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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FILOLOGIA MODERNA
Un inventore di giornali.
Leo Longanesi scrittore, grafico, pittore.
(1924 - 1950)
Relatore: Chiar.mo Prof. Silvio Lanaro
Laureanda: Maria Chiara Selmo
607971 – FIM
A.A. 2010 – 2011
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Indice
Introduzione: Longanesi e il giornalismo
italiano
p. 5
Capitolo I: Biografia 19
Capitolo II: “Il Selvaggio” 43
1. L’esordio del “Selvaggio” 43
2. I quattro periodi del “Selvaggio” 46
3. L’identità “selvaggia” 48
4. “Strapaese” 56
Capitolo III: “L’Italiano” 61
1. I primi numeri 61
2. Dal n. 9 alla svolta del 1930 64
3. Dal 1930 al 1942 70
Capitolo IV: “Omnibus” 81
1. La nascita di “Omnibus” 81
2. La fotografia 87
3. La chiusura di “Omnibus” 94
Capitolo V: “Il Borghese” 107
1. Longanesi a Milano 107
2. La linea politica del “Borghese” 113
3. L’elogio del passato 123
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Capitolo VI: Longanesi scrittore 129
1. L’attività letteraria di Longanesi 129
2. Lo stile 131
3. Gli obiettivi polemici 139
Appendice 147
Bibliografia 159
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5 �
Introduzione: Longanesi e il giornalismo
italiano
Leo Longanesi viene dipinto come uno dei grandi maestri del
giornalismo italiano non solo per aver insegnato, ancora
giovanissimo, il mestiere alla sua stessa generazione, ma
soprattutto per aver firmato, con “Omnibus”, l’atto di nascita dei
periodici italiani a rotocalco.
Si tratta di una rivista che innova sensibilmente il mondo della
carta stampata, introducendo nel nostro paese un modello che ha
già grande fortuna all’estero. A ben vedere la tecnica della
stampa a rotocalco è stata sperimentata in Italia già negli anni
Venti, con “Il Secolo Illustrato”, settimanale edito da Mondadori
alla fine del 1925, in cui sono presenti romanzi a puntate, scritti
popolari, articoli di cronaca, di costume e diverse fotografie
accompagnate da didascalie. Inizia così il fruttuoso incontro tra
immagine e parola, che “Omnibus” ha il merito di portare a
compimento ampliandone gli orizzonti ed arrivando al grande
pubblico, cosa che non riesce al più piccolo “Secolo Illustrato”.
Le immagini diventano quindi vere protagoniste della pagina,
possiedono esse stesse un intento comunicativo e dialogano con
il testo scritto completandolo. La rivista longanesiana è
dinamica e vivace, sia nella veste grafica, sia nei contenuti: nelle
sue pagine trovano spazio articoli di attualità e politica,
recensioni letterarie, critica di cinema e di costume, racconti
brevi, tutto accompagnato dalle fotografie. In questo modo il
giornale di Leo diviene il “padre nobile”1 del rotocalco italiano.
L’importanza di ”Omnibus” e del suo direttore viene confermata
dalla corsa ai rotocalchi da parte degli editori dopo l’improvvisa ���������������������������������������� �������������������
1 R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, Forme e modelli del rotocalco italiano tra
fascismo e guerra, Milano, Cisalpino, 2009, p. 42
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6 �
chiusura della rivista. La fine degli anni Trenta vede
un’avvicendarsi di testate, ognuna caratterizzata da un proprio
profilo, ma in definitiva rispondenti ad un unico modello, quello
capeggiato da “Omnibus”, a conferma dell’esistenza di un vasto
pubblico di lettori che gli editori non desiderano certo
disperdere. Si comprende bene allora come Rizzoli,
all’indomani dalla soppressione di “Omnibus”, adatti in fretta
“Tutto”, nato come giornale umoristico nell’aprile del ’38 sotto
la direzione di Giovanni Mosca prima e di Vittorio Metz poi, ad
una fruizione più vasta; ma la rivista, troppo simile al giornale
longanesiano, non sfugge alla censura e chiude nell’aprile del
’39. Passa poco più di un mese e in edicola troviamo un altro
erede di “Omnibus”, “Oggi”, che esce il 3 giugno 1939 diretto
da Benedetti e Pannunzio, allievi alla scuola di Longanesi.
Mondadori risponde a Rizzoli pubblicando nello stesso mese
“Tempo”, rotocalco in cui la formula del fotogiornalismo regna
sovrana, tanto da farlo sembrare una copia dell’americano
“Life”. Quando anche “Oggi” è costretto a chiudere, Rizzoli
propone la suoi lettori “7 giorni”, che, affidato al più moderato
Giovanni Mosca, esce il 2 maggio 1942. Il dopoguerra non
abbandona certo la fortunata stampa a rotocalco, troviamo
infatti, tra gli altri, “Il Mondo”, “L’Europeo” e “L’Espresso”.
Come si nota le riviste a rotocalco che si susseguono negli ultimi
anni del regime, per essere poi riprese una volta usciti dalla
guerra, sono diverse, ma hanno in comune lo stesso antenato,
“Omnibus”, da cui riprendono forme e contenuti. Lo si può
riscontrare vedendo più da vicino due giornali, tra i più
fortunati, nati sotto il fascismo: “Oggi” e “Tempo”.
Il fatto che “Oggi” nasca dalle ceneri di “Omnibus” è dimostrato
dalla varietà di temi affrontati, dall’importanza dell’elemento
fotografico, ma soprattutto dal rapporto che il giornale
intrattiene con il regime. Né “Omnibus”, né “Oggi”, infatti,
rapprendano la cultura fascista, come non lo fanno neanche il
7 �
teatro di Pirandello e le novelle di Moravia, ma nemmeno si
proclamano antifascisti. Entrambi, come nota Benedetti, sono
intrisi di elementi europei:
C’era l’apporto notevole dell’espressionismo tedesco, che
talvolta dava al settimanale una sfumatura grottesca e
forse macabra, c’era l’apporto della cultura francese, […]
della “Nouvelle Revue Francaise”, di “Le Caprouillot” e
del dadaismo; e c’era l’apporto del giornalismo
anglosassone: s’intendeva cioè una grande ammirazione
della stampa inglese, e soprattutto un commozione per gli
insegnamenti che derivavano dal grande giornalismo
illustrato americano: da “Life”, così com’era prima della
guerra, da “Look”, da “Time”, “Newyorker”, per quanto
riguarda lo stile letterario2.
Tra le pagine di “Oggi” si trovano senz’altro contributi che
sposano le tesi indicate dal Minculpop, come accade anche in
“Omnibus”, ma accanto a questi ci sono articoli privi di enfasi o
retorica che trattano delle grandi capitali europee, degli Stati
Uniti, passando per l’Asia e l’America Latina. Talvolta si
leggono interessanti analisi sulla realtà italiana, che aprono uno
squarcio su un’Italia povera e in difficoltà. Non mancano
recensioni musicali o teatrali e scritti di costume. “Oggi”, al pari
di “Omnibus”, respira, negli anni in cui la morsa della censura
fascista si fa sempre più stretta, aria internazionale, assumendo
“un inequivocabile sapore cosmopolita”3.
Il fascismo c’è, indubbiamente, ma sotto la veste di un’eco
lontana, a cui mancano i toni entusiastici e ottimisti che
dovrebbe assumere la stampa ufficiale. L’eresia, proprio come
in “Omnibus”, non è evidente, ma sottile, sussurrata e non
gridata, ma parimenti notata dalla censura, che costringe il
giornale a chiudere nel febbraio del ’42.
���������������������������������������� �������������������2 A. BENEDETTI, Diario italiano. Omnibus, “L’Espresso”, 6 ottobre 1957,
cit. in R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 115 - 116 ��R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 118
8 �
Del resto, il non completo appoggio al regime, così come la
vicinanza al già soppresso giornale longanesiano, è evidente fin
dalla scelta dei redattori: tra i nomi che i due direttori
propongono a Rizzoli cui sono quelli di Mario Alicata, Marco
Cesarini, Pietro Ingrao, Carlo Muscetta, Giaime Pintor, uomini
che già svolgono attività politica d’opposizione o addirittura
sono iscritti al partito comunista clandestino4. A dirigere il tutto
ci sono poi due giornalisti formatisi alla scuola di “Omnibus”,
Pannunzio e Benedetti.
Nel ’39 vede il suo primo numero anche “Tempo”, settimanale
edito da Mondadori e diretto dal figlio Alberto. L’attenzione alla
cultura straniera va ben oltre a quanto accade in “Omnibus” e
“Oggi”, dato che non solo la rivista propone articoli i cui
contenuti varcano il confine, ma il giornale stesso appare come
“una copia scandalosa della sua consorella straniera”5, “Life”.
Nel pensare alla nuova testata Alberto Mondadori non fa però
solo riferimento ai modelli stranieri, si confronta
necessariamente anche con “Omnibus” e “Oggi”. L’influenza di
Longanesi è determinante soprattutto per quanto riguarda
l’utilizzo del documento visivo: Leo lo ha eletto nel suo
rotocalco a protagonista della pagina, in dialogo costante e mai
banale con il testo scritto; Alberto Mondadori va oltre, crea
pagine dove la prevalenza va nettamente alla fotografia, la
parola esaurisce invece la sua funzione nella didascalia.
L’influenza di “Omnibus” non è dunque racchiusa nei suoi due
anni di vita, il giornale diventa punto di riferimento e di
inevitabile confronto per chiunque, negli ultimi anni del regime
e nel dopoguerra, si avventuri tra i rotocalchi. Questa rivista, a
cui è legato il nome del suo direttore, fa di Longanesi un
maestro di giornalismo, da cui è difficile prescindere.
���������������������������������������� �������������������4
Ibid., p. 117 5 PALINURO, Cose dette. Esterofilia, “Il Tevere”, 7 – 8 luglio 1939, cit. in
R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 310
9 �
Lo si comprende a maggior ragione se si prendono in
considerazione i rapporti che Leo intrattiene con diversi
giornalisti; Montanelli scrive a ragione che Longanesi
era uno dei pochissimi uomini al mondo che non abbia
dovuto aspettare i figli dei loro coetanei per farsene dei
discepoli e che abbia saputo diventare il maestro della sua
generazione. A ventidue anni, senza corredo di studi e
quasi senza aver messo il naso fuori dalla sua Romagna,
era già sul podio pronto a dirigere l’orchestra6.
E’ in queste vesti che il giovane Leo si presenta a Maccari, uno
degli uomini destinati a diventare non solo un assiduo
collaboratore, ma anche un amico. I due si incontrano per la
prima volta nel settembre del ’24, a Colle Val d’Elsa, dove
Longanesi si reca per proporre la sua collaborazione al
“Selvaggio”. Maccari lo ricorda con queste parole: “Era
entusiasta, anche troppo, di quel che facevo, eppure lui, tanto
più giovane di me, era tanto più esperto”7. Leo infatti è sette
anni più giovane di Maccari, che, nato a Siena, si trasferisce a
Colle Val d’Elsa nella prima infanzia. Laureatosi in
giurisprudenza, parte per la guerra come sottotenente di
artiglieria. Appoggia il fascismo fin dai primi anni Venti,
partecipa alla Marcia su Roma e si pone con fermezza dalla
parte dello squadrismo provinciale, sostenendolo nelle pagine
del “Selvaggio”.
I punti di contatto tra Longanesi e Maccari sono più d’uno, a
partire dalla statura: entrambi sono infatti piuttosto bassi, tanto
da meritare il nomignolo “Nani di Strapaese”, coniato da
Malaparte, che sa, toccando questo tasto, di colpire Leo in uno
dei suoi lati deboli; egli infatti soffre molto più di Maccari per la
sua bassa statura. Non solo una caratteristica fisica li lega, ma
���������������������������������������� ��������������������� I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, Leo Longanesi, Milano, Rizzoli,
1984, p. X 7 M. MACCARI, Una vittima dell’intelligenza e dell’intuizione, “Il Tempo”,
27 novembre 1977, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 52
10 �
anche una concezione del fascismo come perenne rivoluzione,
che Leo sposa con la collaborazione al “Selvaggio” e che
porterà nell’“Italiano”. Entrambi, poi, si distinguono per essere
capaci vignettisti e disegnatori. Il sodalizio tra Longanesi e
Maccari dura a lungo, andando al di là della semplice
cooperazione tra giornalisti.
Altro grande collaboratore, nonché amico di Longanesi, è
senz’altro Giovanni Ansaldo, proveniente da un’illustre famiglia
genovese. Egli esordisce nel “Lavoro”, per scrivere poi nella
“Voce”, nell’ “Unità”, nella “Stampa” e diventare una delle
penne più polemiche nei confronti del fascismo. Ma un certo
conservatorismo e la volontà di non affrontare una vita fatta di
confino e ristrettezze hanno la meglio e Ansaldo si allontana
dall’antifascismo per approdare all’ “Italiano” all’inizio degli
anni Trenta. Collabora poi con Longanesi anche in “Omnibus” e
nel “Borghese”. Tra Leo e l’intellettuale genovese vi è però un
interesse reciproco già nel ’26, data a cui risalgono alcune lettere
che pongono le basi per la successiva collaborazione; Ansaldo
riserva queste parole a commento del giornale di Leo:
“L’Italiano” mi interessa. Essere d’accordo o non essere
d’accordo con un giornale è cosa secondaria.
L’importante è che il giornale interessi. E “L’Italiano” lo
leggo sempre, quando lo ricevo. Non tutte le vostre idee
sono originali, come voi credete. Sono anche le mie. Se
leggeste – certamente non lo leggerete, e farete bene – le
mie risposte e le mie obiezioni al programma del povero
Gobetti, quando nel 1921 uscì il primo numero di
“Rivoluzione liberale”, vi trovereste press’a poco quello
che voi dite con maggiore vivacità di me, ma forse con
minore rigore ideologico. […] Lei vede subito, dal modo
in cui ragiono di queste cose, che sono lontano dagli
oppositori in nome delle cooperative socialiste, almeno
tanto come voialtri siete lontani dai fascisti affaristi, di
cui Genova pullula. Questo innegabilmente ci avvicina.
[…] Lei alza il braccio per salutarmi. Io, più
tranquillamente, le porgo la mano. Mi scusi, ma questo
modo di salutare mi sembra più all’antica, e più
11 �
reazionario. Il “Signor di Bonafede” non alzerebbe il
braccio, porgerebbe la mano. No? E io gli somiglio.8
Il conservatorismo di Ansaldo, il suo legame con l’Ottocento, la
sua eleganza e compostezza nello scrivere così come nel parlare
non possono che trovare un alleato in Longanesi. La stima fra i
due è costante e cosparsa di una patina antica. Montanelli, più
giovane di entrambi, ricorda così il loro rapporto: “Fra loro si
dettero sempre del lei, e il fatto che a me dessero del tu era un
segno non della loro considerazione, ma della loro disistima: mi
ritenevano, voleva dire, troppo moderno, troppo ciabattone,
insomma troppo borghese”9. E ancora:
La cosa che più deliziava Longanesi era che Ansaldo gli
mandava i suoi articoli scritti a mano con una grafia
bellissima a vedersi, ma difficilissima a leggersi, su
grandi fogli ricavati dai retro incollati di buste usate per
risparmiare la carta, e sempre accompagnandoli con una
lettera più lunga dell’articolo, che Longanesi mi mostrava
per farmi sentire la vergogna di quelli miei, scritti a
macchina su cartelle normali e correlati d’un semplice e
frettoloso: “Spero che ti vada bene”.10
Come possono due uomini così, amanti dei profumi
ottocenteschi, non intendersi?
Se Maccari e Ansaldo sono più anziani di Longanesi, Indro
Montanelli ha invece qualche anno di meno. Egli inizia a
collaborare con Leo ai tempi di “Omnibus”, continua nel
dopoguerra pubblicando diversi libri per la casa editrice
longanesiana ed è stato descritto come la “colonna ideologica”
del “Borghese”. In più d’uno scritto Montanelli ripercorre la
grande amicizia che lo lega a Leo e quanto quest’ultimo sia stato
per lui un maestro: “Ora che è morto, possiamo dirlo, senza
timore delle sue diaboliche e scottanti rivalse: era un grande
���������������������������������������� �������������������8 Lettera di Ansaldo a Longanesi datata 2 maggio 1926, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 206 - 207 9 I. MONTANELLI, Prefazione a L. LONGANESI, I borghesi stanchi,
Milano, Rusconi, 1973, p. 10 10
Ibid.
12 �
Maestro. Insopportabile, cattivo, ingiusto, ingrato. Ma un grande
Maestro. L’ultimo”11. Montanelli ha condiviso con Longanesi
soprattutto gli anni del “Borghese”, combattendo la stessa
battaglia di Leo: a favore di una borghesia di stampo
ottocentista, una visione più neutrale, quasi pacificata, del
fascismo, la tradizione, per rendersi conto, a cose fatte, che
quella famosa tradizione in nome della quale si faceva
polemica e ci s’era buscati spernacchiamenti e
scorbacchiature, se l’era inventata Longanesi. Per
difendere la sua provincia di Bagnocavallo, ognuno
aveva mobilitato quella propria. Per difendere il nonno di
Longanesi, ognuno aveva richiamato alle armi il suo. Per
dodici anni, Longanesi ci aveva fatto sedere sulle
poltrone più scomode, in guerra con tutti. Ci aveva fatto
complici di atteggiamenti che non reggevano, ci aveva
condotto al litigio coi nostri vecchi amici, ci aveva messo
a repentaglio con mezza Milano e mezza Italia. E tutto
questo per difendere il mondo di Longanesi, dove non
c’era che Longanesi.12
Montanelli non nasconde mai la grande stima che nutre per Leo,
pur essendo stato apostrofato dall’amico in diversi modi: “Indro
Montanelli: uno che spiega benissimo agli altri quello che non
capisce”; “Montanelli: un misantropo che vive in mezzo agli
altri per sentirsi più solo”; “Non legge quel che scrivo; e poiché
quel che dico è meglio di quel che scrivo ha un’ammirazione
prepotente per quel che non ho scritto”13. Nonostante questo,
Montanelli chiude il suo articolo di commemorazione a
Longanesi pubblicato sul “Corriere della Sera” con queste
parole: “Per me, non oso fare il conto di quello che mi
rimarrebbe se dovessi restituirgli tutto ciò che mi ha dato. Non
ho avuto il tempo di dirglielo, ora è troppo tardi, uno stupido
���������������������������������������� �������������������11 I. MONTANELLI, Prefazione a L. LONGANESI, La sua signora,
taccuino, Milano, Rizzoli, 1957, p. 9 12 I. MONTANELLI, Longanesi a Milano, “Il Borghese”, 10 ottobre 1957, p.
573 - 574 13 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 375
13 �
pudore mi ha trattenuto. Ma anche il pudore me lo aveva
insegnato lui”14.
Mario Missiroli è invece più anziano di Longanesi di circa
vent’anni. I due si conoscono all’inizio degli anni Trenta,
quando Leo si trasferisce a Roma con la famiglia. Missiroli
ricorda così il loro incontro:
Assente dalle nostra città non per volontà mia, non
appena mi fu possibile conobbi Longanesi. Me lo
presentò Vittorio Orlandi, suo carissimo amico, il solo
che fosse da lui ascoltato col rispetto che si ha per un
fratello maggiore. Io lo conoscevo solo di fama e
attraverso la lettura dell’“Italiano” che non mi aveva
risparmiato. E ricordo un suo certo imbarazzo durante il
primo incontro, un rossore infantile. Ma fu cosa di poco.
Diventammo subito amici.15
Eppure fino qualche anno prima Longanesi non sembra avere
un’ottima opinione di Missiroli: il primo numero dell’“Italiano”,
infatti, a piede di pagina, ospita una vignetta in cui un asino
trascina una cassa di libri e porta in groppa un uomo e una
scimmia. La didascalia recita: “Questo è Mario Missiroli che dà
la scalata al ‘Resto del Carlino’ e la scimmia che regge il
bastone è Pippo Naldi. Il cadavere là in fondo è il Conte
Cesarini Sforza”. Nello stesso numero si legge anche: “M.
Missiroli ha un solo difetto: trovare il buono in tutte le opinioni”
e ancora “Come sarei felice se Missiroli fosse ebreo”16. La colpa
dell’intellettuale bolognese è quella, naturalmente, di non essere
fascista e di dimostrare la propria avversione al Duce in ogni
occasione. Ma le questioni politiche non sono mai in Leo motivo
per negare stima se la persona, come nel caso di Missiroli, la
merita. L’amicizia tra i due si incrina però negli anni Cinquanta:
le loro posizioni, nel contesto della nuova Italia, non possono
���������������������������������������� �������������������14 I. MONTANELLI, Addio a Longanesi, “Il Corriere della Sera”, 29
settembre 1957 15 M. MISSIROLI, Arpinati e Sorel, “Il Borghese”, 10 ottobre 1957, p. 570 16 “L’Italiano”, 14 gennaio 1926, cit. in I. MONTANELLI, M.
STAGLIENO, op. cit., p. 375
14 �
essere conciliabili: Leo lavora al “Borghese” mentre Missiroli è
direttore del “Corriere della Sera”. Già questo potrebbe bastare a
motivare il loro allontanamento, ma vi si aggiunge il desiderio
insoddisfatto da parte di Leo di collaborare alla terza pagina del
quotidiano e la sua tenace opposizione all’apertura a sinistra da
parte della DC, che trova invece parere favorevole in Missiroli.
Tali incomprensioni non minano in ogni caso l’alta
considerazione che l’intellettuale bolognese nutre per
Longanesi:
Fu sempre un mistero, per me, come fosse riuscito a
sapere tante cose, a impadronirsi di tante nozioni. Era un
erudito, sì, un erudito, perché l’erudizione è la
conoscenza frammentaria e non sistematica delle cose più
disparate. E, per quanto riguarda la cultura propriamente
detta, questa l’aveva in sé, naturalmente, in virtù di una
stupefacente intuizione, che gli consentiva di parlare, e
bene, di tante cose, che non aveva studiate. Io restavo
meravigliato davanti a certe sue sortite e non di rado mi
studiavo di dare sistemazione e logica alle idee, che mi
esponeva in forma assiomatica, sotto forma di aforismi o
paradossi. Allo stesso modo che non sono mai riuscito a
capire come, vivendo in un mondo irreale, astratto,
assolutamente arbitrario, possedesse, poi, un senso così
esatto e penetrante della realtà circostante, che lo
rendeva, fra l’altro, un consigliere giudiziosissimo e
utilissimo, nonostante la sua totale incapacità di
provvedere ai casi propri.17
Accanto ai giornalisti e amici di Leo fin qui chiamati in causa, ci
sono diversi altri giovani che devono a Longanesi la loro
formazione e parte del loro successo, a partire da Benedetti e
Pannunzio, negli anni Trenta allievi alla scuola di “Omnibus” e
poi, nel dopoguerra, duramente criticati dal maestro per averlo
abbandonato. Benedetti riconosce che “l’intraprendenza
artigiana di Longanesi rappresentò per molti il miglior
insegnamento che possa aver avuto un giornalista nei tempi
���������������������������������������� �������������������17 M. MISSIROLI, art. cit., p. 570 - 571
15 �
precedenti all’ultima guerra mondiale”18. In realtà, nonostante le
accuse che Leo muove contro quei due suoi allievi che lo hanno
abbandonato per seguire le strada dell’antifascismo, vi è stima e
rispetto nei loro confronti; Montanelli racconta con meraviglia
una conversazione avuta con Longanesi:
«Ho visto ieri», gli dissi (e non era vero), «Pannunzio e
Benedetti. Mi hanno chiesto di te. Me ne chiedono
sempre, e sempre con affetto, nonostante i tuoi
maltrattamenti. Che ne diresti se domani si cenasse
insieme?». Scosse la testa. «Con Pannunzio, no» rispose.
«Perché?». «Perché è un ladro» proruppe. «“Il Mondo” è
il giornale che avrei voluto e dovuto fare io, e lui me l’ha
rubato». Trasecolai. A nessuno Longanesi avrebbe mai
fatto una simile confessione, e di nessuno aveva mai
pronunciato un elogio così sperticato.19
Poi c’è Mario Soldati, pronto a dichiarare un debito con
Longanesi:
Lo conoscevo da molti anni: fin dal 1931. E già lui mi
aveva stampato e, più che stampato, incoraggiato a
scrivere due libri. Poi aveva lavorato con me in un film.
Ma diventammo amici soltanto nell’esilio napoletano.
Praticamente, abbiamo vissuto insieme, fatto ménage
comune, per nove mesi, dal settembre ’43 al giugno ’44,
lui, Steno e io. […] Il 26 settembre scorso andai a
trovarlo, in via Bigli, all’ufficio del “Borghese”. Mi
accolse con una dolcezza, con una tenerezza che non
potrò mai più dimenticare. Mi parlò a lungo della nuova
casa editrice “I libri di Leo Longanesi” che stava per
lanciare; e della cui sede mi mostrava le finestre,
attraverso il giardinetto e i cortili. […] Gli dissi che, per
conto mio, non avevo ancora trovato il titolo per il mio
prossimo libro, una raccolta di racconti. «Titolo? Pronti,
ecco qua», disse Leo. Aprì un cassetto. Dal cassetto cavò
un quaderno rilegato in pelle e filettato d’oro. Lo sfogliò
���������������������������������������� �������������������18 A. BENEDETTI, L’uomo della fronda, “La Stampa”, 28 settembre 1957,
cit. in R. LIUCCI, L’Italia borghese di Longanesi, giornalismo, politica e
costume negli anni ’50, Venezia, Marsilio, 2002, p. 107 19 I. MONTANELLI, Presentazione a L. LONGANESI, In piedi e seduti,
1919 – 1943, Milano, Longanesi & C., 1968, p. 6. Non avendo riscontrato modifiche rilevanti rispetto alla prima edizione dell’opera, si è scelto di far riferimento ad una pubblicazione successiva.
16 �
finché trovò la dicitura: “Titoli”. Seguiva una ventina di
pagine, tutti di titoli nuovi per libri, scritti a penna. C’era
anche il titolo buono per me. Lo scelsi.20
A descrivere Longanesi come un maestro interviene anche Irene
Brin, che però si spinge oltre, parlando di un’operazione
profonda compiuta da Leo sui suoi collaboratori; non si tratta
solamente di dare un indirizzo o di consigliare un titolo, ma di
una vera e propria riscrittura, reinvenzione, del giornalista:
Io non mi chiamo né Irene, né Brin, anche se configuro
così in contratti, elenchi telefonici, discorsi famigliari.
Sono nomi inventati da Longanesi. Io sono un’invenzione
di Longanesi, come molte altre persone che ebbero la
fortuna di passargli accanto, di svegliare in qualche modo
il suo interesse, di scatenare la sua furiosa pazienza
costruttiva. […] Senza stato maggiore, ma direttamente e
implacabilmente, Longanesi riscrisse non solo i nostri
scritti, ma i nostri cervelli. […] Insomma mi inventava,
collocandomi nei miei diversi ruoli e nei miei diversi
pseudonimi (fui anche Adelina, per certe cronache di
massaia, o Geraldina Tron per certi racconti, […]). Ma
inventava anche tutti gli altri. […] Non voleva affatto
livellarci, se non per certe leggi comuni di sobrietà e di
amarezza, ma piuttosto costringere ognuno di noi ad
interpretare il momento con attenzione e intenzione
diverse.21
Se è vero, come risulta da queste righe, che Leo è un grande
maestro di giornalismo, è vero altresì che molti dei suoi “allievi”
lo abbandonano nel corso degli anni Cinquanta per spendere il
loro talento a favore di altre testate o altri gruppi politici. I
motivi sono diversi, ma in tutti ha sicuramente un certo peso la
personalità di Leo: schietto, esigente, istintivo, emette giudizi
lapidari e non rinuncia la pettegolezzo maligno. Questa stessa
persona è però in grado di chiedere, quasi candidamente,
“Perché sono così solo?”. Montanelli risponde:
���������������������������������������� �������������������20 M. SOLDATI, Da Venere a Don Lisander, “Il Borghese”, 10 ottobre 1957,
p. 581 21 I. BRIN, Un nome inventato, “Il Borghese”, 10 ottobre 1957, p. 588
17 �
Per spiegarglielo dovetti compilare un dettagliato elenco
dei morsi, dei graffi, delle corbellatura che aveva
distribuito a destra e a manca, delle sue ingratitudini,
delle sue sopraffazioni. Parlavo un po’ in malafede, ben
sapendo che descrivevo solo un rovescio della medaglia a
tutto scapito dell’altro, cui tanti eravamo di tanto
debitori.22
A dimostrazione di questo si pensi, ad esempio, a come revoca
la sua amicizia a Montanelli, reo di aver simpatizzato con
Matteo Matteotti, per riprenderla a un anno di distanza, quasi
casualmente.
Leo rimane solo perché la sua amicizia stringe troppo nel
tentativo di trattenere tutti i suoi “allievi” sotto la sua bandiera.
Egli stesso se ne rende conto:
E’ morto povero e quasi solo. Non bisogna darne la colpa
a nessuno, perché questo era il suo destino ed egli lo
subiva senza ribellarvisi. «E’ vero» mi disse un giorno
che avevamo litigato più violentemente del solito, perché
non si faceva altro dalla mattina alla sera, «io sono come
Saturno: mi mangio i figli e un giorno mi mangerò anche
te. Anzi, a dir la verità, ti ho già mangiato». Poi aggiunse,
con una smorfia di disgusto: «e non hai neanche un buon
sapore». […] Bisognava stare con lui in posizione di
difesa, perché la sua amicizia era anche una spaventosa
tirannia. Era questo che gli rimproveravo, quando si
lamentava di essere solo. Egli aveva allevato un po’ tutti,
ma avrebbe preteso che fossero rimasti all’infinito a
poppare dalla sua mammella generosa. Invece avevano
messi i denti e si erano allontanati per la loro strada:
Pannunzio dirige “Il Mondo”, Arrigo Benedetti
“L’Espresso”, Soldati e Flaiano fanno il cinema. Era
fatale che avvenisse e mentalmente anche lui lo
accettava. Ma la mente di Leo andava in un verso,
Longanesi in un altro. Non ricordava, non voleva
ricordare, che questi uomini avevano fatto strada, e una
bella strada, con le gambe che lui gli aveva dato. Avrebbe
���������������������������������������� �������������������22 I. MONTANELLI, Presentazione a L. LONGANESI, In piedi e seduti,
1919 – 1943, cit., p. 6
18 �
potuto trarne una pigmalionica fierezza. Invece nulla. Per
lui era tutto e soltanto un tradimento.23
C’è poi in Longanesi un desiderio di perfezione nei confronti di
cose e persone che lo porta a disfarsi di tutto ciò che non
risponde a tale richiesta: “Concepisce tutto sotto la categoria
della perfezione assoluta. Di qui uno scontento perenne di tutto e
di tutti”24.
E’ una personalità complessa quella di Longanesi, un insieme di
contraddizioni: ironia e sarcasmo accanto ad una profonda
malinconia, aggressività accompagnata da timidezza,
anticonformismo velato di conservatorismo. Eppure egli lascia
tanto alla sua generazione e a quelle successive; la misura della
sua eredità risuona bene dalle parole di Ansaldo e Montanelli:
E così, d’ora in avanti tutto per noi sarà più facile.
Potremo finalmente scrivere i nostri articoli anche nei
momenti di fiacca e lardellarli di sbadigli e di banalità
senza la solita maledetta paura che cadano sotto l’occhio
di Longanesi. Potremo pronunciare frasi inutili e stupide
senza il solito maledetto terrore che arrivino all’orecchio
di Longanesi. L’incubo è finito.25
Sì, staremo più in pace senza di lui.[…] E persino la
cravatta potremo annodarci a cuor leggero senza il terrore
d’incontrare Longanesi, che la sua non sapeva farsela, ma
su quelle nostre non transigeva e le voleva intonate
all’abito e ai calzini. Sì, staremo più in pace: la pace che
si sogna durante gli sconvolgimenti della passione, e che
ci fa sbadigliare di noia quando l’abbiamo raggiunta.26
���������������������������������������� �������������������23 I. MONTANELLI, Addio a Longanesi, “Il Corriere della Sera”, 28
settembre 1957 24 M. MISSIROLI, art. cit., p. 571 25 Parole di Ansaldo riportate da I. MONTANELLI, Presentazione a L.
LONGANESI, In piedi e seduti, 1919 – 1943, cit., p. 12 26 I. MONTANELLI, Longanesi a Milano, cit., p. 574
19 �
Capitolo I: Biografia
Nella vecchia casa dei nonni in Romagna, dove io sono
nato il 30 agosto 1905, si conservano ancora sotto
campane di vetro i pettirossi e i martin pescatori
imbalsamati: là io sono cresciuto, là ho letto le vite dei
grandi briganti, là ho imparato i proverbi, là ho saputo
che Garibaldi ha fatto l’Italia, là ho bevuto il primo
bicchiere di vino, là, in cucina, fra i vasi di ceramica
bianchi, le mazzette, i finti piatti cinesi, i bicchieri nani di
vetro verde, fra un odore di salvia e prezzemolo, ho
imparato ad essere italiano.27
Nella vecchia casa dei nonni, a Lugo di Romagna, presso
Bagnocavallo, Paolo Longanesi e Angela Marangoni danno i
natali a Leo Longanesi. Quanto egli tenga a quella casa e alle
sue radici lo si scopre a partire proprio dal nome, che Leo
sostiene, forse in modo non così veritiero, derivare da longa
nesos, isola lunga. Non solo, dopo aver acquistato un disegno
del Seicento firmato Longanesi, cerca di costruire una sorta di
albero genealogico della sua famiglia, non riuscendo però a
risalire tanto indietro nelle generazioni.
Ed è proprio questa famiglia medio borghese a ricoprire un
ruolo fondamentale nella crescita del giovane Leo, formando i
suoi primi pensieri politici e rimanendo in seguito una presenza
costante:
La mia famiglia è stata la mia scuola, e quel che so, quel
che non so, i miei vizi, i miei difetti, le mie poche virtù li
ho ereditati tutti da lei. E più gli anni passano e più mi
accorgo di non essere mai riuscito a mutare la strada
segnata da quelli di casa mia, i quali vivi o morti sono
sempre lì; ognuno con la propria bandiera, con le proprie
manie, con le proprie illusioni, sono sempre lì a custodire
���������������������������������������� �������������������27 L. LONGANESI, Sermone, “L’Italiano”, 24 dicembre 1926, n. 16-17, p. 1,
cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., 1984, p. 3
20 �
lo stile famigliare. Ed io passo sempre dall’uno all’altro,
in un alterno variare di esperienze casalinghe.28
Ad influenzare in modo particolare Leo sono due personaggi e
le loro diverse bandiere, il prozio Rinaldo e il nonno materno
Leopoldo: il primo vanta un’indiscussa autorità in famiglia,
conferitagli dall’essere stato l’unico ad aver seguito Garibaldi a
Mentana, “e Mentana, nella famiglia Longanesi, è un nome che
ha finito per oscurare anche quello dei santi”29, e i cui racconti,
fatti di marce e baionette, fanno facilmente breccia nella fantasia
del giovanissimo Leo. Se a tutto ciò si aggiunge il corteo del 3
novembre, anniversario di Mentana, aperto dal fiero zio Rinaldo
e dal suo berretto rosso ben calcato sul capo, si capisce quanta
influenza possa avere una figura così autorevole sul nipote. Il
nonno Leopoldo si proclama invece socialista, ma in fondo è un
anarchico, erede anche lui, seppur in modo diverso, delle
avventure garibaldine. Per tale fede politica e per una certa
incapacità amministrativa egli è in totale disaccordo con il resto
della famiglia, specie con Rinaldo, che, come ipotizza
Longanesi, vede forse nel socialismo qualcosa di estraneo alla
storia d’Italia, di inaffidabile e troppo popolano.
I due fratelli, divisi dal credo politico, sono uniti dagli affari,
dall’azienda, dalle loro terre e dall’essere, in fondo, entrambi
borghesi, come lo è di certo anche la madre, degna erede dei
Marangoni. Leo la ritrae come una donna
accesa di zelo, diffidente, scettica, previdente, dominata
da una sola fede: non scendere mai di un gradino nella
scala sociale. Era la sua frase preferita, il suo programma,
lo scopo della sua vita. Per lei aveva più importanza quel
gradino di tutte le scale della fantasia industriale di mio
padre; avevano più importanza i discorsi delle vicine di
���������������������������������������� �������������������28 L. LONGANESI, I borghesi paralleli, “Gazzetta del popolo”, 22 ottobre
1950, p. 3, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 5 29 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 6
21 �
casa sui nostri tappeti dei discorsi di Filippo Turati in
Parlamento.30
Accanto ad un prozio garibaldino, un nonno socialista e
anarchico, una madre radicata nei valori della borghesia vi è
anche una nonna, ” la quarta bandiera di casa, la bandiera bianca
con le chiavi di San Pietro in mano”31, devota a Sant’Antonio.
Il giovane Leo cresce tra tutte queste bandiere,
prendendo un po’ il colore dell’una e il colore dell’altra.
