infatti insistere nel territorio di più diocesi. Del resto, possiamo riscontrare con certezza questa situazione in alcuni casi per i quali disponiamo di carte di confinazione tra le circoscrizioni ecclesiastiche: ad esempio nel distretto di Monterotondo, castello posto in comitato e diocesi di Volterra 6, erano comprese le chiese di S. Martino e di S. Regolo inserite nella diocesi di Populonia-Massa; il territorio del castello volterrano di Prata, entro il quale nell’XI secolo vantava diritti decimari anche il vescovo di Roselle, giunse a comprendere prima della fine del Duecento il castello di Valdaspra che nel secolo XII risultava «in episcopatu Massanu», mentre la chiesa di S. Michele di Valdaspra venne probabilmente traslata proprio all’interno di Massa Marittima 7. Anche l’acquisizione negli ultimi anni del XIII secolo ad opera del comune di Siena di terreni da inserire nel distretto del
5. Spunti in tal senso sono contenuti, tra gli altri, in KURZE 1981, pp. 257-259 e CAMMAROSANO 1991, pp. 42-43. 6. Monterotondo risulta inserito nel comitatus volterrense sin dalla sua prima menzione documentaria del 26 gennaio 1071, quando ancora non è certa la presenza nel sito di un castello (cfr. il documento «actum loco et finibus in comitatum volterrense prope Monte Ritondo» parzialmente edito in ANGELI 1986, pp. 114-115). L’inseri-mento del castello nella diocesi di Volterra risulta invece, tra l’altro da RD, II, n. 3407, p. 219). 7. Sull’attribuzione di Prata al «territurio voloterrense» nel 1027 cfr. CAVALLINI 1972, n. 18, p. 48, sulla concessione delle decime relative ai beni acquisiti dal monastero di S. Bartolomeo di Sestinga nel territorio di Prata, le quali erano consuetudinariamente conferite all’episcopato di S. Lorenzo di Roselle nel 1072 e nel 1118 cfr. DSAS, 1072 luglio 23 e AIMAe, III, coll. 213-215. Su Valdaspra cfr. tabella 1. I. 22; sulla menzione della «ecclesia S. Michaelis de Vallaspra de Massa» negli elenchi decimari relativi agli anni 1302-1303 cfr. RD, II, n. 2992, p. 195. Possiamo aggiungere, per lo stesso comprensorio, che probabilmente entro il distretto trecentesco di Rocchette Pannocchieschi, castello della diocesi di Volterra, aveva sede la «plebs de Porturi» verosimilmente pertinente alla diocesi massetana (Sulla pieve cfr. ALBERTI et alii 1997; sul-l’appartenenza della chiesa del castello di Rocchette alla diocesi di Volterra cfr. MORI 1992, pp. 171-172).
castelfranco di Paganico, in diocesi senese, condusse alla formazione di un territorio castrense posto a cavallo tra le circoscrizioni ecclesiastiche di Grosseto e Siena, in quanto frutto dell’ac-corpamento di terreni precedentemente afferenti ai castelli ‘senesi’ di Civitella e Monteverdi (poco più di un terzo della superficie totale dei terreni acquistati) ed a quelli ‘grossetani’ di Sasso, Campagnatico, Vicarello e Torri (i rimanenti due terzi) 8. Infine, per tornare sul piano più strettamente connesso alla definizione del campione territoriale, è necessario precisare che non conosciamo i confini diocesani per il periodo che conobbe le prime fasi dell’incastellamento (secoli X-XI), poiché è positivamente documentato che in molti casi la distrettuazione ricavabile dalle Rationes Decimarum duecentesche non corrisponde sic et simpliciter alla situazione precedente, ma costituisce il frutto di mutamenti o il risultato di lunghe controversie in pressoché tutte le aree limitanee delle due diocesi maremmane (cfr. Appendice I). Come si vede, non si tratta di problemi trascurabili, quando si tenti una analisi quantitativa del fenomeno castrense in un’area per cui gli elenchi delle Rationes Decimarum registrano un numero assai ridotto di suffraganee – enumerate, tra l’altro, senza dar conto della loro dipendenza dall’una o dall’altra pieve – e perciò non consentono di ricostruire i confini diocesani se non con un ampio margine di incertezza 9, accresciuto anche dalla presenza di un assetto insediativo a maglie larghe.
In prospettiva, considerate le opportunità offerte da un sistema informativo territoriale quale l’Atlante dei Siti Fortificati della Toscana, sarà possibile sperimentare indagini impostate su campioni territoriali definiti di volta in volta in modo diverso e quindi affiancare alla suddivisione per diocesi altri tipi di campioni improntati su parametri storici (ad es., una volta stabilito il periodo di riferimento: contea aldobrandesca, area di influenza politico-istituzionale senese, orvietana o pisana, area di influenza di uno specifico soggetto signorile, etc.), oppure, in modo meno usuale, su caratteri geografici (ad es. area costie-ra/entroterra, vallate fluviali, distretti minerari, aree geomorfologicamente omogenee, etc.).
8. CV, IV, n. 1016, pp. 1495-1502: inventario redatto tra il 1302 e il 1304, gli acquisti delle terre in questione vennero effettuati dal comune di Siena sino al 1299. 9. Cfr. MORETTI 1983. In particolare, sui territori diocesani toscani intesi come sommatorie di pivieri cfr. le riflessioni recentemente svolte in CAMMAROSANO 1996.
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2. LE FONTI
L’indagine sui castelli delle diocesi di Populonia-Massa e Roselle-Grosseto è stata condotta affiancando allo spoglio della bibliografia storica ed archeologica l’esame sistematico dei documenti editi ed effettuando alcuni approfondimenti sulla documentazione medievale inedita, prevalentemente in riferimento al territorio massetano.
Il panorama documentario altomedievale concernente le diocesi di Roselle e di Populonia si caratterizza per la sua provenienza da enti che avevano sede in località anche assai distanti dalle aree in questione. Sino al X secolo, infatti, la documentazione disponibile ci è stata trasmessa tramite gli archivi ecclesiastici lucchesi e pisani, quelli dei monasteri chiusini di S. Salvatore al Monte Amiata e di S. Antimo in val di Starcia, nonché l’archivio della Chiesa di Roma. Unica eccezione è rappresentata dalle poche pergamene altomedievali originariamente pertinenti al monastero di S. Pietro a Monteverdi e poi disperse entro archivi di altre istituzioni, laiche ed ecclesiastiche 10. Con il secolo XI, alla documentazione proveniente dagli enti menzionati si aggiunge quella relativa al monastero di S. Maria di Serena – fondato nel 1004 ai margini meridionali della diocesi volterrana e dotato di un vasto patrimonio nel Populoniese – e quella proveniente da istituzioni religiose sorte entro il territorio in esame: la Chiesa di Massa 11, il monastero di S. Quirico di Populonia e, in diocesi di Roselle-Grosseto, quello di S. Bartolomeo di Sestinga. Ciononostante, ancora per tutto il secolo XI le aree in qualche modo illuminate dalla documentazione costituiscono una porzione minoritaria rispetto all’intero campione. Tale rapporto comincia ad invertirsi dopo la metà del secolo successivo, periodo a partire dal quale, a fronte della scomparsa dei documenti lucchesi concernenti il nostro territorio, si può disporre di una certa quantità di atti provenienti dagli antichi archivi di enti ecclesiastici locali (oltre a quelli già menzionati si aggiungono anche il monastero di S. Giustiniano di Falesia in diocesi di Populonia-Massa e quelli di S. Lorenzo all’Ardenghesca e di S. Salvatore di Giugnano in diocesi di Rosel-le-Grosseto) e dagli archivi comunali di Siena, Pisa e Volterra. Con il Duecento i principali fi
10. Cfr., da ultimo, SCHMID 1991. 11. Il materiale documentario più antico è confluito nelfondo archivistico LBB.
loni della tradizione documentaria riguardante il territorio in esame faranno capo a queste città, cui si affiancano anche gli archivi relativi alle istituzioni comunali di Massa e, in minor misura, Grosseto.
Dal punto di vista della documentazione archeologica la situazione delle due diocesi risulta decisamente più fortunata. Innanzitutto possiamo rilevare che tale territorio tra XIII e XIV secolo ha conosciuto una forte contrazione dei livelli di popolamento, dalla quale non si è sostanzialmente ripreso sino al pieno Ottocento 12. Tuttavia, se in questa regione (soprattutto entro i distretti minerari e le aree costiere) durante l’età industriale sono stati eguagliati e spesso superati i livelli di popolamento basso-medievali, lo sviluppo demico complessivo è rimasto tra i più bassi della Toscana, tanto che oggi la Maremma è annoverata tra le aree meno densamente popolate d’Italia.È chiaro che questo stato di cose agevola la leggibilità delle testimonianze materiali medievali ed infatti proprio i territori facenti capo alle antiche diocesi di Roselle-Grosseto e Populonia-Massa hanno conosciuto negli ultimi trenta anni un notevole incremento di indagini archeologiche dirette al Medioevo – condotte sia attraverso lo scavo stratigrafico, sia mediante le ricognizioni topografiche –, che hanno permesso di conseguire alcuni rilevanti risultati sulla storia del popolamento ed in particolare sugli assetti precastrensi e sul rapporto dei paesaggi medievali con quelli della tarda Antichità. Più specificamente, ai fini di una indagine sui castelli occorre notare che questa situazione documentaria, caratterizzata da una relativa povertà di testimonianze scritte – carenza peculiare soprattutto per quanto concerne i secoli XI-XII – e, per contro, da uno sviluppo particolarmente intenso degli studi archeologici sull’incastella-mento, si riflette anche nella valutazione della complessiva incidenza numerica del fenomeno castrense. Infatti, le indagini archeologiche intraprese su alcuni rilevanti campioni del territorio in esame hanno condotto alla individuazione di insediamenti fortificati medievali non attestati nelle fonti scritte (due casi per Populonia, sei-sette per Roselle) 13.
12. PINTO 1982, pp. 3-92; GINATEMPO 1988. 13. Cfr. tabella 1. I. 46, 47 e 1. II. 55-60. Per contro, in 6-7 casi per Populonia e 4-5 casi per Roselle non è stato possibile ricondurre, neppure orientativamente, ad un sito archeologico le informazioni relative a castelli attestati nella documentazione scritta, cfr. tabella 1. I. 1, 5, 10,
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3. LE FORTIFICAZIONI RURALI PRIMA DELL’INCASTELLAMENTO (SECOLI VIII-XI)
Dall’analisi del campione territoriale emerge che sino ai primi decenni del secolo XI le attestazioni di castra o castella non esauriscono la gamma delle definizioni applicate agli insediamenti fortificati. Ad esse, infatti, devono essere aggiunte le menzioni dirette di elementi fortificatori quali torri e cinte difensive definite «castelione», nonché le attestazioni di toponimi particolarmente indicativi in tal senso, quali Castello e Castelione 14. Esaminiamo in dettaglio i casi in questione. Nel maggio 770 l’abate del monastero di S. Pietro a Monteverdi cedette al rettore della chiesa di S. Regolo in Gualdo una «casa massaricia» ubicata «in loco vocaboli Castellione» 15, toponimo riferibile all’altura di Castiglion Bernardi, posta in prossimità del confine tra i territori volterrano e populoniese 16. Circa un secolo dopo il vescovo di Lucca concesse in locazione due «case et res massaricie» situate «in loco et finibus Castellione», dietro corresponsione di un censo da versare alla «curte S. Reguli», che era stata organizzata dall’episcopato in corrispondenza dell’an-tica chiesa 17. Da quest’ultima cessione venne si
15, 20, 42. 1, 44 e 1. II. 5, 7, 8, 52, 53. 1. Un certo peso nel determinare le difficoltà di associare informazioni provenienti dalla documentazione scritta ai resti di castelli è stato certamente assunto dalla ecatombe toponomastica connessa alle discontinuità insediative che hanno contraddistinto la Maremma nel Medioevo e nell’Età Moderna. 14. Sull’esistenza di strutture fortificate in corrisponden-za di toponimi quali Castellone cfr. SETTIA 1980, pp. 4952. Nei territori della Toscana meridionale costituiscono indizi di presenza di cinte fortificate pre-romane, talvolta riutilizzate nel corso del Medioevo, anche i toponimi derivati da civitas (ad es. Civitella, Civita, Civitate, Cetamura), che pur attestati all’interno del nostro campione territoriale non sono mai stati collegabili con certezza alla presenza di un insediamento fortificato medievale. 15. CDL, II, n. 239-240, pp. 306-310: 770 maggio 24.La chiesa e la curtis episcopale di S. Regolo sorgevano in prossimità del podere omonimo, ai piedi dei rilievi su cui si individuano i resti di Castiglion Bernardi. 16. Il toponimo Castellione è da porre in relazione alle strutture che sorgevano nel sito ove dalla metà del XII secolo è attestata la presenza di un castello. Suggeriscono tale identificazione sia la presumibile prossimità della località a S. Regolo in Gualdo, sia l’associazione documentaria del toponimo con altri relativi a luoghi vicini alla chiesa (Paterno, Aqua Albula), sia, infine, considerazioni relative alla continuità sino al secolo X della dipendenza patrimoniale dall’episcopato lucchese e dal monastero di Monteverdi di terre situate nel comprensorio di Castellione, che alla metà del secolo X sono certamente identificabili appunto con l’altura ove sarebbe sorto Castiglion Bernardi. 17. MDL, V/2, n. 991: 893 novembre 30. La concessionelivellaria è registrata in questi termini nel breve de feora della Chiesa lucchese di poco successivo: «Et duo manentes habet per libellum in Castellione quod pertinent de corte sancti Reguli» (Inventari altomedievali 1979, p. 243).
gnificativamente eccettuato il «monte illo in ipso loco qui dicitur Castellione», probabilmente con l’intento di mantenere sotto un più stretto controllo dell’episcopato lucchese l’area che ospitava le strutture fortificate 18. In base ad un atto del 954, certamente riferibile al sito di Castiglion Bernardi, Teuperto del fu Rodolfo, che aveva già acquisito dal vescovato lucchese alcune terre contigue, ottenne in permuta dal monastero di S. Pietro in Monteverdi beni situati «in loco et finibus ubi dicitur Castelione» 19. Si trattava, più specificamente, della quota di un appezzamento di «terra quod est sterpeto» esteso circa trenta modia, ove aveva sede un «castellione». A distanza di pochi anni, nel 970, il vescovo di Lucca dette a livello a Ildebrando del fu Teuperto – presumibilmente il figlio del livellario del 954 – beni situati «in loco ubi dicitur a Castellione», concessione che venne rinnovata in termini analoghi nel 980 a favore del fratello, Gherardo del fu Teuperto 20. Del resto, già nei primi decenni del secolo XI la rilevanza di Castilione quale punto di riferimento territoriale era giunta a sopravanzare quella dell’antico centro curtense di S. Regolo in Gualdo, anche per lo stesso episcopato lucchese21; ciononostante – probabilmente per l’aleatorietà dei meccanismi di trasmissione documentaria – solo nella seconda metà del XII secolo disponiamo di attestazioni esplicite del-l’esistenza di un castello con una fisionomia di villaggio fortificato, ed è significativo che ciò si riscontri contestualmente alla sua prima designazione topografica con il nome di Castiglion Bernardi 22.
18. I l testo documentario recita: «exceptast i et anteposuisti exinde monte illo in ipso loco qui dicitur Castellione, quas mihi menime dedisti.» (MDL, V/2, n. 991: 893 novembre 30). Cfr. anche PRISCO 1994, II. 2, p. 387. 19. CARRATORI, GARZELLA 1988, n. 1, pp. 3-5: 954 febbraio 8. Fa fede dell’ubicazione del terreno presso Castiglion Bernardi la sua confinazione con il «rio Derota», l’attuale botro la Dirota, che scorre a nord-ovest dell’altura. Teuperto, presumibilmente, era legato agli Aldobrandeschi, dal momento che i quattro appezzamenti da lui ceduti in permuta per acquistare i beni in questione confinavano tutti con i possessi di un non meglio qualificato «marchio», da identificare verosimilmente con l’aldobrande-sco Ildebrando III. 20. MDL, V/3, n. 1419. Secondo l’edizione del Barsoc-chini, l’atto del 30 settembre 980 menziona beni «in loco ubi dicitur Castellane», ma essi sono certamente identificabili con quelli denominati dieci anni prima «a Castellione» in base al contesto documentario (ad es. essi sono «retti» dallo stesso personaggio di nome Giovanni cfr. MDL, V/3, n. 1514). 21. S. Regolo nel 1022 era definito «prope eccl. s. Marie comitato et territ. Populoniense et prope Castellione» (GHILARDUCCI 1991, n. 60). 22. Ci sembra improbabile che si riferisca a Castiglion Bernardi il testo del 1143 mediante il quale il pontefice
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Durante la seconda metà del secolo X è menzionata la località Castilione, inserita nel comprensorio di Montioni 23 e riconducibile al sito ove sarebbe sorto l’omonimo castello (Poggio Montioni Vecchio 1. I. a. 4) oppure al non lontano Poggio Castellaccia (sulla cui sommità attraverso l’aereofotointerpretazione si individuano presumibili resti di un recinto fortificato). Infatti, nel 986 Ugo del fu Adalberto, appartenente al gruppo familiare conosciuto sotto il nome dei ‘da San Miniato’, cedendo al vescovo di Lucca Teudigrimo alcune terre nel Valdarno, ottenne in cambio beni presso Montioni ubicati in località «Castelione, que est infra comitato Populoniense» 24. La permuta consentì a Ugo di Adalberto di acquisire «medietatem ex integra de terra et potio illo que esse videtur in loco et finibus Montioni et vocitatur Castelione»; tale quota, «per longo partita da partibus aquilone», misurava dodici modia e confinava con la «terra et sterpeto» della Chiesa lucchese e con i beni di un tal Gherardo. Il documento rivolge una particolare attenzione alle vie che conducevano a questo appezzamento: accanto ad un riferimento di rito alle accessiones ed alle ingressure, la cessione menzionava più specificatamente la «portio de viis et intratoriis illis que percurri da via publica usque ad supracripti terra et pogio», e, perdipiù, una clausola dell’atto prevedeva la trasmissione ad Ugo ed ai suoi homines della «licentia et potestas […] per ipsis viis ambulandi usque ad suprascrita terra et pogio et regrediendi cum cavallo et boves seo ceterisque bestiis die noctuque quomodo […] oportu et autilitas fuerit, voluntarie damnietate non faciendi». Quest’ul-tima specificazione indica che Ugo era intenzionato a trasformare la quota di «terra et sterpeto» ricevuta dal Vescovo in un insediamento abi
confermò all’abate di S. Quirico di Populonia, «Castellare» assieme alle sue pertinenze, (KURZE 1982, n. 336, pp. 315-317) letto Castellone nell’edizione di UGHELLI 1717ss., III coll. 711-712; cfr. anche GIORGETTI 1874, p. 401. Nel 1152 papa Eugenio III confermò all’abate del monastero di S. Maria di Serena la «capella sancti Michaelis de Castellione Bernardi» e la vicina «capella sancti Reguli» (PFLUGK HARTTUNG 1881-1884, III, n. 111, pp. 116-117: 1152 dicembre 20); sei anni dopo, Guido, abate di Serena, cedette all’arcivescovo di Pisa i beni appartenenti al proprio monastero «a Cecina usque ad Ombrone sicut in mare derivantur» ivi comprese le pertinenze dell’abbazia «in Castilione Bernardi et eius curia et confinibus» (AIMAe, III, coll. 1173-1174: 1158 gennaio 22). Nel 1167, inoltre, Federico I confermò al monastero di Serena genericamente il possesso di Castillione Bernardi (DF I, n. 536 pp. 482-483). 23. Ragioni di ordine topografico e genealogico supportano tale identificazione, cfr. CECCARELLI LEMUT 1985, p. 35, sebbene rimanga aperto qualche margine di dubbio. 24. MDL, V/3, n. 1607.
tato almeno temporaneamente, e significativa in tal senso ci sembra la clausola relativa alla possibilità offerta ad Ugo ed ai suoi homines di andare e venire giorno e notte «ad suprascrita terra et pogio». All’epoca, quindi, la località Castelione appare strettamente associata ad una altura fortificata disabitata, ma ben riconoscibile e potenzialmente utilizzabile a fini insediativi, che, in definitiva, presentava caratteri analoghi a quelli relativi al sito altomedievale di Castiglion Bernardi. Non è chiaro, infine, se sia connessa ad una delle due località 25 oppure ad una terza ad esse omonima, l’attestazione di una «corte Castelione», nel comitato di Populonia, contenuta in un atto del 973 dove sono elencati beni appartenuti al-l’aldobrandesco Lamberto del fu marchese Ildebrando 26.
Presenta tratti analoghi il caso della località Castello, menzionata in un documento dell’882. Nel dicembre di quell’anno il vescovo di Lucca concesse in locazione a Leoprando del fu Andrea la casa retta da quest’ultimo «in loco prope ubi dicitur Castello» in cambio di prestazioni da corrispondere presso la curtis di Casalappi 27. Pochi mesi prima lo stesso vescovo aveva ceduto a livello mediante un contratto analogo due case et res, poste «in loco et finibus Monteburuli, ubi dicitur sub ripa» oltre a «res illa in eodem loco Monteburuli […] quas Leoprandulo ad laborandum ad manus suas abere videtur», facendo riferimento, probabilmente, al medesimo Leoprando del fu Andrea 28. Una contiguità topografica tra i beni concessi in locazione nei due contratti dell’882 è presumibile anche in considerazione della comune dipendenza dalla curtis posseduta in Casalappi dalla chiesa di S. Frediano di Lucca e del particolare tipo di censo corrisposto dai locali manentes, commisurato in «aucelli murtini» (uccelli palustri?) 29. Un inventario vescovile datato alla seconda metà del IX secolo ed il menzionato atto dell’882
25. Potremmo riferire con una certa attendibilità a Castiglion Bernardi la menzione documentaria del 973 qualora ritenessimo che Teuperto del fu Rodolfo, personaggio presumibilmente legato nel 954 al padre di Lamberto Aldobrandeschi, avesse ceduto ad uno dei due alcuni beni in «Castilione» (cfr. la nota 19). Costituisce però in certa misura un ostacolo a tale identificazione l’inserimento nel comitato di Populonia della curtis attestata nel 973. 26. KURZE 1982, n. 203, pp. 9-13. 27. MDL, V/2, n. 923.28. MDL, V/2, n. 919.29. Ancora nel 1068 il pontefice confermò ai canonicidella chiesa di S. Frediano di Lucca il possesso dei beni maremmani posti in Monteburli cfr. MDL, IV/2, n. 101.
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mostrano come nell’area di Monteburuli risiedessero ed operassero numerosi dipendenti del vescovo di Lucca. Secondo il primo documento gestivano aziende agricole facenti capo a questo «locus» due personaggi di nome Petrus ed uno chiamato Autbertus, mentre il testo dell’882 fa riferimento alla presenza in questa località di Pertinandulo, Ghisulo, Leoprandulo e dei fratelli Ildipertulo e Natalio 30. La residenza, quindi, di almeno otto manentes sembra indicare una certa consistenza demica del gruppo che viveva nel comprensorio di Monteburuli, anche se questo dato non consente di trarre ulteriori informazioni sull’assetto insediativo caratterizzante l’area. Possiamo ritenere che l’abitato sorgesse a sudovest di Massa Marittima, presso la località Castel Borello, una collinetta calcarea sui cui fianchi scoscesi si riscontra la presenza di un insediamento rupestre 31; alla fine del XVIII secolo erano ancora riconoscibili i resti di un insediamento fortificato in questo sito, denominato almeno dal XIV secolo «Castello Burello» 32. In considerazione della presumibile contiguità delle località altomedievali di Monteburuli e Castello, nonché delle evidenze materiali documentate sull’altura dell’attuale Castel Borello, emerge quindi l’ipotesi che il riferimento a case «in loco et finibus Monteburuli, ubi dicitur sub ripa» sia da riconnettere a strutture poste ai piedi di uno scoscendimento sulla cui sommità sorgevano le fortificazioni presenti nel «loco ubi dicitur Castello» e che tale «castello», cui faceva all’epoca riferimento la micro-toponomastica, fosse una struttura fortificata da cui mutuò il nome l’altu-ra di Castel Borello.
Per quanto concerne il territorio di Roselle, nella più rarefatta documentazione altomedievale si conserva un riferimento al toponimo Castilione, contenuto nella raccolta dei canoni redatta dal cardinale Deusdedit attorno alla metà del secolo XI e concernente la dipendenza dalla chiesa di Roma di una «villa que dicitur Castelione cum
30. Cfr. Inventari altomedievali 1979, pp. 205-224; MDL, V/2, n. 919: 882 agosto 5. 31. Riguardo alle tracce di insediamenti rupestri nel sitodi Castel Borello cfr. ALBERTI et alii, p. 82. Nel caso di Castel Borello e in quello di Monte Buruli l’etimologia del toponimo risulta legata alla presenza di ambienti rupestri: il termine burèlla infatti ha il significato di corridoio sotterraneo LARSON 1995, p. 125. 32. Sulle testimonianze settecentesche relative all’esistenzadi ruderi di un castello cfr. CESARETTI 1783, p. IV; sulle attestazioni trecentesche del toponimo cfr. ASF, Principato di Piombino, Appendice II, 2, cc. 52v-53r. Nel sito aveva probabilmente sede il non meglio identificato «castello […] de Monteburi», menzionato in un documento del 1109 (regesto in SCHNEIDER 1907, n. 145).
omnibus eis pertinentibus, posita […] in territorio Rosellano» 33. In particolare il passo della lista riguardava beni rivendicati dalla Chiesa Romana agli inizi del secolo VIII che risultavano ancora censuari in età carolingia. In base all’or-dine topografico seguito nella lista, la località sembra da ubicare nella bassa valle dell’Ombro-ne, area per la quale il solo toponimo a noi noto è il Castilioni attestato nei secoli XII-XIV in corrispondenza dell’attuale Montebrandoli 34.