E ancor oggi, nel breve spazio di un giorno, io le sento
sventolare tutte sul mio capo […] e non posso, non posso,
almeno una volta al giorno, non ricordare a me stesso
ch’io sono, soprattutto, dalla parte di Sant’Antonio, anche
se leggo Voltaire.32
E’ per desiderio della madre che la famiglia nel 1911 si sposta a
Bologna, dove il giovane Longanesi conosce la città, i modi di
vita borghesi e il fascismo. Pur soffrendo dell’allontanamento da
Bagnocavallo33, il capoluogo emiliano diviene presto la città che
Leo sente come propria, tanto da portarlo più tardi a dire: “a
Roma, a Milano, a Napoli ho trascorso anni, ma a Bologna,
come s’usa dire, ci ho lasciato il cuore”34. Qui Longanesi
frequenta con scarso entusiasmo il Regio Liceo classico
Galvani, dove subisce l’influenza di Balbino Giuliano, filosofo
nazionalista incontrato nei panni del professore, che comparirà
più tardi tra i primi firmatari del manifesto degli intellettuali
fascisti e sarà ministro dell’Educazione nazionale. Sono questi
gli anni in cui Leo si avvicina alla lettura: scopre Rubé di
���������������������������������������� �������������������30 L. LONGANESI, I borghesi paralleli, cit., p. 3 31
Ibid. 32
Ibid. 33 “Furono giorni tristi per me. Lasciavo le vecchie case con i grandi cortili, i
magazzini dove si stendevano le stuoie per i bachi da seta, i rossi torchi dell’uva, le cisterne, […]. Quando salutai il vecchio facchino e, seduto in uno scompartimento di seconda classe, udii il fischio del treno, mi sentii stringere il cuore.” L. LONGANESI, Borghesi vecchi e nuovi, “Il Borghese”, 1 luglio 1950, p. 241, cit. in G. APPELLA, Leo Longanesi,
editore, scrittore, artista, 1905 – 1957, Milano, Longanesi & C., 1996, p. 210
34 L. LONGANESI, Faust a Bologna, “Il Borghese”, 23 dicembre 1955, p. 969, I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op .cit., p. 17
22 �
Borgese, le Laudi, Kipling a cui presto si aggiungono Nietzsche,
Sorel, Renard, Maupassant, Tolstoj e Flaubert. Legge molto il
giovane Longanesi e in questi testi forma il suo gusto e le sue
idee: “le Laudi divennero il mio pane. Eroi, miti, vestali
accendevano la mia fantasia liceale. Poi venne Kipling. E il
socialismo, gli operai, i cortei, le bandiere rosse […] mi
apparvero come segni di un mondo senza poesia, povero e
volgare”35.
Accanto ai sentimenti antisocialisti si sviluppano anche quelli
nazionalistici e fascisti. Come nota Montanelli36, l’adesione al
regime è un punto d’arrivo naturale per un giovane come
Longanesi: cresce tra le risse delle terre romagnole, prima tra
socialisti e repubblicani, poi, allo scoppio della guerra, tra
interventisti e neutralisti; il conflitto mondiale nutre la sua
fantasia bambina con il mito della Patria e della spada, con le
vignette patriottiche, le illustrazioni della “Domenica del
Corriere” e l’ammirazione per i reduci, che lo spinge più tardi a
dire: “volevamo ancora combattere, ma la guerra, purtroppo, era
finita”37. A questo si aggiungano le suggestioni famigliari, che il
giovane Leo assorbe e rimpasta tutte assieme: il garibaldinismo
del prozio Rinaldo, il socialismo un po’ anarchico del nonno
Leopoldo, il nazionalismo del padre e quel desiderio di
emergere tanto radicato nella madre, così come nei ceti medi.
Tanti elementi diversi che portano Longanesi diritto a
Mussolini: “appena infiliamo i calzoni lunghi, corriamo a
iscriverci al Fascio”38. Lo vediamo nel ‘20 tra i ragazzi che
fanno a pezzi la bandiera rossa eretta sulla Torre degli Asinelli
dopo l’insediamento di un’amministrazione socialista e la
conseguente insurrezione dei fascisti; non manca tra la folla
rovesciatasi sulle piazze bolognesi ad applaudire Mussolini nel
’21. Leo cresce tra i fascisti, in particolar modo tra gli squadristi,
���������������������������������������� �������������������35 L. LONGANESI, In piedi e seduti, 1919 – 1943, cit., p. 45 36 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 28 e seg. 37 L. LONGANESI, In piedi e seduti, 1919 – 1943, cit., pp. 81 38
Ibid.
23 �
e sono proprio loro a favorire il suo esordio nella vita pubblica,
sia politica, teneva infatti comizi in camicia nera, sia mondana:
“di notte faceva il tiratardi con un’allegra brigata nella quale
facevano spicco gli intelligenti del fascismo locale. E nella quale
presto cominciò a far spicco lui, per lo smalto polemico e
brillante delle sue trovate”.39 Secondo una testimonianza di
Mino Maccari già nel ’22 – ’23 Longanesi, che ha solo 17 anni,
è, a Bologna, “una specie di mascotte”40. Si incontra con gli
amici, per lo più fascisti, al caffè, discorre di giornalismo,
letteratura e reducismo, ascoltato e ammirato da tutti.
Gli anni dal ’23 al ’26 sono fondamentali per la formazione di
Leo: accresce la propria cultura con letture e viaggi in Costa
Azzurra e Vienna, ma soprattutto si avvicina a uomini che
incideranno profondamente nella sua formazione. Nella
primavera del ’24 soggiorna a Roma, dove frequenta il circolo
della “Grotta degli Avignonesi” e conosce Montano, Savino,
Baldini, Cecchi, Moravia e in particolar modo Cardarelli e
Bartoli, cui si sarebbe legato molto in seguito. Si sposta poi a
Poli, in visita ad Armando Spadini, di cui avrebbe più tardi
sposato la figlia Maria, quindi a Firenze, dove entra in contatto
con la casa editrice di Enrico Vallecchi, presso la quale avrebbe
pubblicato nel ’26 il suo Vade-mecum del perfetto fascista41.
Leo si avvicina anche ai personaggi più in vista del fascio
fiorentino, prediligendo la componente più agguerrita: diventa
amico dei due ras Riccardo Banchelli e Tullio Tamburini. A
metà settembre si reca a Colle Val d’Elsa per incontrare Maccari
al quale aveva già proposto la propria collaborazione al
“Selvaggio” con una lettera accompagnata da disegni parodistici
e alcuni articoletti. Maccari lo ricorda così: “venne lui a
trovarmi in campagna, era entusiasta, anche troppo, di quel che
���������������������������������������� �������������������39 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 40 40
Ibid41L. LONGANESI, Vade-mecum del perfetto fascista, Firenze, Vallecchi,
1926
24 �
facevo, eppure lui, tanto più giovane di me, era tanto più
esperto”42.
Il Longanesi diciannovenne un po’ esperto di giornalismo lo è,
dato che inizia a muovere i suoi primi passi ancora liceale:
scrive sul “Marchese”, su “E’ permesso”, su “Il Toro” e sulle
“Cronache di attualità” di Arturo Bragaglia, piccoli lavori che lo
formano nel campo della scrittura e della vignettistica.
Il 13 luglio del ’24 viene inaugurato “Il Selvaggio”, a circa un
mese di distanza dal delitto Matteotti. Si tratta di un momento
particolarmente difficile per il fascismo: l’opinione pubblica
inizia infatti a guardare alle opposizioni e all’interno del partito
riemergono le voci “revisioniste”, sostenitrici di un più cauto
liberalismo e avverse alle violenze squadriste. Diversamente,
l’ideologia “selvaggia” prende un’altra direzione: i suoi motti
sono “marciare, non marcire” e “né speranza, né paura”. Si tratta
di una concezione del fascismo come rivoluzione permanente,
antiborghese e antidemocratica, che non disdegna la violenza e
che ribadisce, in un momento di difficoltà, l’importanza della
fedeltà al regime: “E tu, o selvaggio, fa tesoro di questa
esperienza, rimetti il distintivo all’occhiello, oggi che i tiepidi se
lo tolgono; ricanta le tue canzoni, giacché non son più di moda;
e vantati d’essere uno squadrista, giacché si maledice allo
squadrismo”43. Longanesi accoglie questa posizione e la fa sua;
in fondo, si tratta dell’unico fascismo che a Bologna abbia
conosciuto, quello squadrista. Tuttavia non inizia subito la sua
collaborazione con il “Selvaggio” preferendo continuare i propri
attacchi agli avversari del fascismo dalla pagine dell’ “Assalto”,
settimanale fascista bolognese. Il primo articolo di Leo sul
foglio di Maccari compare il 19 settembre del ’25 con il titolo
“Facciamo di Croce un martire? (Dialogo tra un revisionista e
���������������������������������������� �������������������42 M. MACCARI, Una vittima dell’intelligenza e dell’intuizione, “Il Tempo”,
27 novembre 1977, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 52
43 M. MACCARI, La cassetta della spazzatura, “Il Selvaggio”, 19 luglio 1924, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 49
25 �
un selvaggio)”, ma la collaborazione dura poco visto che
Mussolini in ottobre decide lo scioglimento delle squadre e ai
“selvaggi” non resta che adattasi; il fascismo sta abbandonando
la sua componente rivoluzionaria e si sta stabilizzando. Si deve
quindi abbandonare la politica, trovare altre vie per esprimersi,
ma non Longanesi: sul “Selvaggio” del 1 dicembre 1925 un
breve articolo annuncia l’imminente uscita “di un settimanale
battagliero e squadrista, il ‘Partigiano’, che combatterà la nostra
stessa battaglia. Arrivederci, dunque, camerata Longanesi, nella
stessa trincea e nelle stesse avanzate! Divideremo gavette, ferite
e vittorie”44.
Il “Partigiano” muta, già a metà dicembre, in “L’Italiano”;
Longanesi lo racconta come un’invenzione improvvisa, quasi
casuale, in realtà ha una più lunga gestazione:
Fu in un’osteria fuori porta che mi venne la vaga idea di
stampare un giornale, proprio all’ “Osteria della piccola
Venezia”. C’erano in quelle due stanze buie tanti omini
che ascoltavano dall’oste il tremendo racconto di un
fattaccio di sangue. Ad un tratto uno di questi omini
interruppe la cronaca dicendo: «Dov’è successo?». «A
Napoli», gli fu risposto, e quello: «Non son mica dei
nostri!». La frase mi piacque. I nostri, perbacco, ecco il
programma di un giornale. Bisogna fare un giornale che
difenda i nostri e tutto quello che è nostro: farò il giornale
di casa nostra, pensai, gli metterò nome “L’Italiano”.
Così nacque la miglior rivista rivoluzionaria del Regno.45
Il primo numero esce il 14 gennaio 1926. Anche qui ritroviamo
quella concezione del regime come perenne rivoluzione;
Longanesi infatti identifica il fascismo con un profondo
rinnovamento dell’Italia nei costumi e nella morale, che passa
attraverso la formazione di una nuova classe dirigente. Ciò non
può realizzarsi senza quell’ala squadrista e provinciale del
partito, che, fedele a Mussolini, non scende a compromessi con
���������������������������������������� �������������������44 “Il Selvaggio”, 1 dicembre 1925, cit. in I. MONTANELLI, M.
STAGLIENO, op cit., p. 78 45 L. LONGANESI, Sermone, cit. in G. APPELLA, op. cit., p. 222
26 �
il liberalismo. Il fascismo però sta andando verso la
normalizzazione e il direttore dell’”Italiano” ne è consapevole,
ciononostante abita in lui l’ingenua convinzione che un foglio
come il suo, o come quello di Maccari, possano realmente
impedire la sclerotizzazione del regime. Eccolo allora, per
evitare censure o limitazioni, pronto a schierarsi senza riserve
dalla parte di Mussolini coniando un motto che avrà una certa
fortuna nel ventennio: “Il Duce ha sempre ragione”, comparso
sul terzo numero dell’“Italiano”, il 16 febbraio 1926. Longanesi,
contribuendo così ad accentuare quel culto della persona che
Mussolini aveva già iniziato a costruire, si mette parzialmente al
riparo dalla censura. Può giocare allora, tra la pagine
dell’“Italiano”, con l’arma che meglio sa usare, la satira,
accompagnata da paradossi linguistici e accostamenti imprevisti
che spesso prendono di mira anche uomini tra le prime fila del
regime.
“L’Italiano” riprende “Il Selvaggio” anche per quanto riguarda
al movimento di “Strapaese”: l’obiettivo primario è rivolto al
costume degli italiani, nella convinzione che sia la prima cosa da
cambiare per modificare nel profondo l’Italia. Ecco allora che si
invoca la serenità della campagna, luogo ideale per gustare la
natura e la stabilità dei rapporti sociali, in opposizione alla città,
cupa, pericolosa e corrotta. Tutto ciò che è straniero viene
demonizzato a favore di una più genuina identità italiana e
rurale insieme. Ma per Longanesi questo non basta, è necessario
dare a “Strapaese” un abito più completo, forse più credibile,
che viene identificato nell’ Ottocento, mondo che il giovane Leo
aveva conosciuto in famiglia nei valori dell’onestà e del decoro,
un mondo fatto di piccole cose concrete. Sul finire del ’27 si
iniziano a intravedere i primi segni che il movimento
“strapaesano” sta passando: Longanesi comincia a manifestare
interesse per fenomeni culturali che fino a quel momento aveva
rifiutato. Elogia la Corazzata Potemkin come gran film di
27 �
propaganda e il cinema americano, come il western, i cui piccoli
trombettieri sembrano assai più persuasivi dei balilla.
Diversamente dal “Selvaggio”, “L’Italiano” si presenta in una
veste grafica molto curata: “carta giallina, grande formato,
caratteri bodoniani e aldini, impaginazione su quattro colonne,
titoli in corpo piccolo, equilibrato alternarsi di tondi e corsivi,
inserimento di nitidissime illustrazioni al tatto”46. Attenzione
questa che è presente anche nella nuova attività di Longanesi,
ossia nell’editoria: a metà del ’27 viene pubblicato Pane bigio47
di Telesio Interlandi: si tratta di un’edizione molto elegante con
testatine in neretto e la stessa carta utilizzata per “L’Italiano”.
Già in questo primo libro le doti editoriali di Leo fanno mostra
di sé sia nella scelta dell’autore e del testo da pubblicare, sia
nella sua presentazione grafica. L’attività editoriale continua
negli anni successivi attraverso la pubblicazione, tra gli altri, di
Cardarelli, Montano, Bacchelli, Raimondi, Baldini, alcuni di
questi collaboratori di Longanesi anche tra le pagine
dell’“Italiano”. Le qualità del giovane direttore colpiscono
presto Malaparte, che, già famoso, lo loda e ne accresce così la
notorietà:
Non tutti sanno forse, che il direttore dell’“Italiano”
merita lode non già per gli spilli e i chiodi ch’egli
appunta e conficca, sorridendo, ogni due settimane, nelle
pagine del suo “Foglio quindicinale della Rivoluzione
Fascista”, ma per aver riportato in onore, in un secolo di
brutture e di tedescherie tipografiche, il buon gusto
italianissimo dei grandi maestri dell’Ottocento e aver
dato esempi originali e avveduti di quella che oggi
potrebbe essere, in un’Italia ricondotta all’ordine e alla
misura, un’arte della stampa rispettosa delle tradizioni e
impaziente di spiriti nuovi.48
���������������������������������������� �������������������46 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 93 47 T. INTERLANDI, Pane bigio – scritti politici, Bologna, L’Italiano editore,
1927 48 C. MALAPARTE, Il Longanese, “La Fiera letteraria”, 25 settembre 1927,
p. 5, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 136
28 �
“L’Italiano” non è l’unico giornale diretto da Longanesi in
questi anni: nel luglio del ’29 viene posto alla guida
dell’“Assalto”, il settimanale delle Federazione provinciale
fascista. Quest’incarico gli impone maggior attenzione e cautela
su ciò che scrive, a maggior ragione visto che è sotto il controllo
vigile della censura. In settembre, per esempio, riceve un
richiamo da Mussolini stesso a causa di un articolo sulla politica
estera poco gradito: “a scomodarsi era stato proprio il duce, con
questo telegramma spedito il 3 ottobre al prefetto di Bologna:
dica a Longanesi di smettere la polemica Contri. Si presta a
dubbie deduzioni”49. Leo, va da sé, non può fare di testa sua;
ecco allora che se la libertà non può esprimersi nelle parole si
esprimerà nella veste grafica della rivista: l’“Assalto” riceve una
nuova testata, vignette, titoli in corpi più piccoli e corsivi
alternati ai tondi. Il contenuto rimane invece quello di sempre,
del tutto in linea con il regime. Il controllo fascista, se qualche
anno prima era stato considerato da Leo come un necessario
strumento di governo, ora diviene un limite; e Longanesi inizia a
dubitare:
La mancanza di libertà dapprima non apparve un fatto
grave, ma lentamente, con l’andar degli anni, ci
accorgemmo di venir meno alla nostra coscienza, di
chiuder troppo spesso gli occhi davanti a cose e fatti
sgraditi e sentimmo vagamente che la nostra fantasia
inaridiva perché cessava l’impulso alla ribellione.
Divenimmo anche noi intolleranti, lieti di accettare il
meno peggio, scettici e indulgenti, rassegnati ormai al
nostro destino, intuendo quel che vedemmo anni dopo,
quando cadde il fascismo, e cioè che gli avversari non
avrebbero fatto di meglio. Eravamo tutti trascinati,
compreso Mussolini, in un’avventura più grande di noi.50
Nonostante la mancanza di libertà e i dubbi sulla validità del
fascismo, nel ’31 Leo continua a fare di testa sua e pubblica
sull’“Assalto” una critica ad uno scritto del senatore Tanari: “Un
���������������������������������������� �������������������49 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 157 50 L. LONGANESI, In piedi e seduti, cit. p. 161 - 162
29 �
articolo, un articolo all’antica, un articolo che passa una colonna
e seguita nell’altra stringendosi alle conclusioni dopo cento
sospiri, un articolo come quello del senator Tanari, i giovani non
lo leggono, non lo leggeranno mai. Dio li benedica”51. Tanari,
uno dei finanziatori dello squadrismo bolognese, chiede e
ottiene che Longanesi venga sollevato dalla direzione
dell’“Assalto”. Leo cerca invano la protezione di Arpinati, ma
ormai la protesta è arrivata troppo in alto. Per lui è uno schiaffo.
Appena dopo l’incidente affida la sua amarezza alle pagine
dell’“Italiano”:
La carriera è un peccato troppo pesante per noi.
Occorrerebbe rinunciare alla libertà dei nostri disagi e
accettare una rete di protezioni così vasta che ci
imprigionerebbe in consuetudini e ipocrisie impossibili,
troppe rinunce occorrono per adattarsi alle procedure del
successo; dovremmo persino rincasare presto e inviare
cartoline natalizie ai critici. Noi manchiamo agli
appuntamenti, perdiamo i treni e letichiamo troppo
spesso per meritare la fiducia della rispettabile clientela.
Additai come cattivo esempio di intelligenza inutile e
dissoluta, moriremo senza aver concluso un contratto di
cinquecento lire per articolo. Ma se tornassimo a nascere
rifaremmo la stessa strada senza accorciarla di un
passo.52
Nel maggio del 1932 Longanesi lascia Bologna e si trasferisce
con la famiglia a Roma, in un grande appartamento al n. 349 di
Corso Vittorio Emanuele. Nonostante le difficoltà incontrate
l’anno precedente nei rapporti con gli alti ranghi del regime, Leo
viene scelto per un incarico prestigioso, l’allestimento della sala
T della mostra della Rivoluzione fascista, inaugurata il 28
ottobre 1932 al Palazzo delle esposizioni di Roma. Il suo
compito è quello di ricostruire gli avvenimenti di cui Benito
Mussolini è stato protagonista fino all’ascesa al governo.
���������������������������������������� �������������������51 L. LONGANESI, “L’Assalto”, 19 ottobre 1931, n. 14, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 183 52 L. LONGANESI, “L’Italiano”, n. 8, ottobre 1931, p. 15, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 185
30 �
Da Roma Leo torna a lavorare con più attenzione all’“Italiano”,
che negli ultimi mesi è uscito con zoppicante periodicità. Ma
non è “L’Italiano” di prima: ora Longanesi riduce al minimo
ogni intervento politico. Preferisce occuparsi d’altro: si apre in
modo più deciso alla letteratura straniera, nel tentativo di fare
una rivista un po’ più europea: pubblica autori russi accanto a
Dos Passos, Hemingway e Kafka; propone un concorso di
poesia, il cui vincitore è un contadino della provincia di Bari;
dedica il numero di gennaio e febbraio del ’33 al cinema, di cui
ha già intuito l’enorme efficacia come mezzo di comunicazione
di massa. In questi anni inizia a scrivere sull’“Italiano” Giovanni
Ansaldo, un uomo destinato a diventare uno stretto collaboratore
di Longanesi e uno dei suoi più cari amici. Inizialmente
antifascista, in un secondo momento si distacca dai compagni
per poi aderire completamente al fascismo arruolandosi
volontario per la spedizione in Africa nel ’35, fino ad ottenere
nel ’36 la direzione del “Telegrafo”, quotidiano della famiglia
Ciano.
Il 1935 non è un buon anno per Longanesi: tenta di arruolarsi
per la guerra d’Etiopia, ma, riformato dal tempo della leva,
rimane a casa, forse provando un po’ di invidia nei confronti
dell’amico Ansaldo partito alla conquista dell’impero. Ma già
nel dicembre dello stesso anno, Leo può ben sperare: il suo
nome infatti si trova tra la rosa di candidati alla direzione di un
rotocalco. Condivide le sue aspirazioni con Ansaldo
scrivendogli: “sono stato ricevuto dal Duce. […] La faccenda
Rizzoli è ormai alla fine: il Duce mi ha dato il consenso: ora, se
non se lo mangia il ministero potrò finalmente dirigere questo
settimanale. Ma non dico gatto finché non è nel sacco”53.
Longanesi sarà certo del gatto nel sacco solo nel ’37, ma i primi
contatti con Angelo Rizzoli risalgono già a metà del ’35.
���������������������������������������� �������������������53 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 23 dicembre 1935, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, Longanesi e italiani, Faenza, Edit Faenza, 1997, p. 29
31 �
Quest’anno e mezzo passa lentamente per Leo, nel timore che
qualcuno, magari vantando meriti “africani” che egli non
possiede, gli soffi il tanto desiderato ruolo. Finalmente, alla fine
di gennaio del ’37, Longanesi viene convocato da Mussolini:
“Ti informo che sarai direttore di ‘Omnibus’”54. Leo ha quel che
cercava e scrive esultante all’amico: “Caro Ansaldo, tutto è stato
definito. Sono il direttore di ‘Omnibus’. […] Ho fatto le prove di
stampa, a Milano, e il comm. Rizzoli è rimasto assai contento ed
ha molta fiducia nella buona riuscita del giornale che uscirà
verso la fine di marzo”55. Il primo numero viene in realtà
pubblicato un po’ dopo le aspettative di Leo, porta infatti la data
3 aprile 1937; ne seguono altri novantacinque fino al gennaio
1939. Sebbene non compaiano interventi diretti del direttore, nel
giornale “c’è l’impronta unitaria di Longanesi, ‘Omnibus’ è
tipicamente suo”56. Leo riserva attenzione alle grandi testate
europee e americane, il cui sviluppo era imponente già dalla fine
degli anni venti, “ma l’impasto longanesiano, insieme così
popolare e sofisticato, nel calcolato equilibrio di elementi
diversi, nell’uso ammiccato della fotografia, nella varietà dei
titoli, degli argomenti e degli stessi caratteri tipografici fanno di
‘Omnibus’ un unicum”57.
L’apporto di Longanesi al rotocalco è continuo e presente in
ogni pagina: rimaneggia ogni articolo, lo modifica
uniformandolo al tono del giornale o ne pretende il rifacimento;
mette mano non solo all’impaginazione, ma anche al montaggio
delle immagini fotografiche, ai disegni, ai servizi giornalistici.
Diversamente dall’“Italiano”, che rimane una rivista specifica,
in “Omnibus” Longanesi ricerca una maggiore agilità di lettura,
articoli più brevi e attenti all’attualità spicciola per assecondare
il suo lettore, ossia il largo pubblico. Ciò non significa che
���������������������������������������� �������������������54 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 230 55 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 11 febbraio 1937, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 231 56 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 235 57
Ibid.
32 �
venga meno la qualità degli scritti, basti considerare il fatto che
a firmare gli articoli, oltre a giornalisti esperti come Soffici,
Prezzolini, Maccari o Malaparte, sono giovani scrittori come
Moravia, Benedetti, Montale, Vittorini o Montanelli. Quanto di
meglio, infatti, viene prodotto o tradotto in Italia trova spazio tra
le pagine di “Omnibus”, presentato però non in modo
accademico, come accadeva in “Solaria” o in “Letteratura”,
piuttosto in una veste che coinvolga e attiri il lettore di massa.
Accanto alla sezione riguardante la politica, nel rotocalco
troviamo articoli dedicati alle grandi dive, spesso mostrate in
modo insolito, in atteggiamenti dimessi e privati, una rubrica di
critica teatrale e cinematografica, romanzi a puntate e letteratura
popolare, vignette e disegni dal forte contenuto satirico.
Questa formula ha un gran successo editoriale fin dal primo
numero, che vende quarantaduemila copie, per poi arrivare con i
successivi ad una tiratura di centomila copie. Ed è proprio per
questo che i controlli del regime si fanno più serrati attorno ad
“Omnibus”. Ciò che crea maggiori difficoltà a Longanesi è la
seconda pagina, quella dedicata alla politica estera, che non si
presenta così filotedesca come il resto della stampa nazionale, e
un uso della fotografia spesso ambiguo, talvolta trasgressivo,
soprattutto per le immagini relative alla guerra. Longanesi viene
infine rimosso dal suo incarico nel gennaio del ’39 per un banale
pretesto, che nasconde in realtà precise motivazioni politiche.
Successivamente Leo tenta spesso di essere ricevuto da
Mussolini, ma si vede sempre negare l’udienza. In quei giorni
Longanesi sembra quasi voler dissimulare la delusione
scrivendo ad Ansaldo:
Il giornale sembra sia stato soppresso. Questa mattina ho
visto alla Quadriennale il Capo che mi ha rivolto la
parola con molta cortesia parlandomi dell’“infortunio”. Io
ho fatto quel che potevo e mi sono rivolto, attraverso
Muti, anche al Conte perché porti una lettera al Capo. La
faccenda non è definitiva, ma ho poche speranze. Del
resto mi ci ero lentamente preparato. Il peggio è che in
33 �
questi giorni ho fatto le carte per il mio matrimonio e
dovrò partire per il viaggio di nozze senza “Omnibus”.
Ma non sono affatto irritato: a tutto si rimedia.58
Da qui in poi Longanesi andrà perdendo sempre più il ruolo da
protagonista della vita pubblica che il ventennio fascista gli ha
riservato.
Soppresso “Omnibus”, Rizzoli tenta di dirottare Longanesi su un
altro periodico, “Tutto”, che ha però vita breve: scompare dopo
soli tre numeri, dietro denunce come questa:
E’ una copia sfacciata del soppresso “Omnibus”: identica
l’impaginazione del nuovo foglio, identico lo stile
ottocentesco dei titoli e delle fotografie, identiche le
rubriche e i collaboratori […] costituisce insomma
un’evidentissima seconda edizione di “Omnibus” e
perciò una palese contravvenzione all’ordine di
soppressione […] un segno di sopravvivenza di certi
giornali sordamente ostili al regime.59
Gli editori tentano allora altre vie: Mondadori pubblica
“Tempo” nell’estate del ’39, mentre Rizzoli, non potendo
avvalersi di Longanesi, affida la nuova rivista illustrata “Oggi” a
Pannunzio e Benedetti, dove, seppur con qualche variante,
ritornano le grandi fotografie, i servizi di varietà e la poca
politica che caratterizzavano “Omnibus”.
Nel frattempo Leo continua a lavorare all’“Italiano” e ,
nell’agosto del ’39, accetta la proposta dell’editore Tumminelli:
disegna la nuova testata di “Storia”, ribattezzandola “Storia di
ieri e di oggi”, e riprende i contatti con il suo fotografo
Barzacchi. Sotto l’abile regia longanesiana la rivista riprende
quota proponendo fotografie e servizi di attualità. Nonostante
questo, Leo si rende conto che il momento più florido della sua
vita è alle spalle; nel ’39, quando tutti guardano con ansia alla
guerra imminente, egli sembra annoiato, quasi distratto:
���������������������������������������� �������������������58 Lettera di Ansaldo a Longanesi datata 3 febbraio 1939, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 242 59 P. ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 37
34 �
Seduto al caffè Biffi ascolto i discorsi dei miei vicini di
tavolo. Uno dice: «Vede, la perla dell’impero inglese,
cioè l’India, noi ce la papperemo in un baleno». «Lei
crede davvero?» domanda l’altro. «Ma certo, è questione
di tempo. I popoli ricchi sono vecchi, stanchi, hanno già
fatto il loro tempo. E’ la nostra ora!». Mi volto per vedere
la faccia di quel fiero campione del nostro nazionalismo e
incontro un ometto sui cinquant’anni, smunto, il colletto
sgualcito, gli occhiali di stagno, un povero diavolo. Il
nazionalismo è davvero l’unica consolazione dei popoli
poveri. In Italia, saremo sempre nazionalisti, qualunque
cosa accada. Gli uomini come il mio vicino di tavolo
debbono pure essere alimentati da un ideale, e chi può
fornirglielo se non la Patria?60
Come nota Montanelli, “si avverte, in quel ch’egli scrive, un
profondo taedium vitae, una noia esistenziale, che da allora non
lo abbandonerà mai più. Da tempo aveva smesso di credere al
fascismo: la molla, a furia di scattare a vuoto, si era
inceppata”61.
Negli anni della guerra Longanesi entra a far parte del comitato
direttivo del settimanale a rotocalco che esce l’8 settembre 1940
con il titolo “Fronte, giornale per i soldati”. Racconta il direttore
Paolo Cesarini:
Ma in pratica chi faceva “Fronte”? Mi bastò vedere il
primo numero per scoprirlo. La mano era inconfondibile
e feci un gran sospiro di sollievo. Sia pure sciocco e
ufficiale, il settimanale avrebbe sempre avuto qualche
isola di salvataggio tra le sue pagine in rotocalco, perché
senza studio e anche non volendolo, Longanesi non
avrebbe mai licenziato un lavoro malfatto.62
La guerra non impedisce a Leo di lavorare; oltre ad occuparsi di
“Fronte”, prende confidenza con la macchina da presa per un
film tutto suo, Dieci minuti di vita, che comincerà nel ’43 senza
mai finire. Sceglie romanzi italiani e stranieri da pubblicare
���������������������������������������� �������������������60 L. LONGANESI, Parliamo dell’elefante, Milano, Longanesi & C., 1947,
p. 40 61 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 251 62
Ibid., p. 253
35 �
nella collana “Il Sofà delle Muse” per Rizzoli e non dimentica la
pittura, sua occupazione prediletta. Naturalmente non può
mancare “L’Italiano”, i cui ultimi due numeri escono nel ’41 e
nel ’42. Il primo di questi viene chiuso dal Piccolo dizionario
borghese: si tratta di una storia delle vicende nazionali dal 1880
al 1941, fatta attraverso il linguaggio. Negli anni selvaggi infatti
Leo aveva raccolto una serie di luoghi comuni con l’obiettivo di
far ridere gli italiani dei loro stessi difetti. Mentre l’Italia è in
guerra Longanesi si occupa di tutt’altro, almeno in apparenza;
“era un accorato addio al passato, con sarcasmo, ma anche con
amore, per quell’intimo contrasto che era in Longanesi; e forse
un addio al regime, ai venturosi anni cominciati, nel lontano
1919, con la marcia di Ronchi”63.
Nel ’42, tra un succedersi di sconfitte, Longanesi alterna
simpatiche imitazioni di Mussolini velate di pessimismo a
battute quasi ottimistiche: “La guerra sarà lunga, sì, anni e anni,
ma per l’Italia finirà bene, perché questo è il paese dove non
succede mai niente di fatale e terribile. Qui tutto si risolve a lieto
fine”64.
Arriva invece il 25 luglio del ’43, il momento di scegliere da che
parte schierarsi. Alcuni dei collaboratori di Longanesi chiedono
di essere inviati sotto le armi, altri si uniscono alla Resistenza,
mentre Leo rimane a Roma tra le file degli antifascisti. Alla
notizia dell’arresto di Mussolini si unisce alle bande che vanno
esultando per la capitale e poi, come racconterà ad Ansaldo, si
mette a comporre, assieme a Benedetti, Flaiano e Pannunzio,
“un articolo di fondo inneggiante alla libertà: è probabilmente
sincero. Le contraddizioni in Leo, sono la chiave per capirlo”65.
Poi l’8 settembre: Pannunzio, che rimane a Roma, si trova al
Regina Caeli e sfugge per poco all’eccidio delle Forze
���������������������������������������� �������������������63
Ibid., p. 257 64 L. CECCHI PIERACCINI, Agendina di guerra (1939 - 1944), Milano,
Longanesi & C., 1964, p. 56, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 259
65 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 260
36 �
Ardeatine; Benedetti risale verso Nord e conosce la resistenza
nella zona di Reggio Emilia; Longanesi scappa. Il timore di
restare intrappolato nella capitale lo spinge a partire con alcuni
amici verso le regioni del sud, dove si sono rifugiati anche il Re
e Badoglio e dove gli Alleati avanzano. Descrive così la sua
partenza, leggero e drammatico allo stesso tempo:
Gli italiani, come formiche, quando si distrugge loro il
nido, corrono da tutte le parti, a piedi, in treno, a cavallo,
in barca. Ora bisogna salvare la pelle, bisogna difendere
quella povera Italia che ognuno di noi porta addosso.
Anch’io corro. Salgo su un treno che va in Abruzzo, in
un vagone di terza classe, gremito di soldati fin sulle
assicelle delle valigie.66
Giunge a Napoli tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del
’43. Nel capoluogo campano Longanesi, pur dovendo scontare
una certa diffidenza nei propri confronti, viene presto destinato
al Centro italiano di propaganda e, con Freda, segue la rubrica
Stella bianca, in onda alla radio ogni sera. Vi trovano spazio
sketch comici, satira caricaturale antifascista e musica classica.
Longanesi dà il via anche ad altre iniziative: un giornale
umoristico dal titolo “L’Adolfo”, che esce però con un solo
numero; un bollettino politico-propagandistico, “Il Partigiano”,
dove è presente, accanto a notizie sui bombardamenti in
Germania di cui nessuno sa nulla, anche una rubrica, Uccideteli
a vista, con l’elenco di informatori e spie; “Il Profugo”,
finanziato da un ebreo romano di nome Volterra e uscito al 15
aprile 1944.
Nel luglio dello stesso anno Leo è già di ritorno a Roma al
seguito degli Alleati. Nella capitale si mette subito al lavoro, nel
tentativo di riprendere i contatti con i vecchi amici e tornare ai
giornali, ma attorno a lui c’è parecchia diffidenza; si tratta pur
sempre dell’uomo che ha creato il tanto fortunato motto
“Mussolini ha sempre ragione”. In questi mesi si occupa
���������������������������������������� �������������������66 L. LONGANESI, In piedi e seduti, 1919 – 1943, cit., p. 249
37 �
soprattutto di cinema e teatro, diversamente da altri, un tempo
vicini a Longanesi, impegnati nella clandestinità o nei fogli della
resistenza armata.
Nel frattempo è ripresa la corsa ai grandi rotocalchi. Rizzoli
affida a Rusconi una rivista che ricorda “Omnibus”: “Oggi” è in
edicola il 25 luglio 1945 come primo periodico che copre
l’intero territorio nazionale dopo la guerra, mentre “Candido”,
diretto da Guareschi e Mosca deve aspettare il 15 dicembre.
“Tempo”, rotocalco di Mondadori, ha cessato le pubblicazioni
nel ’43, ma torna al pubblico sotto la direzione di Tofanelli il 17
gennaio 1946.
Longanesi, però, non cerca i giornali e preferisce tenersi ben
lontano dalla politica; leggiamo infatti in una lettera ad Ansaldo:
“Ho preferito dedicarmi alle edizioni perché in questi ultimi
tempi ho capito che la cosa migliore è non fare nulla che mi
leghi alla politica e che, in Italia, non bisogna mai essere poveri
diavoli”67. Proprio per non essere un “povero diavolo” nel
febbraio del ’46 Longanesi si trasferisce a Milano dove avvia la
casa editrice “Longanesi & C.”. Leo non nasconde la
soddisfazione regalatagli dal nuovo mestiere; nella stessa lettera
leggiamo:
Facendo l’editore sono un datore di lavoro ed ho il
coltello dalla parte del manico. Ho già visto molti di
quelli che ci volevano fucilati venire a chiedermi di
pubblicare un libro. E lei immagina con quale gusto abbia
detto di no. Gli anni passano, il mondo sembra spezzarci,
ma alla fine, le regole della nostra vita sono sempre le
stesse. Perciò ho abbracciato la causa dei padroni e
morirò combattendo per quella, perché sono padrone
anch’io.68
La casa editrice, avviata con la collaborazione di Giovanni
Monti, industriale di materiale dielettrico, trova la sua sede in
���������������������������������������� �������������������67 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 7 luglio 1946, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 46 68
Ibid.
38 �
via Borghetto e arriva in poco tempo a concorrere con le
storiche Mondadori e Rizzoli. Nel ’47, infatti, la produzione
annuale è già di cinquanta titoli, con grande attenzione anche
alla letteratura straniera. Accanto a Longanesi partecipano
all’avventura editoriale anche Montanelli, Ansaldo e
l’americano Henry Furst. Alla “Longanesi & C.” è legato il
mensile “Il Libraio”: si tratta di un “Omnibus” in piccolo
formato, con gli stessi caratteri, la stessa impaginazione, la
stessa abbondanza di fotografie. Non si presenta come un
periodico di attualità, ma come un bollettino della casa editrice,
tra le cui pagine si trova ben altro che qualche recensione.
Chi riceve un normale foglio di servizio-stampa lo getta:
ma quando arriva sulla scrivania una rivista che offre
inchieste, notizie nel campo della cultura internazionale,
e anche rubriche di notizie curiose, gli occhi ci cadono
dentro. E dentro trovano i libri di Longanesi nella cornice
d’articoli firmati Stefano Frati (Ansaldo), Stella Nera
(Ansaldo), ma anche Moravia, Cecchi, Comisso, Irene
Brin, Henry Faust, Antonio Caderchi (ancora Ansaldo),
Bruno Romani.69
Ma nel 1950 “Il Libraio” non basta più; e Leo inventa “Il
Borghese”, un quindicinale di 32 pagine, il cui primo numero
esce il 15 marzo 1950. Inizialmente si presenta senza fotografie,
verrà poi illustrato a partire dal ’54. La linea politica del
giornale non è ben definita; leggiamo infatti in una lettera di Leo
ad Ansaldo: “Penso che occorra dare un colpo al cerchio e uno
alla botte in questo momento. Non si può essere fascisti ora, ma
nemmeno ostili al fascismo, né avversi alla DC, ma neppure
favorevoli.”70 Tale posizione porta molti, tra cui fidati
collaboratori di Longanesi come Ansaldo e Spadolini, a dubitare
della riuscita del giornale, che sembra non sapere con esattezza
ciò che vuole. E’ precisa invece e costante la polemica nei
confronti dei rotocalchi, del cinema e della televisione; Leo non
���������������������������������������� �������������������69 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 276 70
Ibid., p. 52
39 �
sopporta i giornali, a suo dire ripetitivi e noiosi, né il nuovo
consumismo accessibile a molti, non tollera, in definitiva, le
mutazioni indotte dalla cultura di massa. In particolare egli
rifiuta il conformismo, malattia inguaribile del suo tempo, nato
perché “quelle vecchie zie hanno ceduto, hanno aperto il passo
alle nipoti, alla radio, alla TV, al frigidaire, a Marlon Brando, al
latte in scatola, al provvisorio, al facile, al futile, al morbido;
anch’esse sono cadute nel grave equivoco progressista che ha
travolto la borghesia”71. Longanesi si chiude sempre più nel
rifiuto, nella malinconia e “Il Borghese” non tiene il passo.