Dall’esame delle serie documentarie sopra illustrate risulta che per designare le alture fortificate ove avevano sede il castilione o il castello che conferivano il nome al comprensorio non vennero utilizzati i termini castrum o castellum; questa assenza assume un significato particolare se si considera che tali sequenze documentarie si prolungano spesso sino al secolo XI, vale a dire in un periodo in cui le fonti scritte qualificano, invece, con il termine castrum/castellum numerosi centri fortificati presenti nei territori di Populonia e Roselle. Tale mancato uso terminologico può essere spiegato in considerazione del fatto che le fortificazioni da cui le alture prendevano nome risultavano all’epoca sostanzialmente prive di una popolazione stabile (in un paio di casi, infatti, l’area racchiusa dalla cinta è esplicitamente definita sterpetum); inoltre, sembra aver giocato un ruolo determinante anche lo status giuridico delle strutture fortificate, poiché è lecito ipotizzare che in questa regione sino agli inizi del secolo XI venissero qualificati come castrum/castellum solo quegli insediamenti fortificati di pertinenza di esponenti delle famiglie comitali, che a pieno titolo erano in grado di esercitare poteri pubblici. Queste ipotesi trovano conforto nelle vicende relative ai due centri curtensi di S. Frediano, sorto entro le mura etrusco-romane di Vetulonia nel territorio rosellano, e di San Vito in Cornino, in prossimità del quale è documentato nell’XI secolo il castello di Vignale in diocesi di Populonia.
33. Le diverse stesure del testo dell’XI secolo riportanocome varianti anche Castellione, Castillione, Castellone cfr. WOLF VON GLANVELL 1905, p. 355, cfr. anche FABRE 1905 e KURZE 1990. 34. Un atto del 1179 descrive l’articolazione topograficadelle alture poste a sud della Roselle etrusco-romana menz ionando un «montem magnum […] qui dicitur Cornelianus» identicabile con l’altura di Moscona, ed il «podium quod dicitur Castilioni», riconoscibile nel poggio di Montebrandoli (BANDINI PICCOLOMINI 1893, pp. 1314; sulle menzioni trecentesche cfr. ASS, Estimo 47, cc. 20r, 21r). La villa omonima potrebbe essere collocata in corrispondenza dell’attuale Pod. Le Morelle, ove si rinvengono i resti di strutture murarie e quelli di una villa romana (CAPPELLI 1910, p. 52; CITTER 1996a, sito GR 15).
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Probabilmente, una fortificazione nel sito di Vignale esisteva – o era in corso di realizzazione – già nel 980 quando, stando «loco et finibus Cornino, ubi dicitur Viniale», il vescovo di Lucca Guido concesse consistenti redditi relativi al piviere lucchese di Sovigliana al conte Ildebrando del fu Gherardo Aldobrandeschi, la cui famiglia all’epoca sembra esercitare poteri pubblici nel territorio di Populonia 35. La scelta di Vignale per la stipulazione di un atto eminentemente politico quale quello del 980 e, specificatamente, la sua predilezioni rispetto al vicino centro curtense vescovile di San Vito in Cornino, rilevante sin dal secolo VIII 36, lasciano presumere, infatti, che nel sito in questione si fosse già intrapresa la realizzazione di qualche forma di fortificazione, forse correlata al sottostante centro domocoltile di San Vito. Ne sarebbe conferma, da un lato, la contemporanea menzione di una «villa que dicitur S. Vito», che sottolineava il carattere di insediamento aperto del villaggio ove aveva sede il centro curtense 37 e, dall’altro, l’atte-stazione relativa al 996 di una «turre qui dicitur sancto Vito» – sorta forse nella località di Vignale – presso la quale il vescovo di Lucca Gherardo ri-cevette la donazione di un castello 38. Nell’attesa che più approfondite indagini archeologiche e topografiche possano contribuire a sciogliere i problemi relativi all’ubicazione ed alla consistenza delle strutture menzionate, siamo costretti a registrare la mancata individuazione sul terreno sia della torre attestata nel 996, sia del primitivo castello di Vignale. Infatti sono stati individuati solo i resti archeologici relativi al sito tardomedievale del castello di Vignale, che durante gli anni Ottanta del XIII secolo venne riedificato in un luogo diverso da quello originario39. Per quanto concerne il centro curtense di S. Frediano, in diocesi di Roselle, la presenza di ele
35. MDL, V/3, n. 1517; sul probabile esercizio di funzio-ni comitali nel territorio di Populonia da parte degli Aldobrandeschi cfr. COLLAVINI 1998. 36. Per San Vito in Cornino cfr. tabella: 1. I.b 5. 37. MDL, V/3, n. 1416.38. MDL, IV/2, n. 80 e MDL, V/2, n. 1705.39. CECCARELLI LEMUT 1985, pp. 22-23. Il sito originario del castello doveva essere posto ad una quota inferiore, come risulta dalle successive menzioni di un «Vignale Vetus» e di un «Vignalis destrutti de plano». Nonostante l’identità del toponimo, il sito del più antico castello di Vignale non è identificabile con l’attuale abitato di Vignale Vecchio, località che non presenta strutture riconducibili ad un centro fortificato medievale e che assunse questo nome come principale nucleo insediativo di età moderna sorto nel territorio della bandita omonima. Quest’ul-tima a sua volta aveva preso il proprio nome dal primitivo castello di Vignale, che tuttavia non era ubicato in corrispondenza delle menzionate strutture moderne.
menti fortificatori è testimoniata in un atto del 1032, in base al quale sappiamo che la quota della «curte sancti Frediani» pertinente a Bonizio detto Bonodie comprendeva una parte della «summitas de monte, infra carbonaria permanente»: con il termine «carbonaria» si allude certamente a strutture fortificate che, come a suo tempo ipotizzato dal Cardarelli, sembrano da identificare con i resti delle mura etrusco-romane di Vetulonia 40.
4. I CASTELLI: PRIME VALUTAZIONI QUANTITATIVE
La nostra indagine sui tempi e sui ritmi dell’in-castellamento nelle diocesi di Populonia-Massa e Roselle-Grosseto ha presupposto la ricostruzione di una cronologia delle attestazioni documentarie dei castelli, innanzitutto attraverso il censimento delle testimonianze relative a insediamenti definiti castra/castella/rocche nella documentazione scritta 41. Inoltre, sono state sistematicamente raccolte le indicazioni contenute nelle fonti diplomatiche dei secoli VIII-X riferibili a torri, strutture difensive e toponimi, quali Castelione o Castello, che costituiscono chiari indizi dell’esistenza di fortificazioni. La documentazione scritta medievale e postmedievale è stata infine compulsata, seppure non in termini sistematici, alla ricerca di attestazioni che costituissero potenziali indicatori della presenza di castelli in termini indiretti (curie, districti, patronimici relativi a detentori di poteri signorili), oppure in ottica retrospettiva (ad es. menzioni quali Castellare, Castelvecchio e simili) 42.
40. CARDARELLI 1932, pp. 223-224; cfr. anche PRISCO 1998, pp. 226-227. 41. La ricordata dispersione della documentazione riguardante i territori in questione entro archivi di enti che vantavano nell’area una parte decisamente marginale dei loro possedimenti ha sconsigliato di elaborare un rapporto tra disponibilità documentaria ed attestazioni di castelli relativi a questo territorio. 42. La valutazione del grado di attendibilità degli indica-tori indiretti della presenza di castelli (curie, districti, patrionimici) in relazione all’esistenza di un castello è stata effettuata caso per caso attraverso considerazioni in parte soggettive, sulla cui base è stata redatta la tabella 1, inserendo, conseguentemente alle nostre interpretazioni, le testimonianze documentarie tra le prime attestazioni come castello oppure tra le menzioni del toponimo precedenti quella castrense. Nella nostra documentazione il termine castellare costituisce un indicatore assai attendibile dell’esistenza di un castello, però, per il suo significato di abitato fortificato distrutto e, più ampiamente, di area adatta alla realizzazione di un castello, può, in via
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Per quanto concerne la documentazione archeologica, il censimento ha riguardato innanzitutto i siti che conservano tracce certe di insediamenti fortificati medievali, attingendo alla bibliografia e ad alcune ricerche inedite i cui risultati sono confluiti nella banca dati dell’Atlante dei Siti Fortificati della Toscana 43. Attraverso la medesima banca-dati si è resa possibile anche una valutazione quantitativa dei siti per i quali l’aereofo-tointerpretazione suggeriva la presenza di strutture fortificate, ma solo una verifica diretta attraverso la prospezione archeologica poteva apportare elementi conoscitivi certi. Nell’antico territorio diocesano di Roselle-Grosseto attraverso l’esame dei fotogrammi relativi al volo EIRA 1976 sono state individuati otto potenziali siti archeologici (“anomalie”) con tratti molto marcati e sette con tratti più incerti, riconducibili alla scarsa visibilità di eventuali strutture presenti; per il territorio diocesano di Populonia-Massa, infine, sono state riconosciute diciotto anomalie dai tratti molto marcati e sei dai tratti più incerti (cfr. le carte).
Le informazioni salienti sono state sinteticamente esposta nella tabella 1, ove sono riportati – a) il toponimo attestato nelle fonti (in corsivo se non conservato) e, eventualmente, quello del sito attuale, – b) i dati archeologici essenziali 44, – c) le eventuali attestazioni documentarie antecedenti a quella di castello, – d) la prima attestazione come castello ed infine, quando possibile, – e) l’identità dei soggetti che detenevano il castello al momento della sua prima attestazione come tale.
ipotetica, anche indicare resti di siti fortificati pre-me-dievali o, più in generale, sommità artificialmente predisposte per la futura erezione di un castello. 43. L’architettura della banca dati e la redazione delle elaborazioni grafiche sono state realizzate, sotto la direzione scientifica di Riccardo Francovich, a cura del laboratorio di informatica applicata all’archeologia coordinato da Marco Valenti, presso il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell’Università di Siena. Dal punto di vista dell’informazione archeologica il presente studio si è avvalso anche di dati inediti raccolti nel corso del progetto; si tratta in particolare dei risultati di una serie di ricognizioni effettuate dallo scrivente e da Carlo Citter su alcuni siti fortificati del territorio in oggetto, oltre a quelli desumibili da alcune tesi di topografia archeologica coordinate dall’Insegnamento di Archeologia Medievale: CASINI 1992-1993; DALLAI 1992-1993; GUIDERI 19861987; MENICONI 1992-1993. Lo spoglio bibliografico effettuato sulla letteratura archeologica e storico-architet-tonica potrebbe però essere ampliato, con le opportune cautele, alla produzione storico-erudita di età moderna, che talvolta riporta interessanti descrizioni di strutture fortificate medievali, talvolta oggi non più conservate. 44. Salvo diversa indicazione le stime sulle superfici rac-chiuse dalle cinte dei castelli provengono da CITTER 1997a, pp. 36-37.
Dall’esame della tabella si evince che le attestazioni di castelli presenti nella diocesi di Populonia – isole escluse – sono relativamente scarse, poiché la documentazione menziona esplicitamente sino alla fine del XIV secolo solo 38 castelli distribuiti in circa 977 Kmq (pressappoco 1 ogni 26 Kmq). Per quanto concerne il territorio di Roselle si registra una densità di poco inferiore: nelle fonti scritte risultano documentati sino a tutto il XIV secolo 46 castelli in una superficie di circa 1348 Kmq (approssimativamente 1 ogni 29 Kmq). Questi dati, concernenti le attestazioni documentarie di castelli “in vita”, non rendono conto in misura adeguata della complessiva incidenza dell’incastellamento, ma a tal fine possono essere almeno in parte integrati alla luce di elementi diversi, provenienti dalla ricerca sulle fonti scritte e sulle fonti archeologiche. Innanzitutto, per la diocesi di Populonia-Massa, deve essere considerata la fondazione, ad opera del comune di Pisa, della terra nuova di San Vincenzo (a. 1304: 1. I. 39), un vero e proprio castello di popolamento sorto ex novo in un sito favorevole al controllo dei traffici (lungo la strada costiera ed in prossimità di uno scalo marittimo) e per il quale il Comune cittadino faceva affidamento sull’afflusso di coloni provenienti dal vicino castello di Biserno, recentemente assoggettato. Più in generale, si devono aggiungere una attestazione tarda (1. I. 45) ed alcune menzioni retrospettive o indirette dell’esistenza di castelli, vale a dire 3 casi relativi a castellari (1. I. 40, 43, 44) ed un paio di centri di curie duecentesche il cui nome fa riferimento a fortificazioni, forse individuate sul terreno attraverso l’esame della foto aerea (1. I. 41, 42). Per quanto concerne, invece, il territorio di Ro-selle-Grosseto, quattro/cinque insediamenti fortificati compaiono nei testi scritti solo dopo il loro decastellamento (1. II. 51, 52, 53, 53. 1, 54) e, in altri due casi, attestazioni solo toponomastiche relative a strutture fortificate sembrano da riferire a castelli della cui esistenza si può cogliere anche qualche riscontro archeologico (1. II. 49, 50).Al numero complessivo, inoltre, è necessario aggiungere perlomeno due insediamenti fortificati medievali per la diocesi di Massa-Populonia (1. I. 46, 47) e sei/sette per quella di Roselle-Gros-seto (1. II. 55, 56, 57, 58, 58. 1, 59, 60), i quali sono stati individuati e riconosciuti archeologicamente come castelli, ma a cui non è possibile ricondurre in modo plausibile alcuna attestazione documentaria relativa alla loro natura castrense. In prospettiva, infine, non si esclude il rico
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noscimento di ulteriori castelli attraverso la verifica sul campo di alcuni potenziali siti archeologici – non considerati nei computi e non inseriti nelle tabelle – che sono stati individuati attraverso l’aereofotointerpretazione (25 “anomalie” con tratti molto marcati e 16 con tratti più incerti per la scarsa evidenza di eventuali strutture). In base alle considerazioni sopra esposte, il numero minimo di castelli ad oggi in qualche modo documentati attraverso le fonti scritte e quelle archeologiche ammonta a 107, di cui 47 per il territorio continentale della diocesi di Populo-nia-Massa e 60 per quello di Roselle-Grosseto 45, con una densità, rispettivamente, di 1 ogni 20 Kmq circa e di 1 ogni 22 Kmq circa 46. È chiaro che il numero minimo di 107 castelli presenta un elevato grado di astrattezza, in quanto non rispecchia l’effettiva distribuzione dei siti fortificati nel territorio in un determinato momento, poiché questo dato non scaturisce da una analisi del fenomeno in prospettiva diacronica. Infatti, i castelli sopra elencati non coesistettero in vita contemporaneamente, dal momento che alcuni, attestati nei secoli X-XI, risultano abbandonati precocemente e che altri, menzionati solo nella documentazione duecentesca, vennero fondati in età relativamente tarda. Di frequente, inoltre, nell’arco cronologico considerato è esplicitamente attestato un vero e proprio “passaggio di consegne” tra due siti castellani, con l’abbandono del primo la cui popolazione si trasferisce nel secondo di più recente fondazione. In definitiva, per ovviare a questi limiti, sarebbe utile considerare lo sviluppo temporale del fenomeno, ricostruendo di volta in volta la densità dei castelli nei vari periodi. A questo proposito, però, è necessario sottolineare che i processi di produzione e conservazione delle fonti scritte medievali incidono in misura considerevole sulla possibilità di desumere una cro
45. Per il territorio dell’antica diocesi di Roselle in CITTER 1996a, p. 38 si contano 65 castelli attestati archeologicamente, di cui 61 menzionati nelle fonti scritte; in CITTER 1997a, pp. 34-37, in riferimento alla definizione dei confini della diocesi di Roselle proposta in BURATTINI 1996a, più ampia rispetto a quella delle Rationes Decimarum, si individuano invece 58 castelli attestati complessivamente da fonti scritte ed archeologiche. 46. Come si vede, per quanto concerne la densità dei ca-stelli, l’esame di fonti archeologiche e di fonti documentarie retrospettive o indirette consente di disegnare per i territori delle due diocesi un panorama più omogeneo (1/20,8 per Populonia-Massa contro 1/22,5 per Roselle-Grosseto) rispetto a quello che si desume dalle sole attestazioni di castelli «in vita» (1/25,7 Kmq per Populonia-Massa contro 1/29,3 Kmq per Roselle-Grosseto).
nologia dell’incastellamento solo in base alla prima attestazione documentaria dei castelli (ad es. un castello attestato per la prima volta nel XIII secolo poteva esistere già da qualche centinaio di anni, mentre è lecito ipotizzare che molti castelli del X secolo siano stati abbandonati senza mai comparire nella documentazione oggi disponibile). Risultano invece assai più affidabili le fonti archeologiche, ma in questo ambito siamo ancora lontani dall’aver compiuto un’in-dagine a tappeto. Da un lato, gli scavi stratigrafici, che consentono di chiarire con un buon margine di precisione la cronologia di ciascun insediamento fortificato, ad oggi hanno interessato solo un manipolo di casi (meno del 10%) 47; dall’altro le indagini topografiche, che hanno investito circa il 70% del nostro campione, sono in grado di apportare elementi conoscitivi per i periodi più tardi e quasi mai riescono ad illuminare le epoche anteriori alle ridefinizioni “romaniche” dei castelli, che furono realizzate nel corso del XII secolo obliterando le fasi precedenti, contrassegnate invece da fortificazioni deperibili e da una cultura materiale di difficile identificazione 48. In conclusione, considerato che i risultati sulla cronologia dell’incastellamento desumibili dalle fonti archeologiche ad oggi disponibili appaiono statisticamente poco significativi, dobbiamo limitarci a presentare, a titolo meramente indicativo, i dati relativi ai 107 castelli sopra censiti: in base alle prime attestazioni documentarie emerge che 38 compaiono entro la fine del secolo XI (21 per Populonia-Massa e 17 per Ro-selle-Grosseto), 47 dopo il 1100 (18 per Popu-lonia-Massa e 29 per Roselle-Grosseto), mentre per 21 castelli nei documenti scritti non si registra alcuna menzione, oppure vi si rinvengono solo riferimenti indiretti o retrospettivi (8 per Populonia-Massa e 14 per Roselle-Grosseto).
47. Fasi di vita altomedievali o preromaniche sono state individuate negli scavi di Scarlino, Rocca San Silvestro, Campiglia, Suvereto, inoltre presso Populonia sono stati individuati alcuni elementi scultorei altomedievali). Non sono state individuate fasi altrettanto antiche negli scavi non ancora conclusi di Piombino, Pietra e Montemassi. Per Grosseto l’indagine stratigrafica ha riguardato un’area periferica dell’abitato, esterna al perimetro del castello (cfr., anche per i riferimenti bibliografici ivi contenuti, FRANCOVICH, GELICHI 1980; FRANCOVICH 1985; CUTERI 1990; FRANCOVICH 1991; GELICHI 1996; BIANCHI 1997; BIANCHI et alii 1999; BIANCHI 1999). 48. Mentre le strutture romaniche e bassomedievali si rin-vengono nella generalità delle ricognizioni archeologiche dei siti incastellati, solo nei casi di Montepiti/Poggio Castelluccio, abbandonato prima del 1040, Argiano, Montepescali e Istia d’Ombrone si rinvengono tracce, seppure dubbie, di strutture preromaniche (1. I. a. 2; 1. II. a. 16, 30, 35).
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150Carta 1.I.a,b – Diocesi di Populonia/Massa. a. Castelli (sec. X); b. Castelli (sec. XI).
151
Tab. 1.I.a – Cronologia delle attestazioni documentarie di castelli nella diocesi di Populonia/Massa (sec. X).
Tab. 1.I.b – Cronologia delle attestazioni documentarie di castelli nella diocesi di Populonia/Massa (sec. XI).
152
Tab. 1.I.b – Segue.
Tab. 1.I.c – Cronologia delle attestazioni documentarie di castelli nella diocesi di Populonia/Massa (sec. XII).
Tab. 1.I.d – Cronologia delle attestazioni documentarie di castelli nella diocesi di Populonia/Massa (secc. XIII-XIV).
153Carta 1.I.c,d – Diocesi di Populonia/Massa. c. Castelli (sec. XII); d. Castelli (sec. XIII-XIV).
154
Carta 1.I.e – Diocesi di Populonia/Massa. Castelli: attestazioni archeologiche e indirette.
Tab. 1.I.e – Altre attestazioni documentarie ed archeologiche di castelli nella diocesi di Populonia/Massa.
155
Carta 1.II.a,b – Diocesi di Roselle/Grosseto. a. Castelli (sec. X); b. Castelli (sec. XI).
156
Tab. 1.II.a – Cronologia delle attestazioni documentarie di castelli nella diocesi di Roselle/Grosseto (sec. X).
Tab. 1.II.b – Cronologia delle attestazioni documentarie di castelli nella diocesi di Roselle/Grosseto (sec. XI).
157
Tab. 1.II.b – Segue.
Carta 1.II.c – Diocesi di Roselle/Grosseto. Castelli (sec. XII).
158
Tab. 1.II.c – Cronologia delle attestazioni documentarie di castelli nella diocesi di Roselle/Grosseto (sec. XII).
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Carta 1.II.d,e – Diocesi di Roselle/Grosseto. d. Castelli (secc. XII-XIV); e. Castelli: attestazioni archeologiche e indirette.
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Tab. 1.II.d – Cronologia delle attestazioni documentarie di castelli nella diocesi di Roselle/Grosseto (sec. XIII).
Tab. 1.II.e – Altre attestazioni documentarie e archeologiche di castelli nella diocesi di Roselle/Grosseto.
5. RAPPORTO TRA CASTELLI E INSEDIAMENTI PREESISTENTI
In via preliminare, per analizzare il rapporto tra castelli e insediamenti preesistenti attraverso la documentazione scritta sono state censite le attestazioni del toponimo precedenti alla sua designazione come castello; i risultati emersi hanno condotto alla definizione di quattro categorie: 1) assenza di menzioni precedenti, 2) menzioni senza attribuzioni specifiche oppure come località, 3) menzioni come casa dominicata o curtis, 4) menzioni come casale o come villa. È opportuno precisare che nelle due diocesi maremmane non si registrano casi di menzioni come burgus o vicus in relazione a toponimi poi attestati come castelli; del resto, di tali forme insediative si conoscono solo rare attestazioni dirette, oltre a qualche ricordo toponomastico 49. È significativo, invece, che le testimonianze relative a vici siano contenute in due tra i più antichi documenti concernenti gli episcopati locali, presumibilmente perché si tratta di testi aventi ad oggetto la cura d’anime della popolazione del nostro campione, che perciò interessavano la generalità degli abitati e non solo quelli ove vantavano diritti patrimoniali o signorili quei soggetti specifici che sono riusciti a tramandarci la propria documentazione: il vicus Caldane compare tra le ville i cui redditi decimari vennero concessi nel 1072 dal vescovo di Roselle all’aba-te del monastero di S. Bartolomeo di Sestinga 50; il vicus Montanini è invece menzionato due anni dopo, tra le località ubicate ai margini settentrionali del territorio diocesano di Massa-Popu-lonia 51.