Nel ’48 Longanesi partecipa con vigore alla propaganda
elettorale appoggiando la DC. In una lettera ad Ansaldo scrive:
Finalmente la battaglia elettorale è finita, e finita bene. La
vittoria della DC è qualcosa come la vittoria di Lepanto
contro i turchi. E noi, dopo aver perduto la guerra,
facciamo ora la figura di salvatori dell’Europa. E’ un
buffo e fortunato destino, il nostro! Aggiungo che la
vittoria della DC chiude degnamente il ’48, cioè fa tabula
rasa degli ideali unitari che hanno annoiato l’Italia per un
secolo. La monarchia è finita per sempre, il liberalismo
anche e Benedetto Croce può farsi seppellire fin d’ora. E
non le sembra che dall’altro mondo il nostro Duce abbia
guidato anche le nostre faccende politiche? E’ accaduto
qualcosa come la “Giornata della fede” e la conquista
dell’Etiopia. Il fascismo è sì morto, ma questa è una
vittoria della nazione fascista, non ci sono dubbi. E chi ne
esce con le costole rotte sono ancora gli antifascisti.72
Tanto entusiasmo ha però breve durata, Longanesi riserverà
presto critiche alla DC, deluso nell’attesa di un governo
autoritario di destra.
Gli anni del dopoguerra a Milano sono quelli in cui Longanesi si
guadagna la fama di “nostalgico”, complici “Il Borghese” e
alcuni pamphlets come Parliamo dell’elefante, In piedi e seduti,
���������������������������������������� �������������������71 L. LONGANESI, “Il Borghese”, 25 maggio 1956, p. 829, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 58 72 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 23 aprile 1948, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 47
40 �
Ci salveranno le vecchie zie? e Una vita. In parte questo
risponde al vero: Longanesi volta presto le spalle alla nuova
Italia rimpiangendo il fascismo, tempo in cui il futuro sembrava
poter essere una nuova età dell’oro e in cui, per Leo, era stato
possibile conciliare passatismo e desiderio di nuovo. Una volta
vista cadere quest’utopia l’unica cosa che gli rimane è una
società che poco lo considera perché troppo pesa l’immagine
dell’intellettuale anni Trenta che egli porta con sé.
C’è però da dire che Longanesi era nostalgico anche durante il
fascismo; si pensi, ad esempio, a quando retrodata la sua nascita
di un secolo, dicendosi del 1805 e tra le pagine dell’“Italiano”
elogia l’Ottocento, un mondo fatto di piccole cose concrete, che
vive di onestà e decoro. E se è nostalgico da giovane si può
pensare che lo sia a maggior ragione una volta arrivato a
Milano, “la città del duralluminio e delle single, quella che più
d’ogni altra rappresenta ai suoi occhi l’antitesi a quei principi
‘strapaesani’ ai quali, più per istinto che per ragionamento, egli
è tornato”73.
Forse Leo prova nostalgia, più per il fascismo, che come via
politica l’ha presto deluso, per la vita trascorsa durante il
regime; per la sua giovinezza; per gli anni in cui è stato
protagonista, seppur discusso, della vita pubblica; per
“L’Italiano” e per “Omnibus”. Ora non tollera che i suoi vecchi
discepoli non lo riconoscano come maestro, che “Benedetti non
sia mai venuto a chiedergli consiglio sull’impaginazione
dell’‘Europa’, che ora dirigeva, che Pannunzio non gli abbia più
scritto una lettera da quando fa ‘Il Mondo’, che Brancati e
Flaviano abbiano portato i loro manoscritti a Bompiani, e
Soldati a Garzanti”74. Più che nostalgico, Longanesi è deluso:
“siamo tutti fusti di piccola statura, quando cerchiamo di
scoprirci, finiamo coll’accorgerci che basta ritrarci a due
���������������������������������������� �������������������73 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 269 74
Ibid., p. 285
41 �
dimensioni sole, altezza e larghezza, perché la terza ci manca.
Desolati, allora ripieghiamo nell’ironia e nel rimpianto di noi
medesimi”75.
Delusione anche per la vita politica dell’Italia del dopoguerra,
che sembra appiattita ed annoiata: “non vi è forza di
conservazione, così come non vi è neppure forza rivoluzionaria.
Epoca di compromessi, questa, di debolezza, di languori
ideologici. […] Qui non c’è nulla: né destra, né sinistra. Qui si
vive alla giornata fra l’acqua santa e l’acqua minerale”76.
La critica di Longanesi non risparmia nemmeno il mondo del
giornalismo:
Nella vita italiana non è mai apparsa una classe di grossi
padroni tanto inetta, tanto pavida, tanto volgare come
quella che oggi vive a cavalcioni dell’Italia. […] La
storia oggi è questa: che i ricchi, i padroni, pure di
guadagnare di più, pubblicano i giornali a fumetti,
stampano nei loro giornali i resoconti dei grandi delitti,
insegnando a milioni di cittadini qual è il miglior modo
per rinunciare al decoro, alla decenza, alla serietà,
all’onore. La storia muore ogni mattina nei titoli dei
giornali. […] La storia è questa: che per non fare più
storia, ci rotoliamo nella più miserabile cronaca.77
La via d’uscita a tutto questo Longanesi la trova nella piccola
borghesia, attaccata ai valori di un tempo, quali il risparmio, il
decoro, il rispetto, in opposizione ai nuovi ricchi di grandi città
come Milano. Non solo nella borghesia, ma anche nella povertà,
perché
bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche chiese,
antichi paesi, antiche strade, antiche parlate, cucina
paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custoditi
soltanto nella miseria. […] Perché il povero è di antica
tradizione e vive in una miseria che ha radici in secolari
���������������������������������������� �������������������75 L. LONGANESI, La sua Signora, taccuino, cit., p. 145 76 L. LONGANESI, Parliamo dell’elefante, cit., p. 28 77 L. LONGANESI, Divagazioni estive e sociali, “Il Borghese”, 22 giugno
1956, cit. in P. ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 57
42 �
luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato,
nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che l’umilia.78
Anche se deluso da molti aspetti della sua vita, tanto da definirsi
un “carciofino sott’olio”, Longanesi non smette di lavorare: una
volta persa la casa editrice inizia, nel ’56, a collaborare con
Rizzoli per una nuova collana, “I libri di Leo Longanesi”. Ma, a
distanza di un anno, il 27 settembre 1957, muore nell’ufficio di
via Bigli.
�
�
���������������������������������������� �������������������78 L. LONGANESI, La sua Signora, taccuino, cit., p. 225
�
43 �
Capitolo II: “Il Selvaggio”
1. L’esordio del “Selvaggio”
Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti viene assassinato dalla
banda Dumini; si apre così, per il fascismo, la più grave delle
crisi, che rischia di farlo crollare. La pubblica opinione inizia a
guardare con simpatia alle opposizioni, molti fascisti si tolgono
il distintivo dall’occhiello e strappano le tessere, all’interno del
partito prende voce la corrente “revisionista”, in grado ora di
opporsi con successo allo squadrismo. Persino Mussolini teme il
peggio, ma, com’è noto, il fascismo supererà indenne questo
ostacolo. Longanesi rievoca così il clima di quei giorni:
Cosa fa la monarchia? Attende. E’ sicura che i suoi vari
Collari dell’Annunziata, che le opposizioni avranno la
forza di liberarla da Mussolini. Che cosa fanno invece le
opposizioni? Non accettano la lotta. Si ritirano, quando
non c’è alcun pericolo, sull’Aventino, perdono il loro
tempo prezioso, tradiscono i loro elettori, tutta l’Italia è
con loro, persino i fascisti. E’ giunto il loro grande
momento. Basterebbe un nonnulla, un fischio, ma le
opposizioni tacciono. Mussolini stesso è sorpreso: non ha
ancora il coraggio di credere alla debolezza, alla poca
astuzia, all’inerzia dei suoi avversari. Si affaccia timido
dietro i vetri di Palazzo Chigi: il metropolitano continua a
guidare il traffico con movimenti meccanici: la rivolta
non è ancora scoppiata. Mussolini trae un sospiro di
sollievo.79
Se le istituzioni non fanno nulla, o poco, per cacciare il Duce,
c’è chi invece fa quadrato attorno a lui: sorgono in tutta Italia
giornali estremisti o riprendono fiato quelli che già ci sono,
come “Il Tevere”, “L’Impero”, “L’Intrepido”, “La Conquista
dello Stato”, “Cremona fascista”, “L’Assalto” e infine “Il
Selvaggio”. Si tratta di fogli dello squadrismo provinciale, che si
���������������������������������������� �������������������79L. LONGANESI, In piedi e seduti, cit., p. 149
44 �
inseriscono nel dibattito nazionale dichiarando a gran voce la
loro adesione e fedeltà totali al fascismo. Ammoniscono a non
abbandonare il partito in un momento di crisi, ma anzi a
schierarsi con maggior forza ed entusiasmo dalla parte del Duce.
E’ ovunque “una nuova primavera del fascismo intransigente; si
riprendono in esame tutti i motivi del movimento squadrista; si
riepiloga l’ideologia del movimento, la si estremizza, la si rende
più chiara per l’attacco che si spera conclusivo contro i
profittatori dell’ultima ora”80.
In tutto ciò la provincia senese vuole fare la sua parte;
l’iniziativa viene da Angelo Bencini, ras di Poggibonsi, ufficiale
di artiglieria nella prima guerra, poi squadrista con ambizioni
politiche. All’indomani del delitto Matteotti fonda un
settimanale, impegnandosi in prima persona per quanto riguarda
la parte finanziaria, ma affidando la redazione ad “un giovane
senese ventiseienne, di piccola statura, laureato in
giurisprudenza, pungente e polemicissimo nel parlare e nello
scrivere (già nel 18 ha pubblicato un romanzetto81 a Siena), in
grado anche di usare sgorbie e bulini realizzando nervose
xilografie e incisioni”82, Mino Maccari. Bencini gli propone due
titoli per la testata: “Santa Canaglia” o “Il Selvaggio”. Maccari
sceglie il secondo e si getta nel neonato settimanale facendo
quasi tutto lui, il redattore, con vari pseudonimi, il correttore di
bozze e l’impaginatore. Il foglio viene stampato nella piccola
tipografia Bordini; in queste prime annate non si distingue per
bellezza grafica, ma spiccano le incisioni che Maccari pubblica
a getto continuo e che attraggono presto l’attenzione di
Longanesi:
Senza tirocinio accademico, ha disegnato per una
naturale vocazione. I suoi disegni restano nei cassetti di
���������������������������������������� �������������������80 R. BUSINI, Il “Selvaggio”, in L. PIANTINI, Quaderno ’70 sul Novecento,
saggi di L. Piantini [e al.], Padova, Liviana, 1970, p. 48 81 M. MACCARI, Orgia, Siena, ed. Tip. S. Bernardino, 1918 82 L. TROISIO, Strapaese e stracittà, Il Selvaggio - L’Italiano – 900, Treviso,
Canova, 1975, p. 12
45 �
casa, come scarabocchi di un figlio di famiglia che cerca
impiego, fino al 1924, anno della pubblicazione del
“Selvaggio”, giornale politico da lui diretto. Su questo
piccolo settimanale, ch’egli scrive da capo a fondo,
escono le sue prime incisioni. […] Incide legni e
linoleum senza intenzioni artistiche, in fretta, cercando
solo la satira. Ogni otto giorni il giornaletto rulla come un
tamburo. Pubblica così una serie d’incisioni straordinarie
dove l’umorismo è un capolavoro di stile tanto il segno è
ardente allo spirito e s’intona al tempo. La fantasia è
accesa da un accanimento rivoluzionario; egli deforma le
figure dei suoi avversari con una animosità ironica che
non ha nulla di letterario. […] I fascisti diventano
argomento d’arte per la prima volta: il segretario del
Fascio di Colle li disegna sul camion come Daumier
aveva disegnato i patriottardi sulle barricate.83
La stima che Longanesi prova nei confronti di Maccari risale già
al ’24, anno in cui Leo scrive una lettera al direttore del
“Selvaggio” chiedendo di partecipare alla redazione del foglio e
dichiarando apertamente il suo unico scopo nella vita, “fare tanti
quattrini”84. Ad un proposito di questo tipo non c’è da dare
troppo credito, e forse non ce lo dà nemmeno Maccari,
vedendoci, più che una dichiarazione d’intenti, una
provocazione in perfetto stile longanesiano. Un amico di
entrambi, Paolo Cesarini, ricorda infatti:
Quella lettera fece sobbalzare Maccari; ma come, in
un’epoca d’ardori disinteressati, di fanatismo gratuito, e
proprio a lui che nel nome della sacra parsimonia paesana
glorificava con una bella silografia il venditore di semi
salati, si veniva a vantare la più ignobile delle ambizioni?
Forse accese nervosamente il sigaro e impugnata la penna
si accinse a buttar giù una letteraccia da levare il pelo.
Ma sul punto di iniziare, lo sdegno calò nel dubbio e poi
fulmineo in una certezza: quel Longanesi spudorato
���������������������������������������� �������������������83 L. LONGANESI, Maccari, “L’Italiano”, febbraio 1931, n. 2, pp. 84-87, cit.
in L. TROISIO, op. cit., p. 212 84 P. CESARINI, Italiani cacciate il dittatore, ovvero Maccari e dintorni,
Milano, Editoriale Nuova, 1978, p. 36, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 53
46 �
doveva essere un tipo assolutamente fuori dal comune.
Guai a perderlo.85
Alla lettera segue un incontro tra i due a Colle val d’Elsa; e
inizia così una collaborazione che sarà fruttuosa per entrambi,
perché Leo verserà sul “Selvaggio” le proprie sferzanti battute,
gli articoli e le caricature, e Maccari darà a Longanesi, con il suo
foglio, l’idea di farsene uno suo. Non solo, sebbene in questi
anni Leo scriva anche per altri giornali, come ad esempio
“L’Assalto”, è nel “Selvaggio” che egli affina le sue capacità e
definisce le sue posizioni culturali e politiche. Il fascismo
proposto dal giornale di Maccari coincide con il fascismo che
Leo ha conosciuto e appoggiato a Bologna e che continuerà a
proporre nell’“Italiano”. Incontra, nel foglio senese,
“Strapaese”, movimento che Longanesi contribuisce a creare e
che troverà spazio anch’esso nel suo giornale. Inoltre, nelle
pagine del “Selvaggio”, c’è l’eco della famiglia d’origine di
Leo: la stessa verve delle discussioni tra il nonno e il prozio, la
stessa ammirazione per Garibaldi, lo stesso provincialismo
borghese. E poi nel “Selvaggio” c’è Maccari, la cui
collaborazione con Leo diverrà presto amicizia e andrà ben oltre
le pagine del giornale di Colle Val d’Elsa.
2. I quattro periodi del “Selvaggio”
Dal 13 luglio 1924, data del primo numero del “Selvaggio”, al
’26 la redazione del giornale si trova a Colle Val d’Elsa. Non
solo sono gli anni più fascisti del “Selvaggio”, quelli in cui
l’adesione al partito è totale, ma si tratta anche del momento in
cui si foggiano quegli strumenti graffianti e quelle polemiche di
fondo che saranno vere costanti nel seguito della rivista, quali il
disprezzo nei confronti dei modi della politica, sempre più
lontani dallo squadrismo e dalla provincia, l’esaltazione della
���������������������������������������� �������������������85
Ibid.
47 �
parte più estremista del regime, la critica nei confronti della
vecchia classe dirigente, del liberalismo, della normalizzazione
antirivoluzionaria. Inoltre, nei primi due anni si possono vedere
enucleati tutti i motivi che daranno origine a “Strapaese”: gli
elementi autoctoni contrapposti a ciò che giunge dalla città, la
conoscenza della campagna, della gente contadina e
dell’orgogliosa tradizione agreste toscana.
Nel ’26, con l’appoggio di Ardengo Soffici, la redazione si
sposta a Firenze. Ora Maccari è direttore e proprietario del
“Selvaggio”. Il cambiamento è evidente: la testata viene
ridisegnata e quello che prima era un piccolo strumento dei
fascisti di paese ora è uno strumento di cultura. “Strapaese”
prende forma in modo organico attraverso la polemica che il
“Selvaggio” ingaggia contro “900”, rivista “stracittadina” nata
nell’autunno del ’26. Se da un lato, dunque, il giornale cresce e
si emancipa dalla precedente dimensione provinciale, dall’altro
deve fare i conti con un mutato clima all’interno del partito: il
fascismo si sta normalizzando, la componente più estremista è
messa all’angolo, in definitiva gli squadristi, i “selvaggi”,
escono dal gioco politico e vedono praticamente annullato ogni
loro potere contrattuale in seno al partito. “Il Selvaggio” inizia
allora la sua trasformazione da foglio politico in rivista dove
letteratura e polemica culturale cominciano ad essere i temi
principali.
Dopo essersi spostata a Siena per quasi due anni (dal 15 marzo
1929 al dicembre dell’anno successivo), la redazione si
stabilisce a Torino dal 30 gennaio al 30 dicembre 1931. Nel
capoluogo piemontese infatti Malaparte dirige “La Stampa”, di
cui Maccari è redattore capo.
Dopo un intervallo di tre mesi “Il Selvaggio” riappare a Roma,
dove rimane fino al ’43. La sua grinta polemica va esaurendosi;
in particolar modo, dopo il ’35, sembra che la funzione del
periodico sia esaurita, anche se continua l’opera di denuncia e la
48 �
ripetizione dei programmi iniziali, formulati però quasi un
decennio addietro. A questo si aggiungano le uscite non più
regolari fino al ’43.
3. L’identità “selvaggia”
Nel periodo colligiano del “Selvaggio” sono raccolti tutti i temi
e le polemiche che animeranno il foglio fino al ’43. Primo fra
tutti il desiderio dello squadrismo provinciale di continuare a
contare qualcosa all’interno del partito; dopo aver, infatti, fatto
ben sentire la propria presenza con l’azione violenta delle
quadre, aver accompagnato il Duce al potere, ora attende il
compimento della rivoluzione, l’instaurazione dello stato
fascista. Ma il partito sceglie un’altra via, e dà inizio
all’operazione normalizzatrice, che comporta il congedo della
parte più violenta e intransigente, col passaggio di potere dagli
uomini armati di manganello ai prefetti. Le squadre sono ormai
ridotte a “pura coreografia del fascismo”86, prima appoggiate,
ora, ad operazione finita, rimandate a casa. Ma quando la fase
della normalizzazione sta per essere realizzata, quando gli
squadristi intransigenti cominciano a parlare di rivoluzione
tradita, scoppia la “Caporetto del fascismo”: il delitto Matteotti.
Ed ecco ridiscendere in campo tutte le squadre congedate, ben
consci che il partito, in un momento di difficoltà come questo,
non può permettersi di ignorare il parere di una delle sue
componenti, per quanto estremista o emarginata. “Il Selvaggio”
nasce quindi come tentativo degli squadristi valdostani di
rientrare nel gioco.
Al fine di raggiungere tale obiettivo si sviluppa, tra le pagine del
giornale, una vera e propria identità “selvaggia”, con tutte le
caratteristiche che essa prevede.
���������������������������������������� �������������������86 R. BUSINI, op. cit., p. 47
49 �
Prima di tutto i “selvaggi” sono “fascisti votati al fascismo,
innamorati del fascismo, pazzi del fascismo”87; a questa
ideologia hanno dedicato la vita, senza nulla chiedere in cambio:
Eppure non è un pazzo secondo l’opinione pubblica,
secondo il giudizio dei più, non è un pazzo chi trascura
interessi personali, affetti, studi, piaceri, per dare al
fascismo tutto se stesso senza riscuotere uno stipendio,
anzi rimettendoci di tasca? Senza ottenere cariche, anzi
perdendo il proprio impiego, anzi attirandosi le
rappresaglie del proprio padrone? Certo è un pazzo
questo giovane uomo che per il fascismo ha scapitato il
posto in banca. E quest’altro che è finito in galera. E
quest’altro che ha cazzottato il babbo papista.88
Dopo aver tanto dato, senza nulla aver ricevuto, ora i “selvaggi”
vengono congedati; ma non è motivo questo per abbandonare il
disinteresse che li ha caratterizzati ai tempi delle battaglie
squadriste. Si ritraggono come “cavalieri di ventura appiedati
che amaramente, ma dignitosamente si ritirano in un angolo”89:
Col suo recente discorso ultranormalizzatore, legalitario,
quietista, pacifista, Sua Eccellenza Benito Mussolini,
presidente del Consiglio, manda in congedo tutti noi, che
lo servimmo in qualità di squadristi, secondo le nostre
forze inesperte e giovanili, ma generalmente sane e
sincere. Noi troppo giovani, troppo ridenti – noi
innamorati violentemente dell’Idea – noi illusi sognatori
disinteressati – noi – è logico – dobbiamo cedere il passo
ai vecchi e tarlati, espertissimi e scaltri uomini della
vecchia Italia. […] Noi che ci siamo arrabattati in tutti i
modi per tener vivo l’entusiasmo, per scuotere l’apatia,
per svegliare tanti sonni beati, noi siamo ormai come gli
intrusi del fascismo. Ci si considera compromettenti –
poco seri – esagerati, esaltati … in una parola la peste del
fascismo 1924. E va bene. Non abbiamo mai chiesto
nulla. Nulla oggi chiediamo.90
���������������������������������������� �������������������87 SUGO DI BOSCO, Il vero fascista è un pazzo, “Il Selvaggio”, 13 gennaio
1925, n. 1, p. 2, cit. in R. BUSINI, op. cit., p. 86 88
Ibid. 89 R. BUSINI, op. cit., p. 60 90 SUGO DI BOSCO, Il benservito agli squadristi, “Il Selvaggio” 15
novembre 1924, n. 19, p. 1, cit. in R. BUSINI, op. cit., p. 83
50 �
Il disinteresse si accompagna ad un’altra fondamentale
caratteristica dell’identità “selvaggia”, che le pagine del giornale
ripetono a tal punto da farne quasi la qualità principale: la
fedeltà al fascismo e al Duce. Nella crisi del partito causata dal
delitto Matteotti i “selvaggi” ribadiscono la loro fede attraverso
le parole di Maccari:
Mentre gli eroi della sesta giornata – profittatori
pusillanimi – nascondono la tessera che fu vergogna
conceder loro, noi dimettiamo la serica divisa di parata e
indossiamo con rinnovata fierezza la logora, sgualcita
camicia nera che conobbe le dure lotte e le contrastate
vittorie. In nome vostro, o squadristi, leviamo questa
voce, innalziamo questa barricata per la diffusione e la
difesa della nostra fede. Non è un atto di secessione né
d’indisciplina – neanche formale – quello che noi
compiamo. Noi siamo contro ogni forma di dissidentismo
– unitari fino alla sofferenza – ossequienti alla disciplina
delle gerarchie – fedeli fino alla morte all’idea e alla
nazione.91
La fedeltà non manca nemmeno nel momento in cui Mussolini,
congedate le squadre, delude profondamente i “selvaggi”; si
colora, però, dei toni del ricordo e della nostalgia: “Lasciateci,
Presidente, rimpiangere il tempo nel quale vi conoscemmo, vi
amammo, vi obbedimmo: quando non eravate Sua Eccellenza,
ma eravate il Duce”92.
L’identità “selvaggia” nasce in provincia, luogo e condizione
sociale che tenta di difendere. La normalizzazione del fascismo
comporta che la provincia, tanto importante nel periodo
squadrista, ritorni ad una posizione subordinata rispetto al potere
centrale e alla città. I “selvaggi” sentono la precarietà della loro
condizione politica e sociale, temono di “perdere ogni
autonomia, divenire i raccoglitori delle misere briciole del
potere dei liberali, entrare servilmente, e perpetuamente in
���������������������������������������� �������������������91 LA REDAZIONE, Saluto, “Il Selvaggio”, 13 luglio 1924, n. 16, cit. in L.
TROISIO, op. cit., p. 54 92 SUGO DI BOSCO, Il benservito agli squadristi, cit.
51 �
posizione subalterna, nel giro delle clientele massoniche, crepare
d’astio e di rancore impotenti per i pochissimi di loro che
riescono a fare il salto”93. Si schierano dunque in prima linea
nella difesa del prestigio della provincia, lodando la stabilità del
tessuto sociale del mondo paesano e le sue incrollabili virtù
morali. Non si tratta solo di una questione ideologica, bensì
politica: i “selvaggi” chiedono che ogni comunità locale venga
valorizzata in ciò che ha di unico e, soprattutto, presa in
considerazione a livello nazionale:
L’italianità è un comune denominatore, una conditio sine
qua non, un indispensabile presupposto, ma non deve né
strozzare, né annacquare quella meravigliosa e vivace
varietà di costumi e di temperamenti, di qualità e di
attitudini nella quale i toscani son definiti dai liguri, i
siciliani dai veneti, i pugliesi dai lombardi. Se il fascismo
vuol essere espressione viva e dinamica di italianità non
può, non deve prescindere da un simile felice stato di
fatto. Vi è un fascismo italiano, ma in seno ad esso vi è
un fascismo toscano, emiliano, etc.94
La modalità di espressione cara all’identità “selvaggia” non si
identifica con la politica, ma piuttosto con la violenza, di cui gli
squadristi hanno fatto largo uso e di cui hanno visto i rapidi
effetti. Teorizzano un’aggressività intelligente, che colpisca gli
uomini giusti al momento giusto, una atto di forza, si potrebbe
dire, nobile:
Noi adoriamo la violenza. Pensiamo che la violenza sia
un’arma da coltivare intelligentemente, e da perfezionare
secondo i principi del buon gusto e dell’eleganza, oltre
che secondo le necessità storiche e nazionali. […] La
violenza che noi coltiviamo è riscaldata dal tepore del
nostro sangue, è la santa, la giusta, la decisiva violenza a
cui la legge naturale e la legge morale hanno affidato la
funzione di arbitra suprema nei confronti di idee, di
razze, di programmi. La violenza è la voce di Dio. La
violenza è la voce della natura. La violenza è
���������������������������������������� �������������������93 R. BUSINI, op. cit., p. 50 94 G. TRAMONTANO, Fascismo toscano, “Il Selvaggio”, 21 dicembre 1924,
n. 23 – 24, p. 1 – 2, cit. in R. BUSINI, op. cit., p. 71
52 �
l’indispensabile arma quotidiana della lotta civile, […]
resta l’arma più nobile, più pura, più ingenua, più
semplice, più cristiana, in ogni battaglia.95
Come la violenza possa essere tutto ciò, e addirittura cristiana,
non è facile da capire per il lettore di oggi, ma “Il Selvaggio”
non manca di spiegarsi: l’aggressività è nobile se confrontata
con “le calunnie, le velenose menzogne, le stroncature abili, le
cosiddette campagne giornalistiche”, perché, se la violenza lede
nel corpo, queste ultime “uccidono moralmente […] e puntano a
beni molto maggiori, all’onestà, alla moralità, a tutte quelle
ricchezze spirituali alle quali un vero uomo tiene di più che alla
propria pancia, alla propria pelle”96. La violenza del manganello
dovrebbe dunque portare ad uno scontro leale e aperto, ad una
moralità nuova nella lotta politica. Busini definisce tale
atteggiamento:
Quanto mai superficiale e precario sul piano
dell’efficacia politica, costituisce insomma un altro mito
scaturito dall’immaturità politica e sociale dei “selvaggi”;
nostalgicamente essi desiderano la normalità piccolo
borghese con tutti i suoi orpelli; la violenza è una
vocazione passeggera, quando rischia di metterli ai
margini del loro mondo di benestanti provinciali.97
La violenza si accompagna naturalmente allo squadrismo, di cui
i “selvaggi” cantano le lodi come “il fenomeno più singolare e
più inaspettato prodotto dal fascismo”98, in grado di ridonare
vigore ad un’Italia “rammollita” che legge Cuore di De Amicis:
Contro tanto rammollimento e tanta mediocrità, la prima
reazione è la settimana rossa di Ancona: poi vengono i
fasci rivoluzionari, poi la guerra italo – austriaca, infine il
fascismo sotto l’aspetto dello squadrismo. […] Si tratta di
ridare a tutte le classi italiane il senso della forza, delle
virilità e della volontarietà. Si tratta di difendere la ���������������������������������������� �������������������
95 M. MACCARI, Parla il Selvaggio 4, “Il Selvaggio”, 28 settembre 1924, n. 24, p. 2, cit. in R. BUSINI, op. cit., p. 74
96Ibid.
97 R. BUSINI, op. cit., p. 55 98 M. MACCARI, Squadrismo, “Il Selvaggio”, 13 luglio 1924, n. 1, p. 1, cit.
in L. TROISIO, op. cit., p. 55
53 �
tradizione guerriera della nostra razza: di fare degli
italiani, stimati dagli stranieri come dei maccaroni, dei
mandolinisti, etc., si tratta di farne dei maschi. A tale
scopo lo squadrismo si presta magnificamente. […] I
rottami della vecchia Italia non hanno altro da fare che
levarsi il cappello al passaggio delle nostre squadre. Noi
veniamo da Vittorio Veneto: siamo nati da una vittoria e
verso infinite vittorie marciamo.99
Come ogni identità anche quella “selvaggia” si costruisce in
opposizione ad un elemento concepito come altro da sé, con cui
il confronto è d’obbligo. I “selvaggi” trovano il loro contraltare
nel mondo della politica e nei fascisti che hanno sposato la via
della normalizzazione.
L’ideologia “selvaggia” considera il fascismo come un
movimento ideale, che si nega ad ogni contesto organizzativo o
burocratico e che, imponendosi con la sua vitalità e irruenza, si
guadagna ogni giorno il diritto di comandare. In breve i
“selvaggi” contestano al fascismo di essere diventato un partito:
“Il fascismo non è sorto come uno tra i partiti: ma si è – non
dimentichiamolo – manifestato come movimento tendente a
sgomitare l’ancien régime che tranquillamente riportava l’Italia
del ’18 all’Italia del ’14"100. A tale concezione segue una
negazione della politica, considerata come uno sporco affare
fatto di compromessi ed egoismi. Si tratta di una visione
profondamente negativa, e in fondo un po’ semplicistica, del
mondo della diplomazia, che sembra essere troppo attenta agli
interessi di Roma e dimentica di quelli delle province. Ecco
allora pronta ad uso “selvaggio” l’equivalenza di politica e
inganno, rappresentata da Cavour. Egli viene disegnato come il
“grande straniero”, colui che ha mutato la rivoluzione in “un
gioco diplomatico, in grandi manovre di politica d’alto stile”. E
così facendo ha condotto l’Italia a subire “la grande violenza”, a
rinunciare “agli scopi sublimi sedotta dal successo formale, dal ���������������������������������������� �������������������
99Ibid.
100 M. MACCARI, Gli ex nulla, “Il Selvaggio”, 14 settembre 1924, n. 10, p. 1 – 2, cit. in R. BUSINI, op. cit., p. 87
54 �
trionfo banale della banalità”101. Il fascismo, nel diventare
partito e nell’affidarsi ai modi della politica, rischia di essere un
nuovo Cavour, lasciando la rivoluzione senza compimento. In
opposizione a tale modello i “selvaggi” propongono Garibaldi,
esempio di virilità e coraggio, uomo che non si è piegato al
gioco della politica,
che è innanzitutto e soprattutto un guerriero, generoso
quanto si vuole, magnanimo quanto vi pare, ma un
guerriero che non attendeva per combattere che i tedeschi
si convincessero del loro torto nell’occupare il suol
d’Italia. […] Era un gran generale che durante il
combattimento fucilava senza pietà e senza far tante
misericordie i codardi e i vili.102
Identificandosi in Garibaldi i “selvaggi” vedono una pericolosa
somiglianza tra Cavour e i fascisti che hanno seguito la via della
normalizzazione e che, agli interessi della rivoluzione, hanno
anteposto i propri. I “selvaggi” non mancano di sottolineare,
quanto più possono, la loro diversità: se gli altri si piegano, loro
rimangono saldi nell’onestà, nella fedeltà, nella rivoluzione:
I pantofolai, gli uomini della farmacia, gli inconcludenti,
i deboli per abitudine, gli accomodanti per convinzione,
vogliono porre sotto tutela un movimento nutrito di
passione eroica, cementato di sangue, sviluppatosi nel
travaglio di un mentalità rivoluzionaria. Noi ci
ribelliamo, perché ce ne freghiamo. Fascismo è velocità,
iniziativa, realizzazione, orgoglio di razza, spirito di
sacrificio, volontà costruttiva, volontà d’ardimento;
mentre voi vecchi liberatoti da museo, siete la fiacchezza,
la passività, la sopportazione, la rinuncia, l’egoismo. […]
Voi siete i figli della rivoluzione francese e padri del
socialismo, noi siamo gli artefici e i custodi della
rivoluzione fascista, servi fedeli della nazione. Ecco
l’abisso.103
���������������������������������������� �������������������101 M. MACCARI, Made in England, “Il Selvaggio”, 16 agosto 1924, n. 6, p.
1 – 2, cit. in R. BUSINI, op. cit., p. 1 102 F. GIANNELLI, L’eroe castrato, “Il Selvaggio”, 19 luglio 1924, n. 2, p. 1
– 2, cit. in R. BUSINI, op. cit., p. 66 103 A. BENCINI, Fascismo maggiorenne, “Il Selvaggio”, 19 luglio 1924, n.
2, p. 2, cit. in R. BUSINI, op. cit., p. 82
55 �
L’identità “selvaggia”, fatta di caratteristiche precise, di un
proprio modo di esprimersi, di elementi di opposizione ben
individuati, non soddisfa però il desiderio dello squadrismo
provinciale di contare qualcosa all’interno del partito. Il negare
ogni forma di diplomazia, il rimanere legati in modo ripetitivo
ad una modalità, come quella dello squadrismo, che il fascismo
ha utilizzato, ma da cui ora ha scelto di distanziarsi, pone i
“selvaggi” inevitabilmente fuori dai giochi del potere. La loro
visione della politica rimane limitata ad un orizzonte provinciale
piccolo borghese dal quale non sa emanciparsi. I “selvaggi”
sono destinati a perdere sempre più peso contrattuale in seno al
partito, ma nessuno di loro sarà, come spesso costoro hanno
lamentato, un reietto sociale; come gruppo politico perdono, ma
rimane la possibilità di un reinserimento a livello individuale. Il
regime li tollererà sempre e, all’occorrenza, li utilizzerà.
I “selvaggi” si rendono conto definitivamente di aver perso la
partita quando, nell’ottobre del ’25, Mussolini ordina lo
scioglimento delle squadre.
Camerati! Le tribù dei selvaggi, che offrimmo con puro
cuore al Fascismo e al Duce, quali fierissime
affermazioni spirituali d’intransigenza rivoluzionaria,
sono disciolte. Un atto di dedizione assoluta e di
disciplina ferrea, in ossequio al volere delle supreme
gerarchie del partito fascista104:
sono le parole di Maccari sullo stesso numero in cui la scritta
“Battagliero fascista” viene sostituita con “Salvatico è colui che
si salva”, seguita dall’ammonimento a salvarsi “dalla grettezza,
dalla banalità, dalle miserie, dal ridicolo d’una politica
spicciola”105. Ai “selvaggi” non rimane che muoversi su un
terreno diverso, quello della cultura e del riso, di servire la
rivoluzione “colla nostra mentalità, col nostro stile, giacché,
���������������������������������������� �������������������104 “Il Selvaggio”, 23 ottobre 1925, n. 41, p. 1, cit. in I. MONTANELLI, M.
STAGLIENO, op. cit., p. 77 105
Ibid.
56 �
grazie a Dio, e per disgrazia nostra personale, li possediamo”106;
“nel nome della politica, è una rinuncia alla politica”107. Si tratta
di una cesura nella storia del “Selvaggio”, ma non di una resa.
Maccari dichiara infatti che
“Il Selvaggio” farà come l’Araba Fenice: dalle sue ceneri
– che in questo lugubre numero offriamo agli amici e ai
lettori – rinascerà con un amore più puro, padrone di
orizzonti più vasti. Sarà un giornale buffo, fiorentino e
senese, bizzarro e talvolta misterioso. […] Una
passeggiata di uomini intelligenti e vivi.108
4. “Strapaese”
“Strapaese”, fortunato neologismo di Maccari, si sviluppa e
definisce i suoi caratteri in concomitanza con la nascita della
rivista “stracittadina” “900”, diventando da subito uno degli
aspetti peculiari del “Selvaggio”. Nella rubrica Gazzettino
Maccari, con lo pseudonimo di Orco Bisorco, ne stende il
programma: “Strapaese” intende essere:
l’affermazione risoluta e serena del valore attuale,
essenziale, indispensabile delle tradizioni e dei costumi
caratteristicamente italiani, di cui il paese è insieme
rivelatore, custode e rinnovatore, […] la selezione di
quelle tradizioni e di quei costumi in vista di una unità
nazionale che li riunisca in una sintesi potente e feconda
senza che essi perdano la loro forza e la schiettezza
originaria della terra e del clima ove maturarono, […] la
difesa di quegli elementi di italianità che costituiscono le
radici naturali della civiltà nostra e della nostra potenza,
contro teorie, pratiche e tendenze che sotto la specie della
modernità potessero inquinarli e corroderli.
E che cosa non è “Strapaese”?