Diocesi di Populonia
Sebbene non sia esiguo il numero delle fonti scritte altomedievali che riguardano il territorio della diocesi di Populonia, per la grande maggioranza dei castelli non si registrano menzioni anteriori alla loro attestazione come insediamento
49. Ad. es. una «villa de Burgo» in val di Cornia (diocesi di Populonia) è menzionata in un atto del 1158 (AIMAe, III, coll. 1173-1174), mentre il castello di Vico/Vicarel-lo, ubicato entro la porzione del territorio rosellano posta sulla sponda sinistra dell’Ombrone, è attestato solo nel corso del XIII secolo (Cfr. 1.II.b.42). 50. ASS, Diplomatico S. Agostino, 23 luglio 1072. È incerto dal dettato del documento se la villa sia denominata Vicus piuttosto che Vicus Caldane. 51. PFLUGK HARTTUNG 1881-1884, II, n. 160, pp. 124-125: 1074 novembre 20.
fortificato. Tale fenomeno è in gran parte riconducibile al fatto che raramente le iniziative di incastellamento furono promosse dal vescovato di Lucca o dalla chiesa di S. Pietro di Roma, vale a dire dagli unici enti che sono riusciti a trasmetterci informazioni relativamente consistenti su questo territorio per il periodo anteriore al secolo X. Questa situazione permane sino all’XI secolo, periodo a partire dal quale si fanno più frequenti le attestazioni di toponimi precedenti l’assunzio-ne dello status di castello da parte del sito, il che permette di effettuare ulteriori considerazioni in base ad una analisi più dettagliata di tali casi. Il numero di attestazioni del toponimo senza alcun attributo o come semplice locus è equivalente a quello delle curtes e, complessivamente, costituisce circa un terzo del totale. Anche se non mancano riferimenti altomedievali ad un inquadramento per casali del territorio di Populonia, quasi mai le menzioni di queste strutture costituiscono l’immediato antecedente di una attestazione del toponimo come castello. Un indizio di legami tra castelli ed assetto precastrense articolato per casali è costituito, comunque, dalla presenza di centri curtensi poi incastellati che mantennero nel proprio nome il termine casale seguito da alcuni riferimenti specifici 52. Nei casi di Monteverdi e Montioni si ha, invece, una più stretta correlazione tra attestazioni di casali e di castelli: in una cartula dotis del 754 viene fatto riferimento ad un «casale Palatiolo» – al quale erano connessi la «basilica sancti Filippi» e numerose «case massaricie» – nel cui ambito venne fondato il monastero di S. Pietro, che occupò una sede sostanzialmente coincidente con quella del castello di Monteverdi, attestato nel 1128 (ma presumibilmente già esistente nella seconda metà del secolo X 53). Infine, un atto dell’825 concernente la chiesa di S. Prospero situata «in loco Casale, ubi dicitur Monti
52. Ci riferiamo a Casale Longo, curtis nel 867 e castellare nel 1257 (cfr. tabella 1.I.47), nonché a Casale Lapi, poi Casalappi, località attestata dal 761, curtis nel 882 e castello menzionato nel 1055 (cfr. tabella 1. I. 18), un toponimo per il quale tuttavia rimane aperta anche la possibilità di una derivazione da casa (cfr. FRANCOVICH ONE-STI 1987-1988, pp. 17-18). 53. Nel corso dei secoli VIII-X l’ubicazione del monastero è realizzata attraverso richiami sia al «locus qui vocatur Palatiolo», sia al «locus qui dicitur Monte Virde», facendo riferimento nel primo caso al nome dell’unità fondiaria al cui interno venne fondato, nel secondo ad un comprensorio geografico più vasto che la comprendeva. Nel-l’atto del 973 si fa riferimento a «eclesia et monasterio illo beati sanci Petri apostolurm principis sito Montevirde cum eclesia et territuris seu castellis et rupis adque familiis eiusdem monasterio pertinentibus» (KURZE 1982, n. 203, pp. 9-13): tra i castelli pertinenti all’abbazia è presumibile fosse compreso, appunto, quello di Monteverdi.
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Juneo» indica forse il toponimo Casale – come ritenuto dall’editore del documento – oppure utilizza l’espressione «in loco casale» per individuare un ambito territoriale al cui interno era compreso il microtoponimo Monti Juneo/ Montioni 54.
Mancano le attestazioni di ville relative a toponimi poi documentati come centri castrensi, ma del resto nel territorio populoniese gli stessi riferimenti a ville sono assai scarsi; infine sono da segnalare due casi particolari: quello di Populo-nia/Porto Baratti attestato come castello dal 1117 in un sito documentato sino al secolo IX come città episcopale 55, e quello di Tricase, un castello menzionato nel 1099 che è citato come villaggio sede di una chiesa nella seconda metà del secolo VIII 56.
Diocesi di Roselle
Sebbene la documentazione altomedievale concernente il territorio di Roselle sia relativamente scarsa, la stragrande maggioranza dei toponimi relativi a castelli attestati sino alla metà del secolo XI (9 su 11) è menzionato in precedenza, al contrario di quanto si è riscontrato per il territorio della diocesi di Populonia, che pure è caratterizzato da una quantità ben maggiore di fonti scritte altomedievali. Passando a considerare le attestazioni di castelli posteriori alla metà dell’XI secolo la situazione risulta invece più omogenea rispetto a quella di Populonia: per oltre la metà dei siti documentati come castelli (e nella totalità dei casi in cui la fisionomia castrense emerge solo da elementi archeologici o indiziari) non sono infatti emerse precedenti menzioni del toponimo. Tale fenomeno è in buona parte riconducibile all’identità dei soggetti per cui è documentato un ruolo di primo piano nella promozione del
54. MDL, V/2, n. 472.55. CATUREGLI 1938, n. 277 (a. 1117) su cui cfr. anche CECCARELLI LEMUT 1996, p. 22. La più tarda attestazione di Populonia come città episcopale è conservata nella continuatio della Vita Walfredi, redatta nei primi anni del secolo IX (cfr. MIERAU 1991 a, b). 56. Secondo alcuni testi documentari della metà del se-colo VIII Tricchase costituisce la denominazione di un comprensorio geografico relativamente vasto «fine de Tricchase»/«terra Treccasiana», facente capo ad un villaggio al cui interno aveva sede una chiesa intitolata a S. Martino (CDL, I, n. 111: 754 aprile; CDL, II, n. 147: 761 gennaio; MDL, V/2, n. 338: 807 febbraio), non risulta mai documentata una curtis facente capo al villaggio di Tricase se non in un atto del 1099 quando questa compare in associazione ad un castello (UGHELLI 1717ss., III, col. 710). Cfr. Appendice II, d.
l’incastellamento nel Rosellano, vale a dire Aldobrandeschi e, in minor misura, Farolfingi: censuari della chiesa di Roma i primi, ed entrambi livellari del vescovo di Lucca, questi gruppi aristocratici furono protagonisti della costruzione di castelli in località precedentemente documentate come centri di amministrazione fondiaria negli archivi dei due grandi enti ecclesiastici. Infatti, se estendiamo la visuale all’intero arco cronologico considerato (secoli X-XIII), sono attestati in precedenza oltre la metà dei castelli appartenenti a esponenti di queste due famiglie, a fronte di una sostanziale assenza di menzioni antecedenti al loro incastellamento per i centri controllati dai soggetti la cui documentazione ci è pervenuta solo a partire dal secolo XII, vale a dire alcune ‘famiglie minori’ ed i due monasteri che vantavano una presenza patrimoniale nel-l’entroterra rosellano, vale a dire S. Salvatore di Giugnano e S. Lorenzo al Lanzo. A questo proposito, è possibile rilevare che per i castelli rosellani ubicati al di sotto della fascia altimetrica dei 150 m s.l.m. si registra una elevata concentrazione di attestazioni del toponimo anteriori all’incastellamento. Tale fenomeno, in parte connesso a quelli sopra delineati, potrebbe derivare dal fatto che durante l’alto medioevo nel Rosellano i comprensori alto-col-linari sono meno documentati rispetto alle aree di pianura e potrebbe anche suggerire, in sintonia con quanto è emerso dalle indagini archeologiche 57, che tendenzialmente le alture maggiori furono occupate dagli insediamenti in epoca relativamente più tarda e che qui si verificò una maggior discontinuità topografica tra castelli, sorti nelle aree sommitali, ed insediamenti preesistenti ubicati perlopiù a mezza costa ed in prossimità di sorgenti.
Passando ad esaminare la tipologia delle attestazioni del toponimo precedenti alle testimonianze dell’incastellamento, riscontriamo forti analogie con quanto rilevato nel territorio di Populonia. Innanzitutto il numero dei castelli il cui toponimo è precedentemente attestato come località è equivalente a quello documentato come «curtis» o «casa domnicata» e complessivamente essi rappresentano meno della metà del totale 58.
57. CAMBI et alii 1994; CITTER 1996a; DALLAI, FARINELLI 1998; GUIDERI 1999. 58. Si tratta di attestazioni tra loro eterogenee che con-ducono a considerazioni articolate in merito alla loro significatività di un rapporto di coincidenza topografica tra centro curtense ed insediamento castellano. Ad esempio, non possiamo affermare che il castello di Gavorrano attestato nel 1040 nelle mani di una famiglia che traeva
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Risultano completamente assenti attestazioni di burgi, vici o casali relative a toponimi poi documentati come centri castrensi, mentre rarissime sono quelle relative a ville. Riguardo al territorio rosellano non si conservano riferimenti documentari relativi ad una organizzazione “per casali”, mentre dubbie e di età avanzata sono le rare testimonianze toponomastiche in proposi
59. Quindi non possiamo interpretare le attestazioni di casali come forme insediative preesistenti l’incastellamento dei siti rosellani, al contrario di quanto si registra per l’età carolingia in numerosi siti, poi incastellati, ubicati nei vicini versanti occidentale e meridionale dell’Amiata, entro le diocesi di Chiusi e Sovana. Non crediamo comunque di poter desumere dalla scarsità delle attestazioni documentarie una mancata diffusione dell’ordinamento ‘per casali’ nel comprensorio rosellano, cosa che lo differenzierebbe nettamente dai territori limitrofi, considerata da un lato la scarsità del materiale documentario di età longobarda e carolingia disponibile per il Rosellano e dall’altro la tipologia di tale documentazione, dal momento che gran parte delle attestazioni precastrensi relative alla diocesi di Roselle proviene da elenchi relativi al patrimonio pontificio ove viene fatto uso quasi esclusivamente dei termini di curtis o villa 60.
Considerazioni conclusive
Nella povertà della documentazione disponibile e nella scarsità numerica dei casi analizzati, sono emersi elementi che consigliano una particolare cautela nei tentativi di valutare la continuità o la discontinuità insediativa di uno specifico sito solo in rapporto alla omogeneità o alla disomogeneità del toponimo utilizzato nelle fonti scritte in associazione alle varie forme di inquadramento insediativo, religioso e gestionale. Infatti, si riscontrano casi in cui il medesimo sito viene contrassegnato, in progresso di tempo, attraverso l’uso di nomi diversi e, per contro, casi in cui uno stesso toponimo viene utilizzato nella do
gran parte della propria disponibilità patrimoniale in Maremma dai rapporti con il vescovo di Lucca fosse sorto nel sito in cui, secondo un inventario di documenti della prima metà del secolo IX, il nobile Alahis. possedeva una casa, massaricia o, più probabilmente, domnicata. Cfr. CDL, II, n. 295, p. 443 e ANGELINI 1987, n. 75. 59. Ci riferiamo, ad es., a Casal di Pari, abitato attestato con il nome di «Casale de Ardinghesca» dal 1291-1292, cfr. CV, IV, n. 1028, pp. 1541-1557: 1273 dicembre 161296 gennaio 21, in particolare alla p. 1552. 60. Cfr. supra la nota 33.
cumentazione per indicare siti distinti, talvolta contemporaneamente, più spesso facendo riferimento, in momenti diversi, al medesimo abitato che cambia di sede “trascinando” con sé l’ori-ginaria denominazione. In particolare, toponimi completamente diversi caratterizzarono uno stesso insediamento prima e dopo la sua assunzione di una fisionomia o di uno status castrense (probabilmente la curtis di San Vito in Cornino poi castello di Vignale e, poco oltre il confine con la diocesi di Volterra, l’abitato di Trifonte poi castello di Rocchette Pannocchieschi). Più in generale, si intuisce la tendenza a denominare un castello, nelle fasi iniziali, con il nome del comprensorio nel cui ambito è sorto e, solo in un secondo tempo, con quello della località specifica ove sono state erette le strutture fortificate o con quello riferibile al-l’identità del soggetto detentore del castello. Quando la sequenza documentaria è abbastanza completa, inoltre, possiamo presumere che il mutamento del toponimo sia di qualche tempo posteriore all’evoluzione della forma insediativa (curtis di Nussina – Rocca di Nussina – Rocca Tederighi e castello della curtis di Montecalvo – castello di Rocca San Silvestro). Per contro, al medesimo toponimo attestato in momenti diversi nella documentazione corrisposero distinti insediamenti fortificati allorquando si produsse lo spostamento degli abitanti di un castello da un sito, spesso poi denominato semplicemente Castelvecchio, ad un altro, che talvolta venne designato Castelnuovo o, più spesso, assunse sic et simpliciter il nome del castello di cui accolse la popolazione 61. Infine, dobbiamo rilevare che la corrispondenza onomastica tra castello ed altre forme insediative, anche attestate in precedenza, non consente di desumere indicazioni certe sulla coincidenza topografica delle due località omonime, dal
61. Può accadere, infatti, che un castello attestato nei se-coli X o XI ed il cui nome corrisponde a quello di un sito fortificato bassomedievale chiaramente individuato sul terreno sia stato precedentemente ubicato in un sito diverso da quello successivo: di frequente è questo il caso dei numerosi insediamenti medievali denominati già in antico castelvecchio, il cui nome risulta trasmesso ad un castello edificato in un nuovo sito e popolato dagli antichi abitatori del castello. Casi analoghi sono illustrati, ad es., in TOUBERT 1973, pp. 362-364 e, per la Toscana meridionale in FARINELLI, GIORGI 1998, nonché nel contributo presentato dagli stessi in questo volume. Per le diocesi in esame esso è individuabile, sia in relazione al progetto di «transferre civitatem Grosseti» su Montecurliano attorno al 1180, sia nel numero di siti castrensi decastellati ed attestati nella documentazione medievale con il nome di Castelvecchio (oppure Massa Vecchia, Campiglia Vecchia, Prata Vecchia, e simili).
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momento che il toponimo contrassegnava spesso un intero comprensorio, entro il quale avevano sede castelli, chiese, centri di amministrazione fondiaria topograficamente distinti. In que-st’ottica dobbiamo considerare la definizione dei rapporti topografici tra pievi e castelli omonimi. A tale proposito possiamo riferirci ai casi di Fornoli e Torniella: in base al disposto di una bolla pontificia emanata nel 1188 a favore del vescovo di Grosseto, in queste località all’epoca avevano sede due pievi 62, ubicate ciascuna a distanza di circa 1 Km dagli omonimi castelli, i quali sorgevano su rilievi naturalmente difesi e posti a quote più elevate 63; situazioni analoghe sembrano aver contrassegnato, perlomeno nelle fasi più antiche, il rapporto topografico tra altre pievi menzionate nello stesso documento del 1188 ed i castelli omonimi posti nelle loro vicinanze: Campagnatico, Giuncarico, Sticciano, Alma, Buriano e Lattaia. In definitiva, possiamo concludere che se la località ove sorgeva un castello risulta precedentemente attestata come sede di una curtis e soprattutto se entrambi venivano o meno designati con il medesimo toponimo, ciò dipendeva assai più dai caratteri intrinseci della documentazione scritta conservata e dalla mera casualità, piuttosto che da un’effettiva solidità del legame di continuità funzionale tra il castello e le strutture più antiche di signoria fondiaria: una analisi basata eminentemente sulle fonti documentarie lascia perciò aperti numerosi interrogativi, cui forse si potrà trovare risposta solo con l’ap-profondimento di parallele indagini archeologiche. In tal senso, costituisce un dato assai significativo il fatto che le indagini stratigrafiche condotte sui castelli del nostro campione territoriale, laddove siano state portate a compimento, hanno fatto emergere consistenti fasi insediative altomedievali, anteriori all’incastellamento dei siti indagati.
Ciò premesso, è comunque possibile raccogliere alcuni elementi dall’esame del materiale documentario. Innanzitutto emerge che le più esplicite informazioni in merito alla forma insediativa precedente quella di castello, in relazione al medesimo sito, riguardano solo il quarto caso della tipologia sopra indicata (vale a dire quando il toponimo è precedentemente menzionato come casale o come villa), caso peraltro quantitativamente assai minoritario rispetto agli altri e
62. PFLUGK HARTTUNG 1881-1884, III, n. 414, pp. 359-361. 63. Cfr. tabella 1. II. 38-39.
perdipiù di difficile interpretazione se analizziamo puntualmente le ipotesi ad una ad una. Più in generale, comunque, la pressoché totale assenza di riferimenti altomedievali a ville ci pare strettamente connessa alla dispersione degli archivi delle chiese Rosellana e Populoniense, che ci ha privato dei dettagliati elenchi – invece disponibili per numerose altre diocesi a partire dal secolo X – relativi alle ville dei pivieri, i cui redditi decimari venivano allivellati dai rispettivi vescovi. Per quanto concerne, invece, le attestazioni come curtis relative ad un toponimo poi menzionato come castello, in via preliminare occorre precisare che le medesime devono essere utilizzate con grande cautela ai fini della ricostruzione della fisionomia insediativa. Infatti, il significato del termine curtis può variare notevolmente nel tempo e nello spazio ed esso è comunque essenzialmente afferente alla sfera della gestione fondiaria piuttosto che a quella della definizione insediativa 64. Limitando il campione temporale alle fasi iniziali dell’incastellamento, per le quali il tema delle preesistenze insediative dei castelli risulta di maggior rilievo storiografico, occorre osservare che anche in quest’area i castelli sembrano essere considerati come annessi delle curtes cui sono immancabilmente associati, al pari delle eventuali chiese o torri ad esse pertinenti 65. Del resto, nelle transazioni patrimoniali del X secolo e della prima metà dell’XI, sebbene non manchino attestazioni di curtes prive di castelli, non è dato riscontrare il contrario e i documenti che nominano castelli senza far riferimento alle relative curtes si riducono a datazioni topiche oppure a menzioni come toponimici. Queste considerazioni inducono a ritenere che, di norma, nelle due diocesi maremmane i castelli siano stati impiantati nell’ambito di curtes preesistenti, attraverso un riassetto del centro domocoltile, oppure mediante la realizzazione di fortificazioni in un sito a questo connesso ed individuato in relazione a scelte tattico/strategi-che66. Del resto, in numerosi casi relativi alle proprietà delle chiese lucchesi – vale a dire quelli meglio illustrati dal materiale diplomatico – possiamo
64. Cfr. ANDREOLLI, MONTANARI 1983, pp. 177-215. 65. In base ad argomentazioni analoghe in VACCARI 1963 (in particolare alle pp. 46-51) si è sostenuta la derivazione della signoria territoriale dalla signoria fondiaria. 66. A tali conclusioni conducevano già i due principalistudi incentrati sui castelli della regione CAMMAROSANO, PASSERI 1976 e CECCARELLI LEMUT 1985.
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supporre che il centro domocoltile presentasse già verso la fine del secolo IX una fisionomia materiale “proto-castrense” e ciò per due ordini di motivi. In primo luogo si ha la netta sensazione che le descrizioni contenute negli inventari altomedievali del patrimonio della Chiesa lucchese si riferiscano ad un insieme di strutture, ivi compresa la «casa indomnicata», radunate attorno ad un cortile (curte), alle quali facevano capo terre del «dominico» che sembrano destinate a colture progressivamente più estensive mano a mano che ci si allontanava da tali edifici67. In secondo luogo, alcune concessioni livellarie risalenti ai decenni centrali del X secolo ed ai primi anni del successivo contengono esplicite indicazioni sulla contiguità spaziale che doveva contrassegnare, nel periodo immediatamente precedente, i principali edifici pertinenti a ciascuno dei centri domocoltili menzionati – quattro dei quali sembrano essere stati successivamente incastellati – facendo esplicito riferimento a fundamenta et casalina ove un tempo si dichiarano essere sorte altrettante case et curtes domnicate 68.
67. Inventari altomedievali 1979, pp. 205-224, 225-246. Le strutture curtensi di proprietà della chiesa lucchese «in Curnino», «in sancto Georgio in loco Ravi», «in Lacchise» sono descritte in un inventario della seconda metà del secolo IX edito in Inventari altomedievali 1979, pp. 205-224. Le descrizioni delle curtes di S. Vito in Cornino, S. Regolo in Gualdo ed Asilacto contenute nel «breve de feora» databile all’ultimo decennio del secolo IX sono edite in Inventari altomedievali 1979, pp. 225-246. Per una dettagliata analisi di questi testi in merito al territorio in questione cfr. CECCARELLI LEMUT 1985. 68. Il fundamentum indicava nella documentazione dei secoli IX e X il terreno sottostante una costruzione, nel quale erano infisse le fondamenta (cfr. GALETTI 1997, p. 48). Una concessione livellaria del settembre 940 riguarda un «fundamento et casalino in qua fui casa et curticella domnicata» situati in Collicle (MDL, V/3, n. 1276), vale a dire una curtis attestata dal 777, mentre un castello omonimo è menzionato nel 1046 (cfr. 1.I.15). Un livello del 948 concerne la concessione di un «fundamento et casalino ubi iam fuit casa et curte domnicata in loco et finibus Casalappi» (MDL, V/3, n. 1331); la curtis di Casalappi è attestata dall’882 (MDL, V/2, n. 919), mentre l’omonimo castello è menzionato a partire dal 1055 (AIMAe, I, coll. 473-474). Un analogo atto del 983 fa invece riferimento a «fundamentum et casalino illo in quo fuit casa et curte domnicata, que esse videtur in loco et finibus Teupascio territurio populonense» (MDL, V/3, n. 1525), nel 1018 e nel 1059 due nuove concessioni livellarie riguardarono il medesimo «fumdamemto et casalino illo in qua fuit casa et curte domnicata qui esse videtur in locho et finibus Teupasscio» (GHILARDUCCI 1991, n. 8 e ANGELI 1986, p. 113). Ancora un livello del 1018, presumibilmente in riferimento al centro curtense di Lacchise attestato dalla fine del secolo IX, concerne poi il «fumdamento et casalino illo in qua fuit casa et curte domnicata qui esse videtur in locho et finibus ad sancto Fridiano prope ecclesia sante Aghatie de comitato et teriturio rosellense, una cum fundamento et casalino illo in qua fuit ecclesia santi Fridiani prope suprascripto fumdamento et curticella domnicata pertinentes ecclesie santi Vincemti
Se, infine, consideriamo i dati emersi dalla documentazione scritta alla luce dei risultati del-l’indagine archeologica, tale visione d’insieme risulta in buona misura confortata 69. Innanzitutto, le ricerche sul territorio hanno in certa misura evidenziato che, mentre è possibile riscontrare testimonianze archeologiche di un habitat accentrato durante i secoli V-VI, per quanto riguarda i secoli VIII-IX gli indicatori archeologici tacciono in tal senso, lasciando presumere lo stabilirsi della popolazione in alcuni siti che risultano successivamente occupati da castelli o villaggi 70. Infatti, ogniqualvolta l’inda-gine archeologica è passata dalla ricerca topografica allo scavo, al di sotto delle fasi ‘romaniche’ dei castelli (secc. XII-XIII) sono state sempre individuate una o più fasi ‘preromaniche’ (riportabili ai secc. VIII-XI) che inducono ad escludere la fondazione dei castelli in siti precedentemente non occupati da forme insediative 71.
In conclusione, possiamo ritenere che nelle due diocesi di Populonia-Massa e Roselle-Grosseto l’incastellamento non abbia rappresentato di per sé uno strappo traumatico rispetto al modello insediativo precedente, quanto semmai la tappa di un fenomeno con radici più antiche che aveva già conosciuto una fase di accelerazione durante i secoli VIII-IX in relazione allo sviluppo della grande proprietà. Infatti, sul piano insediativo un importante prodromo dell’incastellamento fu rappresentato dall’allestimento di centri direzionali nelle grandi aziende altomedievali, i quali talvolta vennero impiantati entro villaggi preesistenti – finendo spesso per assorbirli con il tempo – talaltra furono organizzati in aree meno antropizzate (è forse il caso dei casali). Pare in definitiva che nelle due diocesi maremmane l’af-fermazione dei castelli durante i secoli X e XI non abbia fatto altro che consolidare dinamiche
et santi Fridiani» (GHILARDUCCI 1991, n. 6), strutture forse individuate attraverso l’aereofotointerpretazione nei siti di Pod. Ferriere (q. 168 m. s.l.m.) e della prospiciente altura q. 173 m. s.l.m. (ASFT, 14225: foto 110). Sulla «carbonaria» che cingeva la sommità dell’altura relativa alla «curtis Sancti Frediani» di Vetulonia cfr. supra la nota 40. 69. Non disponiamo per quest’area di dati sulle dimen-sioni delle aree occupate dai centri domocoltili analoghi a quelli raccolti per il territorio padano, che, nella loro varietà oscillano per la maggior parte tra i 2.000 e i 4.000 mq (GALETTI 1997, pp. 72-73). È suggestivo, comunque rilevare che le dimensioni dei nuclei domocoltili padani risultano sostanzialmente corrispondenti a quelle stimate per numerosi castelli del Rosellano che non conobbero una consistente crescita demica durante i secoli XI-XIII (cfr. infra le note 92-93). 70. Cfr. la nota 57. 71. Cfr. la nota 47.
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insediative impostate su basi assai più antiche, i cui caratteri salienti, ancora da definire meglio attraverso le ricerche archeologiche, erano rappresentati dalla diffusione di un popolamento nucleato e dalla tendenziale e progressiva crescita di quota dei siti individuati per gli insediamenti. Infatti, se sin dal secolo VIII disponiamo di indizi documentari che inducono a ritenere ampiamente diffusi i villaggi, sono invece praticamente assenti indicazioni altrettanto esplicite sull’esistenza di un popolamento sparso 72. Inoltre, un presumibile trend di lunga durata che condusse allo spostamento delle dimore rurali in siti progressivamente più elevati è stato a tratti evidenziato per quest’area attraverso le indagini archeologiche che sembrano averne colto alcune tappe fondamentali 73. Questa stessa tendenza è, invece, più chiaramente percepibile durante il periodo successivo sino alla piena età moderna, quando la medesima risulta strettamente connessa alle difficoltà igieniche e ambientali prodotte dal disordine idraulico delle pianure e dalla recrudescenza delle epidemie di mal’aria. Solo con il tempo, infatti, in un paesaggio agrario sempre più pesantemente caratterizzato dalla diffusione dell’allevamento transumante e della cerealicoltura estensiva, la spinta verso l’accen-tramento insediativo e quella verso il tendenziale innalzamento della quota degli abitati agirono a favore di alcuni castelli, determinando l’ab-bandono di numerosi centri fortificati e di alcuni villaggi, sopravvissuti talvolta come ville sino al XII secolo, la cui popolazione finì per essere assorbita dai popolosi centri fortificati maremmani duecenteschi. In ogni caso, si ha la netta impressione che già verso la fine del secolo XII la maggior parte della popolazione maremmana risiedesse entro i castelli piuttosto che in abitati aperti 74.
6. PROMOTORI DELL’INCASTELLAMENTO E DETENTORI DI CASTELLI
Per quanto concerne i soggetti che promossero l’incastellamento è possibile procedere unitamente nella trattazione relativa alle due diocesi in
72. Cfr. il caso di Monteburuli esposto nel testo corrispondente alle note 28-32 e quelli delineati nella Appendice II. 73. Cfr. la nota 57. 74. Cfr. il contributo di Roberto Farinelli e Andrea Giorgi in questo volume. 75. Cfr. i contributi di Andrea Augenti e Maria Elena Cortese in questo volume.
esame, poiché la situazione si presenta in entrambe omogenea. Nella Maremma rosellana e populoniense – come nei territori volterrano ed aretino 75 – sequenze documentarie in qualche modo riconducibili alle «carte di fondazione» sono sostanzialmente assenti 76. L’unico esempio, vale a dire quello di Montecurliano nella diocesi di Roselle-Grosse-to 77, si configura come decisamente anomalo, poiché l’abitato fortificato venne fondato per impulso di Ildebrandino VII Aldobrandeschi attorno al 1180, con l’intento dichiarato di trasferirvi la città di Grosseto, nel quadro di una complessa vicenda che interessava i più ampi equilibri politico-militari di questa parte della Maremma. Nonostante le notevoli ambizioni dell’ini-ziativa e la potenza del personaggio che la promosse e la sostenne, è significativo che in breve tempo questa fondazione pianificata si sia dimostrata poco capace di incidere sul quadro insediativo: infatti non solo Montecurliano non sostituì la città, ma si configurò ben presto come modesto centro rurale sopravvissuto solo sino alla metà del Trecento 78.
Nella generalità dei casi, invece, è possibile definire solo in via ipotetica l’identità dei promotori dell’incastellamento sulla base della documentazione disponibile. A tale scopo è utile raccogliere informazioni sui detentori di un castello al momento della sua prima menzione documentaria, e testimonianze anteriori ma relative a soggetti detentori di possessi situati nell’ambito territoriale in cui sarebbe sorto l’insediamento fortificato, elemento quest’ultimo la cui valutazione lascia comunque ampio spazio all’interpreta-zione 79. Ad ogni modo, nello stabilire i margini di probabilità delle ipotesi avanzate abbiamo privile
76. Forse possiamo ritenere assimilabile ad una carta di fondazione l’atto del 986 da cui si intuisce l’iniziativa di popolamento della «terra et sterpeto» posta «in loco et finibus Montioni et vocitatur Castelione» sulla quale cfr. supra il testo corrispondente alle note 24-25. 77. Non è certo che si possa parlare di carta di fondazio-ne in riferimento alla documentazione relativa alle iniziative di popolamento e colonizzazione attuate dal vescovo di Lucca attorno al 998 per il castello di Collicle, nell’area dei monti d’Alma, dal momento che il sito potrebbe già essere attestato come castello nel 976. Per una interpretazione in parte diversa della documentazione riguardante questo castello cfr. ANDREOLLI 1979 e PRISCO 1998, pp. 196-218. 78. Del castello non si hanno attestazioni documentarieposteriori alla Peste Nera e risulta completamente abbandonato nel primo Quattrocento. Cfr. il contributo di Farinelli e Giorgi in questo volume. 79. In questa sede ci siamo limitati a raccogliere ed ana-lizzare il primo tipo di informazioni.
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giato alcuni parametri. In generale la probabilità che il soggetto detentore di un castello sia stato anche un promotore della sua fisionomia castellana aumenta mano a mano che le menzioni documentarie sono più antiche e, quindi, più vicine al primo manifestarsi dell’incastellamento; per contro è assai difficoltoso inferire l’identità delle forze che furono artefici della nascita di castelli attestati come tali solo nei secoli XII e XIII. Più specificamente, come accennato, mag-giori elementi di probabilità sull’identità dei promotori dell’incastellamento emergono nei casi in cui un soggetto è attestato come proprietario di complessi curtensi, terre o diritti in corrispondenza di località il cui nome è utilizzato nella documentazione successiva per designare un castello attestato tra i possessi di questo medesimo soggetto. Sebbene le migliori condizioni conoscitive in tal senso siano offerte dai casi in cui la forbice cronologica risulta più stretta, anche quando tra la menzione di un complesso patrimoniale e quella di un omonimo castello in mano ad esponenti di una medesima famiglia o allo stesso ente ecclesiastico corre anche più di un secolo, riteniamo di poter inferire con sufficiente attendibilità l’identità dei promotori (o copromotori) dell’incastellamento (ad es. Scarlino curtis aldobrandesca nel 973, castello aldobrandesco nel 1108).
Il secolo X
Per quanto riguarda il secolo X abbiamo riscontrato 8 attestazioni di castelli ed una di «turris» controllati dagli Aldobrandeschi (3 nella diocesi di Populonia e 6 in quella di Roselle), altre 3 – due delle quali incerte – di castelli sorti nella media val di Bruna rosellana su impulso di famiglie aristocratiche prive di titolo comitale, una di castello nato in corrispondenza di preesistenti complessi patrimoniali pertinenti alla Chiesa di Lucca, ed infine quella di una «turre qui dicitur sancto Vito» (a. 996), eretta presso il principale centro curtense della Chiesa lucchese nel territorio di Populonia, ove si stava costituendo, presumibilmente a partire dal 980, il castello di Vignale 80.
80. Sulla torre di S. Vito cfr. MDL, IV/2, n. 80 e MDL, V/2, n. 1705. La prima attestazione certa del castello di Vignale risale al 1077 quando, però non si hanno indicazioni chiare sull’identità dei suoi detentori (GIORGETTI 1874, n. 16). Anche per quanto concerne l’Italia settentrionale sono stati riscontrati casi di centri curtensi difesi da semplici torri e successivamente attestati come castelli, a fronte di un’estrema rarità di torri isolate nella campagna (SETTIA 1984, p. 205).
Se estendiamo i termini cronologici del campione al primo decennio del secolo successivo, la preponderanza delle famiglie comitali nel controllo dei castelli menzionati in età più precoce viene ad essere ulteriormente accentuata, in virtù dell’atte-stazione di altri sei castelli nella diocesi di Populonia: nella nota donazione del 1004 al monastero di S. Maria di Serena sono citati altri cinque castelli anteriormente detenuti dal conte gherardesco Gherardo, mentre nel 1010 è documentato il castello aldobrandesco di Valle, fondato nell’am-bito di una curtis regia attestata nel secolo X. In ogni caso, per meglio valutare quanto la tipologia delle fonti scritte disponibili condizioni una indagine sulle attestazioni documentarie di centri fortificati, è opportuno precisare che 12 dei 19 castelli attestati con certezza 81 nel quarantennio 970-1010 compaiono nei due soli atti del 973 e del 1004 – riconducibili a quel tipo di ‘elenchi di castelli’ la cui presenza caratterizza la documentazione toscana degli ultimi decenni del secolo X – e che, ad esclusione di tali testi, il restante materiale documentario conservato per lo stesso periodo menziona solo 3-4 castelli di pertinenza delle famiglie comitali.
I secoli XI e XII
In linea generale, possiamo rilevare che a partire dagli ultimi decenni del secolo XI – ed in misura sempre più ampia durante il secolo successivo – si registra un incremento della compartecipazione di soggetti diversi nel controllo di centri castrensi, fenomeno questo da porre in relazione anche alla diffusione ed al rafforzamento dei rapporti feudo-vassallatici ed all’affermazio-ne di signorie territoriali sempre più vaste incentrate sui castelli maremmani 82. Per quanto concerne gli anni 1011-1099 83, considerata l’esiguità numerica del campione, non ci è sembrato opportuno evidenziare elementi di disomogeneità tra la prima e la seconda metà del secolo XI, né tra i territori delle due diocesi, in quanto tali aspetti ci sembrano comunque da ricondurre essenzialmente all’alea che caratterizza la tradizione documentaria.
81. È incerto se i castelli di Rusciano e Morrano menzionati nel 990 (cfr. 6. 1, 6. 2) siano da identificare con le due omonime località medievali della media val di Bruna o con due castelli ubicati nel territorio di Pisa. 82. Su tale fenomeno cfr. COLLAVINI 1998. 83. Escludiamo dal computo le menzioni documentarierelative al primo decennio del secolo XI, in quanto sono state considerate unitamente a quelle del secolo precedente.
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In generale possiamo rilevare il permanere in forme meno accentuate dell’egemonia esercitata dalle famiglie comitali per quanto concerne il possesso di castelli rispetto all’epoca della loro prima menzione nelle fonti scritte: su un totale di 19 nuove attestazioni solo 9 (due delle quali in condominio) concernono Aldobrandeschi e Gherardeschi, mentre 10 (una delle quali in condominio) sono relative ad esponenti di gruppi aristocratici privi di titolo comitale, ma spesso contrassegnati da uno status sociale non inferiore a quello delle casate sopra indicate e talvolta imparentati con esse. Infine, si registrano le prime testimonianze relative al possesso di castelli da parte di enti monastici locali (2 attestazioni in condominio), mentre compare per l’ulti-ma volta l’episcopato lucchese quale comproprietario di un castello nel nostro campione territoriale al momento della sua più antica menzione.
XI
Nel corso del XII secolo, relativamente ai 31 nuovi casi attestati (12 in diocesi di Populonia e 19 in quella di Roselle), si accentua la già rilevata tendenza ad una diversificazione dei soggetti che detengono castelli al momento della loro più antica attestazione. La documentazione relativa a questo secolo consente per la prima volta di cogliere il ruolo esercitato dai monasteri grazie ad una maggiore consistenza quantitativa delle fonti ed alla presenza di alcune conferme pontificie o imperiali che offrono un quadro complessivo dei patrimoni monastici. Si tratta soprattutto di enti religiosi locali, ubicati nelle aree di confine tra le diverse diocesi e di solito fondati nel corso del secolo
84: tra le nuove attestazioni, 11 concernono castelli di proprietà monastica, 4 delle quali in condominio con altri soggetti. La nascita relativamente recente della maggior parte dei monasteri e la loro presumibile fondazione su impulso dei principali elementi aristocratici della regione lasciano, comunque, intuire che il patrimonio di cui risultano all’epoca titolari sia co
84. Si tratta di S. Bartolomeo di Sestinga, S. Lorenzo alLanzo, S. Salvatore di Giugnano, fondati presso i limiti settentrionali ed orientali della diocesi di Roselle, di S. Pietro a Monteverdi, monastero che sin dall’alto medioevo era ubicato in prossimità del confine tra la diocesi di Populonia e quella di Volterra, e dei due monasteri di S. Giustiniano di Falesia e di S. Quirico di Populonia, sorti sul promontorio costiero di Piombino nella prima metà del secolo XI. La mancanza di privilegi diretti al monastero di S. Maria all’Alberese, sulle colline costiere del-l’Uccellina in prossimità del confine tra Roselle e Sovana non consente di conoscere l’eventuale possesso di castelli nel territorio rosellano di questo ente monastico.
stituito in massima parte da castelli ricevuti in dotazione, anziché da centri castrensi realizzati per iniziativa dei monaci stessi. Fenomeni analoghi sono documentati in relazione alle chiese episcopali di Massa e di Roselle-Grosseto, a favore delle quali, a partire dallo scorcio del secolo XI, alcuni esponenti di famiglie aristocratiche effettuarono donazioni di quote di castelli, che condussero a non trascurabili concentrazioni patrimoniali documentate nel pieno XII secolo. Un ruolo attivo svolto nell’in-castellamento dai vescovi – e dai collegi canonicali incardinati nelle chiese cattedrali – sembra invece confinato a settori particolari, quali le aree pubbliche o semi-pubbliche presso le quali avevano sede questi enti religiosi (in diocesi di Po-pulonia-Massa Populonia/Porto Baratti: a. 1117, e Monteregio di Massa: a. 1196; in diocesi di Roselle Roselle/La Canonica: a. 1179, e Istia d’Ombrone: a. 1179). La presenza di soggetti aristocratici privi di titolo comitale risulta ancora piuttosto modesta, in quanto limitata a meno di un terzo del campione (9 menzioni come detentori al momento della prima attestazione del castello, di cui una relativa a gruppi di lambardi). Per contro, continuano a comparire nella documentazione nuovi castelli (5, compreso Montecurliano, il solo di cui conosciamo la data di fondazione) posseduti da esponenti delle maggiori dinastie comitali (Aldobrandeschi e, soprattutto, Gherardeschi).
Il secolo XIII
Da ultimo, possiamo lanciare uno sguardo alle attestazioni di castelli del XIII secolo, cercando di trarne notazioni retrospettive. Nella porzione settentrionale della diocesi di Populonia, durante il Duecento compare qualche nuovo castello controllato dai Gherardeschi (Castiglion del Preso, Sassetta). È lecito ipotizzare che esponenti di questa casata comitale abbiano dominato tali centri sin dalle origini, oppure che siano riusciti in un secondo tempo ad imporre qualche forma di soggezione ai promotori del-l’incastellamento, poiché i diversi rami dei Gherardeschi dimostrarono una buona capacità di creare un dominio territorialmente coerente, anche attraverso l’attrazione nella propria orbita politica di soggetti signorili eterogenei 85. Presso i margini sud-orientali della diocesi, invece, la documentazione duecentesca fa per la
85. Cfr. CECCARELLI LEMUT 1981 e, da ultimo, CECCARELLI LEMUT 1995.
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prima volta riferimento ad alcuni castelli (Montepozzali, Perolla), la cui storia successiva risulta legata a quella di alcuni rami della casata comitale dei Pannocchieschi: presumibilmente, gli esponenti di questa casata non furono i promotori dell’incastellamento dei centri in esame situati assai lontano dai territori dove la famiglia aveva costituito nel XII secolo un potere signorile egemone, ma subentrarono ad altri signori (come sembra emergere nel caso di Montepozzali ed in relazione ad altri castelli della zona precedentemente attestati quali domini degli Aldobrandeschi e di altri gruppi aristocratici 86). Per il resto del territorio rosellano sono menzionati ulteriori castelli posseduti dagli Aldobrandeschi, spesso inseriti nella contea come domini diretti della famiglia 87: in tali casi possiamo ritenere che l’incastellamento di questi centri sia avvenuto per iniziativa di esponenti della casata, sebbene, in assenza di indagini archeologiche approfondite, risulti assai più difficoltoso inquadrarne, anche in via meramente ipotetica, i tempi ed il contesto storico. Infine, in prossimità del confine con il territorio diocesano senese, la documentazione degli anni a cavaliere del 1200 menziona alcuni castelli detenuti da elementi appartenenti alle prosecuzioni dinastiche della famiglia dei «conti di Siena», sia Ardengheschi (Fornoli: a. 1202), che Guiglieschi (Sasso: a. 1196). A nostro giudizio, questa presenza si inquadra in uno dei fenomeni più evidenti che interessarono l’entroterra maremmano, vale a dire l’espansione senese in direzione del mare lungo il corso dell’Ombrone. Tale fenomeno – che si può cogliere nel suo complesso solo ampliando lo sguardo dalla diocesi di Roselle a quelle di Siena, Chiusi e Sovana – è ben noto per l’età comunale 88, ma affonda le proprie radici nell’alto medioevo, quando vennero attribuiti alla diocesi senese ampi territori della media valle dell’Ombrone costituenti una sorta di “corridoio” diretto verso la foce del fiu
86. Prima del 1204 «Monte Bozaio» era stato costituito in pegno a favore dei «filii quomdam Rainerii Pannochie» da Lambertuccio del fu Gualando, esponente di un gruppo aristocratico locale forse connesso ai Gherardeschi (DALLAI, FARINELLI 1998, pp. 60-61). Risultano controllati dai Pannocchieschi nel corso del XIII secolo i castelli di Alma, Gavorrano, Giuncarico, Tatti e Pietra (cfr. DR 1222 settembre 26; ASS, Diplomatico Pannocchieschi d’Elci, perg., n. 20; CHERUBINI 1974, p. 293. cfr. anche LISINI 1893, pp. 198-203) i quali in precedenza sono documentati come dominii degli Aldobrandeschi, degli Alberti e di altre famiglie signorili. 87. Cfr. COLLAVINI 1998. 88. Cfr. CAMMAROSANO 1979a; CAMMAROSANO 1991; REDON 1994.
me, e si manifestò in età post-carolingia proprio attraverso la presenza dei possessi di famiglie comitali senesi 89 e di enti religiosi da esse beneficiati (vale a dire S. Lorenzo al Lanzo, monastero di famiglia degli Ardengheschi significativamente fondato in diocesi di Roselle e, presumibilmente, anche le abbazie di S. Antimo e di S. Salvatore di Giugnano) 90.
In definitiva, entro il territorio in esame si riscontra una forte egemonia sul controllo dei castelli esercitata da parte dei detentori delle più elevate cariche pubbliche locali, nella cui disponibilità sembra essere confluita la massima parte degli antichi patrimoni fiscali; le grandi aristocrazie ebbero, quindi, nel fenomeno dell’inca-stellamento un ruolo assai più rilevante rispetto ai monasteri locali e, soprattutto, rispetto alle chiese cittadine e ai gruppi aristocratici minori.
7. LE STRUTTURE MATERIALI
Le nostre conoscenze sulle strutture materiali dei castelli provengono essenzialmente dai risultati delle ricerche archeologiche, condotte attraverso strumenti eminentemente topografici che hanno interessato oltre sessanta centri fortificati, e attraverso veri e propri scavi stratigrafici che hanno indagato, in modo più o meno completo, i siti di otto castelli. Senza affrontare il complesso impegno che richiederebbe l’elaborazione di una sintesi di questi dati, ci limitiamo ad evidenziare, ai nostri fini, alcuni aspetti fondamentali emersi dalle indagini archeologiche condotte su quest’area.
Sotto il profilo cronologico, le fasi insediative anteriori agli interventi costruttivi romanici sono spesso di difficile lettura. Infatti, per un verso le prospezioni topografiche sono in grado di illustrare quasi esclusivamente le ultime fasi di vita dell’insediamento e quelle del suo abbandono attraverso la raccolta di superficie dei reperti, e di delineare gli impianti romanici e tardo-medievali attraverso l’analisi
89. Sugli Ardengheschi ANGELUCCI 1982; sui Guiglieschi CAMMAROSANO 1979b; ROCCHIGIANI 1983 e FARINELLI 1996a. 90. Su S. Lorenzo al Lanzo ANGELUCCI 1986, sulla dislocazione dei beni di S. Salvatore di Giugnano in stretta simbiosi con quelli del monastero ardenghesco cfr. FARINEL-LI 1996; sulle proprietà di S. Antimo nell’area immediatamente ad est della confluenza tra Orcia e Ombrone (Camigliano, Argiano, Porrona cfr. FARINELLI, GIORGI 1995).
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dell’edilizia sopravvissuta, lasciando comunque in ombra i periodi precedenti: anche nei casi più fortunati, vale a dire per i siti castrensi abbandonati prima del periodo romanico e quindi con testimonianze materiali meno compromesse da interventi successivi, la povertà della cultura materiale dei secoli IX-XI rende ardua una lettura dei resti mediante la semplice analisi di quelli visibili in superficie. D’altra parte, risultati apprezzabili sulle fasi preromaniche dei castelli sono emersi solo da quegli scavi stratigrafici che sono giunti ad indagare settori sufficientemente estesi, proprio allo scopo di sopperire alla scarsa leggibilità delle fasi altomedievali, le cui labili tracce materiali sono state sovente compromesse dagli interventi costruttivi successivi.
Comunque, i dati acquisiti ci consentono di affermare che sin dai secoli X-XI i castelli avevano assunto la fisionomia di villaggi fortificati, perlopiù di dimensioni relativamente modeste. Per il solo territorio della diocesi di Roselle-Gros-seto sono state proposte, sia pur con un largo margine di approssimazione, numerose valutazioni delle superfici occupate dai centri fortificati 91; dal loro esame possiamo rilevare che i castelli che non conobbero sviluppi dopo il secolo XI, o perché precocemente abbandonati o perché ridotti a nuclei rurali, occupavano superfici approssimativamente comprese tra i 1.500 ed i 3. 500 mq 92, mentre oscillano tra i 2.000 e i 4. 000 mq le superfici occupate dalle cinte più antiche dei castelli che riuscirono ad accrescersi ulteriormente nel corso del basso medioevo 93. Ancora in base all’esame delle fonti archeologiche, possiamo affermare con un buon margine di probabilità che a partire dalla fine dell’XI secolo si realizzarono nei castelli maremmani massicci interventi costruttivi, i quali determinarono il rifacimento delle cinte e la edificazione di torri e residenze signorili attraverso l’impiego di tecniche murarie romaniche. Nel corso del XII secolo le aree sommitali dell’insediamento for
91. Le stime sono proposte in CITTER 1997a, pp. 36-37. 92. Si tratta degli attuali nuclei rurali di Belagaio (1.413mq), Lattaia (2.551 mq) e degli insediamenti attualmente abbandonati di Monte di Stella/Monte di Muro (1.256 mq), Poggio Castello/Alma (1.649 mq), Litiano (1.884 mq), San Lorenzo (2.119 mq) Poggio Zenone (2.355 mq), Poggio la Pia/Sant’Anastasio (2.512 mq), Torri (2.669), Poggio del Maus (2.943 mq), Monte Castello (3.000 mq), Castellaccio del Prile (3.532 mq). 93. Si tratta delle aree comprese entro le più antiche cin-te dei castelli di Ravi (1.962), Campagnatico (2.140 mq), Montorsaio (2.749 mq), Buriano (3.140 mq), Sticciano (3.925 mq), Gavorrano (3.926 mq).
tificato si caratterizzarono sempre più nettamente per la loro destinazione militare-signorile, in contrapposizione ai borghi fortificati costituiti da serie di case a schiera destinate a dimore contadine; infine, durante il Duecento per alcuni castelli – che potremmo definire “vincenti” – si determinò un’ulteriore crescita conseguente alla formazione di nuovi borghi di popolamento addossati alle aree precedentemente edificate.
Altre considerazioni in merito alla complessiva fisionomia materiale dei castelli emergono anche dall’analisi dei testi scritti concernenti il nostro campione territoriale. L’uso dei termini castrum, castellum e rocca nella documentazione non ci consente di desumere per ciò solo il loro riferimento a siti fortificati contrassegnati da caratteri nettamente distinti. Solo per quei castelli il cui apparato difensivo era costituito dagli stessi scoscendimenti del rilievo roccioso ove sorgevano, si rileva una generica tendenza a qualificarli rocca 94 e, più spesso, ad inserire nella loro denominazione i termini rocca, pietra e sasso 95. Nel caso di documenti che contengono l’elenco di una serie di castelli, è invece lecito presumere che le distinzioni terminologiche riflettano differenze effettive tra siti fortificati designati in modo diverso. Ci riferiamo in particolare al più volte citato atto del 973, in base al quale la curtis aldobrandesca di Grosseto era associata ad un castrum, quella di Campiglia d’Orcia ad una roca, quella di Cininule ad una rocca seu castellum, mentre semplici castella erano pertinenti a otto delle altre diciassette curtes situate nei comitati di Roselle, Populonia, Sovana e Chiusi 96. Ai caratteri orografici dei siti di Campiglia e di Cininule, in territorio chiusino, si dovette la loro definizione di rocca 97, mentre la definizione di
94. Nella documentazione riguardante il nostro territo-rio anteriore al secolo XII, periodo in cui si propone l’am-biguità semantica di rocca che può comparire nel nuovo significato di ridotto fortificato del castello, vengono definiti rocca i castelli di Biserno, Accesa, Pietra, S. Silvestro o Pietrarossa, tutti ubicati in siti che presentano le caratteristiche sopra ricordate. 95. Si tratta di fenomeni analoghi a quelli rilevati, perl’Italia settentrionale in SETTIA 1984, pp. 191-193. Sulla distribuzione di tali toponimi in Toscana cfr. VALOGIORGI 1979. 96. KURZE 1982, n. 203, pp. 9-13. 97. La rocca di Campilia – identificabile verosimilmente con Campigliaccia (quota 911 m s.l.m.) – rappresentava un sito montano naturalmente difeso dalle aspre pareti rocciose; quella di Cininule sorgeva su un sito (presso l’attuale Poggio Uccello a quota 694 m s.l.m.) che presenta analoghi caratteri difensivi, seppur meno spiccati (come, del resto, venne riconosciuto dallo stesso estensore dell’atto che ne parlò nei termini meno netti di roc
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Grosseto nei termini di un castrum può essere ricondotta tanto alla sua ubicazione in pianura quanto, forse, al particolare sviluppo di questo centro, che nel 1138 avrebbe conseguito la dignità di civitas attraverso la traslazione della sede episcopale rosellana 98. Analogamente, nella dotazione effettuata nel 1004 a favore del monastero di S. Maria di Serena, viene designato rocca solo l’insediamento fortificato di Biserno, sorto in una sommità rocciosa dai fianchi estremamente scoscesi, mentre una decina di altri centri fortificati posti nei territori di Volterra, Lucca, Populonia e Roselle sono detti semplicemente castella99.