���������������������������������������� �������������������106 SUGO DI BOSCO, A rapporto con Mussolini, “Il Selvaggio”, 13
dicembre 1925, n. 45, p. 1, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 77
107 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 78 108 M. MACCARI, L’Araba Fenice, “Il Selvaggio”, 14 marzo 1926, p. 1, cit.
in L. TROISIO, op. cit., p. 67
57 �
Né un fenomeno di estetismo, né un aspetto di gretto
regionalismo o campanilismo, né un circolo o vuoi
cenacolo letterario, né un tempietto ove si adori il passato
e ci si nasconda per sfuggire alla realtà, ai bisogni e agli
imperativi dei giorni d’oggi, né una gretta religione delle
cose piccine, del paesello arcaico, del casolare tranquillo,
del pio bove, del pane odoroso, del muro scrostato, delle
cose dimenticate, dell’odor di stantio, della patina del
tempo, degli uomini all’antica e via discorrendo.109
Questo programma, sebbene non brilli per chiarezza, può essere
considerato un indice del movimento strapaesano.
Guardando più da vicino “questa regione fantastica della
realtà”110, ci si accorge che il paese è lodato prima di tutto per la
stabilità del tessuto sociale che ivi regna: la gerarchie di valori
umani e sociali è semplice, chiara, definita una volta per tutte; le
virtù morali rimangono salde, nulla concedendo alla modernità;
vi è un’idillica collaborazione tra le diverse componenti della
società, che, pur incontrandosi e condividendo tempo e luoghi,
non mettono in discussione una gerarchia percepita come
naturale: “e così il piccolo proprietario e il suo mezzadro
avrebbero continuato ad andare a caccia insieme, i monelli del
bifolco avrebbero giocato un po’ intimoriti con i figli del
padrone, che sarebbe stato l’invitato d’onore al pranzo di fine
trebbiatura”111. A questo quadro si aggiungano altre comparse,
come il prete di campagna, “raro esemplare del servo devoto che
ammiriamo e sentiamo degno nella sua immensa semplicità di
ascoltare i nostri peccati e di benedire le nostre domeniche”112, o
come il contadino, lodato a gran voce tra le pagine del
“Selvaggio”:
Contadino, tempra solidissima di lavoratore e di soldato,
che non sai leggere, noi ti lodiamo. […] L’Italia è grande
���������������������������������������� �������������������109 ORCO BISORCO, Gazzettino ufficiale di Strapaese, “Il Selvaggio”,
novembre 1927, n. 21, p. 1, cit. in L. TROISIO, op. cit., p. 15 110 L. TROISIO, op. cit., p. 14 111 R. RUBINI, op. cit., p. 52 112 SUGO DI BOSCO, I preti in chiesa, “Il Selvaggio”, 5 ottobre 1924, n.
13, cit. in R. BUSINI, op. cit., p. 69
58 �
per la tua grandezza, ti segue finalmente nel mondo. La
tua bandiera è issata sul mare e sulle Alpi della Patria: il
tuo nome vuol dire forza e audacia.113
Va detto, però, che mai sfiora i “selvaggi” il sospetto che i
contadini abbiano una reale autonomia di classe o delle
rivendicazioni politiche e sociali, come non vi è mai un richiamo
alla riforma fondiaria, che pure non manca nei programmi
fascisti. Sembrerebbe allora che la tanto decantata stabilità
dell’ordine paesano risponda, in fondo, agli interessi della
piccola borghesia provinciale, ossia dei “selvaggi”, che nulla
avrebbero da guadagnare da un eventuale rimescolamento delle
carte in termini sociali.
A favore del paese, dunque, e profondamente conservatore, il
movimento di “Strapaese” si scaglia contro la città, centro di
ogni vizio:
Qui il sangue stagna putrido e bavoso in tutte le vene:
sputa Mussolini, sulla grande città, sulla putrida cloaca
dove conviene ogni feccia. Sputa sulla città delle anime
flaccide e dei tisici petti, degli occhi aguzzi e delle dita
vischiose. Sulla città degli intrusi, degli sfacciati, degli
scribi e degli strilloni, degli ambiziosi accecati: dove
tutto ciò che è corrotto, putrido, libidinoso, polveroso,
vizzo, ulcerato, brulica insieme in una sola fogna.114
Accanto alla città vi è naturalmente l’intellettualismo,
considerato come
intelligenza infeconda, un’intelligenza senza virilità, […]
anzi, una sua parodia perché la disumanizza, ne fa uno
strumento di gioco, la sottrae alle sue naturali funzioni in
armonia con le altre forze morali dell’uomo, per darle
un’artificiosa autonomia e sovranità.
Se l’intellettualismo è tutto ciò, non meno dura sarà la critica
agli intellettuali:
���������������������������������������� �������������������113 G. DONNINI, Contadino, “Il Selvaggio”, 31 agosto 1924, n. 8, p. 2, cit.
in R. BUSINI, op. cit., p. 68 114 ZARATHUSTRA, Mussolini e Roma, 27 gennaio 1925, n. 2, p. 1, cit. in
R. BUSINI, op. cit., p. 81
59 �
Sono i professionisti, gli specializzati, i raffinati del
dilettantismo, ed esercitano sul pubblico, che li scambia
per artisti e per pensatori, la stessa specie di fascino che
certe donne infeconde hanno sui giovani inesperti. […]
Ottengono perciò straordinari successi, altrettanto
brillanti che vani, ma sempre nocivi altrui.115
La polemica del movimento “strapaesano” arriva a colpire in
modo deciso il modernismo, inteso non solamente come
corrente di pensiero, ma in senso lato come qualsiasi
atteggiamento che abbia un qualche riferimento con la cultura
europea. I “selvaggi” rivendicano la totale autarchia del
fascismo, anche e soprattutto in termini culturali. La tradizione
italiana viene esaltata e il fascismo ne diviene giusto custode.
Alla domanda “perché combattiamo il modernismo” il
“selvaggio” risponde: “perché siamo moderni”: il modernismo
viene infatti visto come una “sopraffazione della modernità, una
deviazione, che la corrompe nelle sua essenza e la travisa nelle
sue forme”; “perché siamo italiani”: il passato viene ucciso dal
modernismo, che non tollera altra presenza che la sua, “il suo
dramma sta nel suo assolutismo, un assolutismo posto al
servizio di quanto c’è di più relativo al mondo; e dunque di
tutto, fuori che dell’italianità”; “perché siamo fascisti”: fascismo
e modernismo sembrano escludersi a vicenda, il primo
“espressione della civiltà italiana”, il secondo a “carattere
internazionale”. Non basta, “il modernismo è un partito. Noi
abbiamo già il nostro, e non lo vogliamo né barattare, né
mescolare”116.
“Strapaese”, dunque, si propone come movimento che loda
l’italianità rurale e conservatrice, mentre si oppone a qualsiasi
apertura verso l’estero, all’innovazione, alla modernità. Oltre ad
aver una certa fortuna, è motivo ricorrente anche nell’“Italiano”
���������������������������������������� �������������������115 IL SELVAGGIO N. 1, Gazzettino, “Il Selvaggio”, 30 novembre 1933, p.
2, cit. in L. TROISIO, op. cit., p. 133 116 ANONIMO, Perché combattiamo il modernismo?, “Il Selvaggio”, 15
maggio 1934, p. 1 – 2, cit. in L. TROISIO, op. cit., p. 143
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e viene appoggiato dal fascismo, di cui promuove e favorisce la
politica culturale.
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Capitolo III: “L’Italiano”
1. I primi numeri
Il primo numero dell’“Italiano” reca la data 14 gennaio 1926,
ma è nella mente di Longanesi, al tempo poco più che ventenne,
già nel ’25, quando lo annuncia a Soffici: “uscirò tra due mesi
con un settimanale uso ‘selvaggio’, intitolato ‘Il Partigiano’.
Sarà l’organo dell’estremismo intelligente, e dei settori
intolleranti. Non c’è un programma col P maiuscolo, ma tutto si
può riassumere: il Fascismo ha molti lati antipatici, noi ne
creeremo uno simpatico”117. Dopo qualche mese Leo informa
l’intellettuale toscano di aver eletto a titolo della testata non il
già annunciato “Partigiano”, ma piuttosto “L’Italiano” e
aggiunge: “con ‘L’Italiano’ e ‘Il Selvaggio’ facciamo una lega
molto simpatica e utile a questo fascismo che si è ridotto ad
esaltare il quadro della Marcia su Roma di Galimberti”118.
L’influenza che “Il Selvaggio” di Maccari ha sul giovane Leo e
sulla sua rivista è evidente fin da queste poche righe: Longanesi
intende costruire un giornale squisitamente politico, che stia
dalla parte del fascismo squadrista in opposizione al fascismo
normalizzatore, che sostenga il Duce, che si occupi in primo
luogo di questioni locali e che difenda i valori tradizionali
contro la dilagante modernità; si tratta sicuramente di un
programma “selvaggio”.
La particolare circostanza prodottasi nell’ambito politico
bolognese che permette la realizzazione dell’“Italiano” non fa
altro che favorire questo tipo di intenzioni. Vi è infatti nel ’25
rivalità tra il ras di Bologna Leandro Arpinati e quello di
���������������������������������������� �������������������117 Lettera di Longanesi a Soffici datata 19 ottobre 1925, cit. in B. ROMANI,
C. BARILLI, L’Italiano (1926 - 1942), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1976, p. 41
118 Lettera di Longanesi a Soffici datata 13 dicembre 1925, cit. in B. ROMANI, C. BARILLI, op. cit., p. 41
62 �
Cremona Roberto Farinacci, alimentata dal fatto che entrambi
sono impiegati delle ferrovie dello stato ed entrambi intendono
assicurarsi il controllo dell’Associazione dei ferrovieri fascisti.
L’attenzione dei due ruota attorno alla Cassa dei ferrovieri,
diventata un solido organismo finanziario, su cui ha ottenuto il
sopravvento Farinacci. Quest’ultimo, non essendo riuscito a
portare la cassa da Bologna a Roma, crea nella capitale un
nuovo organismo, l’Istituto delle Comunicazioni, che si rivela
presto concorrente della cassa di Bologna. L’ufficio stampa di
quest’ultima è affidato allo squadrista bolognese Vittorio
Orlandi che, al fine di sostenere le ragioni del suo organismo
finanziario contro quello romano, propone all’amico Longanesi
di pubblicare un giornale che, seppur in modo discreto, difenda
gli interessi bolognesi.
Orlandi sarà direttore responsabile del giornale fino alla
maggiore età di Leo; la presenza di un uomo con una sicura
posizione di prestigio in seno allo squadrismo bolognese non
può lasciare indifferenti Longanesi e la neonata rivista. Viene
confermata la natura principalmente politica dell’“Italiano”: la
precedenza è data agli articoli politici, come avviene anche nel
“Selvaggio”, e la maggioranza dei collaboratori è rappresentata
da scrittori che si intonano all’indirizzo della rivista, come
Giuseppe Bottai, Gherardo Casini, Camillo Pelizzi, Carlo
Curcio, Alessandro Pavolini, Umberto Luchini, Agostino Nasti,
a cui si aggiungono Malaparte, Maccari e Soffici. A conferma
della natura politica dei numeri d’esordio dell’“Italiano”
interviene l’articolo pubblicato nella prima pubblicazione a
firma di Gherardo Casini; si tratta di un programma del giornale
le cui posizioni si pongono in linea con il “Selvaggio” di
Maccari: allo stesso modo infatti viene esaltata la rivoluzione
fascista e se ne desidera la continuazione:
Noi crediamo che questo sia oggi necessario, e diciamo
perciò ai malcontenti che si beano del trionfo e ai delusi
che temono di essere stati traditi, che la rivoluzione
63 �
fascista non è finita, che sotto le ceneri di una quiete
apparente cova un fuoco non spento che a noi spetta
rianimare. Chi non sente l’inquietudine di questa marcia
ininterrotta, l’ansioso desiderio di oltrepassare domani
l’ultima meta d’oggi, è destinato a rimanere indietro, a
non comprenderci e un giorno, forse, a combatterci
combattendo in noi il fascismo. Perché il fascismo è stato
sempre appunto un superarsi ininterrotto, un procedere
continuo e spregiudicato di posizione in posizione, un
avanzare senza soste oltre i limiti di ogni calcolo di
probabilità, oltre i confini di ogni preordinato sistema.119
A questo si aggiunga, ancora in linea con “Il Selvaggio”,
l’attacco alla modernità:
La sostanza genuina dell’italiano nuovo noi la dovremo
trovare dove non è arrivata la corrompitrice civiltà
moderna. E si badi che con questo non intendiamo di dire
della civiltà meccanica, del telegrafo, delle strade ferrate,
dell’igiene e se si vuole della radiofonia e del
cinematografo, ma di quelle forme di vita e di mentalità
forestiere che ci si sforza d’adottare fra noi deprimendo le
nostre native qualità paesane. […] Il male italiano è
questo, di aver perennemente rinnegato le tradizioni per
invanire dietro gli ideali, i modelli, le stranezze, le novità
degli stranieri cercando di adattarle a noi, sì che mentre si
snaturavano questi si smarriva il senso della nostra
originalità.120
La natura in primo luogo politica di questa prima fase
dell’“Italiano” si avverte anche nelle difesa tutta “selvaggia” del
fascismo squadrista, ben espressa in questo elogio del bastone
che porta la firma di Leo Longanesi:
Una legnata scancella l’altra, e tutte e due ti danno
ragione. […] Il bastone conta di più. Mi spiego: occorre
che il bastone non sia mosso dall’argento, ma dalla
convinzione, dalla buona fede … Conta di più perché se
���������������������������������������� �������������������119 G. CASINI, Prefazione all’Italiano, “L’Italiano”, 14 gennaio 1926, n. 1,
cit. in L. TROISIO, op. cit., p. 182 120
Ibid.
64 �
un giorno o l’altro l’argento si troverà di fronte al bastone
in buona fede, non gli resterà che ritirarsi.121
La presenza di Orlandi comporta inevitabilmente che nel
giornale compaiano polemiche contro l’Istituto delle
Comunicazioni e Farinacci, questioni verso cui probabilmente
Longanesi non nutre particolare interesse, ma che rappresentano
la contropartita dell’aiuto finanziario che “L’Italiano” riceve.
D’altro canto l’appoggio di una personalità di spicco come
Orlandi permette a Leo una certa copertura politica: fin dai
primi numeri infatti può usare libertà di giudizio anche nei
confronti di istituzioni vicine al regime.
Nonostante l’attenzione vada principalmente alle questioni
politiche, le prime uscite non negano uno spazio, seppur
limitato, ad argomenti di natura letteraria ed artistica: Malaparte
inizia la pubblicazione a puntate del suo romanzo Il reame dei
cornuti di Francia, nel quale però la polemica politica è pur
sempre presente. A questo si aggiunga che nel sesto numero
vengono prese le difese di Papini, oggetto di attacchi da parte
della stampa fascista, e che dall’ottavo numero iniziano a
comparire recensioni di opere letterarie.
2. Dal n. 9 alla svolta del 1930
Con il nono numero, datato 26 giugno 1926, “L’Italiano”
assume una veste più letteraria che politica. Ne danno conferma
le firme che compaiono sulla rivista, quali Cardarelli, Rosai,
Raimondi, Ungaretti, Carrà, Bartoli, Baldini, Morandi, Savinio,
Barilli, Angioletti, Vittorini e Moravia. Alcuni di questi
pubblicano sull’“Italiano” non solo scritti di critica letteraria, ma
anche le proprie prose o poesie; lo fanno, tra gli altri, Ungaretti e
���������������������������������������� �������������������121 L. LONGANESI, La morte di Nodoso, “L’Italiano”, 14 gennaio 1926, n.
1, cit. in L. TROISIO, op. cit., p. 188
65 �
Cardarelli; quest’ultimo affida al foglio di Longanesi gran parte
dei componimenti che formeranno Sole a picco.
Un ruolo determinante ai fini della centralità del lato letterario
ed artistico in questa seconda fase dell’“Italiano” è ricoperto
dall’incontro tra Longanesi e Raimondi. Quest’ultimo, essendo
stato segretario di redazione della “Ronda”, ha stretto amicizia e
condiviso interessi letterari e culturali con i collaboratori di
quella rivista, avvicinando poi ad essi il giovane Longanesi.
L’incontro con questo mondo comporta per Leo il progressivo
allontanamento dal “Selvaggio”. “L’Italiano” inizia ad avere
caratteristiche proprie, diviene una rivista indipendente dal
foglio di Maccari, dal quale pur, in un primo momento, ha tratto
contenuti e modalità d’essere. Questo allontanamento inizia
proprio da quella regione sociale inventata da Maccari,
“Strapaese”. “L’Italiano” ne diviene presto il vessillo, ma
modificandone i connotati: non più solo un elogio del paese
contro la città, ma una vera e propria “strategia del passato”122,
che vede nell’Ottocento il suo secolo di riferimento. Leo si rifà
al mondo che ha conosciuto in famiglia, un mondo fatto di “Re
Magi di gesso colorato, il Barbanera, i bastoncini di zucchero
filato alla vaniglia e quelle altre cento cose che il popolo
ama”123. All’invettiva “selvaggia” contro la modernità ora Leo
risponde con cadenze quasi crepuscolari:
Dove sono fuggiti i bambini che giocavano ai soldati? Il
vecchio cappello di carta di giornale dove è andato a
finire? E le palline di vetro colorato? E il cavallo a
dondolo? Forse i bambini non sanno più giocare. E i
razzi? (Quanti se ne compravano con due soldi!) E le
calcomanie? E i fiori cinesi che gettati in un bicchier
d’acqua si allargavano come macchie d’inchiostro sulla
carta assorbente? E i figurini della “Tobler”
���������������������������������������� �������������������122 A. ANDREOLI, Leo Longanesi, Firenze, La nuova Italia, 1980, p. 23 123 L. LONGANESI, Sermone, “L’Italiano”, 24 dicembre 1926, n. 16 – 17, p.
1, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 130
66 �
internazionale della nostra infanzia, chi li raccoglie
più?124
Longanesi entra nel mondo “strapaesano” con la personalità e la
sensibilità che lo contraddistinguono. La civiltà moderna diventa
l’obiettivo della polemica non perché lontana dall’italianità che
“Il Selvaggio” riteneva trovarsi solo in paese, ma perché
volgare, sciatta, lontana dall’ideale di bellezza che Leo
predilige:
Figli di un’epoca malata e di fretta, man mano che
crescono i vizi e scema la sensibilità, noi vediamo, quasi
senza accorgersene, lentamente scomparire i resti del
grande secolo che precedette il nostro. L’Ottocento sta
ormai per sfumare del tutto col suo odore di candela
stearica: cadono le sue glorie, le sue miserie, i suoi colori.
Con la guerra, su questo secolo d’argento, è caduto il
sipario, e un odore di benzina ha appestato l’aria.125
Allo stesso modo la città è vista in modo negativo perché cupa e
pericolosa, anche quando è tenuta dai fascisti:
Bologna notturna è tremendamente fascista: i portici
rimbombanti e tetri, le strade strette e buie, le torri, i
merli, i fanali piagnucolosi, fanno pensare alla guerra
civile. Quando ritorno a casa rasentando i muri, mi
convinco sempre di portare un ordine segreto ad un
lontano signorotto fascista che trama nell’ombra. […] I
ciottoli sotto le suole li sento come tanti crani.126
Ecco allora che “Strapaese” si allontana dal “Selvaggio” per
trasferirsi nell’Ottocento. La predilezione di Leo per questo
secolo è confermata anche dal fatto che “L’Italiano” esca a
“caratteri tutti Bodoniani e Aldini”127 e che, in uno dei numerosi
spunti autobiografici, Longanesi retrodati la sua nascita al
���������������������������������������� �������������������124 L. LONGANESI, Bambini, “L’Italiano”, 15 ottobre 1928, p. 2, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 130 125 L. LONGANESI, Barnum Museum, “L’Italiano”, 15 ottobre 1928, n. 12 –
13, p. 2, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 130 126 L. LONGANESI, “L’Italiano”, 26 giugno 1926, cit. in P. ALBONETTI,
C. FANTI, op. cit., p. 15 127 Lettera di Longanesi a Camillo Pellizzi datata gennaio 1926, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 12
67 �
1805128, così da farsi contemporaneo di Bodoni e della grande
tradizione tipografica italiana.
La battaglia “strapaesana” di Longanesi è condotta soprattutto
sul fronte del costume; inizia con “un’intelligente satira
antidannunziana”129, che pecca forse di essere un po’ troppo
elitaria:
Chi ha inventato i mobili uso antico? Lui. Chi ha
scoperto De Karolis? Lui. Chi ha viziato San Francesco?
Lui. Chi ha portato i levrieri nel pineto? Lui. Chi ha
lustrato l’elmo di Scipio? Lui. Lui è il padre di tutti i vizi,
lui il Grande Occidente delle Rettorica!130
La battaglia sul fronte del costume continua con un ritratto del
nuovo italiano, uomo capace di amare “le cose esatte, precise,
simmetriche, sode e piene”, “di vedere cioè le cose come sono e
rifarle come sono”131, cittadino che “non manca di solidi
ragionamenti che, senza aver fatto grandi studi, gli consentono
di passare per uno stimato galantuomo”132. “Ha l’orgoglio di
vivere e di essere italiano”133 ed “è attaccato assai alla vita, ma è
anche quello che più facilmente la mette in pericolo”134.
La battaglia in nome del buon costume si avvicina ad un
pubblico più vasto attraverso un genere nazional-popolare come
la cantata: ne compaiono diverse tra le pagine dell’“Italiano”,
ma forse la più rappresentativa è la Cantata dell’Arcimussolini,
un componimento dai tratti popolari formato da cinque strofe di
���������������������������������������� �������������������128 P. ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 12 129 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 129 130 L. LONGANESI, E’ stato lui!, “L’Italiano”, 15 febbraio 1927, n. 1 – 2, p.
3, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 129 131 L. LONGANESI, Il classicismo degli italiani, “L’Italiano”, 28 febbraio
1926, n. 4, p. 1, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 131
132 G. RAIMONDI, Sganello, Ritratto di un servo fedele, “L’Italiano”, 21 marzo 1927, n. 3 – 4, p. 2, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 131
133 C. PAVOLINI, Esperienza dell’estate, “L’Italiano”, 24 dicembre 1926, n. 16 – 17, p. 3, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 131
134 L. LONGANESI, Il classicismo degli italiani, cit., cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 131
68 �
dieci versi ciascuna, a rima alternata, con ritornello in rima
baciata:
Il vento rompe gli orizzonti / la luce s’amplia leggera /già
si spalancano sui monti / chiari i cieli di primavera. /
Nelle selve cantan le fonti / bianca è l’alba e rossa è la
sera / dall’incendio dei tramonti / il bel tempo ormai si
spera. / Spunta il Sole e canta il gallo / o Mussolini monta
a cavallo. / Dacci pane per i nostri denti / fantasie e
cazzottature / ogni specie d’ardimenti / di mattane e
d’avventure. / Non ci mancan gli argomenti / e le pere
son già mature / siamo tutti pronti e attenti / pugni sodi e
teste dure. / Spunta il Sole e canta il gallo / o Mussolini
monta a cavallo …135
Attorno al ’27 la vicinanza di Longanesi a “Strapaese” inizia a
mostrare cedimenti, anche se Leo dedica a questo movimento
parecchie forze, tanto da far ritardare la pubblicazione di alcuni
numeri dell’“Italiano”136. Si occupa infatti della stesura
dell’Almanacco di Strapaese137 in collaborazione con Maccari:
si tratta dell’ultimo lavoro in questa direzione, dopo cui Leo si
allontanerà dalle posizioni “strapaesane” per avvicinarsi con
entusiasmo alla letteratura straniera e “cittadina”. E’ lo stesso
Longanesi a confermare questo in una lettera a Fornari, a cui
confida che “proprio L’Almanacco era stato la pietra tombale di
‘Strapaese’”138, e in un’altra destinata a Pellizzi, in cui si legge:
Sto scrivendo qualcosa attorno a questa benedetta arte
fascista e colgo l’occasione per definire una buona volta
la nostra posizione che non è quella di “Strapaese” ad
oltranza, vale a dire letteratura agraria e reazionaria, di
maniera, eccetera. Scrivi che noi siamo moderni, e
crediamo in un’Italia moderna attaccata alla tradizione
ma che non resti ultima in Europa. L’industria non ci fa
���������������������������������������� �������������������135 “L’Italiano”, 30 giugno 1927, n. 7 – 8 – 9, p. 2, cit. in I. MONTANELLI,
M. STAGLIENO, op. cit., p. 335 136 In una lettera di Longanesi a Pellizzi datata autunno – inverno 1928 si
legge: “‘L’Italiano’ ritarda la sua uscita perché sto facendo L’Almanacco
di Strapaese che mi fa sudare sette camicie”, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 143.
137 L. LONGANESI, M. MACCARI, L’Almanacco di Strapaese, Bologna, L’Italiano Editore, 1928
138 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 154
69 �
schifo: io credo nella tipografia di raggiungere un
primato industriale.139
In questo secondo periodo dell’“Italiano” Longanesi mette tutto
se stesso: lo fa nella scelta, a lui più congeniale, di dare
maggiore spazio alla componente artistica rispetto a quelle
politica, nella rivisitazione in chiave ottocentesca di “Strapaese”,
nella scelta di trattare anche letteratura straniera, si vedano ad
esempio gli scritti di Ungaretti e Raimondi sull’arte francese
accanto alle traduzioni di Alain, Julien Green, Cocteau,
Cendrars e Georges Seurat140, attenzione che si svilupperà
meglio dopo il 1930. “Dileggiando, servendo, negandosi,
blandendo, colpendo e maledicendo, civettando e rabbuffandosi,
Longanesi trasmetteva alla sua rivista tutta l’ambiguità e vitale
polivalenza del suo eccezionale ed eccessivo temperamento”141.
Se questo è vero in generale, lo a maggior ragione quando si
parla di politica, argomento che, seppur posto in secondo piano,
non viene mai a mancare tra le pagine dell’“Italiano”. La rivista,
come il suo direttore, sostiene un’adesione totale al fascismo,
ma si riserva di difendere espressioni artistiche condannate dal
regime, o di criticare personalità tra gli alti ranghi del partito.
Leo non manca di usare libertà di giudizio nemmeno nella scelta
dei suoi collaboratori, che mai vengono prescelti sulla base di
criteri politici; lo stesso Raimondi non nutre profondi sentimenti
fascisti, e la cosa è risaputa, tanto da creare malumori all’interno
della redazione. La libertà di Longanesi e del suo giornale passa
attraverso “la satira, un certo modo polemico di esprimersi, un
linguaggio risentito, una certa intonazione scanzonata”142, che
rende “L’Italiano” una rivista giovane, veloce, dinamica, tanto
lontana dall’aulico linguaggio ufficiale. E’ questo che forse, più
d’ogni altro tratto, distingue e caratterizza “L’Italiano” di questi
���������������������������������������� �������������������139 Lettera di Longanesi a Pellizzi datata intorno al 15 ottobre 1930, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 154 140 B. ROMANI, C. BARILLI, op. cit., p. 47 141 G. PETRONI, Presentazione, in B. ROMANI, C. BARILLI, op. cit., p. 13 142
Ibid., p. 11
70 �
anni: si tratta di “un’inquinata irrequietezza”, di
“un’indisciplina” che esercitano attrazione sui giovani
intellettuali del tempo e che “assecondano le esigenze della
generazione a cui le libertà del passato sono state precluse e
l’oscurantismo del presente tende a soffocare”143.
3. Dal 1930 al 1942
Gli ultimi mesi del ’29 sono per Longanesi poveri di
soddisfazioni: i recenti numeri dell’“Italiano” non sono
particolarmente brillanti e il nuovo incarico di direttore
dell’“Assalto”, pur garantendogli un salario fisso, non gli
permette di portare nella rivista del fascismo bolognese
indipendenza e dinamicità. L’attenzione di Leo allora è tutta per
“L’Italiano”, che ha in progetto di rinnovare. “E del resto il
cambiamento, il rinnovarsi di continuo, sono per lui una
necessità fisiologica. Riesce a vedere le cose da presbite, con
fortissimo anticipo sugli altri”144. In una lettera a Pellizzi Leo
rivela la svolta che ha in mente:
Ti avverto che, dopo il numero che sta per uscire,
“L’Italiano” cambierà tutto: vale a dire ridurrà il formato
e crescerà il numero delle pagine. Invece di 4 saranno 8 o
12 e le colonne 2 invece di 4. Questa riforma tipografica
non va da sola; accanto a lei sarà fatta quella letteraria e
politica. “L’Italiano” non perderà il suo vecchio carattere,
ma assumerà un tono diverso, più serio, più nebuloso e
più specifico. Ridurremo gli articoli politici e tratteremo
ogni argomento da un punto di vista antiborghese. Vedrai
il primo numero. Credo non opportuno seguitare il
“magazzino”: non è aria. I gerarchi bisogna lasciarli in
pace; poi, infine, non interessano più: occorre cambiar
strada e prendere le mosse molto di lontano. E’ bene
parlar di cravatte (politiche), di pittura (politica), di
���������������������������������������� �������������������143
Ibid., p. 10 144 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 160
71 �
usanze, di fisionomie, etc. […] G. Contri è uno dei tanti
“volitivi”, non ne ho bisogno.145
I cambiamenti annunciati in questa lettera sono diversi, vanno
dalla veste tipografica ai contenuti. Il primo di questi è evidente
dal 9 gennaio 1930, quando il giornale esce in formato medio. Si
tratta però solamente di un momento di transizione, se Leo
avesse i mezzi passerebbe direttamente alla scelta del ’31, ossia
al piccolo formato, con quaranta pagine, sovraccoperta a colori,
composizione su un’unica colonna e tavole fuori testo con
fotografie. La novità tipografica del nuovo “Italiano” è proprio
questa, l’introduzione per la prima volta in carta lucida delle
immagini; queste hanno la funzione non solo di illustrare il
contenuto degli articoli, ma anche di creare una particolare
atmosfera attorno agli stessi, di completarli. L’attenzione per la
fotografia inizia nelle tavole fuori testo dell’“Italiano” per
arrivare diritta ad “Omnibus”, dove il documento visivo assume
compiutamente la funzione integrativa, e non solo esplicativa,
del testo scritto.
Non solo cambiamenti tipografici, ma anche relativi ai contenuti
della rivista; come già annunciato nella lettera a Pellizzi, gli
articoli a sfondo politico diminuiscono sempre più. Leo inizia a
sentire il peso della censura, di non poter esprimersi con la
libertà desiderata, ma di doversi piegare a scrivere articoli che
compiacciano Mussolini, nella speranza di ottenere così qualche
finanziamento in più. E il dubbio sulla validità del fascismo si fa
largo in Longanesi; la cosa non sfugge ai suoi più stretti
collaboratori, alcuni di loro lo accusano infatti di incoerenza, ma
per Leo dubitare non significa certo passare all’opposizione,
piuttosto cercare una via alternativa per esprimersi, che sia, in
qualche modo, utile e valida. Ecco cosa scrive a Pellizzi in
risposta all’accusa di incoerenza e al suggerimento da parte
dell’amico di cessare la pubblicazione dell’“Italiano”:
���������������������������������������� �������������������145
Ibid., p. 161
72 �
Per essere coerenti, dovremmo essere convinti che
abbiamo rovinato l’Italia, che non potremo fare altro che
mangiare questo pane fascista per sempre. Per essere
coerenti? Coerenti con che cosa? Con noi stessi, tu dici?
Ebbene, noi siamo i più coerenti, gli unici, forse. Io credo
che bene o male il fascismo conduca la barca in porto;
che noi potremo seguire la strada, eccetera, eccetera, cose
che tu sai. Noi non possiamo scrivere ciò che vogliamo, è
vero, nel senso assoluto, ma in senso ristretto qualcosa
scriviamo, non inutile. […] Del resto “L’Italiano”, bene o
male, una sua funzione ce l’ha: è l’unico giornale che si
possa leggere. Poi quante cose abbiamo dette e abbiamo
ancora da dire! Arte, letteratura, costume, eccetera, cose,
queste, che rientrano tutte nella politica, per noi.146
Espressioni come “in senso ristretto” o “bene o male” ci parlano
di un Longanesi che cerca di adattarsi, ma che non riesce certo a
celare un’insoddisfazione profonda, che si fa ancora più dura da
sopportare quando, nell’ottobre del ’31, viene dimissionato
dall’“Assalto” per aver scritto contro il senatore Tanari. Nei tre
mesi successivi “L’Italiano” non esce. Riprende le pubblicazioni
solo nel gennaio 1932; da qui in avanti Leo esclude
definitivamente ogni intervento politico.
D’altra parte Leo ha confidato e continua a confidare molto più
nella satira che nell’articolo politico aperto. Con quest’arma egli
colpisce tutta la società del suo tempo, non risparmiando nulla al
conformismo e ai luoghi comuni, mettendo ciascuno davanti ai
propri difetti. “L’Italiano” diventa così una specie di “catalogo
del mondo, uno specchio in cui tutti devono riconoscersi, a
partire dalla borghesia, per inorridire (o ridere) di quei loro
difetti, e compensare con le virtù ottocentesche dei loro padri la
volgarità dei tempi nuovi”147. Quella di Longanesi è un battaglia
sul fronte del costume, in cui la politica, per forza di cose, entra
in punta di piedi e sottovoce, nascosta dietro i modi di vestire, le
abitudini, i gerghi di un mondo a cui “L’Italiano” fa il verso.
���������������������������������������� �������������������146 Lettera di Longanesi a Pellizzi datata dicembre 1930, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 166 147 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 162
73 �
Ecco allora articoli come Il successo nella vita, in cui Leo,
commentando un galateo del buon borghese, guarda con
superiorità ed ironia al mondo in cui vive, fino ad arrivare ad un
intero numero dell’“Italiano” dedicato agli “usi e costumi”, “con
un elenco di quanto più fatiscente e banale c’è nel regime”148.
Se la politica è fuori gioco tutte le attenzioni di Longanesi si
rivolgono altrove; il seguito della lettera a Pellizzi lo mostra
chiaramente:
Se seguiremo così “L’Italiano” diventerà per davvero un
giornale importante, anche se non è troppo ascoltato,
anche se non ha quattrini, anche se finiremo col farlo solo
noi due. A poco a poco perdo tutti i collaboratori, ma non
importa, purché non mi lasci solo nella peste. D’ora
innanzi ti scriverò spesso, tutte le settimane, così potremo
metterci d’accordo. Ti manderò qualche libro interessante
perché tu possa restare al corrente. Col prossimo numero
inizieremo la pubblicazione di un inedito di Gogol,
Diario di un folle. Se avrò qualche soldo, conto di
inserire nel giornale due pagine in carta lucida per poter
stampare qualche clichés a retino. Sto appunto
preparando il materiale fotografico per due di queste
pagine dedicate ai cafoni d’Italia. Stamperò veri ritratti di
impiegati coi capelli ricci, alla zulù, di signore, di soldati,
di deputati, di commendatori, etc. Ti piacerà certamente.
Bisogna insistere su questo tasto, infine è l’unico che
ancora ci sia permesso di toccare.149
Toccando gli unici tasti permessi, con la passione e la dedizione
per la carta stampata che lo contraddistinguono, Longanesi
riesce a fare del suo giornale un importante rivista di letteratura
e costume, in cui trovano spazio autori italiani e stranieri,
narrativa e poesia, nonché approfondimenti su tematiche nuove
e accattivanti come il cinema.
Largo spazio viene dedicato alla narrativa, con racconti di
Moravia, Comisso, Savino, Soldati e Tobino, mentre la
���������������������������������������� �������������������148
Ibid., p. 164 149 Lettera di Longanesi a Pellizzi datata dicembre 1930, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 166
74 �
polemica letteraria , che era stata protagonista fino al 1930, si
trasferisce ai margini della rivista per lasciare posto alla
letteratura popolare. Viene infatti bandito un premio nazionale
di poesia a cui partecipano “331 insegnanti, 117 militari, 190
operai, 73 contadini, 265 liberi professionisti, 131 impiegati,
146 studenti e 103 di varie professioni, per un totale di 5000
componimenti”150. Il primo premio viene vinto da Giuseppe
Simone, un contadino della provincia di Bari. La sua poesia
compare tra le pagine dell’“Italiano” accanto agli scritti più
significativi degli altri partecipanti, introdotti dal commento:
Il vincitore è forse l’unico sul quale le letture siano
passate lisce, e che forse non abbia letto nulla all’infuori
dei Reali di Francia e di Dante: vitale nutrimento delle
notti italiane. Le liriche del Simone appartengono in
pieno alla tradizione popolare e stanno a molte di quelle
degli altri concorrenti come la pittura Rousseau il
Doganiere ad un’accademia decaduta.151
Accanto all’interesse per la letteratura popolare vi è anche
l’attenzione verso la quella straniera; la distanza tra questo
“Italiano” e “L’Italiano” del ’26 è evidente, se si considera che
nel primo numero Gherardo Casini scrive:
I popoli nordici hanno la nebbia, che va di pari passo con
la democrazia, con gli occhiali, col protestantesimo, col
futurismo, con l’utopia, col suffragio universale, con la
birra, con Boekling, con la caserma prussiana, col cattivo
gusto, coi cinque pasti e la tisi Marxista. L’Italia ha il
Sole, e col Sole non si può concepire che la Chiesa, il
classicismo, Dante, l’entusiasmo, l’armonia, la salute
filosofica, il fascismo, l’antidemocrazia, Mussolini.
Questo giornale cercherà di dissipare le nebbie nordiche
che sono scese in Italia per offuscare il Sole che Dio ci ha
dato.152
���������������������������������������� �������������������150 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 195 151
Concorso nazionale per una poesia, “L’Italiano”, dicembre 1932, n. 16, pp. 227 – 228, cit. I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 196
152 G. CASINI, Prefazione all’Italiano, cit.
75 �
Già nel ’30 Longanesi si è espresso contro l’autarchia culturale
mostrando il desiderio di far confluire brani di autori stranieri
nell’“Italiano”, in modo da farne “una rivista un po’ europea”153.