Per quanto concerne i burgi, abbiamo rilevato che la loro genesi è strettamente connessa alla presenza di un castello, a differenza di quanto emerge, invece, per altre aree toscane più intensamente investite dai flussi commerciali, ove il borgo si sviluppa anche in via autonoma 100. Entro il territorio in esame, le più antiche testimonianze di borghi connessi a castelli risalgono ai primi anni del XII secolo e concernono centri posti in siti particolarmente adatti ad esercitare un controllo sulle principali vie di traffico del-l’area, marittime e terrestri. Spesso i castelli per i quali disponiamo delle attestazioni più precoci di borghi sembrano aver conosciuto nel XIII secolo uno sviluppo demico particolarmente intenso. Ad esempio, già nel 1102 è menzionato, in corrispondenza del castello di Campagnatico, un burgus che risulta dotato di una qualche sorta di fortificazione, poiché viene contestualmente nominata la relativa carbonarea 101. Ancora nella
ca seu castellum). Forse le strutture delle due rocche erano in certa misura meno sviluppate di quelle relative ai castella, come farebbe presumere l’inclusione tra questi ultimi di Radicofani (quota 896 m. s.l.m.), sorto su un sito decisamente arroccato che, presumibilmente, in considerazione del particolare significato strategico già alla fine del secolo X ospitava strutture più consistenti rispetto a Campiglia e Cininule. 98. Sul tema cfr. FARINELLI 1996 B. 99. CECCARELLI LEMUT 1993, n. 1; cfr. 1.I. a. 6-10. 100. Un indice di questa scarsa diffusione nel territorio maremmano è costituito dalla sostanziale assenza di sedi umane il cui nome deriva da Borgo in contrapposizione ad una relativa frequenza di tali toponimi nelle valli del-l’Arno e dei suoi affluenti, rilevate sulla base della cartografia IGM (cfr. VALOGIORGI 1979, pp. 378-379). 101. Cfr. tabella 2. II. 2. La via di traffico la cui prossimità favorì lo sviluppo di un abitato fortificato extramurario a Campagnatico è certamente riconoscibile nell’iti-nerario che, discendendo la valle dell’Ombrone, collegava Siena a Grosseto e, quindi, ai siti portuali ed alle saline del litorale, sulla quale, poco più a valle, era forse già in funzione nel 1032 il mercato di Istia d’Ombrone. Sul-l’ubicazione presso questo sito del mercato cfr. tra gli altri CAMMAROSANO, PASSERI 1976, n. 28. 4. e PRISCO 1989,
prima metà del XII secolo sono documentati borghi presso Piombino (a. 1125), scalo portuale di notevole importanza per i commerci pisani e per il controllo dei traffici di ferro elbano, e Biserno (a. 1139), castello il cui sviluppo fu strettamente connesso allo sfruttamento delle risorse minerarie locali 102. Dopo la metà del XII secolo si registrano attestazioni di borghi in corrispondenza di numerosi castelli che, alla fine del Duecento, sono documentati come abitati di rilevante peso demico; tuttavia, è lecito presumere che dopo la metà del XII secolo tutti i maggiori centri fortificati fossero caratterizzati dalla presenza di borghi e che, quindi, la cronologia delle loro menzioni segua ritmi e cadenze che sembrano riconducibili alla casualità della tradizione documentaria 103.
Alcune notazioni possono essere proposte anche riguardo alle aree signorili-militari ed al loro rapporto con l’insediamento fortificato nel suo complesso. La presenza ed il rilievo di edifici denominati turris, che sembrano svolgere la funzione di residenza signorile, emerge chiaramente dalla documentazione del secolo X. Il ricordato atto del 973, concernente la vendita simulata di numerosi complessi curtensi da parte dell’aldobran-desco Lamberto del fu marchese Ildebrando, venne «actum Caliano, intus castello» e riguardò anche la stessa curtis di Caliano «cum castello et eclesia seu turre ibidem consistente super ripa fluviis Umbrone» 104. Nel medesimo anno un altro esponente della casata aldobrandesca, il conte Rodolfo del fu conte palatino Gherardo, stipulò una transazione patrimoniale stilata in una «turris» ubicata in «loco Lacteria» 105; infine, nel 989 la vedova di Lamberto, Ermengarda, con un atto rogato nella stessa località di Lattaia, riacquistò i beni ceduti dal consorte nel 973106. Era forse destinata a residenza signorile, oltre che a propugnacolo militare, anche la «turre qui dicitur sancto Vito» attestata nel 996 e che
pp. 108-109; una diversa ubicazione dello stesso mercato è stata invece proposta, senza argomenti particolarmente stringenti, in PRISCO 1994. 102. Cfr. tabella 2. I. 14. 103. Borghi sono attestati presso i castelli di Monte San Lorenzo nel 1149, di Vignale nel 1150, di Castagneto nel 1187, di Campiglia nel 1249, di Monteverdi nel 1263, di Donoratico nel 1271, di Istia nel 1287, di Sasso d’Ombro-ne nel 1294 (cfr. 2. I. 15,16,19, 22, 23, 26 e 2. II. 13, 18). 104. KURZE 1982, n. 203, pp. 9-13. 105. KURZE 1982, n. 204, pp. 13-15: «Actum loco Lacteria intus in ipsa turre». 106. KURZE 1982, n. 206, pp. 9-13: «Actum Lactarie».
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probabilmente dette origine al castello di Vignale 107. Sebbene sia stata individuata la precisa ubicazione topografica solo per la torre di Lattaia, possiamo ritenere che questi tre edifici attestati nel secolo X fossero accomunati da una collocazione in pianura o in rilievi estremamente modesti, per cui è lecito ipotizzare che la realizzazione di strutture elevate in altezza rispondesse anche alla necessità di sopperire ad un’esigenza di controllo visivo del territorio circostante, che invece era meno sentita per i siti fortificati di altura.È possibile tentare una analisi archeologica delle strutture materiali solo per la torre di Lattaia, della quale sono stati identificati alcuni resti 108. Di essa è infatti conservato il tratto basamentale che occupa un’area di circa 40 mq e che è ipoteticamente riconducibile ad una fase costruttiva altomedievale, anche in considerazione della sua realizzazione attraverso grandi blocchi di pietra sommariamente squadrati e del complessivo assetto urbanistico dell’abitato, racchiuso strettamente ad anello attorno a tale struttura. In assenza di scavi, la rilevata ampiezza di tale basamento potrebbe lasciar intuire un edificio massiccio, definito torre per essere costruito almeno in parte in pietra, oppure, più verosimilmente, una struttura del tipo documentato per i secoli XI-XII in alcuni castelli vicini (quali Pietra e Montemassi), vale a dire un ampio cortile fortificato, un angolo del quale è occupato da un’al-ta torre 109. Comunque per ricostruire correttamente la fisionomia dell’area signorile-militare del castello di Lattaia occorre tener presente che il basamento in questione potrebbe rappresentare non semplicemente una struttura realizzata mediante il reimpiego di elementi architettonici preesistenti (analogamente a quanto documentato per l’area signorile di Istia d’Ombrone 110), ma piuttosto i resti di un edificio più antico, riutilizzato nel Medioevo: in tal caso, infatti, dovremmo ritenere che nella definizione dell’im-pianto del complesso architettonico sia stata determinante la presenza di consistenti strutture murarie che vennero riutilizzate con poco sfor
107. Cfr. tabella 2. I. 1.108. FARINELLI 1996 A, pp. 68-69.109. Un indizio favorevole alla presenza di un recintocon torrione angolare potrebbe essere costituito dall’esi-stenza di una cisterna, non datata ma presumibilmentemedievale, situata in un angolo del basamento.110. La cinta muraria più antica ha una forma rettangolare e presenta una tecnica costruttiva molto particolare:grossi blocchi di arenaria rozzamente squadrati, con elementi di reimpiego (fra cui un cippo funerario romano)legati con malta friabile cfr. CITTER 1996a.
zo, magari potenziandone gli elevati con l’uso di materiali deperibili quali terra e legno di cui non rimane attualmente traccia 111.
Per quanto riguarda il secolo XI, le testimonianze sull’esistenza di torri nei castelli del nostro campione territoriale sono estremamente esigue 112 e, sino alla metà del XIII secolo, si registra un incremento assai modesto di attestazioni, tendenzialmente limitato ai centri urbani e ad alcuni castelli maggiori 113. Tuttavia, alcuni documenti particolarmente significativi ed alcuni indicatori archeologici 114 lasciano presumere che, analogamente a quanto è stato rilevato per l’Ita-lia settentrionale 115, nel XII secolo si sia avviata una intensa fase costruttiva che portò alla realizzazione di torri all’interno delle cinte dei castelli. Il testo più antico concerne vicende svoltesi nella prima metà del XII secolo: si tratta di un arbitrato pronunciato nel gennaio 1149 dall’arcive-scovo di Pisa, Villano, per risolvere una controversia che contrapponeva il vescovo di Massa, Alberto, ad alcuni esponenti della casata gherardesca 116. Una tra le questioni dibattute concerneva il castello di Monte San Lorenzo, nella bassa valle del Cornia, che il vescovo rivendicava per metà e dove il suo predecessore Rolando (attestato sul soglio tra 1115 e 1126) aveva riversato consistenti «impense» senza che i conti, con
111. Comunque, ancora alla metà del Duecento si distingueva nettamente l’area signorile-militare rispetto al resto del castello di Lattaia, dal momento che nel 1262 isuoi domini lo sottomisero al comune di Siena, cui vennecontestualmente consegnato il relativo cassarum (CV, III,nn. 836-837, pp. 992-998: 1262 settembre 27).112. La menzione di una torre relativa al castello di Vallecontenuta in un placito del 1055 (AIMAe., I, coll. 473474) rappresenta l’unica citazione che si aggiunge nel corso del secolo XI alle tre sopra ricordate, presenti nelladocumentazione del X secolo.113. La prima menzione del castello di Piombino – importante porto legato a Pisa – risalente al 1115 associaad esso un numero non specificato di turres; nel 1149 siprospetta l’eventualità di costruire una torre accanto aquella già esistente entro il castello di Monte S. Lorenzo,la turris del castello minerario di Batignano è menzionata nel 1178 in occasione di un accordo con il comune diSiena. L’esistenza di una torre è attestata a Massa nel 1194ed a Grosseto nel 1224. Torri in costruzione sono menzionate nel 1157 a Segalari e nel 1205 a Torri cfr. infra.114. Il più chiaro indizio in tal senso è rappresentato dalcaso del castello di Rocca San Silvestro: qui l’indaginearcheologica ha mostrato che l’area sommitale, a destinazione militare signorile e dotata di una autonoma cintadifensiva, dopo aver conosciuto una risistemazione a scopo insediativo tra la fine X e la fine XI secolo, fu interessata dall’edificazione di una torre solo nel corso del XIIsecolo (FRANCOVICH 1990, p. 47).115. SETTIA 1984, pp. 364 ss.116. ASS, Diplomatico Bichi Borghesi, 1149 gennaio 16(Vol 9 G 20).
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Figg. 1-2 – 1. Foto aerea di Lattaia; 2. Foto aerea di Istia d’Ombrone.
cia
titolari di diritti di proprietà sul sito fortificato, le avessero mai rimborsate alla Chiesa di Massa. Al momento della lite il vescovo controllava una «turris» all’interno del «castrum» – e probabilmente la sua costruzione era proprio una delle ragioni delle «impense» sostenute dal prelato, dal momento che la sua proprietà non era suddivisa tra i due soggetti contendenti – ed intendeva impedire ai Gherardeschi di edificarne una propria. La sentenza pronunciata dall’arcivescovo nel 1149 stabilì che i conti non avrebbero potuto edificare alcuna turris «in poio montis castri Sancti Laurentii, nec in ipso castro nec in burgo eius» e che al tempo stesso il vescovo di Massa non avrebbe dovuto utilizzare militarmente la propria torre contro di loro. In un analogo contesto di collaborazione tra arcivescovo pisano e soggetti laici radicati localmente, si colloca il riferimento ad una turris facienda, di cui prima del 1157 era stata prevista la costruzione entro il castello di Segalari posto ai margini settentrionali della diocesi di Populonia 117. L’ultimo esempio riguarda il castello di Torri, situato nella diocesi di Roselle in prossimità del confine con quella di Siena 118. Nel febbraio 1205 i signori locali, imparentatisi con esponenti dell’élite consolare senese, strinsero un patto di alleanza a carattere militare ed economico con il comune cittadino, che prevedeva la trasmissione al podestà di Siena di una «platea intra castellum quod dicitur Turris de Maritima [...] que platea sit tanta terra, quod possit ibi fundari et hedificari turris que sit. XXX. brachiorum per girum» sino almeno ad un’altezza di trenta brac
119. Ai nostri fini l’interesse di tale atto risiede soprattutto nella descrizione delle strutture materiali: all’epoca si intendeva con il termine turris un edificio presumibilmente a base quadrata, con un lato di circa 4 metri ed un’altezza di 15 metri e più; inoltre, poiché se ne imponeva la realizzazione in tempi strettissimi – vale a dire nell’arco di una podesteria – possiamo desumere che la sua costruzione fosse affidata a manodopera qualificata proveniente dall’ester-no, utilizzando una prassi di cui sono emersi chia
117. RP, 452.118. Il castello di Torri, assente nelle Rationes Decimarumtardo-duecentesche perché abbandonato dopo le devastazioni del 1270, risulta inserito nella diocesi di Roselle,come risulta da un testo del 1140, per il quale la nostrainterpretazione diverge da quella espressa dall’editoreattraverso la punteggiatura conferita, secondo la qualel’espressione «in senesi episcopatu» (cfr. PFLUGK HARTTUNG
1881-1884, III, n. 348).119. CV, I, nn. 83-84, pp. 131-135: 1205 febbraio 4.
ri indizi archeologici in molti castelli maremmani 120. Come si vede, si tratta di tre testimonianze in qualche modo legate all’ambiente urbano (vescovo di Massa e comune di Siena), forse perché nel corso del XII secolo da esso provennero la disponibilità economica e le motivazioni necessarie all’edificazione di tali strutture, e in un certo senso anche perché le istituzioni cittadine attraverso i loro archivi riuscirono, in misura di gran lunga maggiore rispetto all’aristocrazia laica, a trasmettere memoria della costruzione di questi edifici. Sebbene le più frequenti attestazioni documentarie sull’esistenza di torri siano relative ai secoli XIII-XIV, in considerazione delle indicazioni provenienti dalla documentazione archeologica e dai testi sopra menzionati è lecito ritenere che la fase di maggiore incremento nell’edificazione di queste strutture si sia sostanzialmente conclusa verso la metà del Duecento, periodo a partire dal quale la menzione di torri risulta generalizzata 121 e riscontrabile anche in relazione a castelli in via di abbandono 122.
Un tale incremento nell’edificazione di torri nel corso del XII secolo e dei primi decenni del Duecento si verificò contestualmente ad una generalizzata ridefinizione delle aree castrensi a specifica destinazione militare-signorile, designate «casseri» nella documentazione toscana coeva. Attraverso le indagini archeologiche possiamo registrare nel corso del secolo XII una grande diffusione di murature di tipo “romanico”, impiegate, oltre che per le cinte castrensi, appunto per l’edificazione delle torri e dei complessi architettonici ubicati all’interno dei castelli e deputati a residenza militare-signorile. Infatti, strutture del genere sono state individuate archeologicamente in tutti i centri castrensi del nostro campione territoriale per i quali gli scavi stratigrafici abbiano interessato la porzione sommitale dei rilievi su cui erano sorti (Rocca San Silvestro, Campiglia, Suvereto, Scarlino, Pietra, Montemassi), ed elementi analoghi sono stati riconosciuti attraverso la semplice prospezione topografica in numerosi siti fortificati medievali123.
120. BIANCHI 1995.121. Torri sono menzionate nel 1243 a Biserno, nel 1257a Montorsaio, nel 1263 a Castagneto, nel 1271 a RoccaSan Silvestro, nel 1273 a Sticciano e nel 1332 a Perolla.(Cfr. tabella 2. I. 21, 23, 27, 45 e 2. II. 7, 8).122. Al 1264 risale la menzione del «castellare et torricella di Casallungo et […] Casallungo con la torre etdistrecto di loro» (CECCARELLI LEMUT 1985, p. 29).123. Cfr. tabella 1.
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Dal punto di vista topografico si nota la loro costante ubicazione nelle aree sommitali, tendenzialmente al centro del rilievo su cui sorge il nucleo più antico dell’insediamento; spesso tale collocazione era distante dal baricentro dell’area urbanizzata, poiché il ridotto veniva di frequente realizzato in prossimità della cinta difensiva esterna, di cui costituiva parte integrante, e talvolta disponeva di un accesso indipendente da quello del castello per entrare in comunicazione con l’esterno. Ad ogni modo, i risultati degli scavi archeologici e delle indagini topografiche suggeriscono l’ipo-tesi di una larga diffusione di queste strutture in tutti i maggiori castelli maremmani almeno a partire dalla metà del secolo XII, ed indicano che essi rappresentarono, assieme alle stesse cinte in muratura, le più concrete manifestazioni materiali dei poteri signorili.
Nella documentazione toscana l’uso del termine cassero – sinonimo di «dongione» utilizzato nel-l’Italia padana – si registra a partire dall’ultimo decennio del XII secolo e si generalizza in diverse aree della Toscana durante i primi anni del Duecento 124. Per il nostro territorio le due attestazioni di casseri più precoci, relative agli ultimi anni del XII secolo, presentano caratteri di incertezza. Ci riferiamo innanzitutto a quello della città di Massa, menzionato unitamente alla turris ed al castello vescovile di Monteregio (definito «castrum ipsius civitatis») forse già nel 1194 125, e, due anni dopo, al cassero di Sasso d’Ombrone, castello della diocesi di Roselle-Grosseto posto in prossimità del territorio senese 126. Per quest’ultimo centro e per il castello rosellano di Roccatederighi si conservano dettagliate descrizioni dell’as-setto urbanistico tardo-duecentesco, estremamente utili per comprendere la complessità del-l’articolazione architettonica di queste strutture nei loro esiti tardo-medievali. Nel 1294 il castello di Sasso era caratterizzato dalla presenza di un casserum castri dotato di una autonoma cinta difensiva (si fa riferimento al murus dicti casseri ed alla carbonaria ipsius casseri) che racchiudeva una platea sulla quale si affacciava anche la turris dicti casseri. Non è chiaro se anche il cassarectum ed il palatium positum in dicto
124. SETTIA 1984, p. 383. 125. Cfr. tabella 2. I. 20. Per i dubbi sull’autenticità deldocumento cfr. COLLAVINI 1998, pp. 213-214.126. Cfr. BERTOCCI 1931 e CAMMAROSANO, PASSERI 1976,n. 18. 11.
castro de Saxo fossero compresi entro tale recetto fortificato. Al castello si addossava un borgo fortificato (sono citati un murus burgi ed una portam burgi), detto anche «borgo di dentro» in contrapposizione al «borgo di fuori» difeso da un semplice «spicciatum vel stechatum dicti burgi» 127. Al medesimo arco temporale risalgono le descrizioni dell’assetto urbanistico del castello di Roccatederighi: nel 1294 entro il castello era ben visibile il cassarum maior castri (o più semplicemente la rocca castri) al cui interno si distingueva un «palatium vetus» – detto a sua volta anche «casserum» – posto ai margini di un cortile interno (claustrum) nel quale era stata scavata una cisterna, mentre dalla parte opposta della cinta del cassarum maior si ergeva la «turris posita in dicta roccha, supra sassum dicte rocche», forse identificabile con la «turricella» attestata in altre occasioni. Entro il «circuitus cassari dicte rocche» accanto al palazzo «vetus» aveva sede il «palatium quod vocatur palatium Bindoczini», che prendeva la propria denominazione dal nome di un esponente dei domini locali e che era affiancato da alcune domus e da platee. Immediatamente al di fuori della cinta del cassero, sempre entro il castello, aveva sede la chiesa di S. Maria di Roccatederighi, mentre in posizione ancora più eccentrica era collocata la chiesa castrense di S. Martino, alla quale sarebbe stata di lì a poco riconosciuta la dignità plebana.
A quanto è emerso dalla ricerca archeologica, le aree sommitali dei castelli conobbero riassetti radicali nel corso del secolo XII ed avevano assunto una diversa fisionomia già attorno alla metà del Duecento, periodo a partire dal quale si riscontrano soprattutto interventi di adattamento e ristrutturazione, spesso connessi all’in-gresso dei castelli in questione all’interno di nuove compagini politiche. In particolare, dagli ultimi decenni del XII secolo si registra, parallelamente all’acquisizione da parte dei castelli maremmani di una spiccata fisionomia di villaggio fortificato, l’avvio di una generalizzata ridefinizione monumentale delle aree signorili, caratterizzata dalla diffusione di ridotti fortificati, che si svilupparono di norma attorno alle torri più antiche ed al cui interno si andarono a collocare i palatia quali strutture residenziali e ‘di rappresentanza’ dei nuovi poteri. Analogamente a quanto affermato in riferimento alle torri, sebbene sulla base delle testimo
127. Cfr. tabella 2. II. 4.
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Figg. 3-4 – 3. Foto aerea di Sasso d’Ombrone; 4. Foto aerea di Roccatederighi.
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Figg. 5-6 – 5. Foto aerea di Tatti; 6. Foto aerea di Montepescali.
nianze archeologiche si possa ritenere che già nei primi decenni del Duecento una parte considerevole dei maggiori castelli della nostra regione disponesse di recetti fortificati allestiti all’interno della cinta muraria, le testimonianze documentarie relative a casseri o a rocche 128 si generalizzano solo a partire dalla seconda metà del XIII secolo 129, quando vengono menzionati anche palatia 130 e torri 131 all’interno di questi recinti fortificati. Pertanto, una corretta analisi del fenomeno deve tenere conto del fatto che il dato archeologico anticipa di circa un secolo la diffusione di autonomi recetti fortificati all’interno dei castelli maremmani, rispetto al secondo Duecento – periodo a partire dal quale si generalizzano invece le menzioni documentarie di casseri – e conferisce ulteriore significato al mutamento terminologico rappresentato dalle rare attestazioni del termine cassero relative all’ultimo decennio del XII secolo. Per tale epoca la diffusione del-l’uso di questo nuovo termine è stata interpretata prevalentemente nell’ottica dei progressi militari difensivi, ma per i castelli maremmani non appare secondaria l’esigenza semantica di distinguere i recetti fortificati più interni rispetto alla più ampia cinta muraria, una volta che anche i borghi furono muniti di mura e vennero a costituire una parte integrante del castrum: a nostro giudizio, quindi, la comparsa del termine cassero è da porre in relazione anche all’avvenuta trasformazione dei castelli maremmani in villaggi fortificati di grandi dimensioni.
128. Recinti fortificati sommitali, denominati rocca, sono attestati nel 1287 a Campiglia, nel 1294 a Roccatederighi e nel 1324 a Suvereto. Cfr. 2. I. 31, 40 e 2. II. 1517. 129. Casseri sono attestati nel 1243 a Biserno, nel 12631270 a Castagneto, nel 1271 a Rocca San Silvestro, nel 1273 a Sticciano, nel 1274 a Pietra, nel 1276 a Accesa, nel 1282 a Campagnatico, tra 1282 e 1285 a Giuncarico, nel 1287 a Istia d’Ombrone, nel 1294 a Campetroso, Roccatederighi e a Sasso d’Ombrone, nel 1315 a Montepozzali, nel 1326 a Monte San Lorenzo, nel 1328 a Bolgheri e nel 1331 a Gavorrano (turris et fortilitia) cfr. 2. I. 20, 21, 23, 27, 28, 29, 33, 38, 43 e 2. II. 4, 8, 9, 11, 12, 1517, 18, 19. Sugli Aldobrandeschi che alla fine del Duecento esercitavano uno stretto controllo sulle strutture militari dei castelli cfr. COLLAVINI 1998, pp. 509-517. 130. Nel 1276 è attestato il «palatium cassari castri de Accesa», una norma inserita nella redazione statutaria del comune di Pisa del 1287 è contenuto un riferimento a «roccha seu palatium que et quod est in summitate terre Campiglia»; infine nel 1294 un palatium è attestato in connessione al cassarum di Campetroso (cfr. tabella 2. I. 29, 31, 33). 131. Torri in associazione a casseri sono menzionate a Rocca San Silvestro nel 1271 ed a Montepozzali nel 1315 (2. I. 27, 38).