Troviamo infatti, tra gli altri, Hemingway, col racconto I
Sicari154, tradotto da Moravia, Dos Passos con Mister Wilson
155
e Sherwood Anderson con Una casa156. L’interesse per le
letteratura straniera, così lontana dal movimento “strapaesano”,
trova il suo culmine nel numero del maggio 1931, dedicato
interamente alla letteratura russa. E’ un tema, questo, che
sicuramente fa scalpore nell’Italia fascista, ma che dice anche
qualcosa sull’ampiezza degli orizzonti culturali di Leo, che
propone al suo pubblico scritti praticamente sconosciuti. La
presentazione che ne fa Comisso157 non è delle migliori, ma vi
seguono racconti di autori come Zoscenko e Siolochov.
Il numero dedicato alla letteratura russa è solo il primo di una
serie di uscite monografiche, tra cui spiccano quella sul cinema,
sulla caricatura e sul nazismo. La pubblicazione riguardante il
cinema esce nel gennaio del 1933 e dimostra la competenza di
Longanesi anche in questo campo. Egli infatti ha intuito
l’efficacia del film non solo come spettacolo, ma come mezzo di
comunicazione di massa e, sotto questo aspetto, ha più di
qualche critica per l’istituto L.U.C.E.:
���������������������������������������� �������������������153 Lettera di Longanesi a Pellizzi datata marzo 1932, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 193 154 “L’Italiano”, agosto 1933, n. 21, pp. 228 – 235, cit. in I. MONTANELLI,
M. STAGLIENO, op. cit., p. 176 155 J. LOS PASSOS, Mister Wilson, “L’Italiano”, novembre 1932, n. 15, pp.
259 – 261, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 176 156 S. ANDERSON, Una casa, “L’Italiano”, gennaio – febbraio 1940, n. 60 –
61, pp. 83 – 85, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 176
157 “Un realismo a volte crudelissimo si vela e si sfuma in molli immagini romantiche, piccoli accenni ad una prosa semplice ed efficace sviano in cadenze enfatiche […]. Lo scrittore russo, rotti i ponti col passato, non è ancora in grado di esprimersi con nuovo stile e nuovi intenti, ma nel passato rimastica le forme meno felici e i temi più sfruttati. Novanta volte su cento le persone di questi racconti sono ciechi o tubercolotici o pazzi”. G. COMISSO, La giovane letteratura sovietica, “L’Italiano”, maggio 1931, n. 3, pp. 116 – 117, cit. in L. TROISIO, op. cit., p. 215
76 �
Il film in Italia è stato preso troppo alla leggera: l’Istituto
L.U.C.E., per esempio, che poteva essere qualcosa di
serio e di giovevole, non è infine che una inutile e
quotidiana pubblicità gerarchica. Vista una volta una
pellicola della L.U.C.E. basta per sempre. Il pubblico
finirà con l’annoiarsi se si pensa che fra dieci anni
vedremo per l’ennesima volta i dopolavoristi in gita di
piacere.158
Se la propaganda fascista non ha compreso, o semplicemente
non sa utilizzare, le enormi possibilità del mezzo a sua
disposizione, c’è chi invece sembra aver ben appreso la lezione:
“i bolscevichi, invece, hanno creato un film di propaganda
perfetto ed utilissimo, che consiste, come nella Corazza
Potemkine, nel sostituire al vecchio film patetico e borghese, un
film, che dal primo all’ultimo quadro, è tutta una condanna del
regime zarista”159. L’articolo citato risale al 1928, ma le sue
posizioni rimangono le stesse anche nel numero del ’33, dove le
critiche alla propaganda fascista sono ancor più mirate: “Il
L.U.C.E. annoia e non serve il regime; ha la stessa funzione
della ‘Domenica del Corriere’. […] Per spiegare agli italiani le
ragioni che hanno indotto il governo alla costruzione della
Littoria, si sono fotografati il Palazzo delle poste e telegrafi e
mille balilla vestiti di nuovo. Un vero sforzo!”160.
Non solo il cinema italiano sfrutta male le possibilità
propagandistiche che potrebbero servire la causa fascista, ma è,
secondo Leo, estremamente noioso: “Ogni film è la ripetizione
di quello precedente, si mutano gli attori, i metteurs en scène, le
scene, le macchine, le trame, le gestioni, ma la cinematografia
italiana non sa staccarsi dal teatro e dalle istantanee”161. Si è
formato, in Italia, una sorta di paradigma di film “tipico,
inconfondibile, sciocco e monotono che non riesce a vivere né a
���������������������������������������� �������������������158 L. LONGANESI, Kodak, “L’Italiano”, 15 ottobre 1928, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 197 159
Ibid. 160 L. LONGANESI, Film italiano, “L’Italiano”, gennaio – febbraio 1933, n.
17 – 18, p. 60, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 198 161
Ibid.
77 �
morire, un film al quale dovremo divertirci per solidarietà
nazionale”162. Il cinema italiano si limita a descrivere, a
raccontare, a “far passare una serie di cartoline patinate”163, ma
non sembra avere una finalità precisa, e in questo, secondo Leo,
sta uno dei suoi maggiori limiti:
La cinematografia italiana fino ad oggi non ha avuto
alcun mito, pressappoco come la letteratura […]. Occorre
saper dare un’interpretazione della realtà. La nostra
cinematografia, al contrario, si accontenta di ritrarre gli
aspetti più sciocchi della vita italiana senza aggiungervi
un grado di intelligenza, una protesta, una critica.164
Già da queste righe è evidente come Longanesi abbia chiaro un
modello di film, che sappia fare un propaganda intelligente, che
non sia ripetitivo, che legga la realtà in modo critico, e che,
soprattutto, sia realistico. Leo critica al cinema americano di
essere legato all’effetto speciale, al dettaglio artificiale che attrae
lo spettatore, ma allontana dalla realtà:
Essi commuovono il pubblico, ma non riescono a
trasportarlo in un mondo dove la sola realtà sia
l’elemento cinematografico. Sono troppo preoccupati di
mostrare la loro abilità per rinunziare agli effetti di luce,
al gioco delle figure nel quadro, agli elementi decorativi e
rettorici della loro cinematografia. Non rinunziano al bel
cavallo che s’impenna a pochi passi dall’obiettivo, a una
nube che si rispecchia nell’acqua di un lago, all’ombra
che divide un volto, alla macchia di Sole che rallegra un
cortile, alle pozzanghere di una via rischiarate dalla luce
dei riflettori, a tutte le facili e le difficili applicazioni
della camera. Le realtà poco li interessa: sono
approssimativi.165
Ciò che interessa a Leo è la realtà, a suo parere molto più
accattivante dei virtuosismi cinematografici; la difficoltà sta nel
���������������������������������������� �������������������162
Ibid. 163
Ibid. 164 L. LONGANESI, L’occhio di vetro, “L’Italiano”, gennaio – febbraio
1933, n. 17 – 18, pp. 36 – 37, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 201
165Ibid.
78 �
vedere il vero sotto una luce diversa, scoprirlo dal velo
dell’abitudine e portare all’attenzione dello spettatore quel “di
più” che la realtà nasconde: “il cinematografo, superata la
pittura in movimento, le letteratura, le bizzarrie tecniche e
l’operetta, cercherà sempre più una maggiore aderenza al vero,
portando sullo schermo i segreti che solo una macchina da presa
sa rapire alla realtà”166.
Altro numero monografico dell’“Italiano”, che parla della
versatilità del giornale stesso e del suo direttore, è quello
dedicato alla caricatura pubblicato nel dicembre del ’36. In Italia
il gusto per questa disciplina è venuto meno, ciononostante
Longanesi pubblica ben quattro numeri che hanno come unico
protagonista questo argomento. Non si tratta solamente di un
bella raccolta, al suo interno possiamo riconoscere ancora una
volta l’indipendenza di Leo: rende infatti omaggio a George
Grosz, perseguitato in Germania e rifugiato in America,
definendolo “il più grande disegnatore contemporaneo” e ad
altri antinazisti come Otto Dix; accanto a loro elogia Galantara,
odiato da Mussolini, e lo chiama “il primo caricaturista
italiano”167.
Scopriamo la libertà di giudizio di Longanesi anche nel numero
monografico assai polemico nei confronti del razzismo e
antisemitismo tedeschi, pubblicato nel novembre 1934. Leo si
era interessato alla Germania già qualche anno prima
pubblicando due aforismi di Hitler168, ora raccoglie scritti e
materiale fotografico per Ansaldo, che redige quasi
completamente questo numero. Longanesi sembra piuttosto
soddisfatto da questa uscita, almeno da quanto scrive al suo
collaboratore: “Il n. 29 dell’‘Italiano’ è andato benissimo come ���������������������������������������� �������������������
166Ibid.
167 B. ROMANI, C. BARILLI, op. cit., p. 26 168 “Se la Germania avesse un milione di bambini e ne sopprimesse sette o
otto mila tra i più deboli, ne risulterebbe un aumento di forze” e “anche i grandi mutilati di guerra hanno il dovere di mettere fine alla loro vita ormai inutile”, “L’Italiano”, novembre 1932, n. 15, cit. in P. ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 26
79 �
vendite e ha ottenuto successo ovunque; tutto merito suo”169.
Avrebbe desiderato fare un secondo numero sull’argomento, ma
ai primi del ’35 informa Ansaldo di “lasciare da un canto la
Saar”170, non è più il tempo per contraddire la Germania.
Questo numero dell’“Italiano” rivela certo l’indipendenza di
Longanesi, ma ne mette in luce anche le contraddizioni; Leo non
è in realtà un sincero antirazzista, o quanto meno non lo è fino in
fondo. Nei numeri 5 – 6 del ’27 si legge di Italo Svevo: “è da
lasciare alla sinagoga di Trieste”171; a questo si aggiungano vari
aforismi, disseminati qua e là tra le pagine dell’“Italiano”, poco
generosi nei confronti degli ebrei. A motivare, almeno in parte,
tale contraddizione interviene il poco interesse che Longanesi ha
per la politica, la sua attenzione si posa più volentieri sul
costume, sulla letteratura, sull’arte. Se poi la questione politica,
o in questo caso razziale, diventa utile per rendere più amara una
polemica, ben venga. Svevo non viene attaccato perché ebreo,
più semplicemente Longanesi non lo ha in simpatia e utilizza
ogni freccia al suo arco, anche quella antisemita. Infatti, pur
trattandosi di un autore meritevole, non troviamo nessun suo
scritto tra le pagine dell’“Italiano”, come non c’è traccia
nemmeno di Saba, Pirandello o Montale.
Nonostante questo, “L’Italiano” rimane una rivista
dall’importante funzione sul piano della letteratura e del
costume, meno sul piano della politica. Sotto questo aspetto il
giornale perde sempre più mordente polemico, sia perché, come
già detto, la censura costringe al silenzio, ma anche perché
Longanesi, a partire dalla metà degli anni Trenta, progetta
“Omnibus”, su cui riversa tutta la sua abilità e versatilità.
Inevitabilmente trascura “L’Italiano”, che esce negli ultimi anni
���������������������������������������� �������������������169 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata fine 1934, cit. in P. ALBONETTI,
C. FANTI, op. cit., p. 26 170 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata inizio 1935, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 26 171 “L’Italiano”, giugno 1927, n. 5 – 6, cit. in B. ROMANI, C. BARILLI, op.
cit., p. 33
80 �
con una periodicità non regolare e vede il suo ultimo numero nel
’42.
81 �
Capitolo IV: “Omnibus”
1. La nascita di “Omnibus”
Sebbene il primo numero di “Omnibus” porti la data 3 aprile
1937, Longanesi lo progetta già dal 1930: “Fui a Roma, tempo
fa, e parlai col Duce per la rivista che sembra si faccia:
speriamo”172, scrive in una lettera a Pellizzi. Le cose però non
vanno come Leo si aspetterebbe, infatti Mussolini preferisce non
autorizzare l’apertura di una nuova rivista, ma piuttosto
finanziare “L’Italiano”. E’ ancora lo stesso Longanesi a
confidarlo in uno scritto a Soffici: “Caro Soffici, visto che ogni
speranza di mettere insieme quella famosa rivista è scomparsa,
ho deciso di fare ‘L’Italiano’ di quaranta pagine”173. Leo deve
aspettare fino al dicembre del 1935 per avere l’assenso di
Mussolini; appena lo riceve scrive entusiasta ad Ansaldo: “Caro
Ansaldo, sono stato ricevuto dal Duce. Egli è stato gentilissimo
ed io sono assai contento. […] La faccenda Rizzoli è ormai alla
fine: il Duce mi ha dato il consenso; ora, se non se lo mangia il
Ministero, potrò finalmente dirigere questo settimanale”174.
Sono trascorsi ormai tre mesi dall’inizio delle operazioni militari
in Libia e l’avventura coloniale sembra procedere bene;
Mussolini è all’apice della popolarità e il sogno dell’impero
contagia tutti. Leo non fa altro che cogliere il momento e girarlo
a proprio vantaggio. Il Duce progetta un giornale illustrato, che
attiri le masse, che sia, prima di tutto, un efficace strumento di
propaganda; e Leo glielo fa credere.
���������������������������������������� �������������������172 Lettera di Longanesi a Pellizzi datata settembre – ottobre 1930, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 168 173 Lettera di Longanesi a Soffici datata 13 gennaio 1931, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 169 174 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 23 dicembre 1935, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 220
82 �
I primi contatti con Angelo Rizzoli risalgono a metà del ’35.
L’editore non è nuovo ad imprese di questo tipo, si è infatti già
avventurato tra la stampa a rotocalco pubblicando alcuni
periodici femminili e, davanti alle promesse di Longanesi, non si
tira indietro. Tuttavia, sono proprio lui e la sua prudenza a far
ritardare l’esordio del giornale. Si tratta di mesi difficili per Leo:
l’attesa lo rende inquieto e timoroso. Leggiamo infatti in una
delle tante lettere ad Ansaldo:
Fino ad oggi 12 settembre Rizzoli non mi ha né
telefonato né cercato in altro modo. Qui si dice che sia
stato scelto come direttore del nuovo settimanale
Lombrassa. Non ho molte speranze di riuscita: è un po’ il
mio destino quello di arrivare tardi. Monicelli non mi è
antipatico e lavorerei volentieri per lui. Credo, tuttavia,
che il settimanale uscirà diretto da Lombrassa. Ciò non
significa che il giornale sia ben fatto, ma questo non
conta.175
I timori accompagnano Longanesi fino a novembre, quando
scrive: “sono così abituato a non avere nulla che questa volta
non credo proprio che accadrà il contrario”176. Invece accade;
alla fine di gennaio del ’36 Leo si sente dire dal Duce: “Ti
informo che sarai direttore di ‘Omnibus’. […] Lo sarai con
Monicelli”177. Ma di lì ad una decina di giorni una nuova
convocazione di Mussolini: “Monicelli farà l’amministratore, a
te la direzione”178. Ora Leo ha finalmente quello che desidera:
“Omnibus”.
A scoprire le sue intenzioni collabora il titolo stesso, che
richiama un mezzo pubblico per il trasporto delle persone che in
Francia viene chiamato Voiture omnibus, ossia “veicolo per
tutti”. Il giornale di Longanesi vuole essere proprio questo, un
mezzo di locomozione su cui tutti possano salire, non un
���������������������������������������� �������������������175 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 1 agosto 1936, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 228 176 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 30 novembre 1936, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 29 177 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 230 178
Ibid.
83 �
prodotto destinato ad un pubblico ristretto. Leo non si rivolge
solamente a lettori interessati ai fatti politici, o a letterati che
cerchino una recensione accurata dell’ultimo romanzo, o a
signore che desiderino sfogliare un periodico femminile, Leo si
prefigge il non facile compito di parlare a tutti questi in una sola
rivista. Vi trovano infatti spazio i commenti politici, gli scritti
letterari, la pagina dedicata alla moda e al costume, il cinema e
ogni argomento d’attualità. L’obiettivo di raggiungere il grande
pubblico attraverso un giornale popolare si realizza: il primo
numero vende quarantaduemila copie, nei successivi si arriva ad
una tiratura di centomila copie. Mussolini non sembra
concordare con il titolo scelto da Longanesi, avrebbe preferito
“Romolo”, un nome altisonante e legato alla romanità da lui
tanto invocata, ma lascia a Leo questa libertà: “«e il titolo? Cosa
mi dici del titolo?» domanda ancora ad un Longanesi per metà
contento e per metà deluso. «Ma come, Duce, l’abbiamo deciso
insieme». «Scelta tua: a me sembra un tranvai. Puoi andare,
buon lavoro»”179.
I lavori iniziano dalla testata, su cui Longanesi non risparmia il
suo talento tipografico:
Sforbiciando, tagliando, con una squadratura, un po’
d’ombra sopra un fondo di retino grigio, su vecchi
caratteri regalatigli da Zeglio ne inventò uno nuovo, col
massimo del rilievo. La sua passione artigianale si
scatenava su altri caratteri, marmorizzandoli con vecchia
carta da parati, sovrapponendo bianco a nero per dare
effetti concavi, o contrastando un grisé su fondo scuro.
Procedeva per tentativi, con un istinto così sicuro che
l’esperimento riusciva. Ma Leo, incontentabile, cercava
nuove soluzioni, mescolando insieme aldini ed elzeviri,
bodoni ed egizi, sempre con risultati sorprendenti.180
La testata fa capo a sedici fogli, riempiti da grandi immagini e
articoli disposti in sei colonne. La prima pagina è dedicata ad un
���������������������������������������� �������������������179
Ibid. 180
Ibid., p. 233
84 �
commento politico sul fatto del giorno, in genere stringato e
conciso per lasciar spazio ad una fotografia che occupa da sola
quasi la metà della facciata. La seconda si apre con la rubrica
Guerra e Pace, dedicata alla politica estera, quella che più di
ogni altra reca fastidio a Mussolini per non essere allineata come
dovrebbe alle scelte del regime. Seguono in terza pagina saggi
riguardanti temi di vario genere accanto ad una colonna
intitolata di volta in volta Storie brevi, Carte parlanti o Giro del
mondo, dove vengono ospitati racconti divertenti, aneddoti e
curiosità. La quarta, la quinta e la sesta pagina raccolgono
racconti in traduzione, servizi dall’estero, note di costume e
rubriche di moda, come Ventaglio, curata da Irene Brin. In
settima pagina troviamo Il Sofà delle Muse, dove compaiono
recensioni di autori americani, tedeschi, francesi, inglesi e
naturalmente italiani. La nona pagina, con la rubrica Giorno e
notte, è quella che maggiormente attrae il pubblico; è infatti
interamente dedicata al cinema. Si divide in due sezioni, la
prima, Nuovi film, accoglie recensioni di pellicole proiettate
nelle sale italiane, la seconda, Celluloide, tratta di cronaca,
curiosità e pettegolezzi su Hollywood. Segue l’appuntamento
fisso con il romanzo a puntate firmato per lo più da autori
americani e presentato in traduzione. Nelle pagine successive
troviamo la rubrica Giallo e rosso, con gli articoli di Barilli e
Savinio, che trattano rispettivamente di spettacoli musicali e
rappresentazioni teatrali. L’ultima pagina è lasciata alla satira,
con vignette di Maccari, Bartoli e Longanesi o con fotografie.
Sebbene nessuna di queste pagine ospiti articoli firmati da
Longanesi, in “Omnibus” c’è l’impronta unitaria181 del suo
direttore. Leo guarda certamente ai modelli stranieri, come a
“Querschnitt”, “Huhu”, “Life”, “Look”, o “Picture Post”, ma
non si limita a farne una copia italiana, piuttosto dà vita ad un
nuovo
���������������������������������������� �������������������181
Ibid., p. 235
85 �
impasto longanesiano, insieme così popolare e sofisticato
(com’era la personalità di lui), nel calcolato equilibrio
d’ingredienti diversi, nell’uso ammiccante della
fotografia, nella varietà dei titoli, degli argomenti e degli
stessi caratteri tipografici fanno di “Omnibus” un unicum,
con uno smalto inconfondibile e inossidabile, che
respinge la ruggine del tempo.182
La firma di Longanesi è presente nella veste tipografica, nel
taglio stilistico, nella scelta delle immagini, negli articoli dei
suoi stessi collaboratori. Accanto a sé il direttore non ha
giornalisti esperti, ma giovani alle prime armi. La difficoltà
dell’impresa gli è ben chiara:
In questi giorni sto organizzando la redazione, ma
purtroppo senza redattori perché il Rizzoli non vuole
redattori per via del contratto giornalistico. Il lavoro al
quale vado incontro è pauroso, e mi sento solo come
Cappuccetto rosso nel bosco. Tuttavia sono deciso a fare
un bel giornale e lo farò.183
I primi ad approdare ad “Omnibus” sono Mario Pannunzio, al
tempo pressoché un esordiente, e Primo Zeglio, che già scrive
per “Il Selvaggio”. Entrambi, secondo le disposizioni del
direttore, si occuperanno di cinema. A loro si aggiunge presto
Arrigo Benedetti, che ha lavorato per “L’Italiano”, a cui viene
affidata la critica letteraria. La pur breve vita della rivista vede
passare molti giornalisti e scrittori, alcuni alla prima notorietà,
altri già noti: Riccardo Bacchelli, Bruno Barilli, Vitaliano
Brancati, Dino Buzzati, Emilio Cecchi, Giorgio De Chirico,
Antonio Delfini, Tommaso Landolfi, Curzio Malaparte, Eugenio
Montale, Indro Montanelli, Alberto Moravia, Mario Pannunzio,
Mario Praz, Giuseppe Prezzolini, Alberto Savinio, Mario
Soldati, Elio Vittorini, Cesare Zavattini. Nei loro scritti Leo
interviene pesantemente, li taglia qua e là, li snellisce, li
rimaneggia. Insegna ai più giovani il mestiere e non risparmia
���������������������������������������� �������������������182
Ibid. 183 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 11 febbraio 1937, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 231
86 �
nemmeno i più esperti. La testimonianza di Irene Brin ne dà
prova:
Longanesi riscrisse non solo i nostri scritti, ma i nostri
cervelli. […] Il primo segno di stima me lo diede con le
prime e violente correzioni. Era una biografia della Duse,
che mi tornò zebrata di cancellature e rimproveri:
“dannunziano, sovraccarico, incomprensibile, troppi
avverbi, ripetizione, toglierei i puntini di sospensione”.
Ma anche un periodo, incorniciato a matita, con “questo
va benissimo”. Eravamo appena all’inizio della mia
educazione. Nel gennaio 1938 […] fu come iniziare una
serie di esperimenti chimici, passando da uno stato di
ebetudine ad uno stato di esaltazione, dall’avvilimento
alla rabbia, dalla limpidità al disordine. Longanesi non si
limitava a rewrite i miei articoli, ma me.184
Come dice la giornalista Leo non solo entra negli articoli dei
suoi collaboratori, ma, dove non si trovi il meglio, lui lo scova o
forse lo reinventa. Accade alla stessa Brin, il cui vero nome è
Maria Rossi: scrive di moda e costume sul “Lavoro” firmandosi
Mariù e, dopo una mezzora di colloquio con Longanesi, si sente
dire:
Perché si diminuisce limitandosi a criticare il costume?
Lei ha la stoffa per dettarlo. Insegni lo snobismo agli
italiani, i quali credono che consista nell’alzare il
mignolo quando bevono. E cominci con lo scegliersi un
nome sofisticato … per esempio Irene Brin. Le piace?185
Non è questo il solo caso; dopo aver letto Piave, un poema
giovanile di Brancati, Longanesi lo manda a chiamare: “Lei è un
idiota. Crede di essere un poeta epico. E invece sa che cos’è?
Lei è un Gogol, un gogolino di Catania. Mi scriva un racconto
sulla sua città”186.
���������������������������������������� �������������������184 I. BRIN, Un nome inventato, “Il Borghese”, 10 ottobre 1957, cit. in A.
ANDREOLI, op. cit., p. 112 185 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 178 186
Ibid., p. 177
87 �
2. La fotografia
Ciò che rende unico “Omnibus” e che porta l’indubbia firma del
suo direttore è la fotografia. Longanesi aveva già conosciuto le
possibilità di quest’arte sulle pagine dell’“Italiano”, ma è nel
rotocalco che essa trova “la più felice realizzazione”187. “Se con
‘L’Italiano’ voleva costruire un catalogo del mondo per far
conoscere alla gente del XXI secolo come si viveva qui da noi
nella prima metà del XX, con ‘Omnibus’ egli fece altrettanto
servendosi dell’immagine. Spostata però in tutte le direzioni”188.
La fotografia diviene parte integrante del testo scritto, è essa
stessa portatrice di un messaggio; non si limita ad accompagnare
l’articolo, ma collabora alla comunicazione, diventando forse,
più delle parole, la vera protagonista. Lo è nella sostanza, ma lo
è anche nella forma: il documento visivo occupa parecchio
spazio all’interno del foglio, la prima pagina infatti ospita
un’immagine che è più una gigantografia, l’ultima ne è
completamente ricoperta, e le altre ne fanno largo uso.
Longanesi sa sfruttare nella fotografia la stessa versatilità che
possiedono le parole: l’immagine si adatta alle esigenze della
comunicazione diventando ora documento freddo e distaccato
della realtà, ora occhio critico verso la società, ora satira.
La fotografia ha, tra i suoi scopi, quello di documentare il
mondo reale; si tratta di immagini a cui non segue una didascalia
ironica, né una spiegazione o un commento, sono documenti
visivi che parlano da soli, che rifiutano ogni mediazione del
testo scritto, nella pretesa di ritrarre essi stessi la realtà. Se
l’impatto che essi hanno sullo spettatore di oggi, abituato ad una
stampa ben più disinvolta di quella della prima metà del
Novecento, è forte, a maggior ragione sembra lecito pensare che
lo fosse per i contemporanei di Longanesi. A presentare
immagini di questo tipo è, ad esempio, il numero del 1 maggio
���������������������������������������� �������������������187
Ibid., p. 236 188
Ibid.
88 �
1937189, dove la prima pagina è occupata, per quasi la metà del
suo spazio, dalla fotografia di due uomini fucilati legati ad un
palo. Il viso del primo è rivolto verso l’obiettivo della macchina
fotografica, gli occhi aperti interrogano chi lo guarda, mentre il
secondo, posto sullo sfondo, indossa una benda. Un’immagine
analoga si ripete, ancora in prima pagina, il 24 luglio 1937190: si
tratta di un’altra esecuzione capitale, questa volta presentata in
una sequenza di due fotografie, la prima che rappresenta la
preparazione, la seconda la sua realizzazione. Allo spettatore
viene dato modo di vedere il condannato in piedi nella prima
foto e di riconoscerlo nella seconda. La vicinanza
dell’inquadratura permette anche di guardare in modo nitido i
volti dei tre giustizieri. La realtà viene ritratta così com’è anche
il 24 aprile 1937, quando in terza pagina troviamo dipinta la
povertà. Una didascalia informa che si tratta di Profughi
spagnoli della cattedrale di Malaga191: due uomini, tre donne e
un bambino seduti in attesa. Il ragazzo al centro
dell’inquadratura guarda diritto l’obiettivo della macchina.
Si tratta di tre fotografie che interrogano con prepotenza lo
spettatore, lo catturano. A svolgere questo ruolo sono nella
prima immagine gli occhi rivolti verso l’obiettivo, nella seconda
la sequenza stessa, che comporta una sorta di incontro con il
condannato prima dell’esecuzione, nella terza lo sguardo del
ragazzo verso chi lo osserva. Attraverso questi scatti lo
spettatore si trova calato nel mondo vero, senza le mediazioni
della parola, solamente grazie alla potenza del documento
visivo. Di questo Longanesi ne è ben consapevole, desidera
smuovere i suoi lettori portando sulla pagina fatti, non giudizi, o
almeno darne l’impressione. In fondo, la scelta stessa di porre
all’attenzione del lettore di “Omnibus” immagini di esecuzioni
���������������������������������������� �������������������189
Epopea comunista in Cina – cristiani cinesi seviziati e uccisi, “Omnibus”, 1 maggio 1937, n. 17, p. 1
190 “Omnibus”, 24 luglio 1937, n. 5, p. 1 191
Profughi spagnoli della cattedrale di Malaga, “Omnibus”, 24 aprile 1937, n. 4, p. 3
89 �
capitali e gettarle in prima pagina è, almeno in parte, un
giudizio.
La fotografia per Longanesi non è solo ritratto della realtà, è
anche sguardo critico nei confronti della società. Alla
comunicazione collabora la didascalia, che interviene nella
presentazione del documento visivo proponendone una chiave di
lettura. Si veda, ad esempio, la quinta pagina del 12 giugno
1937, dove, sotto ad una fotografia che ritrae un cane solo in
mezzo ad edifici fatiscenti, compare la scritta: Il sopravvissuto
di Guernica, capitale basca192. Basterebbe l’immagine a
trasmettere una sensazione di turbamento nello spettatore, ma la
didascalia lo accentua, invitando ad una lettura critica della
realtà. In questa fotografia è presente un giudizio, mostrato
chiaramente nella scelta dell’immagine, ed esplicitato nella
didascalia. Lo stesso accade anche in un’altra foto, presente
nella prima pagina del 10 aprile 1937: qui troviamo in alto il
ritratto di una corona, in basso una gracile donna miseramente
vestita appesantita da due valigie. La didascalia recita: Le Indie
sotto la corona imperiale193. Sebbene vi sia in questa immagine
un velo di ironia sui significati del termine “sotto”, ciò che
risalta è l’impietosa denuncia della sudditanza dell’India alla
Gran Bretagna, un paese che si dice democratico. Ecco allora
che l’accostamento di due foto rivela il severo sguardo critico di
chi le ha assemblate. La cosa è ancora più evidente se si accosta
questa sequenza di foto al Primo specchio194, ritratto di giovani
donne somali che ridono e scherzano in un fiume. Il messaggio è
chiaro: da un lato l’impero britannico che sfrutta in modo
brutale le sue colonie, dall’altro l’Italia, che benevola preserva
l’integrità e la bellezza dei territori a lei soggetti.
���������������������������������������� �������������������192
Il sopravvissuto di Guernica, capitale basca, “Omnibus”, 12 giugno 1937, n. 11, p. 5
193Le Indie sotto la corona imperiale, “Omnibus”, 10 aprile 1937, n. 2, p. 1
194Il Primo specchio, “Omnibus”, 8 maggio 1937, n. 6, p. 4
90 �
Accanto a questo tipo di utilizzo del documento visivo, c’è
anche una fotografia più leggera, quella che ritrae le grandi dive
del cinema. In “Omnibus” trovano spazio le consuete immagini
tratte da film o scattate in posa, ma non mancano foto rubate alla
quotidianità delle donne di spettacolo. Ne viene proposta
un’immagine insolita, capovolta rispetto all’esaltazione della
star che l’industria cinematografica chiederebbe. La foto di
Marlene Dietrich195 apparsa nel primo numero ne è un esempio:
la diva, con gli occhi chiusi e il capo leggermente piegato
indietro, tiene un sigaretta tra le labbra. Nel vederla si
penserebbe più facilmente ad una donna stanca e scomposta, più
che ad una grande attrice. La creazione di immagini
spregiudicate e anticonformiste come questa avviene grazie alla
collaborazione del fotografo Cesare Barzacchi con lo stesso
Longanesi:
Leo trascinò Barzacchi a Campo dei Fiori, caricandosi e
caricandolo di cianfrusaglie: calze spaiate, un cilindro, un
globo di vetro, un vestito da zingara. Tornati in
redazione, in un angolo, Longanesi con qualche seggiola,
un po’ di carta da imballo, stelle di carta, e qualche
pennellata “marmorizzante”, mise in piedi il fondale per
l’Album di famiglia. Metteva in posa, spogliandole un
po’, ma rivestendole di stracci, le attrici del giorno: Elsa
De Giorgi, Nera Corradi, Lina Bacci. Barzacchi le
fotografava e quelle stravaganti immagini finivano
nell’Album, accanto a quelle di Greta Garbo, Carole
Lombard, Katharine Hepburn.196
La versatilità del documento visivo porta fino alla satira. La
fotografia, in questo caso, va a braccetto con la didascalia;
l’immagine non ha, di per sé, un contenuto ironico, lo acquisisce
proprio grazie al testo scritto. Nasce dunque un gioco tra
fotografia e parola di cui lo spettatore si fa complice. Gli esempi
in questo senso sono davvero molteplici tra le pagine di
“Omnibus” e rivolti, nella maggior parte dei casi, a deridere
���������������������������������������� �������������������195
Marlene Dietrich, com’è, “Omnibus”, 3 aprile 1937, n. 1, p. 8 196 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 238
91 �
Stati Uniti e Gran Bretagna. I paesi rivali del fascismo vengono
rappresentati come realtà antitetiche rispetto a quella italiana,
depositari di valori e comportamenti che Leo non manca di
colpire con la sottile arma del ridicolo, ingigantendo ogni vizio e
ogni luogo comune. Ecco allora che se i due stati vantano una
società moderna e democratica, “Omnibus” li ritrae come Le due
grandi democrazie197, due signore robuste che indossano un non
troppo elegante abito a fiori.
Il bersaglio preferito è l’esercito britannico, descritto come
debole e fiacco, ma soprattutto manchevole di quella virilità che
abiterebbe invece tra i soldati italiani. La prima pagina del 11
dicembre 1937 ospita una gigantografia dal titolo Truppe
inglesi198: in primo piano si vede un gregge, sullo sfondo alcuni
soldati a piedi o in bicicletta. L’ironia, in questo caso, è tutta
nella didascalia, che suggerisce una similarità tra le pecore e i
militari inglesi. L’esercito è sminuito anche in Riarmo
britannico - Giungono sempre nuove reclute nelle caserme199:
un uomo raccoglie da terra un manichino e, con passo fiacco e
rassegnato, lo porta con sé. Ancora una volta il sorriso nasce dal
gioco tra fotografia e testo scritto. L’immagine di un gruppo di
persone, diversi dei quali bambini, raccolti su un isolotto, è
spunto per un originale presa in giro della grandezza della Gran
Bretagna sul mare; la didascalia infatti recita: L’Inghilterra è
una potenza insulare200. La virilità dei soldati viene nuovamente
messa alla berlina in Educazione preliminare in Inghilterra.
Studenti del Royal College durante le prove del ballo “Gioventù
fiammante” all’Albert Hall di Londra l’ultima notte
dell’anno201: tre ragazzi in abiti femminili mostrano per gioco il
���������������������������������������� �������������������197
Le due grandi democrazie, “Omnibus”, 16 ottobre 1937, n. 29, p. 1 198
Truppe inglesi, “Omnibus “, 11 dicembre 1937, n. 27, p. 1 199
Riarmo britannico – Giungono sempre nuove reclute nelle caserme, “Omnibus”, 3 aprile 1937, n. 1, p. 2
200L’Inghilterra è una potenza insulare, “Omnibus”, 24 settembre 1938, n. 39, p. 3
201Educazione preliminare in Inghilterra. Studenti del Royal College durante
le prove del ballo “Gioventù fiammante” all’Albert Hall di Londra
l’ultima notte dell’anno, “Omnibus”, 1 gennaio 1938, n. 1, p. 2
92 �
reggicalze. L’ironia di cui è vittima l’esercito britannico fa
particolarmente presa sui lettori di “Omnibus” dato che la
propaganda fascista, in questi anni attiva più che mai, nutre
l’immaginario collettivo della figura di un soldato italiano virile,
forte, ligio all’ordine e alla disciplina, pronto al sacrificio, con
cui il militare inglese non sembrerebbe poter reggere il
paragone.
Non solo l’esercito è preso di mira, ma la stessa composizione
della società, di cui vengono messe in risalto le contraddizioni:
la nobiltà è oramai ridotta ad una parodia di se stessa, come
dimostra l’immagine L’ultimo Lord202, in cui un aristocratico
scozzese trascina stanco un sacco, e Pittura coloniale delle
vecchie inglesi203, che ritrae una signora intenta a dipingere una
giovane africana. A queste immagini si accosta Trastulli
dell’aristocrazia inglese204, in cui si mostra la mancanza di
senso del ridicolo delle tre dame che giocano ad interpretare i
personaggi di famosi dipinti italiani.
I borghesi non sono naturalmente immuni da ironie; essi
vengono dipinti all’interno delle loro case di campagna, lontani
dalla realtà e dalle preoccupazioni del paese. Mario Praz,
nell’articolo La casa di campagna205, ironizza sugli elementi
tipici del decoro borghese, quali l’arredamento di poco gusto, il
caminetto, l’amore per gli animali e per la natura. Lo scritto è
accompagnato dalla fotografia Il richiamo della foresta206, in cui
vediamo due signore, la prima legge un giornale accanto ad una
mucca, la seconda ritrae la scena. Entrambe sembrano
compiacersi della campagna in cui trascorrono il loro tempo,
nell’illusione di essere a contatto con la natura selvaggia.
���������������������������������������� �������������������202
L’ultimo Lord, “Omnibus”, 23 dicembre 1937, n. 39, p. 4 203
Pittura coloniale delle vecchie inglesi, “Omnibus”, 23 ottobre 1937, n. 30, p. 3
204Trastulli dell’aristocrazia inglese, “Omnibus”, 10 novembre 1937, n. 34, p. 1
205 M. PRAZ, La casa di campagna, “Omnibus”, 1 ottobre 1938, n. 40, p. 5 206
Il richiamo della foresta, “Omnibus”, 1 ottobre 1938, n. 40, p. 5
93 �
Aristocratici e borghesi sono parimenti disinteressati alla
disuguaglianza sociale che in Inghilterra si fa sempre più
marcata. In Le grandi democrazie, contrasti (Inghilterra
1937)207 tre ragazzi non certo benestanti osservano due loro
coetanei benvestiti, con tanto di tuba e bastone. Li guardano
incuriositi e un po’ straniti, come fossero bizzarri oggetti esposti
sulla vetrina di un negozio. I giovani ricchi rispondono
all’interesse dei tre ragazzi negando lo sguardo e voltando loro
le spalle.
I politici sono spesso ritratti come in pose ironiche in modo da
risultare davvero poco credibili nel loro ruolo istituzionale: in
Ispirazione di Lloyd George208 il politico guarda pensieroso un
recinto con degli animali e Chamberlain viene fotografato
mentre “salta gli ostacoli”, cioè oltrepassa un piccolo muro209.