8. MISURARE I CASTELLI. PER UN CONTROLLO INCROCIATO TRA FONTI MATERIALI E FONTI DOCUMENTARIE QUANTITATIVE
Una valutazione dell’impatto insediativo prodotto dall’incastellamento sul territorio richiede, oltre alla definizione della quantità e delle caratteristiche dei centri fortificati, anche una stima del numero di abitazioni contadine in essi presenti. Si tratta di un risultato arduo da conseguire, al quale ci possiamo avvicinare per alcuni periodi attraverso la ricostruzione delle dimensioni complessive dell’insediamento, il riconoscimento della capacità effettiva di ospitare edifici entro le mura o nei borghi extramurari e l’in-dividuazione dell’eventuale presenza al loro interno di dimore signorili o di strutture specificamente destinate allo stanziamento di presidi militari.
Per quanto riguarda il primo Trecento, è possibile effettuare proficui tentativi di ricostruzione del numero di dimore presenti entro alcuni castelli della diocesi di Roselle. Infatti, da un lato disponiamo di una fonte documentaria di carattere quantitativo di eccezionale interesse, vale a dire la Tavola delle Possessioni, un estimo particellare descrittivo redatto tra il 1318 ed il 1320 che, tra l’altro, censiva analiticamente ogni edificio, sedime o area aperta presente nei castelli del contado di Siena. Dall’altro, attraverso l’in-dagine archeologica è possibile ricostruire con buona attendibilità l’area racchiusa dalle cinte fortificate tardomedievali, in considerazione della notevole consistenza e dell’alto grado di riconoscibilità dei paramenti murari utilizzati in questo periodo. Di norma, la superficie compresa entro tali cinte coincide sostanzialmente con l’area urbanizzata, in relazione allo scarso sviluppo di borghi extramurari, la cui entità è peraltro difficilmente valutabile attraverso l’inda-gine archeologica, dal momento che a tale scopo occorre prestare una particolare attenzione alle tracce dell’edilizia minore, assai meno facilmente riconoscibili attraverso un primo esame delle fonti materiali.
Per i casi in cui è stato possibile ricostruire in modo approssimativo l’estensione dell’area cinta dalle mura basso-medievali e, parallelamente, determinare il numero degli edifici censiti dalla Tavola delle Possessioni abbiamo riassunto i dati nella Tabella 3. È bene precisare che, in assenza di indagini archeologiche mirate, per alcuni castelli analitica
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Tab. 2.I – Le strutture materiali dei castelli nella diocesi di Populonia/Massa (secc. X-XV).
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Tab. 2.II – Le strutture materiali dei castelli nella diocesi di Roselle/Grosseto (secc. X-XIII).
Tabella 3 – Le dimensioni di alcuni castelli della diocesi di Roselle nel primo Trecento in base al dato archeologico ed alle informazioni tratte dalla “Tavola delle Possessioni” del 1320.
mente descritti dalla fonte catastale non è stato possibile individuare – neanche in via approssimativa – le dimensioni dell’area urbanizzata 132; per un buon numero di centri, invece, la Tavola delle Possessioni risulta inutilizzabile ai nostri fini perché non consente di quantificare il numero di abitazioni presenti al loro interno 133. Su tali basi, comunque, per gli otto castelli del territorio diocesano di Roselle-Grosseto inseriti nella Tabella III ci è sembrato opportuno impostare un primo confronto tra le risultanze delle indagini sui due tipi di fonti ed abbiamo calcolato il rapporto tra estensione stimata della cinta muraria e numero di edifici e di aree edificabili o precedentemente edificate (casalini) censiti nel 1320. Con questa operazione, ovviamente, non si è inteso individuare la superficie media delle dimore contadine presenti entro ciascun castello, ma solo calcolare un parametro astratto di riferimento che può consentire di porre in relazione fonti archeologiche e fonti scritte di carattere quantitativo. Dobbiamo precisare, ad ogni modo, che tale tentativo è stato condotto a titolo esemplificativo e che per ciascun caso una valutazione rigorosa dei dati necessita invece di un approfondimento di indagine. Occorre infatti studiare direttamente i riferimenti documentari riguardanti gli edifici, valutando più attentamente le lacune presenti nei registri utilizzati, ed indagare archeologicamente i centri storici in questione. Da questo punto di vista, sono necessarie valutazioni sulla presenza e sul numero di dimore a più piani, nonché una più precisa ricostruzione dell’assetto topografico interno di ciascun castello, con particolare riferimento all’oro-grafia del sito, alla distribuzione dei settori non edificati ed alla determinazione delle aree occupate da complessi militari-signorili.
9. ABBANDONI E DECASTELLAMENTI
Nella valutazione del ruolo dei castelli sull’as-setto del popolamento, oltre a considerare il loro numero e le loro dimensioni occorre far riferi
132. È questo il caso, ad esempio, di Camigliano, castello al cui interno la Tavola delle possessioni censì oltre 160 dimore contadine e per il quale non si riesce a ricostruire l’ampiezza dell’area urbanizzata a causa della quasi completa distruzione della cinta muraria e, forse, di fenomeni di frana che hanno interessato terreni su cui sorgeva parte dell’abitato medievale. Cfr. FARINELLI, GIORGI 1995. 133. Si tratta dei castelli di Argiano, Sasso, Torri, Fornoli, Litiano, Stertignano, Ravi, Lattaia, Montantico, Montemassi, Pietra, Perolla, Gavorrano, Giuncarico, Alma (cfr. IRS, CHERUBINI 1974, p. 293; LISINI 1893, pp. 198-203).
mento anche al fattore temporale ed interrogarsi sulla durata del periodo in cui ciascuno di essi ricoprì una funzione insediativa e di controllo territoriale. Questo fattore assume una particolare rilevanza per il territorio maremmano, poiché esso è stato soggetto ad una notevole instabilità degli assetti insediativi e a forti oscillazioni nei complessivi livelli di popolamento, in quanto gli abitati di quest’area hanno conosciuto rapide crescite – spesso determinate da politiche tese ad attrarre popolazione in alcuni siti – ed ancor più repentini crolli dei livelli demici. Perdipiù, almeno dal basso medioevo, la Maremma fu anche una terra contrassegnata da una larga maglia di villaggi di notevoli dimensioni, che spesso furono in grado di assorbire radicali ridimensionamenti di popolazione senza che ciò ne determinasse il completo abbandono e frequentemente anche senza che venisse meno, sul piano formale, una organizzazione comunitaria. Sul piano conoscitivo, mentre le congetture espresse sulla comparsa dei castelli durante i secoli X e XI si basano su un materiale documentario estremamente esiguo, quelle sulla loro scomparsa risultano assai più attendibili, poiché fondate sulla ricca ed articolata documentazione dei secoli XIII-XV. Non di rado, infatti, si hanno testimonianze esplicite dell’avvenuto decastellamento di alcuni centri, spesso definiti ‘castellari’, mentre nella generalità dei casi abbiamo considerato quale indicatore della crisi di un castello la mancata individuazione di attestazioni posteriori ad una certa data.
ca
Riguardo al nostro campione – gli 86 castelli menzionati ‘in vita’ nella documentazione – emerge che poco più di un terzo del totale è stato contrassegnato da una continuità insediativa che giunge sino ai nostri giorni, mentre oltre il 40% dei castelli presi in esame risulta abbandonato o ridotto a semplice nucleo rurale tra 1300 e 1450, periodo di intensa recessione demografica per la Maremma 134. I restanti casi, circa un quarto del totale, che come ‘abbandoni precoci’ possono essere distinti dagli altri perché avvenuti in un contesto di generale crescita demi
135, sono riconducibili al XIII secolo (8% del campione), al XII secolo (8%), all’XI secolo (2%) e persino al X secolo (5%). Articolando i dati complessivi in base alle più antiche attestazioni del castello, emerge con for
134. Cfr. per la prima metà del Trecento BOWSKY 1964 e per il periodo successivo GINATEMPO 1988. 135. TOUBERT 1973, pp. 362-364; SETTIA 1984, p. 295.
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Figg. 7-8 – 7. Foto aerea di Torniella; 8. Foto aerea di Batignano.
Fig. 9 – Foto aerea di Sticciano.
za il peso assunto da questi ‘abbandoni precoci’. Tra gli 11 centri fortificati attestati per la prima volta nel secolo X, solo 3 risultano ancor oggi abitati e 2 vennero abbandonati tra XIV e XV secolo, mentre 2 non sembrano sopravvissuti alla metà del secolo XII ed i rimanenti 4 casi – per uno dei quali il decastellamento è certamente anteriore al 1040 – rappresentano castelli menzionati unicamente nel secolo X. Per quanto riguarda il secolo XI, 8 casi (di cui 7 in diocesi di Roselle) su 26 rappresentano insediamenti ancor oggi abitati, in altri 13 casi (di cui 12 in diocesi di Populonia) riscontriamo un abbandono tre-quattrocentesco – in 3 dei quali certamente anteriore alla Peste Nera –, in 3 casi (tutti rosellani) i castelli non sembrano sopravvissuti ai primi decenni del secolo XIII, mentre i rimanenti 2 casi (in diocesi di Populonia) rappresentano centri menzionati solo nel secolo XI. La situazione torna ad essere più omogenea tra i due territori diocesani quando passiamo a considerare il secolo XII: su un totale di 30 casi, 13 sono rappresentati da centri ancor oggi abitati, in 11 casi
ne
gli abbandoni risalgono al tardo-medioevo, mentre 4 castelli vennero abbandonati nel corso del Duecento e solo di 2 non si registrano menzioni posteriori al XII secolo. Riguardo ai 15 castelli attestati per la prima volta nel Duecento possiamo notare che 5 di essi sono contrassegnati da una continuità di vita sino ai nostri giorni, 7 vennero abbandonati tra XIV e XV secolo, mentre 3 casi rappresentano centri menzionati solo nel secolo XIII. Nel complesso, gli abbandoni precoci furono numericamente piuttosto rilevanti, anche se non frequenti come in altre aree tosca
136: 13 dei 69 castelli attestati per la prima volta tra il secolo X ed il secolo XII non sopravvissero oltre la metà del Duecento.
136. Cfr. ad esempio il caso aretino studiato da Maria Elena Cortese. Viene comunque da chiedersi se tale disomogeneità sia da riconnettere alla disponibilità di documentazione relativa ai territori di Roselle e Populonia, particolarmente scarsa per i secolo XI. Per una disamina delle possibili ragioni di analoghi ‘abbandoni precoci’ cfr. TOUBERT 1973, pp. 354-365.
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Fig. 10 – Foto aerea del sito ove, presumibilmente, sorgono i resti dell’abitato di Germaniano.
In realtà, tali cifre non rendono pienamente ragione dell’ampiezza del fenomeno. Infatti, se da un lato è lecito ipotizzare che alcuni dei presunti abbandoni precoci individuati solo a seguito di una disamina dei documenti conservati non siano effettivamente tali – tanto perché un insediamento fortificato attestato con un nome nel secolo X potrebbe ricomparire a uno o due secoli di distanza con un nome diverso, tanto perché un centro attestato come castellare in un dato momento avrebbe potuto essere successivamente reincastellato e eventualmente abbandonato di nuovo –, dall’altro alcune considerazioni ci inducono a ritenere che, invece, il numero degli abbandoni precoci possa essere stato sensibilmente superiore. Innanzitutto dobbiamo tenere conto del fatto che sino al XIII secolo i documenti disponibili riguardano solo parte del territorio in esame e sono decisamente scarsi: pertanto, se su un campione relativamente esiguo di castelli documentati in età più antica è attestata una quota piuttosto consistente di abbandoni, possiamo ragionevolmente presumere che tale fenomeno abbia interessato un numero di insediamenti maggiore rispetto a quello risultante dal semplice computo delle menzioni esplicite. In effetti,
XV)
un esame delle fonti documentarie attento anche alle attestazioni indirette e le risultanze del-l’indagine archeologica hanno consentito di individuare ulteriori casi di ‘abbandoni precoci’, ai quali in primo luogo possiamo ricondurre con relativa sicurezza i riferimenti a toponimi quali Castellare e Castelvecchio, che la documentazione dei secoli XII-XV riporta in buon numero, senza che possano essere identificati con castelli attestati come tali nelle fonti più antiche (1 per il XII secolo, 4 per il XIII, 1 per il XIV e 2 per il
137. In secondo luogo, tra i 9 castelli individuati archeologicamente cui non sono riconducibili menzioni documentarie, né come castelli ‘in vita’ né come insediamenti abbandonati, prevalgono decisamente i siti per i quali sono assenti riscontri materiali dell’esistenza di fasi insediative posteriori alla metà del XIII secolo 138.
137. Un più completo spoglio della documentazione tarda, appena abbozzato allo stato delle ricerche, potrà certamente condurre all’individuazione di ulteriori attestazione analoghe. 138. Si riscontra la presenza di ceramica acroma in contesti privi di maiolica arcaica e di strutture murarie bassomedievali (riconducibile a fasi di vita da collocare in un orizzonte cronologico anteriore alla metà del XIII se
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Inoltre, è lecito attendersi ulteriori scoperte in tal senso, sia perché spesso la bibliografia archeologica più datata tratta gli insediamenti fortificati protostorici senza dar conto di eventuali rioccupazioni medievali anteriori al Duecento, sia perché tra le numerose anomalie riscontrate dal-l’esame delle foto aeree una buona parte di esse concerne presumibilmente castelli abbandonati precocemente, considerato che il loro primo esame consente di ricondurle ad insediamenti fortificati di dimensioni modeste e dotati di strutture difensive molto semplici ed ‘arcaiche’, tipiche dell’età preromana e dei secoli IX-XI d.C. piuttosto che del tardo-Medioevo.
Ai fini complessivi della nostra indagine, occorre anche precisare che il successo o l’insuccesso insediativo dei castelli non è, comunque, da riconnettere al momento della loro fondazione, né tantomeno a quello della loro prima attestazione documentaria, quanto semmai a motivi di diversa origine e natura. A tale proposito, è possibile avanzare alcune ipotesi sulle ragioni degli abbandoni, che, al di là di eventi occasionali e di fenomeni congiunturali, risultano legati anche alle condizioni ambientali e ai mutamenti avvenuti nelle modalità del controllo sulle risorse territoriali. Infatti, una ‘mortalità’ apparentemente maggiore dei castelli attestati in età più antica è da connettere alla loro ubicazione, che, in tendenziale continuità con l’assetto insediativo preesistente, non escludeva l’occupazione di siti posti a bassa quota o in prossimità delle aree umide costiere, vale a dire in luoghi che in seguito, per il degrado ambientale delle pianure e per la sempre più elevata perniciosità della «mal’aria», esplicitamente documentata dal XIV secolo 139, si sarebbero rivelati assai poco adatti ad ospitare insediamenti stabili. Che la maggior vulnerabilità di alcuni castelli rispetto ad altri sia connessa a si
colo) nei siti fortificati medievali di Castelluccio (S. Vincenzo), Castellina e Poggio Castello (Scarlino), Poggio Petriccio (Castiglione della Pescaia), non si rinvengono reperti posteriori al XIII secolo nel sito di Punta Fortezza (Castiglione della Pescaia), mentre sono di più incerto inquadramento cronologico gli abbandoni dei castelli individuati archeologicamente nei siti di Poggio Zenone (Gavorrano), Castellaccia e Castelluccio (Civitella Paganico). Solo nel sito di Castellaccio di Prile sono state individuati reperti e strutture databili al basso Medioevo. 139. Sebbene attestazioni dirette ed esplicite della forte perniciosità malarica maremmana risalgano alla seconda metà del secolo XIV, già nel 1334 si prevedeva che il podestà di Grosseto aveva l’obbligo di risiedere nella città «salvo quod de mensibus iulii, agusti et etiam septembris possit inde se absentare», verosimilmente a causa della scarsa salubrità dell’area durante l’estate (cfr. ASS, Capitoli 2, c. 37v).
tuazioni ambientali specifiche emerge, ad esempio, anche dall’alta ‘mortalità’ di quelli ubicati sulle sommità di rilievi contrassegnati da una notevole valenza strategico-militare, ma poco adatti come sede di villaggi contadini: Montecurliano, Monteleoni, Sassoforte e Tricasi, sebbene fossero sorti in alture ben ventilate e, quindi, meno soggette rispetto agli insediamenti limitrofi all’incidenza della «mal’aria», erano assai distanti da sorgenti di acqua e forse non disponevano nelle vicinanze di un adeguato terreno agrario, tantoché furono abbandonati tra gli ultimi decenni del Duecento e la metà del Trecento 140. Nel Massetano, inoltre, gli abbandoni di alcuni castelli furono connessi alla generale crisi del settore produttivo minerario ed all’affermazio-ne di nuove modalità di sfruttamento delle risorse locali, impostate su base cittadina a partire dal XIII secolo, quando emerse con forza il ruolo rivestito da Massa Marittima, che estese la propria giurisdizione sui territori finitimi attraendone la popolazione 141. Processi analoghi, sebbene meno strettamente legati ai mutamenti del-l’economia mineraria, condussero all’affermazio-ne di alcuni centri castrensi della diocesi di Populonia, quali Piombino, Campiglia e Suvereto, che nel basso medioevo videro crescere, soprattutto in termini relativi, il loro rilievo regionale anche in seguito all’abbandono di un buon numero di abitati vicini. Fenomeni di questo genere sono documentati pure nel territorio della diocesi di Roselle, poiché lo sviluppo urbano di Grosseto avvenne anche a discapito di alcuni centri vicini, seppure in misura meno consistente rispetto a Massa Marittima, dal momento che la città non riuscì a costituire un vero e proprio contado 142. Per il resto, comunque, laddove è stata registrata la crescita di alcuni centri maggiori a discapito di castelli precocemente abbandonati, si affermò un assetto insediativo a maglie molto larghe, più funzionale al massiccio e sistematico sviluppo dell’allevamento transumante e di una agricoltura cerealicola estensiva, che caratterizzeranno anche nei secoli successivi l’economia della Maremma grossetana 143.
ROBERTO FARINELLI
140. CAMMAROSANO, PASSERI 1976, nn. 24. 10; 5. 4; 48.10; 28. 12.141. Cfr. Appendice III.142. Cfr. ibidem.143. Su questa interpretazione del fenomeno cfr. FARI-NELLI, GIORGI 1998.
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Appendice I
LA QUESTIONE DEI LIMITI CIRCOSCRIZIONALI DI POPULONIA-MASSA E ROSELLE-GROSSETO NELL’ETÀ DELL’INCASTELLAMENTO
Per l’area che ha costituito l’oggetto della nostra ricerca, solo i confini tra la diocesi di Roselle-Grosseto e quella di Siena non hanno costitituito oggetto di controversie ad essi relative e possono essere definiti con un buon margine di precisione 1. In quest’area, perciò, le incertezze relative alla definizione del campione territoriale si riflettono in misura limitata sulla determinazione del numero complessivo dei castelli, sebbene il precoce abbandono di alcuni abitati fortificati situati in prossimità del confine non consenta di attribuirli all’uno o all’altro territorio diocesano (si tratta di Pignese e di Castelvechio, ubicato tra Porrona e Sasso, entrambi discrezionalmente esclusi dal nostro campione 2) e sebbene la fondazione tardo-due-centesca della terra nuova di Paganico presso lo stesso confine abbia ingenerato qualche ambiguità nel-l’attribuzione di un’ampia fascia territoriale all’una o all’altra circoscrizione ecclesiastica 3. Diversa, invece, è la situazione per tutte le altre aree limitanee che interessano le diocesi di Populonia-Massa e Roselle-Grosseto per le quali sussistono ampi margini di incertezza relativamente al loro inquadramento ecclesiastico. Innanzitutto, a partire dal pontificato di Silvestro II (999-1003) emersero dubbi sulla dislocazione dei confini tra le stesse Roselle-Grosseto e Populonia-Massa, che sfociarono in controversie attorno al 1074, quando il papa Gregorio VII giunse a riconoscere la dipendenza ecclesiastica da Populonia-Massa del territorio a nord dei torrenti Alma e Rigo 4. A distanza di un anno, lo stesso pontefice intese porre fine alla lite tra i due episcopati maremmani confermando la linea di confine stabilita all’inizio del secolo da Silve
1. Le argomentazioni svolte in CARDARELLI 1932, pp. 173201 sulla presenza di indizi bassomedievali di una precedente appartenenza dell’area a sud del Farma alla diocesi di Roselle ci paiono deboli e fondate su una scorretta interpretazione della bolla pontificia diretta nel 1140 a favore del monastero di S. Salvatore di Giugnano (cfr. PFLUGK HARTTUNG 1881-1884, III, n. 348). Più in generale, per una rassegna delle diverse opinioni storiografiche relative alla definizione dei confini dell’area rosellana cfr. MARRUCCHI 1998, pp. 11-16. 2. Sul Castelvechio cfr. CV, IV, n. 1015, pp. 1488-1495: 1294 novembre; su Pignese CAMMAROSANO, PASSERI 1976, n. 18. 8 e CV, IV, n. 1010, pp. 1470-1478: 1294 ottobre 11-novembre 8. 3. La chiesa di S. Michele di Paganico, pertinente sin dalla sua fondazione del 1297 alla diocesi di Siena (ANGE-LUCCI 1980, pp. 285-286), venne censita assieme all’ope-ra ed allo spedale omonimi di Paganico tra gli enti della diocesi grossetana nel 1432 (ASS, Lira 416, cc. 92-94), all’epoca retta da Antonio Casini, contemporaneamente titolare della cattedra episcopale senese. 4. Cfr. CECCARELLI LEMUT 1985, GARZELLA 1991 e, da ultimo, BURATTINI 1996a.
stro II; la perdita del documento contenente tale definizione non consente una ricostruzione puntuale delle confinazioni, ma è probabile che corrispondessero sostanzialmente a quelle ricavabili dalle Rationes Decimarum, sulla base di un confine coincidente con il corso terminale del fiume Pecora. Non è certo, però, che tale limite fosse quello attestato dalla fine del XII secolo 5 nel tratto relativo all’alta val di Bruna, dal momento che in un atto del 939 questi territori sembrano essere compresi nel «chomitato et territurio Rosellese» 6 e che nel 1072 e nel 1118 il vescovo di Roselle concesse in enfiteusi all’abate di Sestinga i diritti di decima esercitati dalla Chiesa rosellana sugli abitanti del territorio compreso «da Teupascio», nella val di Pecora, «usque a Brona», interessando in tal modo i comprensori di Accesa e Pietra che, secondo la documentazione successiva, risultano certamente inseriti nella diocesi di Populonia-Mas-sa7. Tra Populonia-Massa e Volterra le incertezze sulla definizione del limite diocesano sono legate anche alla difficoltà di stabilire un confine certo per le corrispondenti circoscrizioni civili in seguito alla soppressione dell’enclave lucchese nell’alta val di Cornia verificatasi tra l’805 e l’826 8. Infatti, quest’area originariamente lucchese venne assorbita per la maggior parte nel comprensorio di Populonia, anche se un’am-pia fascia territoriale, i cui estremi erano compresi tra Monteverdi e Prata, fu a lungo contesa tra la circoscrizione ecclesiastica volterrana e quella populoniese. I limiti tra queste due diocesi vennero fissati nella già citata lettera pontificia del 1074, che però risulta difficilmente utilizzabile per individuarne con precisione il tracciato a causa del successivo naufragio toponomastico. Le controversie sui confini tra le diocesi di Populonia-Massa e Volterra, nei primi decenni del
5. L’inclusione della pieve di Pietra nella diocesi di Mas-sa-Populonia negli ultimi anni del XII secolo testimoniata dal Liber Censuum della Chiesa di Roma mostra che già in questo periodo la diocesi massetana giungeva a comprendere tale piviere dell’alta val di Bruna, come è più compiutamente illustrato dalla documentazione successiva (cfr. FABRE 1905, p. 73; RD I, n. 3011 p. 148; RD II, n. 2969 p. 194; ASS, Capitoli 10, ins. 58). 6. LBB, 940 settembre 4.7. DSAS, 1072 luglio 23.8. L’ultima attestazione esplicita di una dipendenza di territori populoniesi dalla giurisdizione civile di Lucca risale all’805, mentre la prima testimonianza della dipendenza da Populonia di Paterno e Paganico – località precedentemente comprese nel territorio lucchese – è contenuta in due atti dell’826, rogati genericamente nel «Cornino» e attestanti l’appartenenza di questi territori alla «iudicalia de Populonio» (cfr. MDL, V/2, n. 324 e MDL, V/2, nn. 477, 478).