L’ironia colpisce anche le donne inglesi e statunitensi, descritte
come fredde e autoritarie, in tutto simili agli uomini e incapaci,
per questo, di essere perfetti “angeli del focolare”, come invece
saprebbero ben fare le italiane. Ne viene messa in ridicolo la
bellezza, come accade nei ritratti di due signore non più
giovanissime, le cui didascalie recitano Venus Britannica210e
Ninfa anziana che si solleva nell’aere californiano al primo
tepore della primavera211. La mancanza di grazia è motivo
ricorrente nella descrizione delle donne americane e sembra che
vada di pari passo con l’assunzione di incarichi pubblici; in
Donne americane212 infatti vengono accostati ritratti di signore
impegnate a vario titolo nella società, ma nessuna di esse si
distingue per bellezza o femminilità. Naturalmente le donne
���������������������������������������� �������������������207
Le grandi democrazie, contrasti (Inghilterra 1937), “Omnibus”, 17 luglio 1937, n. 16, p. 1
208Ispirazione di Lloyd George, “Omnibus”, 1 gennaio 1938, n. 1., p. 3
209Neville Chamberlain salta gli ostacoli, “Omnibus”, 5 febbraio 1938, n. 6, p. 8
210Venus Britannica, “Omnibus”, 8 maggio 1937, n. 6, p. 5
211Ninfa anziana che si solleva nell’aere californiano al primo tepore della
primavera, “Omnibus”, 9 aprile 1938, n. 15, p. 6 212
Donne americane, “Omnibus”, 16 ottobre 1937, n. 29, p. 12
94 �
italiane non condividono lo stesso destino delle straniere:
Lezioni di ginnastica ritmica delle giovani fasciste213 mostra un
gruppo di giovani sedute attorno ad una compagna che si
esercita nello sport con grazia ed eleganza.
Se le donne inglesi e americane hanno perso, a causa
dell’emancipazione femminile, le loro qualità facendosi più
simili agli uomini, quest’ultimi a loro volta hanno rinunciato alla
virilità. L’allusione all’omosessualità degli inglesi è suggerita
nelle descrizioni che “Omnibus” fornisce dell’esercito
britannico, fiacco e borghese, e nella fotografia di tre uomini
insieme nella stessa vasca: Cunlife, Britton e W. Cook, campioni
della squadra Everton, nel loro appartamento a Bushey214.
Possiamo immaginare che questo tipo di ironia facesse
particolarmente presa sul lettore italiano, abituato al culto della
virilità e della forza.�
3. La chiusura di “Omnibus”
La causa diretta della chiusura di “Omnibus” è un articolo
pubblicato sul numero del 28 gennaio 1939: Il sorbetto di
Leopardi215, che porta la firma di Alberto Savinio. Il giornalista
si reca a Napoli per scrivere a riguardo delle celebrazioni
leopardiane che lì si tengono nel primo centenario della morte
del poeta, ma qualche sua parola di troppo216 costa caro al
rotocalco. Che una rivista fortunata come “Omnibus” venga
chiusa per un’irriverenza nei confronti di Leopardi desta qualche
dubbio, la spiegazione va probabilmente cercata altrove.
���������������������������������������� �������������������213
Lezioni di ginnastica delle giovani fasciste, “Omnibus”, 18 settembre 1937, n. 25, p. 4
214Cunlife, Britton e W. Cook, campioni della squadra Everton, nel loro
appartamento a Bushey, “Omnibus”, 29 gennaio 1938, n. 5, p. 1 215 A. SAVINIO, Il sorbetto di Leopardi, “Omnibus”, 28 gennaio 1939, n. 4,
p. 3 216 Savinio scrive che Leopardi sarebbe morto “durante un’epidemia di
colera, di una leggera colite che i napoletani chiamano ‘a’ cacarella’”, Ibid.
95 �
Savinio, infatti, in partenza per la Campania, dà appuntamento
ad un amico al celebre “Caffè Gambrinus”, ignorando che il
locale sia stato di recente chiuso per compiacere i desideri della
moglie del Prefetto. Il giornalista, dopo aver trovato il portone
sbarrato, scrive:
L’aria di Napoli è esiziale ai bei caffè, come le rose son
mortali agli asini. Con le sue sale dorate e i suoi tavoli
cioccolata, i suoi divani di velluto rosso e le sue grandi
vetrine aperte su piazza San Ferdinando e su piazza del
Plebiscito, il “Gambrinus” era meno un caffè che un
monumento, una istituzione, uno dei gangli vitali di
questa città. Perché è stato ucciso?217
Senza saperlo tocca la corda sbagliata e il Prefetto, sentendosi
dare del somaro, corre da Mussolini a lamentare l’offesa218. Il
Duce risponde ordinando la chiusura di “Omnibus”. Ricevuta la
notizia Longanesi tenta più volte di essere ricevuto dal Capo
dello Stato, ma si vede negare l’udienza. Prova, con un lettera, a
riaffermare le sue convinzioni fasciste e la buona fede con cui è
stato pubblicato l’articolo di Savinio:
Mi permetto di chiedervi di riconsiderare con speciale
benevolenza il mio caso, per darmi modo di mostrarvi
che la mia fede fascista è inalterata. Pubblicando
l’articolo su Leopardi a Napoli, intendevo fare dell’ironia
su quel vecchio mondo sentimentale dei Bracco e dei
Bovio (“O Carolì! O Carolì!”) che di fatti s’è risentito al
primo accenno. La mia educazione si è formata in clima
fascista e a quella m’ispiro ogni qualvolta critico i
costumi della vecchia Italia. L’accenno alla golosità di
Leopardi non credo possa contrastare con lo spirito
fascista, non essendo il Leopardi un modello di vita
eroica. […] Mi permetto di ricordarvi che da quindici
anni ho sempre servito con lealtà la causa del Fascismo.
[…] Posso aver errato, ma i miei errori sono stati e sono
errori in buona fede; la mia condotta giornalistica si è
sempre ispirata alle vostre direttive, secondo forma del
���������������������������������������� �������������������217
Ibid. 218 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 240 - 241
96 �
mio temperamento, come ne fa testimonianza
“Omnibus”, dopo due anni di vita e di largo consenso.219
Quanto detto finora non basta però a spiegare la fulminea
chiusura di un giornale la cui la veste esteriore è senza dubbio
fascista. Non ci sono infatti, in “Omnibus” critiche aperte al
regime, né si parla troppo di politica; Leo ha imparato già
nell’“Italiano” che da certe questioni è bene tenersi fuori. In
diverse circostanti, infatti, il rotocalco longanesiano rimane ligio
alle direttive del Ministero della Cultura popolare: si pensi, ad
esempio, all’articolo scritto in occasione della celebrazione del
sedicesimo anno dell’era fascista, in cui si descrive un’Italia
pronta a giocare un ruolo di primo piano nel quadro
internazionale :
Non senza una ragione l’anno sedicesimo è inaugurato
con una solennità senza precedenti. Centomila gerarchi a
Roma, il gran rapporto del Duce, tutta la nazione protesa
al conseguimento dell’autarchia economica, non sono
semplici episodi che rientrino nel quadro delle consuete
celebrazioni. L’anno sedicesimo sarà per eccellenza un
anno mediteranno. Esso trarrà tutte le conseguenze
dell’impresa etiopica. Sarà l’anno della “parità”
dell’Italia come grande potenza rispetto alle altre grandi
potenze, nessuna esclusa. Non si tratta di egemonia, di
una prevalenza quasi sugli altri, ma di una parità in tutta
l’estensione del termine […]. L’Italia, grande potenza
mediterranea, non può subire nessuna limitazione,
nessuna subordinazione in quel mare che per essa è la sua
vita e nel quale si riassumono le sue origini e la sua
storia: non può accettare nessuna parte di secondo verso
chicchessia, siano pure i padroni del mondo, perché la
sua autonomia è la premessa indeclinabile della sua
potenza presente e della sua grandezza futura.220
La stessa retorica, in cui si incontrano la colonia italiana e il
ricordo della Roma antica, si ripete l’anno seguente,
accompagnata da un elogio al Duce: ���������������������������������������� �������������������
219 Lettera di Longanesi a Mussolini, datata 2 febbraio 1939, cit. in P. ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 34
220Anno XVI, “Omnibus”, 30 ottobre 1957, cit. in R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 156
97 �
Oggi l’Impero è una stupenda realtà. Nonostante
l’avversa coalizione di tutti gli interessi costituiti,
nonostante l’assedio economico di cinquantadue Stati,
Mussolini ha conquistato al popolo italiano un Impero
vasto come cinque volte l’Italia, vincendo, in sette mesi,
la più grande guerra coloniale che la storia ricordi. Duce
di un popolo di proletari, egli ha fondato l’Impero del
lavoro. Il giorno stesso in cui inizia l’anno
diciassettesimo ventimila coloni salpano per la Libia a
popolare i territori che furono già antiche colonie di
Roma.221
“Omnibus” non manca di rilevare il ruolo e l’importanza delle
forze armate; su questo tema l’allineamento del giornale al
regime non si esprime solo sul piano contenutistico, ma anche su
quello linguistico. In occasione del varo della corazzata
“Vittorio Veneto” il settimanale scrive che nulla misura meglio
“la potenza di uno stato, che la sua flotta da guerra; non c’è
nulla che meglio e più tangibilmente di un bel numero di
corazzate irte di cannoni esprima quel che uno Stato può e
vuole”222. La Roma antica torna poi utile per ribadire il
Mediterraneo come il mare nostrum dell’Italia fascista:
Dell’Impero italiano il mare, e il Mediterraneo in primo
luogo, è l’elemento base. Con ciò la funzione strategica
della Sicilia, bastione mediterraneo, è definita. […] Sono
tuttavia pronti, accanto all’ipotesi, i fatti. E’ appena scesa
in mare la “Vittorio Veneto”, che sarà fra breve la più
potente nave da guerra esistente, e fra poche settimane
sarà varata la sua gemella “Littorio”. Ciò toglierà dalla
testa di qualche cartaginese contemporaneo l’eventuale
dubbio o speranza che il presupposto delle grandi
manovre siciliane possa diventare, una volta o l’altra,
qualcosa di più che un’ipotesi.223
���������������������������������������� �������������������221
L’Impero del lavoro, “Omnibus”, 29 ottobre 1938, cit. in R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 156
222Due protagonisti, “Omnibus”, 24 luglio 1937, cit. in R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 157
223Se, “Omnibus”, 31 luglio 1937, cit. in R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op.
cit., p. 157
98 �
“Omnibus” dà il suo contributo anche al rafforzamento del mito
del Duce. Missiroli, in occasione della pubblicazione di una
raccolta di discorsi di Mussolini, scrive:
Par quasi che alla lettura risplendano di nuova luce e di
nuovo splendore. La ragione di questa immediata
trasposizione nel tempo non ha nulla di misterioso per
quanti seguono da vent’anni l’eloquenza mussoliniana,
per quanti hanno avvertito in se stessi e negli altri quel
fascino incomparabile che la parola del Duce esercita
sempre e dovunque. Essa risiede tutta quanta nella
immutabile coerenza intellettuale e morale dell’uomo che
in ogni momento della sua esistenza, sia che parli, sia che
operi, non subisce mai nulla e nessuno, né gli
avvenimenti né gli uomini, perché la sua capacità di
dominio è la forma stessa della sua logica. Egli non
segue, ma anticipa, non interpreta, ma crea. […] La sua
parola è quella di un profeta e di un poeta che mostra agli
uomini quello che non saprebbero mai vedere e li
conforta a credere nell’invisibile potenza della
volontà.224
Eppure al Duce la rivista dà “fastidio”225. Sotto alla camicia nera
indossata da “Omnibus”, corre una sottile, ma puntuale, eresia
che, goccia dopo goccia, porta all’inevitabile chiusura. Lo stesso
Mussolini tollera, di settimana in settimana, foto e articoli non
pienamente in linea con il regime, rimandando la propria
decisone. Così lo racconta Dino Alfieri, la tempo addetto presso
il Ministero della Cultura Popolare:
Toccava a me entrare in scena svolgendo un’azione
persuasiva nei confronti di Longanesi, per convincerlo ad
attenuare le critiche. Le esagerazioni del partito e gli
atteggiamenti burbanzosi di alcuni gerarchi erano il suo
obiettivo preferito, e, naturalmente, le reazioni
vivacissime degli interessati costringevano Mussolini ad
intervenire. Ma l’ira di Mussolini, il mattino seguente,
era già sbollita. E nonostante che egli mi accogliesse
subito apostrofandomi con un «Avete dato l’ordine di
���������������������������������������� �������������������224 M. MASSIROLI, L’eloquenza di Mussolini, “Omnibus”, 23 ottobre 1937,
cit. in R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 161 225 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 240
99 �
chiudere ‘Omnibus’?», io già sapevo che Longanesi, nei
cui confronti il Capo del Governo nutriva considerazione
e stima, aveva ottenuto la sentenza assolutiva. Omnibus
sarebbe uscito ancora un’altra settimana, continuando la
sua difficile navigazione.226
Diversi sono infatti gli elementi che in “Omnibus” non sono
allineati al regime come dovrebbe essere, ed è, la stampa
ufficiale, a partire dalla seconda pagina, quella dedicata alla
politica estera. Qui Longanesi non è prodigo di elogi nei
confronti della Germania e, appena gli si presenta l’occasione,
ne sottolinea le differenze rispetto all’Italia. Accade, ad
esempio, per la questione razziale: nelle pagine di “Omnibus” la
classificazione dell’umanità in razze superiori e inferiori non
viene accolta.
Immagini come quella pubblicata il 22 ottobre 1938227 certo non
fanno piacere a Mussolini. La fotografia ritrae un vecchio e
stanco bracciante, miseramente vestito, sotto ad un manifesto
del Duce e la scritta “Evviva l’Italia”. La povertà del nostro
paese fa capolino tra le pagine di “Omnibus”, insinuando il
dubbio che nell’Italia di Mussolini non si viva poi così bene. Di
per sé questa è sola una foto, ma ha il potere, senza aggiungere
una parola, di suggerire un’interpretazione diversa, un altro
punto di vista rispetto a quello ufficiale e denuncia chiaramente
lo sguardo critico di chi l’ha scelta.
“Omnibus” mostra la sua sottile eresia fin dal numero d’esordio:
in prima pagina non c’è, come ci si aspetterebbe, una
gigantografia del Duce, ma un’immagine di Leon Blum228. Non
si tratta di un aperto attacco al regime, viene anzi canzonato uno
stato rivale, la Francia. Il Fascismo viene più semplicemente
messo in secondo piano: ad esso non va riservato, come accade
���������������������������������������� �������������������226 D. ALFIERI, Mussolini e Omnibus, “Il Borghese”, 10 ottobre 1957, pp.
585 – 586, cit. in A. ANDREOLI, op. cit., p. 113 - 114 227
Bolzano, anno XVI, “Omnibus”, 22 ottobre 1938, n. 43, p. 11 228
Leon Blum, l’ultimo Amleto (gli ideali sono marxisti, ma il sarto è
borghese), “Omnibus”, 3 aprile 1937, n. 1, p. 1
100 �
in altre testate, il posto d’onore, ma deve aspettare la terza
pagina, dove spunta, accanto ad un articolo sull’Islam, un “bel
Ducione”229. Il testo non risparmia certo elogi a Mussolini:
Se un abisso c’è tra l’Occidente e l’Islam, su questo
abisso è stato gettato un ponte. E Mussolini lo ha varcato.
Sguainata la spada dell’Islam, a Tripoli, egli ha promesso
alle popolazioni musulmane, soggette all’Italia, pace
giustizia e ha espresso la simpatia dell’Italia per l’Islam.
Non crediamo di esagerare l’importanza di questo gesto
affermando che esso costituisce il momento culminante
di tutta una evoluzione di idee, di rapporti, di
sentimenti.230
Ecco pagato il necessario tributo alla propaganda fascista:
un’azione coloniale diventa un momento di incontro fruttuoso
tra culture diverse.
Il numero di esordio di “Omnibus” non è l’unico caso in cui
Longanesi nega a Mussolini la prima pagina: in realtà, in
novantacinque pubblicazioni il Duce non compare quasi mai nel
foglio iniziale e, nel caso in cui Leo proprio non possa esimersi,
il risultato non è scontato. Accade nel primo anniversario della
conquista dell’Etiopia, “una ricorrenza che fa scivolare tutti gli
altri giornali sulla retorica, è per ‘Omnibus’ un'altra prova di non
conformismo”231. Al centro della pagina si trova la foto di un
sorridente Mussolini sopra ad altre immagini sbarrate da una
croce; la didascalia recita: “Il vincitore e i vinti”232. Così
Montanelli, al tempo redattore di “Omnibus”, racconta la veloce
formazione di questa pagina ad opera di Longanesi:
«Un anno di impero dobbiamo fare, eh?» disse ai primi di
maggio a due ragazzi. «E allora, pronti. Voglio qui sul
tavolo tutti i dispacci della Reuter, dell’Associated Press,
della Stefani». In meno di mezzora dalla scrivania gli
traboccavano addosso ondate di carte. Leo si spostò sul
���������������������������������������� �������������������229 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 237 230 OMNIBUS, Maometto e l’Occidente, “Omnibus”, 3 aprile 1937, n. 1, p. 3 231 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 238 232
Il vincitore e i vinti, “Omnibus”, 8 maggio 1937, n. 6, p. 1
101 �
pavimento, distendendo un grande foglio bianco a lato
della scrivania. S’armò di forbici e colla: leggeva un
dispaccio o un ritaglio di giornale, lo scartava oppure ne
tagliava un brano. Poi, le forbici tra i denti, lo fissava al
foglio, meticoloso ma rapido. Alla fine, ultimato il suo
collage, incaricò il più alto dei suoi aiutanti di leggere.
Era una serie di notizie disposte in ordine cronologico,
dove ciascuna annunciava gravi disastri militari italiani in
Etiopia, proclamando imminente la vittoria del Negus.
Però, a mano a mano che s’andava avanti, i nomi delle
località cambiavano, sempre più vicine alla capitale. E
l’ultimo dispaccio, della Stefani, annunciava: “le truppe
italiane entrano in Addis Abeba (5 maggio 1936)”.
Longanesi sorrise soddisfatto. «Ci mancano due cose, o
Indro» disse. «Scrivi tu ben il finale: “Questo è il
romanzo di Benito Mussolini”». «E il titolo?». «Titolo?
Pronti: “Romanzo di un anno”»233
“Omnibus” mostra una spregiudicatezza e libertà d’opinione
anche negli interventi dedicati al cinema, al teatro, alla musica e
all’architettura. Il rotocalco longanesiano non risparmia critiche
alle due pellicole che dovrebbero celebrare il Duce e la guerra
d’Etiopia: I condottieri, biografia romanzata di Giovanni dalle
Bande Nere, e Scipione l’Africano. Il primo viene descritto da
Pannunzio come un film fatto di “immagini, episodi, situazioni
che nulla hanno a che fare con la storia ideale e nemmeno con il
cinema”, mentre il regista viene paragonato a quei “fotografi
dilettanti che vanno in cerca di un riflesso di sole sulle acque, di
un profilo d’albero che si stacchi sull’orizzonte”. I dialoghi non
risparmiano “frasi piene d’enfasi e di vuoto” e il racconto
denuncia “la casualità degli episodi e dei personaggi”234.
Di Scipione l’Africano Pannunzio salva solo le comparse: “Essi
sono i soli interpreti che valgono, gli unici, che per quei brevi
���������������������������������������� �������������������233 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 237 – 238. Si fa
riferimento all’articolo Romanzo di un anno, “Omnibus”, 8 maggio 1937, n. 6, p. 1
234 M. PANNUNZIO, I condottieri, “Omnibus”, 9 ottobre 1937, cit. in R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 174 – 175
102 �
momenti in cui sono apparsi in scena, hanno recitato con
naturalezza e verità”235.
Accanto alla critica cinematografica di Pannunzio troviamo
quella teatrale di Savinio, sempre ironica e sarcastica anche nei
confronti di uomini vicini al regime. Commentando Ragno,
un’opera di Sem Benelli, il giornalista scrive:
Non il “nostro” tormento, ché, in trent’anni esattamente
calcolati, questa è la terza volta che andiamo a teatro per
lui; ma tale è il suo sforzo continuo, straziante, di “voler
essere” senza riuscirci mai, che alla fine dello spettacolo,
per quanto terminato alle undici e mezzo, eravamo così
affranti, che appena la forza ci restava per buttarci in un
tassì per farci portare a casa. Per fortuna che a vincere gli
effetti delle opere di Sem Benelli, basta uscire da teatro.
Appena fuori, si dimentica tutto.236
Irriverenti e pungenti sono anche le recensioni musicali di
Barilli, che non risparmia critiche a personaggi sostenuti dal
regime. L’ultima opera di Ottorino Respighi diventa
un’opportunità per accusare il compositore di plagio:
L’opera postuma, tutta cerotti e rappezzature che
scoppiano è falsa, falsa senza riguardi e senza paura.
Povero Respighi! La sua mancanza di personalità era
arrivata a tal punto che tutti gli altri musicisti passati e
presenti erano venuti a pigiarsi dentro di lui sotto la sua
pelle costringendolo addirittura a sloggiare. Qui è tutta la
spiegazione. La sua mente era divenuta un sacco
spropositatamente pieno di rimasugli, detriti, ciarpame;
tutta roba altrui, di suo più niente. Con tutto questo egli
credeva ancora di fare la sua musica e il suo teatro. Basta,
non c’è che da rassegnarsi definitivamente.237
“Omnibus” si presenta dunque come un giornale in cui abitano
due anime: una esterna, allineata al fascismo, e un’altra interna,
���������������������������������������� �������������������235 M. PANNUNZIO, Scipione, “Omnibus”, 6 novembre 1937, cit. in R. DE
BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 175 236 A. SAVINIO, Il ragno, “Omnibus”, 25 settembre 1937, cit. in R. DE
BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 184 237 B. BARILLI, Lucrezia la Teatro Reale dell’Opera, “Omnibus”, 3 aprile
1937, cit. in R. DE BERTI, I. PIAZZOLI, op. cit., p. 188
103 �
nascosta e più difficile da scovare, ma sicuramente presente, è
l’anima che fa del rotocalco longanesiano una “trincea all’ombra
del regime”238. Si rivelano così ancora una volta
l’anticonformismo, il pensiero critico e l’indipendenza di
giudizio che caratterizzano Longanesi.
Sono gli stessi collaboratori di Longanesi a considerare
l’esperienza di “Omnibus” come una “palestra di
antifascismo”239, talvolta senza che lo stesso direttore se ne
renda conto. Racconta Montanelli:
Un giorno ebbe una zuffa memorabile con Arrigo
Benedetti che, cresciuto alla sua scuola le faceva molto
onore, ma cui Longanesi rimproverava un certo
giacobinismo. «Ma come», sbottò alla fine Benedetti, «io
quando arrivai a Roma ero un buon fascista, per il
semplice motivo che non conoscevo il fascismo. Ero
vissuto in provincia, a Lucca, e avevo poco più di
vent’anni. Venni a “Omnibus” e fu lì, accanto a lei, per
sua suggestione, che cominciai ad avere dei dubbi, eppoi
a fare la fronda, eppoi a passare addirittura dall’altra
parte. Fu lei a spingerci tutti sulla strada
dell’antifascismo. E ora ci rimprovera di averla battuta
sino in fondo.»240
Ciò non significa che “Omnibus” si schieri contro il fascismo,
né tantomeno che sia un giornale di opposizione; il dissenso
esercitato da Leo e dai suoi collaboratori abita all’interno del
fascismo e non medita fuoriuscite. La critica non colpisce mai la
sostanza del regime, ma soltanto aspetti marginali o singole
personalità, si tratta di una fronda “letteraria ed estetica”241 che
assomiglia più ad un suggerimento che ad una presa di
posizione. Questo non la rende però meno efficace, rimane
chiara espressione di spirito critico, come ricorda anche
Pannunzio nelle pagine del “Mondo”: ���������������������������������������� �������������������
238 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 11 febbraio 1935, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 232
239 A. ANDREOLI, op. cit., p. 115 240 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 284 241 A. UNGARI, Un conservatore scomodo, Leo Longanesi dal fascismo alla
Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2007, p. 11
104 �
Che cosa Longanesi abbia rappresentato in Italia, negli
anni che vanno dal 1935 ala 1940, forse pochissimi amici
possono testimoniarlo, quegli amici che non hanno
cessato di stimarlo anche quando si sentivano lontani da
lui. Nell’epoca più intollerante del fascismo, intorno a
Longanesi si incontrarono uomini di varie esperienze,
anziani e novizi, che trovarono in lui uno spregiudicato,
coraggioso, imprenditore. […] Il settimanale “Omnibus”
non fu soltanto una felice innovazione nel campo
dell’editoria giornalistica. Se il merito di Longanesi si
limitasse all’invenzione di una formula tecnica di
rotocalco politico e letterario, compilato da una nuova
leva di scrittori e di giornalisti informati di tutte le
esperienze moderne, se il “genio” di Longanesi si fosse
manifestato nel suo singolare gusto tipografico e
illustrativo, oltre che nella facoltà di dare uno stampo
originale a un gruppo di collaboratori tanto diversi uno
dall’altro, la lezione di Longanesi non avrebbe lasciato le
tracce che ha lasciato. C’è qualcosa di più che non va
dimenticato. Difficile parlare di scuola a proposito di
Longanesi, ma se scuola vi fu, ebbene, fu un esempio di
indipendenza, di libera critica, di dissidenza. Chi ha
collaborato con lui in quei lontani anni sa che non ebbe
mai consigli di prudenza, né tanto meno di
obbedienza.242
Se in un altro giornale una simile fronda potrebbe forse essere
tollerata, questo non accade in “Omnibus”; il rotocalco arriva ad
una tiratura di centomila copie, è letto da tutte le classi sociali, è
stimato e chiacchierato. I giornalisti che vi collaborano sono
spesso richiesti ad eventi mondani243 e i giovani talenti
ambiscono a partecipare all’avventura editoriale più moderna
che l’Italia del tempo possa offrire. Il regime non può permettere
che un giornale che riscuote tanto successo non sia
completamente in linea con le scelte del partito, non ora che la
guerra si fa sempre più vicina.
���������������������������������������� �������������������242 M. PANNUNZIO, Longanesi, “Il Mondo”, 8 ottobre 1957, cit. in A.
UNGARI, op. cit., p. 10 – 11 243 “Ognuno di noi aveva ricevuto sempre una quantità di inviti, a
collaborazioni e a colazioni”, I. BRIN, Un nome inventato, “Il Borghese”, 10 ottobre 1957, cit. in P. ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 31
105 �
“Omnibus” chiude i battenti con il numero del 28 gennaio 1939,
ma rimane il punto di riferimento per i rotocalchi composti
durante la guerra e continua a fare scuola anche dopo la caduta
del fascismo.
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Capitolo V: “Il Borghese”
1. Longanesi a Milano
Dopo la “fuga in Italia” Leo si trasferisce a Milano con il
desiderio di ritornare tra le sue carte e, con un po’ di fortuna, di
riconquistare la posizione di prestigio occupata durante il
fascismo. Questo non accadrà: su Longanesi pesa l’immagine
dell’intellettuale anni Trenta, per tutti egli rimane colui che ha
coniato il motto “Mussolini ha sempre ragione”. Se questa è
l’opinione che Milano ha di lui, di certo Leo non fa nulla per
farsi benvolere. Montanelli narra così l’arrivo di Longanesi nel
capoluogo lombardo:
Longanesi era sbarcato a Milano alla fine del 1945,
quando vi spirava il vento a lui meno congeniale, quello
del Nord. Uno degli autori di questo libro ricorda la
mattina che andò a prenderlo in stazione. I marciapiedi
brulicavano di sfollati che tornavano e di partigiani col
mitra in spalla e il fazzolettino al collo. Affacciandosi
guardingo dal finestrino, Leo ne indicò un gruppetto:
«aspettano me?». Aveva in tasca una copia de “L’Italia
libera” dove proprio quel giorno era apparso un trafiletto
in cui, preannunciandone l’arrivo, si deplorava che
Longanesi non avesse fatto in tempo ad allineare la sua
salma accanto a quelle degli impiccati di piazzale Loreto.
Il trafiletto era anonimo, ma Leo, col suo occhio
infallibile, ne aveva già individuato l’autore. […] Il caso
volle che proprio l’indomani incontrasse l’incriminato.
S’era in un pubblico locale di Montenapoleone, infestato
anche quello di partigiani. E il poveretto, entrando,
rimase disorientato quando si trovò di fronte a Leo, che
gli puntava addosso un dito accusatore. «Sei stato tu, eh?
Sei stato tu!». E di colpo, saltando come un misirizzi su
una sedia e additando agli astanti il malcapitato, proruppe
in questo straordinario grido: «E’ un antifascista!
108 �
Prendetelo!». Grazie a Dio la sorpresa fu tale da darci il
tempo di fuggire.244
Questo è il primo atto di una serie di equivoci e antipatie
reciproche tra Milano e Longanesi. Del resto il capoluogo
lombardo rappresenta l’antitesi dei principi “strapaesani”, è la
città moderna, quella “del duralluminio e delle single”245. In essa
si respira il desiderio di gran parte dell’Italia di rinascere, di
lasciare alle spalle il fascismo e la guerra, di lanciarsi in una
nuova economia. Longanesi non condivide tutto ciò: si rifiuta di
prendere parte alle speranze rigeneratrici di molti italiani,
polemizza contro lo spostamento a sinistra degli intellettuali246,
si rifiuta di salire sul “carro del vincitore”247 e non prende le
distanze dal passato fascista, a costo di venire emarginato negli
ambienti della cultura milanese. Si comprende allora facilmente
come Longanesi costruisca attorno a sé la fama del “nostalgico”,
alimentata dal “Borghese”e da alcuni pamphlets come Parliamo
dell’elefante, In piedi e seduti, Ci salveranno le vecchie zie? e
Una vita.
A Milano Leo trova però il lavoro che a Roma manca248: con
Giovanni Monti dà vita alla “Longanesi & C.”, a cui è legato il
mensile “Il Libraio”, bollettino della casa editrice dove trovano
���������������������������������������� �������������������244 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 269 - 270 245
Ibid., p. 269 246 Riguardo a questo si legge in Parliamo dell’elefante: “I nostri letterati
vanno a sinistra; essi sperano che a sinistra la fantasia sia più fertile. Il comunismo, per costoro, è un lassativo che dovrebbe smuovere la loro stitichezza”. L. LONGANESI, Parliamo dell’elefante, cit., p. 168
247 R. LIUCCI, L’Italia borghese di Longanesi, giornalismo, politica e
costume negli anni ’50, Venezia, Marsilio, 2002, p. 53 248 Così Longanesi descrive la situazione lavorativa di Roma: “Le giornate
divennero più lunghe del solito, ma non riuscivo a portare a fine nessuna cosa. Vivevo tra cumuli di lavoro lasciati a metà, alla ricerca di nuove imprese, in un continuo vagare di progetti. E come accade sempre a Roma, il tempo perduto a discorrere nei caffè e nelle redazioni dei giornali mi pesava per tutto il resto della giornata come una colpa, lasciandomi un malessere appiccicoso. Soltanto a tarda notte, quando mi chiudevo nella stanza da letto, scontento di tutti e di me stesso, mi sentivo finalmente difeso dal silenzio. Ma, all’indomani, ecco che ricominciava la tirannia della faccia umana; ecco ripetere e ascoltare i soliti discorsi: promesse di milioni per ottenere mille lire”. L. LONGANESI, Un morto fra noi, Milano, Longanesi & C., 1952, p. 131, cit. in A. UNGARI, op. cit., p. 33
109 �
spazio, accanto alle recensioni delle opere edite, anche articoli di
attualità e costume. Leo ritorna tra se le sue carte nella veste
dell’editore, cercando di riconquistare un ruolo di primo piano.
“Il Libraio” non ha però lunga vita, già bel ’47, infatti, Leo
medita di trasformarlo in un periodico regolarmente distribuito
nelle edicole, così da ricavarne un maggior guadagno in termini
finanziari e tornare alla direzione di una grande rivista.
L’intenzione iniziale, orientata verso il quotidiano, si sposterà
poi nella direzione del quindicinale, mentre il titolo è già
stabilito:
Ho deciso di fare uscire “L’Italiano” settimanale, a otto
pagine, formato giornali svizzeri, stampa rotativa. Credo
che questo sia il vero momento. Ma vorrei discorrere con
lei circa il titolo. Al posto di “Italiano” vorrei mettere “Il
Borghese”. Cosa ne pensa? Se dobbiamo morire, è bene
morire con una bandiera sulla testa.249
Le intenzioni di Leo sono chiare, ma a rallentare le loro
realizzazione è Giovanni Monti, che si mostra restio ad
abbandonare “Il Libraio”; ecco le parole che Longanesi riserva
al suo socio qualche anno dopo: “E’ un tipo strano e sordido e
insidioso. Ora ha invidia del successo del ‘Borghese’, per il solo
fatto che non l’ha creato lui. Lui voleva rimetterci col ‘Libraio’.
Ed io sono costretto a non fare passi lunghi perché debbo
rimanere entro il bilancio del vecchio ‘Libraio’”250. Nonostante
alcune lettere di Leo ad Ansaldo, in cui sembra che la nuova
rivista sia pronta per le edicole, “Il Borghese” vedrà il suo primo
numero solo nel ’50, da un lato per l’ostinazione di Monti,
dall’altro per le imminenti elezioni politiche. In vista
dell’impegno elettorale, infatti, Leo preferisce accantonare
l’iniziativa: “‘Il Borghese’ lo rimando a dopo le elezioni, perché
���������������������������������������� �������������������249 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 29 settembre 1947, cit. in A.
UNGARI, op. cit., p. 63 250 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 23 marzo 1950, cit. in A.
UNGARI, op. cit., p. 64
110 �
ora non conviene pubblicare scritti intelligenti; occorrono
insulti, e gli insulti li scriviamo nei giornali di propaganda”251.
Nei mesi successivi all’incontro elettorale non sembra che
Longanesi sia impegnato nella formazione del nuovo giornale; a
stimolarlo interviene però la pubblicazione del “Mondo”, rivista
diretta da Pannunzio, a cui collaborano tra gli altri Benedetti,
Brancati, De Feo, Monelli, Gorresio, un tempo allievi alla scuola
di “Omnibus”. Al rotocalco vengono rimproverati un liberismo
che male si intona al conservatorismo di Leo e una rilettura tutta
negativa del passato fascista. Questo il giudizio di Longanesi:
“Caro Ansaldo, ha visto ‘Il Mondo’? E’ meno di niente: un
‘Omnibus’ del Guf liberale. Ben pettinato, vestito alla marinara
e senza sugo. […] Per di più, la mania di Benedetti e Pannunzio
e Brancati di fare ora il processo al Fascismo non piace a
nessuno”252. Qualche mese dopo: “Quei quattro o cinque De
Feo, ormai, credono di essere gli ultimi apostoli del liberalismo
a rotocalco e ci accusano di fascismo (so quel che vanno
dicendo in giro). Sa come finiranno? Come Parri: stritolato da
Silvestri! Ormai la strada è stata scelta, e la sinistra è destinata a
prendere calci nel sedere”253. Da queste righe sembra che
Longanesi prenda le distanze dai redattori del “Mondo”
principalmente per motivi ideologici: per Leo è inaccettabile
l’impietoso processo che il nuovo giornale rinnova ad ogni
pubblicazione, lo è a maggior ragione perché l’accusa viene da
chi non ha risparmiato, a suo tempo, elogi a Mussolini:
Se c’è stato un leccapiedi […] è stato proprio Brancati:
passava i giorni con Interlandi, fu redattore di
“Quadrivio” e scrisse una commedia intitolata Piave,
nella quale appariva il Duce in cielo! Il Duce,
naturalmente, ricevette il Brancati e si congratulò con lui.
Tutto ciò non ha valore, perché Brancati, “Il Mondo”, e
���������������������������������������� �������������������251 Lettera di Longanesi ad Ansaldo, cit. in A. UNGARI, op. cit., p. 64 252 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 22 febbraio 1949, cit. in A.
UNGARI, op. cit., p. 65 253 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 2 aprile 1949, cit. in A. UNGARI,
op. cit., p. 65
111 �
tutta la compagnia liberale è destinata a finire a calci nel
sedere e a leccare i piedi del prossimo dittatore. Non c’è
via di scampo.254
Sicuramente, come sostiene Ungari, c’è un’evidente “antitesi”255
tra le posizioni politiche di Longanesi e quelle dei collaboratori
del “Mondo”, ma è difficile non vedere nelle parole di Leo
risentimento e delusione nei confronti di giornalisti da lui
formati e che ora sembrano non considerarlo più un maestro. E’
un’amarezza che si camuffa di politica, ma che pesa molto più
di quest’ultima. Così Montanelli commenta la distanza tra Leo e
i collaboratori del “Mondo”:
Ciò che gli bruciava non era che i suoi vecchi discepoli
come lo stesso Benedetti, Pannunzio, Brancati e tanti
altri, avessero seguito un’altra bandiera, ma che
l’avessero fatto senza affidarla a lui. Leo aveva tante idee
quante bastano per non averne nessuna. Le tirava fuori
solo come alibi per giustificare le guerre e le paci con
questo e con quello. […] Sotto i suoi odi furibondi, sotto
il suo sarcasmo arsenicale, non si nascondeva,
regolarmente, che un amore deluso. Il fatto che Benedetti
non fosse venuto mai a chiedergli consiglio
sull’impaginazione dell’ “Europeo” che ora dirigeva, che
Pannunzio non gli avesse più scritto una lettera da
quando faceva “Il Mondo”, che Brancati e Flaiano
avessero portato i loro manoscritti a Bompiani, e Soldati
a Garzanti, erano per lui tragedie. Ci si arrovellava. Ci si
consumava. E regolarmente le nascondeva sotto il
pretesto di qualche incompatibilità ideologica.256
A questo si aggiunga che per Longanesi le diverse opinioni
politiche non sono mai un ostacolo alla collaborazione o alla
stima che egli può riservare ad uno scrittore. Nei giornali da lui
diretti durante il fascismo non nega la penna a chi non si rivela
in linea con il regime, né la sua indipendenza di giudizio viene
���������������������������������������� �������������������254 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 8 giugno 1949, cit. in A.
UNGARI, op. cit., p. 67 255 A. UNGARI, op. cit., p. 67 256 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 284 - 285
112 �
mai offuscata, anzi, è una vera costante dell’attività giornalistica
longanesiana.
Lo stimolo ricevuto da “Mondo” si concretizza agli inizi del
1950, quando Leo è pronto, con “Il Borghese”, a contrastare da
destra il rotocalco di Pannunzio e contendergli il ruolo di
settimanale della borghesia italiana. All’inizio di febbraio
Longanesi scrive ad Ansaldo: “Ho cominciato a comporre gli
articoli, che avevo già pronti. I collaboratori saranno pochi, i
soliti, più Prezzolini, Tocci, Spadolini, Montanelli e qualche
straniero. Niente letteratura e niente illustrazioni”257. La nuova
rivista viene distribuita nelle edicole il 15 marzo 1950, sotto la
forma del quindicinale: la prima parte è dedicata a lunghi
articoli di attualità, mentre la seconda presenta rubriche stabili di
arte, cultura, politica e resoconti di viaggi. Sebbene vi siano
disegni, fregi, riproduzioni d’arte, manca la fotografia, che
compare a partire dal ’54.
Anche se Leo lamenta una certa scarsità di redattori258, a
collaborare al “Borghese” ci sono consulenti della casa editrice e
scrittori che già hanno condiviso con il direttore altre avventure
giornalistiche. Tra gli altri troviamo Montanelli, definito da
Ajello la “colonna ideologica”259 della rivista; Prezzolini, che da
New York invia articoli inerenti alla società americana, di cui
racconta la situazione politica, la storia, il costume, la
letteratura; Ansaldo, uno dei più assidui collaboratori del
“Borghese”; Spadolini, costretto però presto ad abbandonare su
pressione di Pannunzio; Baldacci, Parise, Irene Brin, Mario
Monti, Furst. Accanto a questi fanno una fugace apparizione
���������������������������������������� �������������������257 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 2 febbraio 1950, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 51 258 “Il Borghese è in composizione. Io sto sudando sette camicie, perché fare
un giornale di trentadue pagine ogni quindici giorni con le teste di cavolo che girano, non è cosa facile”. Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 13 febbraio 1950, cit. in P. ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 51
259 N. AJELLO, Il settimanale di attualità, in La stampa italiana del
neocapitalismo, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, Bari, Laterza, 1976, p. 215, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 280
113 �
anche firme che avevano frequentato gli ambienti longanesiani
durante il fascismo quali Pellizzi, Bartolini e Savinio. Spesso
molti collaboratori rinunciano a firmarsi con il loro nome
preferendo uno pseudonimo, lo stesso Montanelli ne utilizza
diversi. La motivazione di tale scelta va cercata in parte nel
desiderio di non compromettersi nei confronti delle altre testate
su cui scrivono. Spadolini, per fare un esempio, invia una lunga
lettera a Longanesi chiedendo di interrompere, a causa di
precedenti impegni presi con “Il Mondo”, la sua collaborazione
con “Il Borghese” o “di continuare, anonima, la rubrica dei
Cento libri”260. La scelta di preferire l’anonimato può anche
essere letta come gesto provocatorio all’interno di un mondo
giornalistico che si comporta diversamente, in questo modo “Il
Borghese” finisce, probabilmente, con l’apparire, “più che una
tribuna ricca di individualità che cercano di oscurarsi a vicenda
per primeggiare sullo scenario, una piccola ma agguerrita
milizia, che, per meglio difendere il proprio ideale, è capace di
muoversi in modo armonioso e compatto, come un sol uomo”261.
“Il Borghese” non raggiungerà mai la tiratura che aveva
conosciuto “Omnibus”, né compete con i rotocalchi del suo
tempo in termini di vendite; inizia proponendo non più di sei o
settemila copie, ma già alla fine del ’51 i problemi finanziari si
fanno sentire; la rivista infatti è in perdita, ma riesce a rimediare
aumentando la pubblicità tra le sue pagine. Arriva nel ’54, con
l’inserimento di una copertina lucida e di immagini fotografiche,
ad una tiratura di cinquantamila copie.
2. La linea politica del “Borghese”
“Il Borghese”, fin dal primo numero, rivela una linea politica
piuttosto vaga, non dichiara infatti di appartenere ad una ���������������������������������������� �������������������
260 Lettera di Spadolini a Longanesi datata 12 maggio 1950, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 373
261 R. LIUCCI, op. cit., p. 91
114 �
corrente precisa, né di appoggiare un partito specifico. Questa
scelta desta qualche preoccupazione tra i collaboratori di
Longanesi, che, seppur soddisfatti della nuova rivista da un
punto di vista tipografico e culturale, si mostrano scontenti per
quanto riguarda l’aspetto politico. Ecco il commento di
Montanelli al primo numero del “Borghese”:
Un po’ perplesso sono di fronte al contenuto. Tutti gli
articoli sono buoni, anzi eccellenti; ma, messi insieme,
non danno ancora la linea del giornale dal quale tutti ne
aspettano una. So benissimo da quali difficoltà esso è
nato, ma per esempio avrei visto più volentieri in corpo
dieci la Epopea del prezzo fisso e Il tipo nazionale che
non l’articolo mio e quello di Ansaldo, appunto perché
essi contengono qualcosa di più chiaramente
“programmatico” dei nostri. Noi, certo, non possiamo
identificarci con un partito, né abbassarci alla
propaganda; ma guarda che la gente, e particolarmente
quella che è destinata a leggere “Il Borghese”, sta
ansiosamente aspettando che qualcuno le suggerisca cosa
pensare. Occorre, per esempio, a mio avviso, un articolo
chiarissimo, da commissionare a Spadolini, sulla
Democrazia Cristiana e le sue prospettive elettorali.262
Montanelli non è il solo a lamentare la mancanza di un indirizzo
preciso del giornale, anche Ansaldo è dello stesso parere: “‘Il
Borghese’ è apprezzabile, ma gli si può rimproverare di non
sapere ciò che vuole, di disperdersi nell’aneddoto e nel
particolare, di essere anarchico”263. I due giornalisti non hanno
torto, in effetti nel primo numero manca un articolo che renda
noti gli obiettivi del giornale, si trovano piuttosto degli indizi
disseminati qua e là che suggeriscono l’indirizzo politico scelto
dalla rivista, ma il lettore li deve scovare da sé. Sembrerebbe che
la mancanza di una linea precisa sia addirittura una scelta
programmatica del “Borghese”, così infatti scrive Longanesi:
“penso che occorra dare un colpo al cerchio e uno alla botte in
���������������������������������������� �������������������262 Lettera di Montanelli a Longanesi datata metà marzo 1950, cit. in I.
MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 281 263 Lettera di Ansaldo a Longanesi datata 20 marzo 1950, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 52
115 �
questo momento. Non si può essere fascisti ora, ma nemmeno
ostili al fascismo, né avversi alla DC, ma neppure favorevoli”264.
L’indirizzo di Longanesi nel dopoguerra si potrebbe riassumere
in queste righe:
Oggi nel mondo delle idee, come si usa dire, c’è un solo
modo di agire: pensare contro. Essere favorevoli a
qualcosa o a qualcuno è già un modo di rinunciare alla
propria libertà. Io sono favorevole a tutti i manifesti
elettorali che inveiscano contro gli avversari; ma sono
avverso a tutti i manifesti in cui si elogia questo o
quello.265
Il Leo del dopoguerra si pone fuori dalla nuova realtà
democratica e rinuncia ad identificarsi in un qualche
schieramento; durante il regime si era riservato il diritto di
essere fascista contestando sistematicamente e promuovendo
una sottile fronda interna, ora rifiuta la politica stessa, facendo
dell’anticonformismo la sua bandiera. La linea politica di
Longanesi, e dunque del “Borghese”, è “pensare contro”.
Un approccio di questo tipo alla neonata democrazia si può
riscontrare in un articolo del primo numero della rivista, Il treno
fantasma Lecce – Milano, un breve racconto che, pur non
presentandosi come scritto programmatico, rivela chiaramente le
posizioni dell’autore e del giornale. La discussione tra alcuni
passeggeri prende il via dal prezzo, ritenuto eccessivo, di un
cestino da viaggio e sfocia subito in amare, quanto generiche,
considerazioni sulle sorti dell’Italia dopo la caduta del fascismo.
L’esperimento democratico sembra essere un grande fallimento,
che ha portato alla rovina la Patria: “Ma non è solo una
questione di cestini! E’ che oggi manca la molla che fa agire,
manca il patriottismo. La Patria, ormai, è una ciabatta dei preti.
La Patria non c’è più! Se la sono divisa i partiti e i signori della
���������������������������������������� �������������������264 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 13 febbraio 1950, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 52 265 L. LONGANESI, Fa lo stesso, a cura di Paolo Longanesi, Milano,
Longanesi & C., 1996, p. 251
116 �
plutocrazia, perché la plutocrazia ha preso un’altra volta il
mestolo”266. Affiora allora il ricordo di un passato glorioso:
«Un tempo, si mandavano i bambini al mare e in
montagna, e non ne annegava mai uno; i bambini, tutti
benvestiti, tutti ben pettinati, tutti in fila con la loro
maestra, e con le loro bandiere, andavano via bianchi e
tornavano abbronzati! Si agiva. C’era un interesse per il
popolo che, adesso che di popolo si parla tanto, adesso
non c’è più!». Il viaggiatore tace per un minuto, si guarda
attorno compiaciuto e con voce sommessa, ma sicura,
borbotta: «era quello il tempo del fascismo».267
Il passato assume i colori del mito e il presente appare come
un’epoca tristemente grigia: “E’ che l’Italia, bene o male, prima
c’èra, e adesso non c’è più!”268. Non è chiaro cosa desiderino i
partecipanti alla discussione per la nuova Italia, ma “trapela
dalle loro esclamazioni un vago desiderio di ordine e di
moralità, un patriottismo ardente, il desiderio, soprattutto, di un
mito che essi non sanno definire, ma che si sente nelle loro
voci”269. Si tratta dello stesso desiderio conservatore di
Longanesi, che però viene spesso scambiato per nostalgia del
regime.
Giungono a Leo accuse di fascismo da diverse voci; Furst, ad
esempio, scrive: “Dici che non sei fascista, ma prendi in giro il
Parlamento; e che migliore sistema esiste? Scrivi che tra Russia
e America rimarrà chi è meno democratico; cioè la Russia? Ma
se in tutte le guerre, alla lunga, perde sempre chi è meno
democratico. Così facendo ti allontani molti amici”. E ancora:
“Ansaldo ha scritto alcuni articoli bellissimi, ma perché così
leofascisti?”270. Considerare ora Longanesi come un fascista
convince poco, dato che non lo è stato appieno nemmeno ���������������������������������������� �������������������
266 L. LONGANESI, Il treno fantasma Lecce – Milano, “Il Borghese”, 15 marzo 1950, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 19 - 20
267Ibid., p. 20
268Ibid., p. 21
269Ibid., p. 20
270 Brani di una corrispondenza tra Furst e Longanesi riportati da quest’ultimo in una lettera ad Ansaldo datata 15 maggio 1950, cit. in I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 282
117 �
durante il regime; si pensi a come “Omnibus” abbia
rappresentato una “palestra di antifascismo” per molti talenti del
giornalismo italiano o come Leo abbia voltato le spalle a
Mussolini nell’estate del ’43. Il direttore del “Borghese” non
desidera un ritorno alla dittatura, ma non concorda con chi
rinnega l’esperienza del ventennio. Egli propone di allontanare
elogi e denigrazioni e di fare del fascismo un capitolo, come ce
ne sono tanti altri, della storia d’Italia. Queste le parole che Leo
affida al “Borghese”:
Dilagano in Italia tre diverse specie di paura: quella di
sembrare fascisti, quella di non sembrare abbastanza
fascisti e quella di non essere antifascisti del tutto. Se ne
deduce che, per un verso o per l’altro, si gira sempre
attorno a un punto fisso, cioè il fascismo. Il che dimostra
che non siamo ancora riusciti a vincere il nostro
“complesso della colpa”. Non resta allora che accettare,
una volta per tutte, il fascismo come una esperienza
storica da mettere in disparte. Ma quel che ci divide da
molti è la scelta del luogo nel quale collocare questa
esperienza: noi suggeriamo il museo, altri la galera.271
La polemica nei confronti dell’antifascismo e della Resistenza
inizia già quando Leo si trova a Napoli e si trasferisce con lui a
Milano; ecco le parole con cui Longanesi descrive il
movimento:
L’antifascismo è molto meschino, fatto di queste piccole
ostilità, di questi ripicchi. Il clima che si respira qui a
Napoli è quello dei collegi e delle sacrestie. La maggior
preoccupazione degli antifascisti è quella di non allargare
la propria cerchia, per timore che altri possano dire o fare
qualcosa a cui essi non hanno pensato; e custodiscono i
loro meschini sogni di vendetta con l’astio e il moralismo
delle vecchie zitelle contro le giovani spose. […] Il
fascismo, per costoro, è un nemico personale, non un
avversario; un nemico da cui sono stati privati per venti
anni di potere, di cariche, di privilegi, vent’anni che
nessuno potrà ora restituire loro. E il loro moralismo è
���������������������������������������� �������������������271 L. LONGANESI, “Il Borghese”, 15 aprile 1950, cit. in R. LIUCCI, op.
cit., p. 100
118 �
così meschino e cieco che li priva d’ogni libertà di
giudizio; non vedono oltre il naso dei loro piccoli
programmi, dei loro opuscoletti, della loro sparuta
conventicola, e si comportano come i superstiti di una
civiltà perduta, i depositari di un verbo che essi soli
conoscono e che non rivelano per paura di far proseliti.
Ma quel che essi non sanno, è che parlano lo stesso
linguaggio demagogico del fascismo; e quel che essi
vogliono costruire in Italia è stato all’incirca fatto dal
fascismo, solamente con più violenza e meno metodo.272
L’antifascismo sembra troppo simile al fascismo, con la
distinzione che, tra i due, il primo possiede molto meno fascino.
Lo stesso trattamento viene riservato alla Resistenza, di cui
Longanesi cerca di mostrare un lato diverso, meno eroico e
meno celebrativo. A tale fine vengono pubblicate opere come
Qui non riposano, di Montanelli, in cui, accanto ai partigiani,
vengono ricordate tutte le vittime di guerra, senza distinzione di
colore politico; Il cielo è rosso, di Giovanni Berto, in cui manca
un elogio aperto della Resistenza; Fuga in Italia, di Mario
Soldati, tra le cui pagine viene ben giudicata la ritirata
silenziosa, contrapposta ad una netta presa di posizione. Nella
reinterpretazione della Resistenza anche “Il Borghese” fa la sua
parte, ne è un esempio un articolo pubblicato nell’estate del ’50
a firma di Nantas Salvalaggio273, in cui si ricorda il tentativo
dell’autore di fuggire al reclutamento della Repubblica sociale e
i successivi festeggiamenti con i partigiani una volta passato il
pericolo. La Resistenza non viene dipinta certo sotto vesti
eroiche.
L’antifascismo non è l’unico obiettivo della polemica
longanesiana, vi trova spazio anche la democrazia:
La parola democrazia mi destava una insofferenza fisica,
come l’odore stantio dei vecchi cassetti o l’alito guasto di
certe vecchie; sentivo nell’aria un odore di muffa, di
���������������������������������������� �������������������272 L. LONGANESI, Parliamo dell’elefante, cit., p. 188 - 189 273 N. SALVALAGGIO, Liberata in gondola, “Il Borghese”, 15 agosto 1950,
cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 101
119 �
umida miseria, un odore di cavalli lessi nelle scatole della
nuova società, come in certe vecchie portinerie, un odore
di farisei. Poi scoprii che quegli odori corrispondevano a
un mio giudizio storico e morale.274
In particolar modo diventa insopportabile quando permette al
popolo di uscire allo scoperto e di partecipare alla vita politica:
“La democrazia delle classi aristocratiche e colte, che si chiama
liberalismo, è gradevole; ma quella popolare è intollerabile. Una
fila di carrozze è elegante: una fila di Vespe disturba”275 e
ancora “il pericolo delle democrazie, ora, è la loro antica
conquista, cioè il suffragio universale, cioè le masse: lasciare
libertà alle masse significa perdere la libertà. Sembra un
paradosso, e non lo è”276. Tale giudizio sulla democrazia si
riflette naturalmente anche sul “Borghese”:
Fra i molti italiani che rifiutano la democrazia così
com’è, ma non lo sanno, noi siamo fra i pochissimi che la
rifiutano e lo sanno. Noi rifiutiamo, per esempio, un
sistema elettorale che pone le capacità alla mercè del
numero: rifiutiamo l’oppressione delle libertà individuali
operata dai partiti; […] rifiutiamo la polverizzazione
dello stato nelle regioni; rifiutiamo la lenta morte per
inedia cui sono condannati i benemeriti della Nazione,
coloro che hanno combattuto per obbedire alle sue leggi,
[…] rifiutiamo il diritto di sciopero politico; rifiutiamo la
manomissione politica degli organismo tecnici della
Nazione; rifiutiamo la paralisi cui l’attuale Costituzione
condanna il capo dello Stato.277
Con l’avvento della democrazia, poi, la politica estera italiana si
indebolisce e il nazionalismo, tanto esaltato durante il fascismo,
viene mortificato. Questa è una polemica che diviene una
costante tra le pagine del “Borghese” e si infiamma
particolarmente durante la guerra di Corea, momento in cui si
���������������������������������������� �������������������274 L. LONGANESI, Un morto fra noi, Milano, Longanesi & C., 1952, p. 79,
cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 55 275 L. LONGANESI, Fa lo stesso, cit., p. 161 276
Ibid., p. 109 277
Dopo De Gasperi, “Il Borghese”, 1 giugno 1950, cit. in R. LIUCCI, op.
cit., p. 95
120 �
reclama un ruolo più attivo dell’Italia accanto all’alleato
americano.
“Il Borghese” non appoggia nemmeno la scelta repubblicana:
Qualcuno, giorni fa, rivolgeva ad un conoscente la solita
domanda che gli italiani fanno per abitudine, e alla quale
nessuno mai risponde allo stesso modo: «Lei è
monarchico o repubblicano?». La risposta fu semplice,
ma sincera: «Eh, secondo i giorni. Sarei monarchico, ma
ormai …». E’ una risposta modesta e solenne.
Quell’“ormai” spiega, illustra, chiude per sempre la storia
della monarchia in Italia, e non si può dir di meglio, ne di
più. “Ormai” la Repubblica è fatta, l’unità storica italiana
è spezzata.278
La monarchia viene vista come un elemento conservatore, in un
opposizione alla Repubblica, che arriva in Italia assieme alla
democrazia e ne condivide i tratti popolani e moderni.
La nuova Italia non si distingue nemmeno per aver una buona
classe politica secondo Longanesi; vengono infatti presi di mira
tutti gli schieramenti politici, non si salva né la destra, né la
sinistra:
La destra? Ma se non c’è nemmeno la sinistra in Italia!
Tutti vanno verso quel qualcosa che si presume o che si
teme che accada; ogni posizione ferma e definitiva è
intollerabile, compromettente. Gli italiani debbono
sentire l’illusione di vivere in un continuo divenire;
debbono affidarsi alla illusione del moto … Come
allestire qui una destra? La destra non si illude; la destra
vorrebbe fare economia, ricondurre il paese a un minimo
di decenza. La destra vorrebbe tenere in piedi la sinistra,
educarla, prepararla a succederle, inserirla nella
tradizione, eccetera … E la sinistra, dal canto suo,
dovrebbe costringere la destra a essere tale. […] Cose
impossibili qui. Qui non c’è nulla: né destra, né sinistra.
���������������������������������������� �������������������278
Ormai (Monarchia e Repubblica), “Il Borghese”, 15 ottobre 1950, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 99 - 100
121 �
Qui si vive alla giornata fra l’acqua santa e l’acqua
minerale.279
La destra non lo convince e anche il partito che maggiormente si
rifà al fascismo non raccoglie il favore di Leo:
Il MSI non costituisce per noi né una radiosa speranza né
un timore ossessivo, e non lo diventerà fino al giorno in
cui i suoi nemici, pugnalandone i capi, e il governo, non
riuscendo a identificare gli assassini, saranno riusciti a
dargli una consistenza oltre i rimpianti e la liturgia nei
quali sembra sino a oggi volersi riassumere.280
Va però detto che, nonostante tale presa di posizione, Longanesi
dà spesso la penna ad esponenti dell’estrema destra, quali Mario
Tedeschi, il cui primo capitolo di Fascisti dopo Mussolini viene
pubblicato nel “Borghese”281, Eugenio Dollmann e Alberto De
Stefani. Alla morte di Leo sarà proprio Tedeschi, in
collaborazione con Gianna Preda, a rilevare il giornale,
modificandolo profondamente e spostandolo in modo chiaro a
destra.
Le critiche a quest’ultima parte politica non vengono
risparmiate, ma l’obiettivo polemico principale di Leo rimane il
comunismo, di cui si teme la crescita e l’espansione tra gli
italiani. In tempo di elezioni, infatti, Longanesi porta avanti
un’accesa campagna anticomunista: nel ’48 un opuscolo dal
titolo Non votò la famiglia De Paolis incita gli italiani a recarsi
alle urne prefigurando un’Italia governata dall’estrema sinistra,
e nel ’52 “Garofano rosso” viene distribuito gratuitamente in
quarantamila copie. Si tratta di un quindicinale dall’aspetto
socialista rivolto agli operai al cui interno, però, si trova una
sottile denuncia delle incongruenze e dei danni del comunismo.
E’ proprio la necessità di contrastare l’estrema sinistra a portare
Leo al sostegno della DC. Non si tratta, in realtà, di un voto a ���������������������������������������� �������������������
279 L. LONGANESI, Parliamo dell’elefante, cit. ,p. 28 280
Le vacche magre, “Il Borghese”, 15 maggio 1950, cit. in R. LIUCCI, op.
cit., p. 105 281 M. TEDESCHI, Gli ultimi mazziniani, “Il Borghese”, 1 giugno 1950
122 �
favore della Democrazia Cristiana, piuttosto è un voto contro il
PCI. Il partito di De Gasperi, pur con tutti i suoi limiti, sembra
essere l’unico in grado di garantire le “libertà borghesi”:
No, si vota per la Democrazia Cristiana unicamente
perché essa è il partito, la cui prevalenza, alla bell’è
meglio, ci assicura il regolare funzionamento della
Celere, che ci sta immensamente a cuore, e che, gira e
rigira, è il presupposto indispensabile per lasciare venire i
tempi nuovi, uomini nuovi, soluzioni nuove, senza
sbandarci nell’attesa.282
A confermare il fatto che Longanesi non favorisca la DC per
convinzione, ma per necessità interviene la vignetta stampata nel
numero del 1 maggio 1951, in cui sono ritratti due coniugi: il
marito si rivolge alla moglie: “Vota per la Democrazia Cristiana,
ma non dirlo ai vicini”283.
L’appoggio alla DC inizia a venire meno quando il partito
delude le aspettative di un governo autoritario di destra. Ecco
allora che sul “Borghese” compaiono aspre critiche:
Ogni volta che invitiamo a cena la libertà e cogliamo
l’occasione per muovere qualche critica alla DC e ai suoi
capi, accade lo stesso fatto: i democristiani, gli amici dei
democristiani, i borghesi che finanziano la DC saltano su
a dire che rompiamo il fronte anticomunista. […] Ma di
quale fronte si parla? Qui non ci sono fronti; qui c’è
soltanto una classe politica che indossa panni non sempre
puliti, qui c’è un giornalismo ufficiale fradicio; qui ci
sono deputati che rincorrono i grossi affari, che fanno
l’intrallazzo di sussidi governativi.284
Le critiche continuano alla morte di De Gasperi, che non lascia,
secondo Leo e i suoi collaboratori, una classe politica in grado
di sostituirlo, per poi farsi ancora più accese con l’elezione di
Ronchi alla Presidenza del Repubblica. Lo scontento arriva in
���������������������������������������� �������������������282
Confessioni elettorali, “Il Borghese”, 1 giugno 1953, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 115
283 “Il Borghese”, 1 maggio 1951, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 109 284
Termometro, “Il Borghese”, 1 marzo 1954, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 117
123 �
prima pagina il 30 luglio 1954 attraverso una vignetta che
mostra una donna dalle ampie forme nell’atto di pulirsi con una
saponetta tricolore. La donna rappresenta la DC e l’uso che essa
fa delle istituzioni italiane.
Alle elezioni amministrative del ’56 “Il Borghese” esorta a non
votare la Democrazia Cristiana, rea di essersi compromessa con
il socialismo, ma a preferire la destra:
Occorre franchezza e coraggio: la destra, da movimento
di opinione, deve diventare una forza efficace. Si neghi,
dunque, il voto alla DC. […] Liberali, monarchici e
missini sono gli unici che abbiano preso l’impegno di
ostacolare la formazione di Giunte comunali con
l’inclusione di socialisti e comunisti. Ogni voto dato a
uno di questi tre partiti è utile.285
3. L’elogio del passato
“Il Borghese”, come giornale di costume, si pone in forte
antitesi con la modernità e con i cambiamenti che essa porta
nella società. Lo si può riscontrare, ancora prima che nei singoli
articoli, nella veste grafica della rivista: “niente letteratura e
niente illustrazioni”286. Quando in edicola i rotocalchi sono
oramai diventati un’abitudine l’inventore di “Omnibus” sceglie
un’altra via e pubblica una rivista senza fotografie, affidandosi
solo a disegni e vignette. Per il padre del primo rotocalco
italiano sembra quasi “un ritorno alle origini, a quando con
caratteri e disegni si faceva tutto”287.
Nel corso degli anni “Il Borghese” è però costretto, suo
malgrado, a qualche compromesso con la modernità sul piano
grafico: tra le sue pagine entrano presto messaggi pubblicitari,
���������������������������������������� �������������������285
A chi dare il voto?, “Il Borghese”, 25 maggio 1956, cit. in R. LIUCCI, op.
cit., p. 130 286 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 2 febbraio 1950, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 51 287 P. ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 52
124 �
che collaborano a risollevare la situazione finanziaria; nel ’54 fa
la sua comparsa il colore, grazie ad una copertina lucida e
illustrata e un supplemento composto da diverse illustrazioni, in
concomitanza con il passaggio da quindicinale a settimanale e
con l’aumento di prezzo; nello stesso anno “Il Borghese” si
piega ad accogliere anche la fotografia.
La lotta alla modernità non si sviluppa certo solo sul piano
grafico, ma anche in quello contenutistico. La società, per
Longanesi, dovrebbe essere stabile e fortemente gerarchica,
senza alcuna commistione tra l’alto e il basso. Ecco la situazione
perfetta per Leo: “C’è un’aria di reazione che fa bene alla salute.
Qui a Milano, ad esempio, la gente va alla scala in abiti da sera,
ed ho visto anche un cilindro. Molti operai dicono «Sì,
Signore!». Mi dispiace di non essere marchese per sentirmelo
dire da voci vinte e adulatrici”288. Il nemico principe di una
società di questi tipo è il progresso: esso collabora alla riduzione
delle distanze tra le classi sociali, secondo Leo funge da
livellatore delle gerarchie.
Ecco allora Longanesi pronto a scagliarsi contro il benessere che
si sta diffondendo in varie classi sociali, a demonizzare gli
elettrodomestici, le merci standard e la motocicletta in una
pagina e nell’altra, per necessità finanziarie, a pubblicizzarli. Il
povero non odia più la ricchezza, ma aspira a raggiungerla, il
contadino si atteggia a padrone, in definitiva “le masse sono vili,
più borghesi degli stessi borghesi. Il proletario non è più quello
di ieri: è un codazzo viziato, che ha sete di benessere, vile, senza
più ideali. Aspetta soltanto: aspetta l’automobile, la casa a rate,
la radio, il televisore, la pensione, la medicina gratis,
eccetera”289.
���������������������������������������� �������������������288 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 15 febbraio 1948, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 48 289 Lettera di Longanesi ad Ansaldo datata 7 luglio 1956, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 57
125 �
Figlio del progresso è anche l’uso del cemento, che copre
prepotentemente le bellezze del passato:
La Democrazia marcia sicura a testa alta accanto al
Progresso. Voi arrivate in una città, a distanza di un anno,
e per poco non riconoscete più le vie […]. Qui, davanti a
un antico monumento, è stato costruito un chiosco per la
benzina, ma che dico un chiosco! Un vero e proprio
edificio moderno, con torri e tettoie e fari che gettano
fasci di luce nel folto della notte. Là, più avanti, la piazza
è stata spaccata a metà […] perché il governo, la
democrazia, quella cristiana e le altre, […] non
ammettono che un cittadino non debba, non possa correre
a ottanta chilometri all’ora nel centro della città. Quel
cittadino deve andare in fretta, perché è la fretta che dà al
paese l’illusione dell’attività, della modernità.290
Tra gli obiettivi della polemica longanesiana non può mancare la
televisione, criticata ancora prima del suo arrivo in Italia: “La
televisione è basata sulla convinzione che esista moltissima
gente che non ha nulla da fare e che è pronta a perdere tempo a
guardare gente che non è buona a fare nulla”291. Il nuovo mezzo
di comunicazione di massa racchiude in sé, secondo Leo, tutta la
mediocrità del tempo, dispensando cultura di bassa leva e
contribuendo al consumismo. Il successo della trasmissione
Lascia o raddoppia nutre ancor più il disgusto per il piccolo
schermo e arriva, sulle pagine del “Borghese” dipinto di ironia:
In questo desolante spettacolo offerto dal nostro paese [in
cui il ministro della pubblica istruzione non proibisce agli
studenti di partecipare alla trasmissione di Mike
Buongiorno, e anzi si adonta se qualcuno glielo fa
notare], assetato di idiozia, di pubblicità, di svago e di
vittorie televisive, si eleva, solenne e splendido, la figura
dell’ultimo moicano, del restauratore della dignità
nazionale, del vero Pestalozzi lombardo: alludiamo a quel
borghese, a quel Principale, di cui si parla nella notizia
qui sotto riportata: “Ada Galozzi è stata vittima di un
sgradevolissimo infortunio: prenotata al concorso della
���������������������������������������� �������������������290 L. LONGANESI, Aria!, “Il Borghese”, 1 settembre 1952, cit. in R.
LIUCCI, op. cit., p. 168 291 “Il Borghese”, 15 settembre 1950, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 175
126 �
TV fin dallo scorso dicembre, ufficialmente selezionata
venerdì scorso, la ragazza, come ha mostrato al principale
della ditta presso cui è impiegata il telegramma di invito
alla trasmissione, è stata licenziata su due piedi”. A lui, al
Signor Principale, all’ultimo moicano, vada la
riconoscenza dei nostri pochi lettori. Viva l’Italia
padronale!292
“Il Borghese” tenta, in modo un po’ anacronistico, di difendere
la vecchia Italia dalle mode e dalle innovazioni della vita
moderna, guardando con ammirazione all’Ottocento, quando le
nuove tecnologie ancora non erano nate, il rombo dei motori non
disturbava le città e al loro posto vi erano eleganti carrozze
trainate da cavalli, quando le gerarchie sociali ancora reggevano
la società. Questo è il paradiso di Longanesi, “un paradiso
plasmato, perfetto e conchiuso; un paradiso maneggevole,
articolato, portatile, simile ad una città completa, con le sue
case, le sue piazze, i suoi gradini, ma in plastico e che tutta
assieme sta sopra un tavolino a tre gambe”293. Nell’ammirazione
per l’Ottocento e nel tentativo di ricrearlo Leo coinvolge tutti i
suoi collaboratori; uno di questi, alla morte del direttore, ne
parla in questo modo:
Che battaglia avevamo combattuto, tutti noi, sotto la sua
ispirazione e guida? Una battaglia perduta, in nome di un
mondo immaginario, inventato di sana pianta da lui.
Avevamo difeso contro il neon, l’architettura razionale, la
psicanalisi, gli elettrodomestici e le vitamine, un
Ottocento che nemmeno nell’Ottocento era esistito […],
un mondo di Longanesi, dove non c’era che
Longanesi.294
Si tratta di una battaglia che pretende di fermare il tempo, una
battaglia, è vero, persa in partenza, ma non per questo Leo vi
rinuncia; la sua arma è la borghesia, classe sociale a cui affida il
compito di far rivivere l’Ottocento e a cui, infatti, è rivolto “Il ���������������������������������������� �������������������
292Italia padronale e TV, “Il Borghese”, 23 marzo 1956, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 177
293 A. SAVINIO, Leo Longanesi, Milano, Hoepli, 1941, p. 4 294 I. MONTANELLI, Longanesi a Milano, “Il Borghese”, 10 ottobre 1957,
cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 187
127 �
Borghese”. La borghesia di questi anni, però, ha perso fiducia in
sé e smarrito la propria identità. Non si distingue, come un
tempo, per onestà e decoro, ma insegue il denaro tradendo i
valori che la tradizione ha costruito:
Al mito di un borghese economo, lavoratore, onesto e
conservatore ora si va opponendo quello di un borghese
senza natura, romantico e spaesato, deciso a farsi strada,
vago di novità, sempre più mediocre e falso. Carico di
esigenze , povero di capacità, il nuovo borghese si ostina
a inseguire la rettorica di un’agiatezza e di un decoro che
non si è guadagnati: sportivo e distratto, zelante in
politica, scettico e senza scrupoli, va rinunziando ogni
giorno ai suoi doveri e ai suoi meriti.295
L’obiettivo del “Borghese” è allora quello di fornire a questa
classe sociale un indirizzo morale, all’occasione anche politico,
in modo da tornare indietro nel tempo, quando “nessuno restava
offeso a sentirsi chiamare borghese: borghese era un titolo, una
condizione onorevole che nessuno rifiutava; i borghesi non si
credevano aggettivi dispregiativi della storia, ma sostantivi,
nobili, valorosi, validi, gloriosi sostantivi”296. Oltre a
riconquistare una più viva concezione di sé, la borghesia non
può rimanere isolata, o peggio ancora frammentata all’interno di
vari partiti, deve unirsi e far sentire la propria voce. L’invito
viene direttamente da Montanelli, nascosto sotto uno dei suoi
pseudonimi:
La invito, caro Longanesi, a cominciare a fare quello che
ormai si impone. […]. Non essere con nessuno dei partiti
oggi in lizza, non basta più. […] Dalla cittadella in cui ci
siamo asserragliati per tanto tempo per difendervi un
patrimonio più morale che politico, è ormai giunto il
���������������������������������������� �������������������295 L. LONGANESI, Il successo nella vita, “L’Italiano”, n. 11, 1932, p. 183,
cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 16 296 L. LONGANESI, Borghese e proletario, “Il Borghese”, 1 aprile 1950, cit.
in R. LIUCCI, op. cit., p. 12
128 �
momento di tentare la sortita. E non più con la sola arma
di un giornale.297
La sortita non tarda ad arrivare e, nel ’55, nascono i “Circoli del
Borghese”; si diffondono in varie città con discreto successo per
poi riunirsi tutti in assemblea a Milano e sancire la loro unione
nella “Lega Fratelli d’Italia”. Nei desideri di Leo
quest’avventura dovrebbe assomigliare ad un circolo
ottocentesco e, come quelli, influire, pur senza tradursi in un
partito, sulla situazione politica. Le cose però prendono una
piega diversa e i “Circoli” vengono presto chiusi. La borghesia
che Leo ha idealizzato, pensando di farla assomigliare al
modello ottocentesco, inizia a deluderlo: essa, come classe
sociale, non esiste più, e nulla ha più in comune con quella del
secolo precedente. Consapevole della sconfitta, Longanesi affida
la sua delusione alle pagine del “Borghese”:
Non c’è speranza. Il destino di una certa borghesia è
segnato: fra dieci anni, questi tempi vi sembreranno
lontanissimi, se pur ve n’accorgerete. Perché non saprete
neppure accorgervi dei mutamenti che accadranno. Voi
stessi sarete talmente mutati da non capire più quel che vi
è accaduto. Ed è questa la grande novità: che la borghesia
d’oggi è già nell’atteggiamento mentale di chi vuol subire
mutamenti. […] Ignorante e passiva, la borghesia è scesa
al livello del proletariato, che attende il meglio dal partito
a cui ha aderito. Ma la borghesia ha un partito, non ha il
suo partito: essa concede la sua fiducia a chi la minaccia
di meno; e ciò la pone nella condizione di chi, come si
diceva una volta, “subisce la storia”. Le speranze sono
disarmate. La DC è divenuta, a un tratto, il partito più
forte, in Italia, grazie ai voti della borghesia, senza essere
un partito borghese. […] La borghesia italiana ha perduto
la sua battaglia.298
���������������������������������������� �������������������297 COLTANO, La botte di Attilio Regolo, “Il Borghese”, 13 maggio 1955,
cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 139 298
La speranza disarmata, “Il Borghese”, 25 maggio 1957, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 132
129 �
Capitolo VI: Longanesi scrittore
1. L’attività letteraria di Longanesi
Anche se l’occupazione principale di Longanesi è il
giornalismo, va ricordato che, accanto a questa, egli ricopre
anche il ruolo di scrittore, cimentandosi in opuscoli, raccolte di
aforismi, saggi e diari. I risultati più rilevanti da lui raggiunti
rimangono in ogni caso legati alle riviste dirette, agli articoli
carichi di ironia e paradossi, alle novità tipografiche, alle
fotografie e alle vignette. E’ in questo campo che Leo riversa
tutto il suo talento lasciando il segno nella storia del giornalismo
italiano. Questo perché la sua personalità, così anticonformista,
schiava dell’umore del momento, priva di freni o inibizioni, si
intona perfettamente alla forma di comunicazione del giornale, e
ancor più del rotocalco. E’ uno stile, il suo, che attrae il lettore,
lo ammalia e lo costringe a leggere.
Nel campo della letteratura Leo non scrive molto, eppure le idee
certo non mancano ad un artista che, come lui, ha sperimentato e
inventato. Montanelli scrive che
non ci ha lasciato in eredità che pochi smilzi libri.