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XIII secolo, indussero il vescovo di Massa a rivendicare dal vescovo di Volterra i diritti diocesani sulle chiese di Monteverdi e di Castiglion Bernardi. Dagli atti relativi alla controversia emerge che il presule volterrano dichiarava di percepire le decime relative alle chiese di Monteverdi e Castiglion Bernardi nonché a quella di S. Regolo (comprese nella diocesi di Populonia alla fine del Duecento); affermava inoltre l’ap-partenenza alla sua diocesi degli enti ecclesiastici aventi sede nel territorio di Monterotondo, vale a dire le ecclesie di Cagna, Faiano e San Martino, l’ultima delle quali risulta inserita nella diocesi di Massa-Populo-nia secondo le Rationes Decimarum del 1298 9. Poco definita è pure la situazione dei limiti tra le diocesi di Volterra e di Roselle, per le quali mancano del tutto atti relativi a confinazioni, sebbene siano disponibili indicazioni puntuali che comunque sollevano dubbi sull’appartenenza di alcuni castelli all’una o al-l’altra diocesi, in particolare di quelli di Prata e Boccheggiano, nonché dell’abitato facente capo alla chiesa di S. Sicutera. Infatti, il vescovo di Roselle dispose di diritti decimari di probabile derivazione ecclesiastica nel territorio di Prata negli anni 1072-1118, mentre questo castello è attestato come appartenente al «territorio voloterrense» già nel 1027 e la sua pieve risulta certamente volterrana nei primi decenni del Duecento. Boccheggiano era forse inserito nella diocesi volterrana attorno al 1225, quando il vescovo di Volterra concesse al pievano di S. Paolo una serie di redditi relativi, tra gli altri, anche a questo territorio, che risulta certamente grossetano all’inizio del secolo XV 10. La chiesa di S. Sicutera, infine, nel 1188 dipendeva dal vescovo di Grosseto assieme alla vicina pieve di Torniella 11, mentre nel 1327 è attestata come volterrana 12. Molto ampia risulta l’area di oscillazione del confine tra le diocesi altomedievali di Roselle e di Sovana, in quanto relativa al vasto territorio compreso tra lo spartiacque Albegna/Ombrone ed il corso di quest’ultimo fiume. Se da un lato è accertato che il municipio romano di Roselle ricomprendeva anche la fascia territoriale sino al citato spartiacque 13, d’altro canto la ricostruzione accolta dalla maggior parte degli studiosi pone il limite delle circoscrizioni religiose tardo medievali in corrispondenza del corso dell’Ombrone nel tratto a sud di Campagnatico 14. A tale proposito, alcune recenti acquisizioni hanno conferito nuovi elementi a sostegno della tesi, a suo
9. RD, I, n. 3058, p. 149.10. Tra il 1212 ed il 1239 il vescovo di Volterra Pagano concesse al pievano di S. Paolo presso Montieri diritti sul districtus e sulla curtis di Boccheggiano (regesto in SCH-NEIDER 1907, n. 478). In un registro fiscale del primo Quattrocento è menzionata tra le chiese dipendenti dal vescovo di Grosseto quella di «Santo Bartalomeio di Bocheggiano» (ASS, Lira 416, c. 93r). 11. PFLUGK HARTTUNG 1881-1884, III, n. 414, pp. 359-361. 12. Cfr. MORI 1987-1992, pp. 104-105. 13. CITTER 1996a. 14. Cfr. CECCARELLI LEMUT, SODI 1994; BURATTINI 1996a; RONZANI 1996.
tempo proposta da Romualdo Cardarelli, che vede, per l’alto medioevo, una maggiore aderenza del confine meridionale della diocesi di Roselle con quello del corrispondente municipium romano 15. Si tratta innanzitutto della individuazione e del riconoscimento in prossimità di Alberese, a sud dell’Om-brone, della mansio romana di Hasta, cui sembra da collegare la «curte Astiano» compresa, nel secolo X, «infra comitato et territurio Rosellense» 16. Inoltre, un registro fiscale del primo Quattrocento annovera tra le dipendenze del vescovato di Grosseto la «chiesa di Santo Antonio di Montechalvoli» e quella di «Santa Maria», presumibilmente identificabile con la vicina chiesa di S. Maria di Grancia, situate a sud dell’Om-brone 17. Alla luce di ciò, potrebbe essere ripresa in considerazione l’ipotesi interpretativa proposta dal Cardarelli sulla base di una serie documentaria risalente agli inizi del XII secolo e relativa ai diritti di decima vantati dal vescovo rosellano sulle proprietà del monastero di S. Maria di Alberese situate nel «Russellensi episcopatu»: secondo lo studioso infatti un riferimento ai «clerici ecclesiae de Monte Calvo, ad Alborensem monasterium pertinentes», località identificabile con il Montechalvoli sopra citato (l’attuale Poggio Cavolo), poteva testimoniare proprio il precedente inquadramento nella diocesi rosellana di quella parte del territorio a sud dell’Ombrone ove si situano i due enti religiosi 18. In tal caso è possibile collegare a tali rivendicazioni anche la consistente presenza patrimoniale del vescovo di Roselle nell’area contesa, testimoniata a partire dal secolo XII; infatti, in base ad una bolla pontificia del 1188 risulta che il presule vantava chiese e diritti nel tratto compreso tra il corso dell’Ombrone e lo spartiacque con l’Albegna: non solo egli possedeva integralmente il «castellum de Ischia», il cui districtus bassomedievale era esteso prevalentemente nell’area a sud del fiume, ma vantava diritti anche «in castello et curte et districto Montis Orzalis» (Montorgiali) 19, nonché, come dimostrato da alcuni documenti all’epoca in possesso dell’epi-
15. CARDARELLI 1932, pp. 173-201. 16. KURZE 1982, pp. 9-13, n. 203. Per l’ubicazione cfr. CITTER 1996a. 17. ASS, Lira 416, cc. 91-93. Alla fine del Duecento l’area sarebbe stata già inserita nella diocesi di Sovana, poiché in essa le Rationes Decimarum registrano l’eremo di S. Benedetto «de Calvello», ritenuto identificabile con un complesso religioso sorto nel sito di Poggio Cavolo. 18. Le vestigia della chiesa, poste all’esterno del castellodi Montecalvoli, erano ancora riconoscibili nel 1760, come risulta dalla relazione stilata in quell’anno da Giacomo Boldrini e trascritta in PETRONI 1971, p. 168. I documenti editi in UGHELLI 1717ss., III, coll. 662-663, sono stati così interpretati in CARDARELLI 1932, p. 195 successivamente sia in CECCARELLI LEMUT-SODI 1994, sia in BU-RATTINI 1996a è stato evidenziata la loro inadeguatezza a costituire una prova dell’estensione del territorio rosellano a sud dell’Ombrone. 19. PFLUGK HARTTUNG 1881-1884, III, n. 414, pp. 359361. Ancora nel XV secolo la canonica della cattedrale di Grosseto vantava diritti entro il territorio di Montorgiali cfr. MORDINI 1995b, I. 42, p. 117.
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scopato, «in curte et territorio Castelli Novi» ed «incurte et districto Montis Calvi» 20.Come si vede, la questione relativa all’attribuzione
20. In riferimento a ciascuna delle due località poste asud dell’Ombrone la bolla del 1188 dichiara che la conferma dei diritti viene sancita «sicut in cartulis episcopatus continetur» (PFLUGK HARTTUNG 1881-1884, III, n. 414, pp. 359-361), verosimilmente anche perché all’epoca le due località erano già esterne ai confini diocesani.
alla diocesi altomedievale di Sovana del sito di Montechalvoli/Poggio Cavolo e di tutta la fascia territoriale tra l’Ombrone e lo spartiacque con l’Albe-gna non è ancora del tutto chiarita; ad ogni modo, per le notevoli dimensioni di quest’area, a fini statistici abbiamo ritenuto necessario considerare come un campione a sé i cinque castelli ivi attestati, senza computarli nell’una o nell’altra diocesi.
R.FA.
Appendice II
GLI INDIZI DOCUMENTARI NELL’ALTO MEDIOEVO DI UNA ORGANIZZAZIONE PER VILLAGGI TRA VAL DI CORNIA E VAL DI PECORA
L’esame della documentazione d’archivio concernente il territorio compreso tra la bassa val di Cornia e la val di Pecora ci ha permesso di raccogliere per i secoli VIII-X una serie di indizi sull’esistenza in queste aree di una organizzazione del popolamento per villaggi, anche se non è possibile ricostruire sulla base di essi il grado di accentramento insediativo che la caratterizzava.
a) Paterno Sin dalla sua prima menzione contenuta in un atto databile 744-745, attraverso il nome “Paternu-Pater-no” veniva indicato un territorio relativamente vasto, entro il quale erano comprese più unità colturali provviste di dimora contadina (case) ed individuate semplicemente attraverso il nome del conduttore 1. A partire dagli anni ’60 del secolo VIII emerge invece la distinzione tra un «loco vocabulo Paterno Minore» ove avevano sede alcune case massaricie 2 ed una località denominata Paterno maiore/Paterno magno, entro la quale erano collocati case e patrimoni fondiari 3 o venivano rogati atti 4 e che, ad ogni modo,
1. Tra il settembre 744 e l’agosto 745 due coniugi vendettero per trenta soldi a Tanualdo prete della chiesa di S. Regolo «medietate de case me in Paternu; case Minculi, Racculi, cum terra et vineas campis silvis cum arboribus terra fructefera cum fontis» (MDL, IV/1, n. 42). 2. Una permuta tra l’abate di Monteverdi e il rector della chiesa di S. Regolo del maggio 770 riguarda una casa massaricia situata «in loco vocaulo Paterno Minore, ubi resedet Cunipertus clericus» (CDL, II, nn. 239-240, pp. 306-310). 3. Nel marzo 778 «Ursus clericus filium quondam Cellali de Paterno» donò al monastero di S. Regolo tutti i propri beni che affermava situati «in loco qui dicitur Paterno majore» (MDL, IV/1, n. 10); cfr. anche MDL, IV/2, n. 87 e MDL, V/2, n. 173: 779 febbraio 25; MDL, V/2, n. 176: 779 dicembre 25; MDL, V/2, n 196: 784 gennaio; MDL, V/2, n 324: 805 dicembre; MDL, V/2, n. 477: 826 gennaio 7. 4. Nel maggio 760 la donazione effettuata da Cellulo – ilpadre del chierico Ursus menzionato alla nota precedente – di tutti i propri beni a favore della chiesa di S. Regolo venne rogata «loco Paternu majure» (MDL, IV/1, n. 52
costituiva un punto di riferimento per le indicazioni microtoponomastiche 5. Sempre all’età longobarda ed alla prima età carolingia risalgono le attestazioni documentarie di patrionimici facenti riferimento al «loco Paterno» 6, a «Paterno maiore» 7 o più semplicemente a «Paterno» 8, ed alcune testimonianze ancora più esplicite relative a uomini che dichiarano di «abitare» e «resedere» «in Paterno» 9, «in Paterno maiure» 10, oppure in «Paterno
e CDL, II, n. 144: 760 maggio). 5. Nell’810 un tal «Mauro filio quondam Tederadi» è definito «de Burriano prope Paterno majore» (MDL,V/2, n. 369: 810 giugno). 6. Nel gennaio 761 «Lopulo presbiter filio quondam Usfridide loco Paterno» dichiarava di reggere la chiesa di S. Regolo in Gualdo per conto del vescovo di Lucca (CDL, II, n. 147). Nel dicembre 774 un documento venne rogato «ad ipsa ecclesia s. Reguli in Valdo» alla presenza di «Magnentii de Paterno» (MDL, V/2, n. 176). 7. Tra i testi di un atto risalente al maggio 787 è ricordato «Mauro filio quondam Magnifrit da Paterno maiore» (Wickham 1978). Nel giugno 791 «Gudipertus filio quondam Autari» è detto «de Paterno Magiore» (MDL, IV/1, n. 110 V/2, n. 234). Infine, nel gennaio 826 Flaiperto figliodi Bonice è qualificato «de Paterno maiore» (MDL, V/2, n. 477: 826 gennaio 7). 8. Nel dicembre 779 «Magnentius de Paterno» sottoscrisse come teste un atto rogato presso la chiesa di S. Regolo (MDL, V/2, n. 176). Nel marzo 778 «Ursus clericus filium quondam Cellali de Paterno» dona al monastero tutti i propri beni (MDL, IV/1, n. 10); l’anno successivo lo stesso personaggio è definito «de Paterno Majore» (MDL, V/ 2, n. 180: 780 ottobre). Altro beneficiario di S. Regolo è «Rodipert filius quondam Domnuli de Paterno» (MDL, V/2, n. 176: 779 dicembre 25). 9. Il 24 dicembre 769 «Barunulus fil io quondamMancioni», che si definisce avitatore in Paternu, donò alla chiesa di S. Regolo la propria casa abitationis (CDL, II, n. 235; MDL, V/2, n. 117). Il 24 maggio 770 tre fratelli, Tanulo, Tudulo e Teupert, figli del fu Magnifrido Rosso, che si definiscono «habitatores in Paterno» donarono la propria «casa habitationis» alla medesima chiesa di S. Regolo in Gualdo (MDL, IV/1, n. 9 e CDL, II, n 239). «Magnari filio Magnenti» è detto «habitator in Paterno» nel luglio 777 (MDL, V/2, n. 167). 10. Nell’aprile 772 Cheidulo del fu Dommulo, definito«avitator loco Paternu majure», offrì ogni proprio bene com
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minore» 11. Su queste basi è lecito ipotizzare l’avvenu-ta acquisizione di una fisionomia di villaggio da pare dell’insediamento, come sembra emergere anche dalla presenza «in suprascripto loco Paterno» di un monasterio intitolato a san Liberio 12, dalla frequenza di datazioni topiche quali «loco Paterno» 13 oppure «ad Paterno maiore»14 e, soprattutto, dalla menzione di una «terra Paternense» con la quale nell’807 confinavano beni situati «in loco Paganico» 15. Dopo gli anni ’20 del IX secolo, forse in seguito ad un allentamento dei rapporti tra la chiesa di S. Regolo ed il ceto di piccoli e medi possessores locali con i quali essa risultava fino ad allora in rapporto, le testimonianze documentarie su Paterno si diradano bruscamente e una nuova menzione di un complesso fondiario in Paterno risale al marzo 861, quando il vescovo di Lucca Geremia concesse alcuni possedimenti situati nell’area in blocco e a titolo livellario ad «Auperto filio bone memorie Gumperti» 16. Altre attestazioni di una certa utilità per definire l’as-setto socio-insediativo del sito sono riconducibili ad un gruppo di atti della seconda metà del X secolo, nei quali viene fatto riferimento all’esistenza di alcune case ubicate «in loco et finibus ubi dicitur Paterno», dipendenti dalla corte episcopale di S. Regolo 17
e condotte da massari locali e da un tal Andrea presbiter (forse il rettore della locale chiesa di S. Liberio?) 18. Dopo un silenzio di oltre un secolo, nel 1158 Paterno viene descritto come una villa compre
presa la «casa avitationis» alla chiesa di S. Regolo in Gualdo (MDL, V/2, n. 134). Nel marzo 788 Rospulu filius bone memorie Boniperti si dichiara «habitator in loco qui dicitur Paterno majore» (MDL, V/2, n. 222). Nel dicembre 774 «Rodipert filius quondam Domnuli de Paterno» offrì alla chiesa di S. Regolo «casa et omnibus rebus [suis] de Paterno majore, ubi ego resedire visu [est]» (MDL, V/2, n. 176). Nel luglio 777 «Magnari filio Magnenti» definito «habitator in Paterno» offrì al monastero di S. Regolo la propria «casa et sors» situata «in loco Paterno» (MDL, V/2, n. 167). 11. In «Paterno minore»: MDL, IV/1, n. 70; MDL,V/2, n. 119; CDL, II, nn. 239-240.12. Il monasterium era pertinente alla chiesa lucchese di S. Frediano; cfr. MDL, IV/2, n. 87 e MDL, V/2, n. 173: 779 febbraio 25. 13. MDL, V/2, n. 134: 772 aprile; MDL, V/2, n 167:777 luglio 1. 14. MDL, IV/1, n. 93 e MDL, V/2, n. 196: 784 gennaio;MDL, V/2, n. 257: 796 settembre 7. 15. MDL, V/2, n. 338: 807 febbraio.16. MDL, V/2, n. 752: 861 marzo 2/4.17. Sulla concessione di tre case et res pertinenti alla corte di S. Regolo «in loco et finibus ubi dicitur Paterno» cfr. MDL, V/3, n. 1343: 952 gennaio 20; sulla concessione di case et res pertinenti alla chiesa di S. Regolo «sex ipsis sunt cojacentes in loco ubi dicitur Paterno» cfr. MDL, V/ 3, n. 1419: 970 aprile 9; sulla concessione di case et res pertinenti alla chiesa di S. Regolo «sex ex ipsi sunt cojacentes in loco ubi dicitur Paterno» cfr. MDL,V/3, n. 1514: 980 settembre 30; sulla concessione di «quinque inter casis et cassinis seo casalinis adque rebus illis pertinentes ecclesie S. Reguli que est fundata infra chomitato et territurio popoloniense […] quattuor ex ipsis dicitur Paterno» cfr. MDL., V/3, n. 1562: 983 luglio 31. 18. MDL, V/3, n. 1419: 970 aprile 9 e MDL, V/3, n.1514: 980 settembre 30.
sa nel territorio del castello di Monterotondo 19. Verosimilmente questo villaggio sorgeva sull’attuale Poggio Sanapaio, delimitato a nord da un corso d’acqua denominato nel primo Ottocento botro Paterno e sulla cui sommità l’aereofotointerpretazione ha individuato presumibili tracce di un abitato abbandonato, per il quale un’auspicabile indagine archeologica consentirebbe di chiarire antichità e fasi di vita. Infatti, in base alle fonti scritte non è possibile affermare se la villa attestata nel XII secolo costituisse una nuova creazione oppure si ponesse senza soluzioni di continuità in relazione all’abitato altomedievale di Paterno; un indizio a favore di una ipotesi di continuità insediativa sotto forma di villaggio è costituito dal fatto che Buriano e Cagna, le altre due ville citate nell’atto del 1158, rappresentavano anch’esse località documentate come abitate sin dai secoli VIII e IX, sebbene nel XII secolo sembrano aver rivestito un ruolo di minor rilievo nel complessivo inquadramento socio-insediativo dell’area.
b) Aque Albule
La località chiamata Aque Albule, di cui abbiamo riscontrato attestazioni documentarie relative ai secoli VIII-XII, era probabilmente ubicata nel tratto collinare compreso tra il corso del Milia a sud e quello del Rio Secco/Rio Secchino a nord, pressappoco in corrispondenza delle alture di Poggio alla Pietra 20. Si tratta di un’area contrassegnata da manifestazioni idrotermali che hanno prodotto quelle incrostazioni calcaree e gessose cui sembra da ricondurre l’origine del toponimo medievale e che vennero anche sfruttate in passato per ottenere sali vetriolici 21. Un atto dell’aprile 754, concernente la vendita di alcuni beni ubicati nell’ambito del loco qui dicitur at Munte at Panchule, consente di individuare queste terre non attraverso puntuali riferimenti di confine relativi a singoli appezzamenti ma attraverso la descrizione dei limiti del comprensorio mediante riferimenti ai centri socio-insediativi finitimi: vale a dire «fine Sancti Richuli, et fine de Tricchase, et fine de Aque Albule» 22.
19. AIMAe, III, coll. 1173-1174: 1158 gennaio 22. 20. Le «terre posite in silva de Petra» sono ricordate al-l’inizio del XIV secolo nell’ambito del distretto di Monterotondo (ASS, Capitoli 10, II, c. 2). Solo la ricerca archeologica avrebbe modo di indagare nell’area in questione l’esistenza o meno di testimonianze materiali relative ad un abitato accentrato, ponendo particolare attenzione all’attuale località “Castellacce”. 21. Su tali manifestazioni naturali cfr. CUTERI-MASCARO 1995, scheda 27. Nel XVI sec. vennero locate «lumieras et aedifictia vetrioli et ad conficiendum vetriolum, positas in curia Montirotundi in loco dicto i Lagoncelli et il defizio di sotto in su Risecco di Carboli» (FIUMI 1943). 22. CDL, I, n. 111. Anche attraverso le indicazioni topo-grafiche contenute in atti successivi possiamo inferire che il locus ove erano situati i beni venduti era delimitato a nord dalle terre circostanti la chiesa di S. Regolo, a sud e, forse, ad ovest da quelle facenti capo al centro socio-in-sediativo di Tricase, e infine ad est dal comprensorio facente capo ad Aque Albule.
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Nel febbraio 906 un tal Margino del fu Ilprando ottenne a livello beni pertinenti alla chiesa di S. Regolo ubicati «in loco ubi vocitatur ad Palmenta, ubi vocitatur ad Leccito» ed in questi termini venne descritta la casa posta «in eodem loco ad Palmenta» assieme al circuitus entro il quale erano collocate le sue pertinentie: «unum latere est tenente fine terra Ursuli de Aqua Albule, et de alio lato tenet in rivo Sicco, et de fine rivo Sico returna usque in ipsa fontanella, et inde usque foras in via qui dicitur ad Campo Agnelli, et inde usque in alia fine ipsa in terra Ursuli» 23. L’uso del patrionimico per designare Ursulo e la collocazione delle terre di questo personaggio nell’area denominata in altri atti Aque Albule lasciano supporre che questa località costituisse un nucleo socio-inse-diativo i cui abitanti controllavano alcune terre prossime alle proprie dimore. Alla fine del X secolo il «locus ubi dicitur Aqua Albula» – assieme ai luoghi detti Paterno, Lecceto e Castellione – era sede di nove case massaricie appartenenti alla chiesa di S. Regolo, che costituirono l’og-getto di concessioni livellarie a favore di Ildebrando del fu Teuperto nel 970 24 e di Gherardo del fu Teuperto nel 980 25.
c) Massa
Il comprensorio che durante i secoli VIII-IX era denominato Massa/Massa Robiani faceva verosimilmente capo ad un insediamento della val di Pecora. Un documento risalente al 746 e concerne la vendita di terre «in Teutpasciu» a favore di Tanualdo, presbiter di S. Regolo in Gualdo, venne «actum Luca, finibus Massa» 26. A distanza di otto anni il comprensorio denominato Massa è ancora documentato come luogo di stesura di atti, dal momento che «in Massa Robiani» venne stipulata una vendita relativa a beni situati «in loco qui dicitur at Munte at Panchule, prope Uualdo domni regi» a favore della stessa chiesa di S. Regolo27. Probabilmente risiedeva in questa località della val di Pecora la serva «Tachipergula de Massa», oggetto nel 761 di una spartizione patrimoniale tra Peredeo, vescovo di Lucca, ed il nipote Sunderado28. Infi
23. MDL,V/3, n. 1092: 906 febbraio.24. MDL, V/3 n 1419: 970 aprile 9.25. MDL, V/3, n. 1514: 980 settembre 30.26. CDL, I, n. 87. L’espressione «finibus Massa» mediante la quale nel 746 si individuava un comprensorio dipendente da Lucca denota l’uso di una forma di designazione topografica impiegata nella documentazione toscana del secolo VIII sia per indicare i territori delle città episcopali, sia entità geografiche di respiro subregionale o locale (FARINELLI 1997b, pp. 25-26). 27. CDL, I, n. 111: 754 aprile.28. CDL, II, n. 154. Appare plausibile tale identificazio-ne sia per il fatto che Massa in val di Pecora è la sola località che con questo nome appare nella documentazione lucchese sino alla metà del IX secolo, sia perché nella lista dei servi del 761 Tachipergula è ricordata poco prima di «Alipergula cornisiana» (presumibilmente una abitante della val di Cornia), sia infine perché è documentata in quest’area l’esistenza di proprietà della fami
ne, nell’825 il presbiter Ropprando figlio di Freiperto, detto de «Massa que dicitur Rubbiani», ottenne a livello dal vescovo di Lucca la chiesa di S. Prospero «in loco Casale, ubi dicitur Monti Juneo»29 e nell’829 ricevette in concessione altre terre «in loco Montenone» ed «in loco Stioplano» 30. Nella generalità dei casi riportati l’ubicazione dei beni e l’identità dei contraenti inducono ad escludere l’identificazione di «Massa» con luoghi omonimi all’epoca inseriti nel territorio lucchese e invece ad inviduarla in una località della val di Pecora che ha trasmesso il proprio nome all’at-tuale città maremmana 31. I documenti sopra menzionati offrono spunti anche per avanzare alcune ipotesi sulla realtà socio-econo-mica di quest’area. Un primo indicatore della rilevanza della località di Massa dal punto di vista dell’organiz-zazione territoriale è rappresentato dall’uso, nel 746, dell’espressione «finibus Massa», vale a dire di una forma di designazione topografica impiegata nella documentazione toscana del secolo VIII per indicare ambiti territoriali di una certa ampiezza. Ancora per quanto concerne l’età longobarda, l’attestazione – tra gli altri viri devoti che testimoniano nel 754 – di un tal Bandus, qualificato «centinarius», sembra denotare un ruolo non marginale di Massa anche dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa pubblica, mentre la presenza di Bonarius, un vir devotus che si sottoscrive dichiarandosi «homo pisanus», accanto a quella di un teste definito «de Versiciano», località nel versante lucchese del Monte Pisano 32, documentano l’esistenza di rapporti a largo raggio tra il centro della val di Pecora e la Toscana settentrionale e, indirettamente, una qualche rilevanza della stessa Massa come luogo di traffici.
d) Tricase e Trifonte
Il toponimo Tricase, che contrassegna un castello documentato dal 1099, durante l’alto medioevo e sin dalla sua prima attestazione del 754 costituiva la denominazione di un comprensorio geografico relati
glia di Peredeo (cfr. in proposito MDL, IV/1, n. 86 e MDL, V/2, n. 170: 778 marzo 16). 29. MDL, V/2, n. 472: 825.30. MDL, V/2, n. 500: 829 gennaio 19. Non è chiaro seRopprando fosse figlio del Fraiperto che nell’818, assieme al fratello Flaiprando del fu Andrea, ottenne in locazione una casa «in loco Monte Iuni» (MDL, V/2, n. 418: 818 giugno 26), dal momento che in tal caso difficilmente si concilierebbe il suo impegno a «residere et abitare» assieme ai propri eredi nei beni ricevuti, con la designazione del medesimo Ropprando attraverso l’espressione «de loco Massa que dicitur Rubbiani». 31. All’ambito geografico delle valli del Pecora e del Cornia appartengono luoghi nominati in stretta relazione con le ricordate menzioni di Massa: si tratta delle località di S. Regolo in Gualdo, Teutpasciu, Tricasi, Aque Albule, Montioni, Cornino. 32. Versiciano è attestato in quest’area in atti dei secoli VIII e IX (MDL, V/2, n. 149: 773; MDL, V/2, n. 301: 802; MDL, V/2, n. 390: 813; MDL, V/2, n. 434: 820; MDL, V/2, n. 460: 824; MDL, V/2, n. 573: 840. MDL, V/2, n. 835: 873).
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vamente esteso, poiché dal «fine de Tricchase» erano delimitati beni fondiari prossimi anche a Paterno e a S. Regolo in Gualdo 33. In età longobarda a Trecase aveva sede una chiesa dedicata a S. Martino, dal momento che tra i testimoni che sottoscrissero un atto del gennaio 761 relativo alla nomina di «Lupulo presbiter, filio quondam Ausfrid de loco Paterno» a rettore della chiesa di S. Regolo, compare Urso presbitero eccles. S. Martini de Trecase assieme ad altri esponenti del clero officianti in chiese situate nel-l’area34. Il ruolo di Tricase come centro di organizzazione territoriale emerge da un documento dell’807 concerente una casa ubicata in loco Pacanico descritta come «capo tenente in terra Paternese alio capo tenet in terra Treccasiana, uno lato tenet in Milia» 35. Con i primi decenni del secolo IX le testimonianze documentarie relative a Tricase vengono affiancate da altre relative al nucleo socio-insediativo di Trifonte, la cui funzione di inquadramento territoriale può essere individuata in parziale continuità con quella esercitata dal castello di Rocchette Pannocchieschi, sorto su uno sperone dell’altura attualmente denominata Poggio Trifonte 36. Nell’826 infatti Alperto del fu Ilprando, rettore di S. Regolo in Gualdo, concesse a livello casa et res «posita in loco Paganico» ad un tal Simprando del fu Sasso de Trifonte 37. Analoga alla concessione ora menzionata è un’altra dell’847, concernente beni appartenenti a S. Regolo situati «in loco Germiniano», a sud-ovest di Paganico, a favore di un tal «Celso presbyter, abitatore in loco qui dicitur Tricase» 38. Appare significativo, per la comprensione dei meccanismi di riassetto territoriale connessi alla crisi del sistema curtense ed all’affermazione dei territori castrensi, che i beni svincolati dalle strutture amministrative della «curtis» di S. Regolo attraverso gli atti sopra menzionati siano situati in due località – Germaniano e Paganico – piuttosto distanti dal cen
33. CDL, I, n. 111.34. CDL, II, n. 147.35. MDL, V/2, n. 338: 807 febbraio.36. La problematica è stata affrontata in ALBERTI et alii 1997, p. 80. 37. MDL, V/2, n. 478: 826 gennaio 7. Dal punto di vistadell’azione politica condotta da Alperto, questa locazione risulta tesa da un lato a istituire una rete di aderenze clientelari locali e dall’altro a corroborare la funzione di inquadramento giurisdizionale operata dalla «iudicalia de Populonio» che negli atti sottoscritti da Alperto trova le sue uniche menzioni (MDL, V/2, nn. 477, 478: 826 gennaio 7). 38. MDL, V/2, n. 646: 847 maggio 21.
tro curtense ed entrambe successivamente confluite nel distretto tardo medievale di Rocchette Pannocchieschi, anziché in quello di Monterotondo come invece accadde per l’antico centro curtense di S. Regolo 39; è significativo altresì che questi medesimi beni, così eccentrici, siano stati concessi in locazione a personaggi residenti in abitati quali «Tricase» e «Trifonte», nel cui ambito la chiesa di S. Regolo non sembra aver disposto di patrimoni consistenti.
e) Balneum Regis Un atto del 25 febbraio 779 riporta una testimonianza isolata ma molto significativa riguardo all’abitato di «Balneum Regis», probabilmente ubicato in prossimità dell’attuale località Bagnaccio 40. In quella data «Lamperto filio quondam Landiperti de Balnei Regis» cedeva alla chiesa di S. Frediano alcuni beni posti «in loco Cornino» ed «in Pastorale» permutandoli con «omne res ipsa, quae est predictae ecclesiae S. Fridiani pertenente in loco Paterno Magno finibus Balneo Regis» 41. Dal testo dell’atto emerge il ruolo di primo piano svolto nella primissima età carolingia da «Balneum Regis» quale centro di inquadramento territoriale locale: l’abitato di Paterno Magno, sarebbe stato compreso nei fines di «Balneum Regis», centro che rivestiva anche un certo ruolo sul piano socioeconomico, dal momento che un suo abitante, l’auto-re stesso dell’atto, possedeva beni di rilevante entità sia nella val di Cornia che nella val di Pecora.
R.FA.
39. Nel 748 il diacono Gallo donò alla chiesa di S. Regolo in Gualdo una casa da lui posseduta “in loco Germaniano, qui regitur per Cioddolo et Teudoricolo massariis”; questi ultimi erano tenuti a corrispondere al proprietario “per singolos annos quattuor modia granu, uno animale quale abuerit, pro camisia tremisse uno, una libra cera, uno sistario mel”, mentre erano esentati da eventuali altre “dationes” o “scufiae” (CDL, I, n. 94: 748 marzo). L’appartenenza del la «contrata vocata Germagnano» e della «contrata vocata Paganicho» al districus del castello di Rocchette Pannocchieschi è documentata nel 1343 (ASS, Capitoli 45, cc. 175v). 40. Il contesto del documento del 779 porta a ritenereche «Balneum Regis» fosse ubicata in val di Cornia, inoltre un atto del febbraio 954, concernente l’area di Castiglion Bernardi venne «actum loco Balneo, prope ecclesia sancte Marie» (CARRATORI, GARZELLA 1988, n. 1, pp. 3-5) con riferimento alla chiesa di S. Maria in Cornino che sorgeva non lontano dall’attuale Madonna del Frassine, poco a sud dalla località Bagnaccio. 41. MDL, V/2, n. 173.
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Appendice III
CASTELLI E SVILUPPO URBANO NEI DUE CENTRI DIOCESANI DI MASSA MARITTIMA E GROSSETO
Grosseto e Massa Marittima, le due sedi vescovili bassomedievali delle diocesi prese in esame, meritano una trattazione a parte in considerazione dei caratteri peculiari dei castelli sorti in queste località, la cui presenza rivestì un ruolo determinante nella genesi e nello sviluppo delle due città. Entrambi i centri diocesani, infatti, erano privi di una tradizione urbana risalente all’età classica e assursero alla dignità di civitates grazie alla traslazione in essi delle sedi vescovili rispettivamente di Roselle e Populonia, nel corso dei secoli XI e XII, vale a dire dopo che l’incastellamento aveva determinato in queste regioni una ridefinizione della geografia del potere e dell’assetto insediativo. L’abitato di Massa/Massa Robiani, attestato sin dal 746, rivestì durante i secoli VIII-IX un rilievo non trascurabile in ambito locale 1 e conobbe un ulteriore sviluppo in seguito alla traslazione della sede episcopale populoniense verificatasi anteriormente al 1062 2. In età romanica il nucleo urbano si estendeva ai piedi del castrum ipsius civitatis, detto anche castello di Monteregio – controllato dal vescovo di Massa almeno dalla fine del XII secolo – ed aveva il proprio centro presso l’attuale piazza Garibaldi, uno slargo triangolare formato dalla confluenza di due strade, sul quale si affacciavano la chiesa cattedrale e rilevanti edifici di età romanica 3. Non è chiaro se alla sostanziale continuità insediativa della città ‘romanica’ con l’abitato altomedievale di Massa/Massa Robiani, testimoniata dall’identità onomastica, si sia contrapposta una discontinuità topografica nella sua ubicazione specifica: infatti, secondo una radicata tradizione locale 4, il nucleo altomedievale sarebbe stato ubicato in corrispondenza del-l’attuale “Massa Vecchia”, ad ovest della città di Massa Marittima, nell’area pianeggiante che si stende ai suoi piedi, ove sono state individuate consistenti testimonianze archeologiche di età classica ed un edificio cultuale di età romanica 5; tuttavia, in assenza di indagini archeologiche sufficientemente estese in Massa Marittima e nel sito di Massa Vecchia, non si dispone ad oggi di elementi sufficienti per chiarire questo problema. Altrettanto oscura è l’identità dei soggetti che promossero la fondazione del castello di Massa, il cui nome – Monteregio – sembra indicare il suo sviluppo su beni fiscali. Infatti, sebbene una serie di atti risalenti all’ultimo decennio del XII secolo lasci intuire un precedente controllo vescovile sulla città e sul castello urbano 6, non è possibile determinare su questa
1. Cfr. Appendice II, c. 2. GARZELLA 1991, p. 10. 3. FARINELLI 1997b, p. 29. 4. L’attestazione del toponimo Massa Vecchia nello sta
sola base l’identità dei soggetti che a suo tempo avevano dato vita al centro fortificato. Già verso la fine del secolo XI Massa Marittima costituiva il principale centro di aggregazione politica e socio-economica per un vasto territorio, come emerge anche da alcune consistenti donazioni effettuate a favore della sua chiesa di S. Cerbone da parte di esponenti di famiglie aristocratiche che vantavano ampi patrimoni nell’area circostante 7. L’affermazione politica ed economica della città di Massa nel corso dei secoli XI e XII è intuibile in considerazione della presenza di notevoli strutture romaniche e sulla scorta della documentazione scritta, comunque assai scarsa prima del Duecento. A partire dal 1225, in seguito al riconoscimento dell’ordinamento comunale da parte dei rappresentanti della Chiesa massetana (vescovo, canonici, vicedomini) titolari dei diritti signorili sulla città, il comune locale intraprese la realizzazione del-l’intervento urbanistico che dette origine al quartiere di Città Nuova. Quest’ultimo costituì, da un lato, una vera e propria “terra nuova” fondata nel sito più adatto per esercitare un controllo su Monteregio (che al-l’epoca aveva la fisionomia di un «cassarum» racchiuso da una propria cinta difensiva e dotato di una chiesa intitolata a S. Bartolomeo 8), dall’altro si presentò come una distinta fondazione urbana, caratterizzata da un impianto regolare ed omogeneo, provvista di una cinta muraria autonoma e di una propria chiesa parrocchiale 9. Sul piano demografico, le prime informazioni provenienti dalla documentazione scritta risalgono agli anni Venti del XIII secolo, quando alcuni giuramenti consentono di individuare i nomi di oltre mille uomini presenti in Massa 10. Il riferimento ad un toponimico diverso da Massa e la mancata menzione del patroni
tuto del comune cittadino redatto nei primi anni del XIV secolo indica come, già all’epoca, tale tradizione sulla precedente ubicazione della città fosse ampiamente consolidata (cfr. ASF, Statuti 434, distinzione V, rubrica C). 5. CUCINI 1985, pp. 257-259. 6. VOLPE 1964. 7. Sulla vitalità di Massa nel secolo XI cfr. DCM, 1016 marzo 16; DC II, n. 80, pp. 106-109: 1027 aprile 6; DH III, n. 307, pp. 417-418: 1053 luglio 14; PRUNAI 1975-1976, n. 37, p. 332: 1068 aprile 6; UGHELLI 1717ss., III, col. 710. 8. VOLPE 1910, nn. II, IV, V. 9. Sulla fondazione di Città Nuova cfr. Farinelli 1997b. 10. Sulla base delle liste di giurati presenti nei documentiediti in VOLPE 1910 abbiamo riscontrato la presenza di circa 1100 nomi di uomini abitanti in Massa durante gli anni Venti del Duecento, dato che permette di avanzare una stima della popolazione urbana complessiva superiore a quella proposta dallo stesso Volpe in considerazione del-l’entità del fodro corrisposto al comune di Pisa negli anni Trenta del Duecento e fissata attorno ai duecento nuclei familiari. Cfr. VOLPE 1964, p. 94 e FARINELLI 1997, p. 48.
192
mico in un gran numero di casi 11 costituiscono indizi del recente inurbamento di parecchi uomini, molti dei quali provenivano da domini signorili posti nelle vicinanze (probabilmente anche la frequente omissione del patronimico potrebbe essere ricondotto ad un tentativo da essi perseguito per sfuggire agli antichi signori ancora in grado di esigere il loro ritorno sulle terre tenute in conduzione prima dell’immigrazione a Massa). Ad ogni modo, nella prima metà del XIV secolo la popolazione cittadina raggiungeva circa novemila unità 12, grazie soprattutto ai fenomeni di inurbamento che furono particolarmente intensi durante i decenni centrali del Duecento e furono caratterizzati da flussi migratori provenienti anche da regioni piuttosto distanti da Massa 13; infatti, se la città esercitò una notevole attrazione sugli abitanti delle campagne vicine 14, dobbiamo tuttavia rilevare che il numero dei castelli finitimi abbandonati prima della fine del XII secolo fu relativamente esiguo 15, e che il raggio di attrazione della città risultava assai ampio già nei primi anni del Duecento, quando Massa Marittima, accanto ad un certo numero di forestieri provenienti dall’Italia centrale, attraeva anche popolazione dal Senese, da numerosi abitati maremmani e da ampi settori del Volterrano (le Colline Metallifere, le valli del Cecina e del Cornia) 16. Rispetto al caso di Massa Marittima, l’assunzione della dignità di civitas da parte dell’abitato di Grosseto fu più tarda e decisamente più limitato risultò il ruolo esercitato dal suo vescovo nella definizione di una fisionomia urbana e di un ceto dirigente cittadino 17. Grosseto è menzionato in un atto dell’803, mediante il quale il vescovo di Lucca Iacopo concedeva a livello a Ildebrando I Aldobrandeschi i beni della «ecclesia S. Georgii que est in loco Grossito» 18, ma solo al 973 risalgono notizie più precise su questo insediamento: all’epoca, infatti, nella località avevano sede un castrum ed una chiesa pertinenti alla curtis posse
11. In oltre un terzo dei casi i nomi dei giurati sono ri-portati senza patronimico, oppure con l’esplicita indicazione della località di origine. 12. La stima proposta in GINATEMPO, SANDRI 1990, p. 107 è basata sul testo di una petizione del 1369 edita in GALLI 1881, pp. 124-128. 13. Tra il 1232 ed il 1278 vennero registrati nel cittadinario del comune di Massa i nomi di circa un migliano di nuovi cittadini, numero che, presumibilmente, non rende conto in misura completa dell’entità dei fenomeni di inurbamento in questo periodo. Cfr. FARINELLI 1997, pp. 69-80. 14. Ai primi anni del XIII secolo risalgono alcuni accorditra il comune di Massa Marittima e gli esponenti delle maggiori famiglie comitali presenti nell’area (Alberti e Pannocchieschi) per regolamentare ed arginare i flussi di inurbamento e l’acquisizione della cittadinanza massetana da parte degli abitanti dei castelli di pertinenza signorile. (FARINELLI 1997, pp. 53-54). 15. Ci riferiamo ai castelli di Pastorale, Castelborello, Lensa, Castilione, i cui territori finirono per confluire nel distretto massetano cfr. tabella 1. I. 15, 23, 41, 42. 16. FARINELLI 1997, pp. 48-55. 17. MORDINI 1995a, pp. 294-296. 18. MDL, V/2, n. 313.
dutavi dall’aldobrandesco Lamberto del fu Ildebrando19. Sebbene la forbice cronologica tra le due testimonianze documentarie abbracci un arco di quasi due secoli, sembra di poter accogliere l’ipotesi, dominante nella bibliografia, di una fondazione del castello di Grosseto ad opera di esponenti della casata aldobrandesca, che fecero di questo insediamento un centro di potere per certi versi alternativo alla stessa sede vescovile di Roselle 20. All’inizio del secolo XI, infatti, l’abitato vantava una pieve 21, solennemente riconsacrata nel 1101 forse già con le funzioni di una concattedrale 22, e nel 1138 si verificò la traslazione a Grosseto della sede episcopale rosellana che, da un lato, rappresentò il riconoscimento dello sviluppo demografico ed economico dell’abitato, dall’altro costituì un ulteriore motivo di crescita e di evoluzione urbanistica 23. Del resto, già prima della fine del XII secolo, l’elevato numero degli enti religiosi attestati in città lascia intuire un notevole sviluppo demico di Grosseto: una bolla pontificia del 1188, che contiene il quadro dei diritti rivendicati in quell’anno dal vescovo, menziona ben cinque chiese e ovviamente la cattedrale 24, oltre alle quali esistevano perlomeno quella di S. Benedetto, attestata a partire dal 1199 25, e quella di S. Leonardo il cui ospedale è documentato attorno al 116326. Già alla fine del XII secolo, inoltre, il distretto di Grosseto aveva sostanzialmente raggiunto la stessa notevole estensione che lo avrebbe caratterizzato in seguito, giungendo a comprendere la fascia costiera tra Ombrone e Bruna (il ‘tombolo’) e buona parte del lago di Castiglione con le relative saline 27. La crescita della città, riscontrabile nei primi decenni del XIII secolo 28, si determinò anche a segui
19. KURZE 1974, n. 203, pp. 9-13: «curtis cum castro et ecclesia ibidem consistente». 20. Sulle vicende politiche e patrimoniali della presenzaaldobrandesca in Maremma durante l’età dell’incastella-mento cfr. COLLAVINI 1998, pp. 21-108. 21. Un documento del 7 febbraio 1015 venne «actum inloco et finibus Grossito, prope ecclesiam plebem beate sancte Marie» (KURZE 1982, n. 243). 22. BURATTINI 1996b, p. 63, cfr. anche RONZANI 1996, pp. 179-181. 23. CAMMAROSANO, PASSERI 1976, n. 24. 1; FARINELLI 1996b. 24. Il pontefice confermò i diritti vescovili sulla ecclesia maior e sulle chiese di S. Pietro, S. Michele, S. Andrea, S. Giorgio nonché ciò che consuetudinariamente percepiva dalla chiesa di S. Lucia. Cfr. ASS, Diplomatico Riformagioni (Balzana), 1188 aprile 11, edito in PFLUGK HARTTUNG, III, n. 414, pp. 359-361). 25. FEDI 1941, n. 5, pp. 103-104: 1199 marzo 29. 26. KURZE 1982, n. 340, pp. 323-324: 1163 ca. 27. Cfr. le indicazioni contenute in KURZE 1982, n. 339, pp. 322-323: 1152 dicembre; ASS, Diplomatico Riformagioni (Balzana), 1188 aprile 11, edito in PFLUGK HARTTUNG, III, n. 414, pp. 359-361. 28. Non conosciamo l’entità della popolazione di Gros-seto nel corso del XII secolo, ma alcuni giuramenti degli anni Venti del Duecento mostrano come all’epoca si superasse un migliaio di homines. Questa stima è basata sul confronto tra i nomi dei fideles degli Aldobrandeschi che giurarono in Grosseto i patti sottoscritti dai conti con il comune di Siena nel 1221 ed i nomi dei Grossetani che
193
to dell’attrazione da essa esercitata sulle popolazioni dei vicini castelli di Caliano, Montecalvoli, Racalete e Calvello, che risultano tutti abbandonati prima della metà del Duecento 29, nonché su quelle di altri centri limitrofi, quali Roselle, Castel Marino e Montecurliano, abbandonati alla metà del Trecento30. Dal punto di vista topografico, sembra di poter registrare anche per Grosseto una separazione tra il castello signorile ed il nucleo urbano vero e proprio, il cui asse portante si situava lungo l’attuale via Garibaldi, sulla direttrice che univa la costa all’entroter-ra31. Nella prima metà del XII secolo, infatti, l’im-pianto urbanistico di Grosseto sembra essere contrassegnato dalla distinzione tra il principale nucleo abitato ed un castrum munitissimum, citata in una fonte cronistica di XII secolo ed identificabile con il castello aldobrandesco menzionato già nel 973, i quali, prima della metà del Duecento, sarebbero stati racchiusi entro un’unica cinta muraria, analogamente a quanto è stato rilevato per Massa Marittima 32. Infatti, a partire dagli anni Venti del Duecento si riscontrano menzioni del toponimo Castellare 33 che fanno implicito riferimento ai resti di un castello distrutto all’interno della città, ed è lecito ipotizzare che il nome della località si riferisca proprio ai resti del castello menzionato a partire dal 973, in quanto la pur scarna documentazione non attesta l’esistenza di altri castra in Grosseto se non quello possedutovi dagli Aldobrandeschi. Diversamente dal caso di Monteregio di Massa, però, non è nota la precisa ubicazione del castrum di Grosseto all’interno del tessuto urbano. Sebbene nella bibliografia ricorra l’ipotesi di una sua collocazione in corrispondenza dell’edificio medievale oggi conosciuto come ‘cassero del sale’ 34, l’esame delle fonti documentarie bassomedievali e moderne indu
nel 1224 giurarono fedeltà Siena, a seguito della conquista della città (cfr. CV, I, 190 1221 novembre 8-dicembre 16; CV, I, 213: 1224 settembre 27-ottobre 7, 214: 1224 ottobre 22-28). 29. Cfr. tabella 1. II. 5, 21, 52 e CAMMAROSANO, PASSERI 1976, n. 24. 12. 30. Cfr. tabella 1. II. 31, 32 e CAMMAROSANO, PASSERI 1976, n. 24. 5.31. Cfr. CITTER 1996a. 32. Cfr. Scriptores 1884, p. 773; CITTER 1996a, pp. 117118; MORDINI 1996, pp. 72-73 e SAGINA 1996, pp. 83-85. 33. Le più antiche menzioni del toponimo Castellare sono contenute in due atti del maggio e dell’agosto 1220 concernenti la chiesa di S. Michele di Grosseto (cfr. GHIGNO-LI 1992, nn. 75-76, pp. 186-188). 34. Cfr. da ultimo CITTER 1996a.
ce a localizzare il castellare presso l’antico Palazzo dei Priori, tra le attuali via Manin e piazza San Michele 35. Per quanto concerne l’epoca del decastellamento del sito fortificato sappiamo che è sicuramente anteriore al 1220, anno della più antica attestazione del castellare, mentre non è possibile avanzare ipotesi sulle cause della distruzione e dell’abbandono del castello, poiché tra il 1137 e il 1220 sono attestati per Grosseto almeno tre momenti di forte tensione politico-militare che potrebbero aver determinato il fenomeno 36. In definitiva, si riscontrano rilevanti analogie per quanto concerne le vicende insediative dei due centri maremmani che avrebbero soppiantato le sedi episcopali di età classica e, in particolare, riguardo al ruolo rivestito in esse dai castelli urbani, a prescindere dalla loro specifica denominazione (in parte distinta da quella dell’insediamento precastrense per quanto riguarda Massa Marittima/Monteregio, ma del tutto coincidente nel caso di Grosseto). Sia per Massa che per Grosseto i castelli presso i quali si collocava la nuova sede vescovile sorsero in prossimità di abitati che durante i secoli VIII-IX già rivestivano una certa rilevanza demica ed un forte interesse sotto il profilo del controllo dei traffici e dello sfruttamento delle risorse. In entrambi i casi i castelli costituirono un elemento catalizzatore del popolamento poiché vicino ad essi si andarono a sviluppare borghi sempre più estesi, che prima della metà del Duecento giunsero ad inglobare ed a racchiudere con una propria cinta difensiva gli antichi nuclei fortificati. Per quanto concerne le modalità della crescita che durante i secoli XII e XIII contraddistinse le due città maremmane, possiamo rilevare che essa si realizzò solo in parte attraverso l’accentramento insediativo di popolazione presente nelle vicinanze e la costituzione di un ampio distretto castrense con modalità e secondo tempi assimilabili a quelli che caratterizzarono il fenomeno del secondo incastellamento, mentre se ne differenziò soprattutto per il maggior peso rivestito dal-l’inurbamento di immigrati provenienti anche da centri ubicati a maggiore distanza.
R.FA.
35. Cfr. ASS, Diplomatico Archivio Generale, 1245 luglio 14; ASS, Diplomatico Archivio Generale, 1248 ottobre 11; ASS, Vino e terratici 10, cc. 76v, 78r; ASS, Spedale 1406, c. 4r; BCS, Ms. A III 21, c. 7v. 36. Fasi di tensione sono documentate nel 1137 (cfr. Scriptores 1884, p. 773), attorno al 1179 (cfr. il contributo di Farinelli e Giorgi in questo stesso volume) e poco prima del settembre 1204 (cfr. MORDINI 1995a, pp. 296-301).
FONTI INEDITE
Abbreviazioni
ASF Archivio di Stato di Firenze. ASS Archivio di Stato di Siena. BCS Biblioteca Comunale degli Intonati di Siena.
194
CV
BICCHERNA IV
LBB DCM DSAS PASSIGNANO MS DR
Abbreviazioni
AIMAe ASP, 1
CDL, I
CDL, II
DC II
DF I
DO II
DH III
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