Quest’uomo che dopo due ore di conversazione ci
rimandava a casa con lo spunto per un paio di romanzi,
una mezza dozzina di commedie e una decina di articoli,
e che ha fatto scrivere tanta gente, di suo ha scritto
poco.299
Che le idee non mancassero a Longanesi è testimoniato anche da
Irene Brin, che, all’indomani della chiusura di “Omnibus”,
ricorda: “noi continuammo a raccoglierci in piazza della Pilotta,
verso sera e poi a pranzare insieme. […] Fingendo di credere ad
una ripresa di ‘Omnibus’ Longanesi regalava le idee che, molti
���������������������������������������� �������������������299 I. MONTANELLI, Prefazione a L. LONGANESI, La sua signora,
taccuino, cit., p. 5
130 �
anni dopo, sarebbero divenuti i rotocalchi, i romanzi, i film, le
fortune altrui”300.
Per scrivere un romanzo, però, ci vuole pazienza, costanza e
compromesso con il lettore, a cui vanno proposti ritmi diversi,
sapientemente calibrati tra lenti e veloci; Leo invece non sa stare
ai patti, non legge mai un libro per intero e salta subito alle
conclusioni, non accetta le pause, non si concede il tempo di
ragionare: “Egli era soprattutto un artista, tutto gusto ed intuito,
che faceva semplicemente piangere quando si metteva a
ragionare, ed infatti non ci si provava mai”301. Come si può
chiedere ad uomo così impaziente di scrivere lunghe opere
letterarie?
Eppure qualcosa Longanesi scrive, soprattutto nel secondo
dopoguerra, con l’eccezione degli opuscoli Vademecum del
perfetto fascista, Almanacco di Strapaese, in collaborazione con
Maccari, e Piccolo dizionario borghese, stilato con Brancati,
redatti nel tempo del regime. Le altre opere, invece, sono frutti
della democrazia, e in essa trovano anche la loro ragion
d’essere: il nuovo assetto istituzionale porta Longanesi alla
necessità di far chiarezza sulle sue posizioni e di prendere le
distanze da quelle altrui. Parliamo dell’elefante, In piedi e seduti
e Un morto fra noi ripercorrono in modo diverso la storia del
fascismo, ma nascono tutti dall’esigenza di guardare al
ventennio senza i toni accusatori e dispregiativi del dopoguerra.
In risposta a chi, magari avendone fatto parte un tempo,
maledice il fascismo, Longanesi risponde con una rilettura degli
anni del regime fatta alla sua maniera.
Parliamo dell’elefante si presenta sotto la forma del diario e
narra gli avvenimenti dal ’38, passando per il soggiorno a
Napoli di Leo, fino al novembre del ’46. In piedi e seduti
���������������������������������������� �������������������300 I. BRIN, Un nome inventato, “Il Borghese”, 10 ottobre 1957, cit. in P.
ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 34 301 I. MONTANELLI, Prefazione a L. LONGANESI, La sua signora,
taccuino, cit., p. 6
131 �
accoglie invece un arco cronologico più ampio, il racconto inizia
nel ’15 e si conclude nel ’45, proponendo una cronistoria del
fascismo e del suo Duce; “attraverso notizie e commenti, spiega
come gli italiani, tutti ‘in piedi’ quando Mussolini pronunciò il
fatidico discorso nel ’35, finirono tutti seduti, Mussolini
compreso”302. Un morto fra noi descrive la figura di Mussolini e
il modo in cui, una volta mancato, diventi “un ingombro per gli
italiani, ma soprattutto per Leo”303.
La democrazia e la caduta del regime portano in Italia diverse
novità, prima fra tutti il progresso, che, entrato nelle case della
buona borghesia, la sta corrompendo sempre più. Questo è
l’argomento affrontato da Ci salveranno le vecchie zie? e La sua
signora, taccuino. Il primo è una raccolta di undici capitoli,
ognuno dei quali vede un diverso lato della borghesia da mettere
sotto accusa, mentre il secondo è un insieme di pensieri, alcuni
sotto la forma dell’aforismo, altri un po’ più lunghi, tutti
provenienti dal Taccuino di Longanesi, una rubrica del
“Borghese”. Non c’è solo la borghesia in queste due opere, ma
tutta la società italiana, osservata con un acuto spirito critico e
non poca polemica.
Accanto ai libri pubblicati in vita, vanno ricordati quelli
postumi, di cui fanno parte il già citato La sua signora, Fa lo
stesso, raccolta di articoli stampati su vari giornali dagli esordi
della carriera di Leo fino alla morte, Il meglio di Leo Longanesi,
curato da Mario Monti, e I borghesi stanchi.
2. Lo stile
Il Longanesi scrittore non è poi così lontano dal Longanesi
giornalista, egli infatti trasporta lo stile della rivista nelle pagine
del libro, dando vita ad una letteratura fatta di velocità, giudizi
���������������������������������������� �������������������302
Presentazione a L. LONGANESI, In piedi e seduti, cit., p. 19 303 I. MONTANELLI, M. STAGLIENO, op. cit., p. 283
132 �
immotivati, paradossi, ma soprattutto dimentica di quel patto
tacito che in genere ogni autore stipula con il proprio lettore. A
lente descrizioni dovrebbero alternarsi dialoghi più concitati,
così come il procedere della narrazione dovrebbe essere
intervallato da pause, in modo che chi legge possa, di tanto in
tanto, far calare la tensione. Non Leo: egli trova tremendamente
noioso tutto ciò che è piatto, la sua scrittura è una corsa tra mille
trovate, in cui l’unica sosta è il finale.
Alla domanda postagli da Montanelli sul perché egli, al di là del
giornalismo, scriva poco, Longanesi risponde:
Perché se vuoi raccontare qualcosa, come si suol dire, di
organico, devi piegarti, ogni tanto, al banale. Perfino
Tolstoj deve dire a un certo punto che “Anna Karenica si
alzò e andò ad appoggiare la fronte ai vetri della
finestra”. Ecco: io non sarò mai capace di seguire
un’Anna Karenica in un movimento così ovvio e usuale.
Che me ne frega, a me, che quella brava signora vada alla
finestra? Anche la mia serva ogni tanto ci va. Eppoi si
dimentica di pulire i vetri. Eppure, se vuoi scrivere un
romanzo, devi rassegnarti a seguire i personaggi anche in
queste faccende private. E io non mi ci rassegno.304
Si tratta di una negazione della narrazione: Longanesi si sottrae
alle regole della scrittura letteraria e, al loro posto, utilizza
quelle del giornalismo: in tale campo, viste le dimensioni ridotte
del testo e la fruizione immediata a cui esso è destinato, l’autore
può correre, attrarre il lettore giocando con le parole, stringere la
spiegazione e dare giudizi lapidari. Leo traduce tutto questo nel
libro attraverso la modalità dell’aforismo.
A ragione Montanelli scrive:
Era, espressa alla Longanesi, la vocazione del
memorialista epigrammatico, e la si trova persino nelle
sue lettere private, tutte a capoverso e asterischi,
comprese quelle ch’egli scriveva per sfogarsi contro la
���������������������������������������� �������������������304 I. MONTANELLI, Prefazione a L. LONGANESI, La sua signora,
taccuino, cit., p. 5
133 �
sciatica. Un’immagine, una battuta, punto e a capo. Si
arriva in fondo alle due paginette col fiato mozzo, perché
non si è trovata, per tirarlo, la pausa in cui Anna Karenica
va ad appoggiare la fronte ai vetri della finestra. Questi
momenti banali e riposanti, questi intervalli distensivi,
che ogni autore, anche grande, concede al suo lettore,
Leo li saltava sia scrivendo che parlando. Non dava pace
e non se ne dava.305
E’ lo stesso Longanesi, del resto, a rendersene conto; scrive
infatti a Soffici:
Ma io ho una terribile malattia ancora, mi spaventa di far
le cose sul serio, mi spaventa una tela pronta sul
cavalletto, ed una liscia facciata di carta Fabriano … per
questo mi perdo in pezzettini di carta. Così quando
scrivo: aforismi, articoluzzi, corsivi … mai, o raramente,
qualcosa di duro.306
Leo parla della sua predilezione per l’epigramma come un
aspetto negativo, in realtà è proprio ciò che rende nuova ed
interessante la sua scrittura. L’aforisma si nutre di provocazione
ed ironia, come accade in queste righe, tratte da Parliamo
dell’elefante: “4 novembre. Festa nazionale. E’ una data che
festeggerò per altre ragioni. Cento anni fa, oggi, Stendhal
cominciava la Chartreuse de Parme”307. Ironico e
sbeffeggiatore: ancora una volta l’anticonformismo di
Longanesi ha la meglio.
La componente satirica fa tutt’uno con la fotografia della realtà:
“«Credete che a Roma verranno a bombardarci?». «A Roma no,
a Roma c’è il Papa e poi Roma è troppo bella …». «Credo
anch’io. Meglio che bombardino Milano». L’unità d’Italia
poggia su questi ideali”308. Questo scambio di battute assomiglia
ad una fotografia commentata da una didascalia: irriverente,
tagliente, ma che sicuramente coglie nel segno. All’apparenza il
���������������������������������������� �������������������305
Ibid., p. 6 306 Lettera di Longanesi a Soffici datata 19 ottobre 1925, cit. in B. ROMANI,
C. BARILLI, op. cit., p. 25 307 L. LONGANESI, Parliamo dell’elefante, cit., p. 25 308
Ibid., p. 80
134 �
brano citato è leggero, fa sorridere, ma il giudizio che ne
traspare è preciso e tutt’altro che lieve.
Nessun aforisma di Leo è infatti una semplice descrizione,
ciascuno di essi dimostra lo sguardo critico del suo autore; ne
nasce una sentenza tanto esatta, quanto immotivata. Longanesi
non è nuovo a comportamenti di questo tipo, si pensi, ad
esempio, all’opinione che egli ha su Moravia:
Un giorno, a “Omnibus”, mi buttò sul tavolo, senza
leggerla, una novella di Moravia. «Porta in testa»,
m’ingiunse, «il capoverso di coda». «Perché?». «Perché
Moravia è come le stoffe inglesi: il rovescio è meglio del
diritto». Un giudizio così esatto nessuna cultura è stata
mai bastante a suggerirlo a nessun critico, anche il più
avvertito. Infatti, dopo quella operazione di riporto, il
racconto, ch’era bello, diventò bellissimo.309
La sentenza lapidaria di Leo cade anche su Benedetto Croce:
Il senatore è un’ombra, un mito, qualcosa che sta tra il
Santo Padre, la signora direttrice, l’oracolo di Delfi e il
commissario di polizia. Napoli è divisa in due partiti: da
un lato gli amici del senatore, dall’altro i nemici del
senatore. Muovere qualche critica al senatore equivale a
dir male della Libertà e chi vuol prendersi la libertà di
muovere una critica, anche la più innocente, al direttore
della Critica? Chi non è crociano è nemico della libertà,
perciò degli alleati. Chi è nemico degli alleati è amico dei
tedeschi e si finisce in galera. E chi non è allora devoto
ammiratore del senatore?310
La provocazione, velata di sarcasmo, si spinge fino alla
monarchia e ai suoi sostenitori, che assumono, nel quadretto
longanesiano, un’aria assai grottesca:
La duchessa ci racconta le sua pene per il principe
Umberto, «ch’è un po’ smarrito e non sa proprio quel che
fare. […] Egli vorrebbe fare, ma non sa che cosa. E’
molto incerto». «Non ha nessuno che lo consigli?»
���������������������������������������� ����������������������� I. MONTANELLI, Prefazione a L. LONGANESI, La sua signora,
taccuino, cit., p. 7�310 L. LONGANESI, Parliamo dell’elefante, cit., p. 221
135 �
domando. «Che cosa vuol mai, ha attorno tutta gente
vecchia e fuori dal mondo!» esclama la duchessa. «La
sola cosa che può fare in questo momento», le dico, «è
andare in guerra coi soldati italiani e farsi ferire. Sarebbe
la sua salvezza. Una bella ferita a un piede
commuoverebbe tutti, perfino i repubblicani». «Ho avuto
anch’io la stessa idea; solamente pensavo che dovesse
farsi ferire a un braccio» dice la duchessa. «Meglio a un
piede, o a una gamba, così gli italiani lo vedrebbero
zoppicare alle riviste e si ricorderebbero che il loro
principe zoppica per la patria. Gli italiani non hanno
memoria e dimenticano presto tutto.»311
Gli aforismi, nonostante ciascuno di essi abbia una propria
autonomia rispetto agli altri, concorrono insieme ad offrire una
visione complessiva ed unitaria della realtà. Se si prende in
considerazione Parliamo dell’elefante si nota che le prime
pagine, risalenti al ’38, sono caratterizzate dallo stesso amaro
scetticismo delle ultime, ambientate nel ’46, come se le une
preludessero alle altre, in accordo con un’architettura interna
precisa. A questo proposito giova ricordare che Cajumi,
recensendo il volume, precisa: “noi pensiamo che il vero diario
longanesiano, la guerra o la prudenza se lo sono portato via”312.
A caratterizzare la scrittura di tipo giornalistico di Longanesi è
anche il plurilinguismo313, ossia l’accostamento di linguaggi
diversi, gerghi e brani tratti da varie fonti, al fine di dar vita ad
un affresco dalle tonalità disparate e contrastanti. Questa tecnica
trova la sua più felice realizzazione in In piedi e seduti,
un sapiente collage di brani giornalistici, sequenze di
diario, carteggi, interviste, e qua e là qualche testo di
canzonetta, slogans, voci di strada, epigrafia da cortile,
bollettini di guerra … I diversi linguaggi, così
rapidamente accostati, conducono essi soli alla trama
storica, mentre l’uno demistifica l’altro.314
���������������������������������������� �������������������311
Ibid., p. 201 312 CAJUMI, Colori e veleni, Napoli, 1959, p. 337, cit. in A. ANDREOLI,
op. cit., p. 120 313 A. ANDREOLI, op. cit., p. 146 314
Ibid., p. 146 - 147
136 �
Si considerino, ad esempio, i materiali che compongono la
narrazione dell’impresa coloniale: si trovano a distanza di poche
righe citazioni tratte da giornali che ritraggono “fedeli somali
decorati al valore” e che pubblicano “le memorie dei vecchi
esploratori dell’84” che “confidavano in una geografia incerta e
partivano senza mezzi”315; qualche verso di Pascoli: “Serba la
tua purpurea barbera / per quando, un giorno che non è lontano,
/ tutto raccolto nella sua bandiera, / torni Galliano”316; le parole
di Henry Molinari, il quale scrive che l’Abissinia è ricca di
“depositi alluvionali, di filoni di quarzo aurifero, di minerale di
ferro, di manganese, mica, galena”317 e molto altro; le
aspettative di un conducente di camion: “Io, di negre, me ne
sposo una”318; il fortunato slogan di Mussolini: “Vogliamo
anche noi il nostro posto al sole”319; qualche cronaca di giornale;
le parole del Papa: “La guerra è diventata necessaria per
l’espansione di una popolazione che aumenta di giorno in
giorno”320; ancora Mussolini, le cui parole danno il via
all’impresa africana, “Italia proletaria e fascista, … in piedi!”321,
e la chiudono:
Il sei maggio, alle dieci di sera, Piazza Venezia “è tutta
un fremito di entusiasmo, un tumulo di vessilli …”. La
vetrata dello “storico balcone” si apre, finalmente, e il
Capo del Governo appare: egli indossa l’uniforme di
comandante generale della Milizia. Un uragano di
applausi e di grida lo accoglie. «La guerra è finita …
l’Etiopia è italiana» dice Mussolini con voce sicura,
«l’Italia ha finalmente il suo impero».322
Un insieme davvero eterogeneo di propaganda fascista, che però
si chiude con una voce fuori dal coro:
���������������������������������������� �������������������315 L. LONGANESI, In piedi e seduti, cit., p. 187 316
Ibid., p. 188 317
Ibid., p.. 189 318
Ibid. 319
Ibid., p. 190 320
Ibid., p. 194 321
Ibid., p. 196 322
Ibid., p. 203
137 �
«Ce l’ha fatta!» mi dice un avvocato antifascista
accompagnandomi a casa; «ma quel che più conta non è
la conquista dell’Etiopia, è la sconfitta della democrazia.
La via della guerra è già aperta» e aggiunge: «Grazie a
Dio, non ho figli».323
Longanesi si limita ad accostare questa voce a tutte le altre,
spetta al lettore trarre le conseguenze. All’apparenza ci si trova
davanti ad un accumulo di informazioni, ma dietro c’è la mano
sapiente di un giornalista che le sceglie e le ordina con una
precisa intenzione comunicativa: “come una lente
d’ingrandimento, il plurilinguismo diminuisce la distanza della
vicenda, smaschera le ideologie, tramuta gli eroi in buffoni”324.
Altro aspetto della scrittura giornalistica di Longanesi è l’uso
stravagante della parola325, che all’occasione diventa metafora
azzardata, colore, grafica, non-senso, negazione di se stessa.
I paragoni si fanno a partire dal cibo, per cui una conversazione
si può inghiottire: “A cena con B., giornalista inglese, simpatico,
intelligente. Quel che dico lo interessa. Inghiottisce ogni mia
parola come un uovo all’ostrica. Ho l’impressione di vederlo
ingrassare sotto i miei occhi. Ma alla fine mi annoia”326.
Oppure: “Noia e scetticismo ingrassano la fede cattolica”327; “Il
diavolo sta raccogliendo inviti a colazione”328; “Il signore è
andato a sinistra, ma ritorna a destra per l’ora di cena”329.
Le metafore si riempiono di animali: “La signora B.: borsetta di
leopardo, scarpe di leopardo, cintura di leopardo e occhi di
pollo”330; “P.: mi guarda con gli occhi di topo, sospettoso,
adulatore”331.
���������������������������������������� �������������������323
Ibid. 324 A. ANDREOLI, op. cit., p. 148 325
Ibid., p. 130 e seg. 326 L. LONGANESI, La sua signora, taccuino, cit., p. 113 327
Ibid., p. 143 328
Ibid., p. 148 329
Ibid., p. 152 330
Ibid., p. 205 331
Ibid., p. 217
138 �
La parola si fa pittura: “L’ambizione verde dell’antifascismo un
tempo celeste, ora viola e paonazzo”332.
E diventa gioco, divertimento, non-senso per ingannare la noia:
Amo la lettera S, bellissima, sempre in equilibrio,
superba come un cigno, nobile signora quarantenne,
erede di forme barocche, prua di glorioso vascello, aulica
serpe, austera iniziale dal dolce suono. Amo questa bella
lettera che disegno un numero infinito di volte nelle ore
di attesa. […] Se mi innalzerete un monumento funerario,
raffiguratemi in piedi, appoggiato a una S maiuscola e
sotto, sul piedistallo, incidete queste parole: “Silenzio,
Saronno!”. Perché Saronno? Perché Saronno è un nome
che mi piace da anni. […] Saronno! Grido di guerra dei
veterani di Turate. Perché Turate? Non saprei dirvelo,
davvero: un associazione di idee di cui non conosco il
segreto significato; uno di quei non-sensi che così spesso
si affacciano alla nostra memoria come filastrocca che
recitavamo a cinque anni. A dispetto di tutte le verità, di
tutte le idee, di tutte le teorie, di tutte le ragioni, mi
diverto a viziare la mia noia borghese con le parole senza
senso, coi sogni, coi suoni, con le vaghe e solenni parole
che mi seducono, e grido: Saronno!333
Longanesi gioca con la parola in tutti questi modi, fino ad
arrivare alla negazione della stessa. Una vita si presenta come
un album di immagini, ognuna accompagnata da qualche frase,
che sembra essere caduta sulla pagina e lì lasciata. L’intento,
oltre che stupire, è raccontare la vita di un borghese tipo nato
all’inizio del Novecento. L’introduzione invita il lettore a
colmare questa ipotetica biografia con la propria
immaginazione:
L’Autore di questo libro è scomparso senza lasciare
traccia di sé; del suo romanzo restano soltanto le
illustrazioni, ch’egli disegnò accompagnandole con brevi
didascalie tratte dalla narrazione. Ci è parso di
pubblicarle così come egli le ha lasciate, senza
���������������������������������������� �������������������332 L. LONGANESI, Un morto fra noi, cit., p. 79, cit. in A. ANDREOLI, op.
cit., p. 136 333 L. LONGANESI, La sua signora, taccuino, cit., p. 15 - 16
139 �
aggiungervi alcun commento, perché esse bastavano da
sole a suggerire quel che l’Autore aveva raccontato in
molte pagine, non sappiamo se con minore o maggiore
efficacia. Il lettore, tuttavia, potrà ricostruire a modo
proprio la trama del romanzo, ch’è una specie di
autobiografia di un piccolo borghese dei nostri tempi, e
che riassume un po’ la storia privata di molti italiani.
Quel che manca fra un’illustrazione e l’altra, cioè il testo,
ogni lettore lo reinventerà da sé, seguendo i propri ricordi
e le proprie illusioni.334
3. Gli obiettivi polemici
Longanesi è molto critico, all’interno delle sue opere, nei
confronti delle stesse categorie accusate anche tra le pagine del
“Borghese” e in diverse lettere private. Se in questi spazi, però,
a muovere il rimprovero è Leo in prima persona, nei suoi libri,
soprattutto in Parliamo dell’elefante, l’io è bandito a favore del
noi335. Si tratta di una dimensione collettiva che si pone in
antitesi rispetto ad un “voi”. Il “noi” longanesiano è piuttosto
ampio, vi trovano spazio tutti gli italiani, tutti i fascisti e l’intera
generazione di Leo, quella che, cresciuta durante il regime, ha
conosciuto la delusione del dopoguerra. Esprimendosi al plurale
le parole di Longanesi si slegano dall’esperienza personale e
diventano astratte, riuscendo così a rappresentare tutta una
società e il periodo storico che essa vive. Attraverso tale scelta
Leo si oppone anche all’individualità, che tanto critica in altri:
Leggo il secondo volume delle Memorie di Churchill.
Quell’io che salta fuori ad ogni riga, quell’io scritto a
lettere minuscole, ma pensato in maiuscole, quell’io con
il sigaro in bocca, alla fine spinge a sperare in una vittoria
���������������������������������������� �������������������334 L. LONGANESI, Una vita, Milano, Longanesi & C., 1980, p. 9. Non
avendo riscontrato modifiche rilevanti rispetto alla prima edizione dell’opera, si è scelto di far riferimento ad una pubblicazione successiva.
335 A. ANDREOLI, op. cit., p. 122
140 �
di Hitler. Non per nulla: per dare una lezione di modestia
a Churchill.336
Il “noi” di Longanesi presuppone un “voi” antitetico, che si
identifica nell’antifascismo e nella sinistra. Le sue critiche non
sono argomentate, ma si presentano, come sempre accade
quando si parla di Leo, sotto le vesti di giudizi immotivati, che
giocano con il sarcasmo e l’ironia: “E gli antifascisti? Ora
appaiono nelle redazioni dei giornali, ma i loro problemi sono
del tutto personali: da vent’anni vivono nell’ombra, il paese li ha
dimenticati, hanno i capelli bianchi e noi dobbiamo risarcirli”337.
Parliamo dell’elefante dedica la giornata del 20 novembre 1943
alla descrizione dell’antifascismo: ne esce il ritratto di una
cerchia ristretta, chiusa, fortemente ostile a chiunque ne metta in
dubbio l’autorità e timorosa:
Il comitato antifascista che abita nel piano sopra il nostro
ha una buona biblioteca, requisita al padrone di casa.
Chiediamo di prendere qualche volume, per leggerlo. G.
e gli altri mostrano una certa ostilità a questa richiesta,
non per timore che non si restituiscano i libri, il che
avverrà certamente, ma soprattutto perché temono che
noi si legga quei libri che essi non leggeranno mai.338
Non solo, si tratta anche di un “voi” non così lontano dal
fascismo: “Ma quel che essi non sanno, è che parlano lo stesso
linguaggio demagogico del fascismo; e quel che essi vogliono
costruire in Italia è stato all’incirca fatto dal fascismo, solamente
con più violenza e meno metodo”339. Leo dipinge questa
categoria come disinteressata ai veri problemi dell’Italia, ma con
lo sguardo sempre fisso sul nemico:
Se toglierete loro la qualifica di “antifascisti” rimarrà ben
poco, perché essi vivono in virtù del nemico. L’Italia è
qualcosa di astratto che ben poco li interessa, tutto al più
un campo di battaglia, che dico, un parlamento, una
���������������������������������������� �������������������336 L. LONGANESI, La sua signora, taccuino, cit., p. 32 337 L. LONGANESI, In piedi e seduti, cit., p. 242 338 L. LONGANESI, Parliamo dell’elefante, cit., p. 187 - 188 339
Ibid., p. 189
141 �
piazza, una sala da comizi, uno sfondo sul quale
rappresentare la grande commedia democratica che
stanno preparando da anni. Non li vedrete mai
interessarsi a un problema preciso, economico o politico,
non li vedrete perdere tempo a segnarsi un appunto su
una delle tante penose e insolute questioni del popolo
napoletano; […] quel che essi vi diranno, se li
interrogate, è che il fascismo è colpevole di tutto. Inutile
contraddirli; trent’anni fa, la miseria qui era colore locale,
sano, allegro, variopinto colore napoletano, spunti per le
curiosità partenopee del senatore Croce; oggi, quella
stessa miseria è frutto del fascismo.340
Oltre che all’antifascismo Leo riserva critiche anche al
fascismo; è forse esagerato considerare il regime come uno degli
obiettivi polemici delle opere letterarie di Longanesi, ma è certo
che nel dopoguerra egli osservi il tempo del regime e Mussolini
stesso con uno sguardo critico, che ne mette in luce le
contraddizioni, le insicurezze e gli sbagli. L’ironia si posa per
prima sui gerarchi: “Gerarchi: la grande attività di chi non ha
nulla di serio a cui pensare”341.
Lo sguardo critico di Leo cade anche sulla figura di Mussolini,
che non viene dipinto come l’uomo severo pronto a tutto che la
propaganda fascista ha fatto conoscere, ma piuttosto come un
personalità eclettica, ma un po’ vaga, in definitiva nemmeno
così decisa:
Se si osserva attentamente il nascere della sua
personalità, se si leggono i suoi scritti dal 1910 in poi, ci
si accorge che il segreto della sua fortuna è racchiuso,
soprattutto, nella sua eclettica cultura, in quel suo
continuo passare da una tendenza all’altra, da una precisa
ideologia a una opposta, in quel suo costante contraddirsi
e ripetere sempre due o tre formule a lui care. Egli
rispecchia in maniera grossolana tutta la cultura
dell’ultimo cinquantennio: senza distinzione egli ripete e
accomuna Nietzsche e Blanqui, Pareto e Blondel, Sorel e
Croce: passa dall’uno all’altro, li confonde, li associa, li
���������������������������������������� �������������������340
Ibid., p. 189 - 190 341
Ibid., p. 27
142 �
nega; crede a tutte le illusioni del secolo scorso ma imita
Stalin, Trotski, Kemal Pascià e Hitler. A volte azzecca,
ma si pente.342
Al momento della Marcia su Roma Mussolini viene descritto
come un uomo insicuro, spaventato davanti ad un passo che
sente più grande di lui. Lo stesso evento viene minimizzato:
Longanesi infatti racconta come questo si svolga più al telefono,
che sulle strade. Anche anni più tardi, alla vigilia della guerra,
Leo mostra un Duce parimenti insicuro, la cui incertezza ha un
gusto ironico:
“Non riesco a vedere più chiaramente la situazione”
confessa Ciano, e Mussolini inaugura il tempo delle sue
grandi incertezze. Il nove agosto ha “in mente l’idea di
una conferenza internazionale” per evitare la guerra; il
dieci “parla con calore e senza riserva della necessità
della pace”; il tredici dice che “l’onore lo obbliga a
marciare con la Germania … e che vuole la sua parte di
bottino in Croazia e Dalmazia”; il quindici pensa che sia
“impossibile marciare a occhi bendati con la Germania”;
il diciotto è “la solita altalena dei sentimenti”; il ventidue
Ribbentrop annuncia il patto coi Sovietici e il Duce
ritorna favorevole alla Germania; il ventitré mattina
pensa ancora a una grande conferenza per la pace e alla
sera “parla di armate e di attacchi”; il ventiquattro dice
che “non siamo assolutamente in condizioni di fare una
guerra: l’esercito è in uno stato pietoso”; il venticinque
ritorna “bellicista a oltranza”; e il primo settembre prende
“la decisione del non intervento”.343
Lo sguardo critico che guida Longanesi nella descrizione della
società, e soprattutto del fascismo, viene ben accolto dai suoi
contemporanei. Pietro Nenni, riguardo a In piedi e seduti scrive:
“E’ un libro amaro, scettico e nichilista. Una stroncatura degli
italiani. Vi si sente una segreta nostalgia di Mussolini e nel
contempo l’odio per il fascismo. Tutto e tutti sono messi alla
berlina. […] Non conosco un libro destinato a farci tanto male
come questo. Come negare tuttavia un suo contenuto di
���������������������������������������� �������������������342 L. LONGANESI, In piedi e seduti, cit., p. 115 343
Ibid., p. 224 - 225
143 �
verità?”344. Come Nenni, anche il quotidiano “Risorgimento
liberale”345 riconosce all’opera un valore storico: ammette che,
pur essendo “crudo, cinico, spudorato, urtante, irritante, cattivo
fino alla crudeltà”, rimane un libro “vero”. La reazione più
rivelatrice del valore dello sguardo critico di Longanesi risiede
nell’articolo di Massimo Mila pubblicato sull’“Unità”: dopo
severe critiche su come vengano sminuite le colpe del fascismo,
il giornalista riconosce a Leo il ruolo di “storico civile”, notando
“l’ansia di una nuova storiografia, meno accademica di quella
universitaria, meno sublime di quella idealista, meno dogmatica
di quella materialista, ma più vicina, in fondo pietosamente
vicina, a quel meschino e ridicolo protagonista della Storia che è
l’uomo”346.
Accanto ad antifascismo e fascismo, un altro obiettivo polemico
delle opere di Longanesi è la società del dopoguerra nel suo
complesso, in particolar modo la nuova borghesia. Leo parla di
questa classe non ritenendosene parte, la descrive con ironia e
distacco, quasi egli si senta un uomo dell’Ottocento stranamente
catapultato negli anni Cinquanta del secolo successivo. La
nuova borghesia pecca, come si ripete spesso anche nel
“Borghese”, di essersi piegata alla modernità avendo perduto le
sue radici.
La mancanza di cultura sembra regnare nell’universo borghese:
Non so chi lo abbia scritto, ma se “la cultura è ciò che
resta in noi dopo che abbiamo dimenticato tutto quello
che avevamo imparato” allora al borghese è rimasto ben
poco. Tutt’al più qualche verso, come “Salta il camoscio
e tuona la valanga” o qualche massima come “Bis dat qui
cito dat”, avanzi di faticosi studi classici, spesso interrotti
���������������������������������������� �������������������344 P. NENNI, Tempo di guerra fredda. Diari 1953 – 1956, Milano, 1981, p.
432, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 58 345 A. BIZZARRI, Analisi spettrale degli italiani, “Risorgimento liberale”, 15
giugno 1947, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 61 346 M. MILA, Adopera il fascismo come il lucido da scarpe. Critica ad alcuni
aspetti del fenomeno Longanesi, “L’Unità”, 26 agosto 1948, cit. in R. LIUCCI, op. cit., p. 62
144 �
per compiere un inutile viaggio di studi all’estero,
concluso con la precisa convinzione che soltanto in Italia
si cuociono bene gli spaghetti.347
In fondo,
L’Italia, tutta l’Italia, dal medioevo al risorgimento, con
tutte le sue guerre e tutte le sue sciagure, è soltanto un
gran mare di date e di nomi che nessun borghese ricorda
più. «Sì, sì, Cavour: ma ai suoi tempi non c’erano i grossi
problemi di oggi», dice il borghese che dà quattrini a
Nenni e non avrebbe dato una lira al conte per far la
guerra in Crimea.348
D’altronde “non possiamo più perdere tempo, il tempo costa
troppo”349: la distanza tra Longanesi e questa borghesia non
potrebbe essere più profonda.
E poi c’è l’automobile, vessillo della modernità e della
ricchezza:
Oggi la macchina è entrata a far parte del decoro
borghese, ha preso il posto della laurea e “assorbe”: essa
è un quotidiano argomento di interesse, di studio, di
conversazione. I suoi modelli, le sue carrozzerie, i suoi
motori variano e occorre seguirne l’evoluzione: esiste
tutto un repertorio di immagini, di frasi fatte, di slogans,
che un borghese moderno deve saper usare in
conversazione. […] La macchina richiede un certo
interesse da parte dell’uomo, come una moglie; non si
può lasciarla sola in rimessa; essa esige l’affetto, l’amore
di chi la usa.350
La nuova borghesia ha davanti a sé l’esempio americano, che
sembra senza dubbio preferire a quello ottocentesco auspicato
da Longanesi:
���������������������������������������� �������������������347 L. LONGANESI, Ci salveranno le vecchie zie?, Milano, Longanesi & C.,
2005, p. 43. Non avendo riscontrato modifiche rilevanti rispetto alla prima edizione dell’opera, si è scelto di far riferimento ad una pubblicazione successiva.
348Ibid., p. 46
349Ibid., p. 45
350Ibid., p. 77
145 �
Il borghese, fino a ieri fedele all’autarchia, costretto poi a
credere nei liberi scambi, ora si trova a dovere fare i conti
con l’America; e poiché senza l’America non si vive, egli
deve accettare, otre ai prestiti che spera di non
rimborsare, anche lo spirito d’iniziativa d’oltre oceano; è
costretto, il nostro cauto borghese, a far l’americano: e
lavora in serie, e prende collaboratrici, e stende piani e
parla al dictaphon e si “razionalizza” come può, tenendo
un piede nelle abitudini di famiglia, fra le quali primeggia
l’avarizia, l’ignoranza, la scarsa confidenza con la
tecnica, il poco amore per il prodotto ben fatto e la
certezza che occorra rubare un po’ sul peso. La sua
tecnica è, sì, americana, ma la sua strategia è
casalinga.351
La lotta di Longanesi è una battaglia contro il progresso, la
modernità è il suo principale obiettivo polemico, ma egli sa bene
che nessuna “vecchia zia” potrà fermare il tempo, perché anche
loro, purtroppo, “hanno ceduto, hanno aperto il passo alle
nipoti”352.
Ad una società di questo tipo fa eccezione solo Napoli, sentita
da Leo come “la vera capitale d’Italia”353, una città che non si è
piegata alla modernità, ma è restata alle sue tradizioni, alla sua
storia, al passato.
La risposta alla degenerazione causata dal progresso viene allora
dalla povertà, vista come unico elemento genuinamente
conservatore all’interno di una società devota al progresso:
Sui vecchi muri, le vecchie finestre si aprono come occhi
di guerci, e nelle belle forme delle antiche architetture
cadute in abbandono, il gesso e la calce impiegati dai
miserabili hanno perso un livido color di umido. Ma nel
silenzio che accompagna quello scenario senza età s’alza
una desolata bellezza italiana in cui si accoppiano il
���������������������������������������� �������������������351
Ibid., p. 24 - 25 352 L. LONGANESI, Non ci salveranno più, “Il Borghese”, 13 gennaio 1956,
cit. in P. ALBONETTI, C. FANTI, op. cit., p. 58 353 L. LONGANESI, La sua signora, taccuino, cit., p. 127
146 �
povero e l’antico, la fame e la storia, antiche nello stesso
modo.354
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���������������������������������������� �������������������354
Ibid., p. 47
147 �
Appendice
Marlene Dietricht, com’è
“Omnibus”, 3 aprile 1937, n.1, p.8
148 �
Riarmo britannico – Giungono sempre nuove reclute nelle caserme
“Omnibus”, 3 aprile 1937, n. 1, p. 2
Le Indie sotto la corona imperiale
“Omnibus”, 10 aprile 1937, n. 2, p. 1
149 �
Il sopravvissuto di Guernica, capitale basca
“Omnibus”, 24 aprile 1937, n. 11, p. 5
150 �
Epopea comunista in Cina – Cristiani cinesi torturati e uccisi
“Omnibus”, 1 maggio 1937, n. 17, p.1
Il primo specchio
“Omnibus”, 8 maggio 1937, n. 6, p. 4
151 �
Il vincitore e i vinti
“Omnibus”, 8 maggio 1937, n. 6, p. 1
152 �
Profughi spagnoli della cattedrale di Malaga
“Omnibus”, 12 giugno 1937, n.11, p.5
Le grandi democrazie, contrasti (Inghilterra 1937)
“Omnibus”, 17 luglio 1937, n. 16, p. 1
153 �
“Omnibus”, 24 luglio, 1937, n. 5, p. 1
154 �
Le due grandi democrazie,
“Omnibus”, 16 ottobre 1937, n.29, p. 1
Donne americane
“Omnibus”, 16 ottobre, 1937, n. 29, p. 12
Truppe inglesi
“Omnibus”, 11 dicembre 1937, n. 27, p. 1
155 �
L’ultimo Lord
“Omnibus”, 23 dicembre 1937, n. 39, p. 4
Educazione premilitare in Inghilterra. Studenti del Royal College
durante le prove del ballo “Gioventù fiammante” all’Albert Hall di
Londra l’ultima notte dell’anno
“Omnibus”, 1 gennaio 1938, n. 1, p. 2
Neville Chamberlain salta gli ostacoli
“Omnibus”, 5 febbraio 1938, n. 6, p. 8
156 �
L’Inghilterra è una potenza insulare
“Omnibus”, 24 settembre 1938, n. 39, p. 3
Il richiamo della foresta
”Omnibus”, 1 ottobre 1938, n. 40, p. 5
157 �
Bolzano, anno XVI
“Omnibus”, 22 ottobre, 1938, n. 43, p. 11
�
158 �
�
159 �
Bibliografia
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• Una vita. Romanzo, Milano, Longanesi & C., 1950
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• Ci salveranno le vecchie zie?, Milano, Longanesi & C., 1953
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• Fa lo stesso, a cura di Paolo Longanesi, Milano, Longanesi & C., 1996
Riviste:
• “Il Selvaggio”, 1924 – 1943
• “L’Italiano”, 1926 – 1942
• “Omnibus”, 1937 – 1939
• “Il Borghese”, 1950 – 1957
160 �
Critica:
• P. Albonetti, C. Fanti, Longanesi e italiani, Faenza, Edit Faenza, 1997
• A. Andreoli, Leo Longanesi, Firenze, La nuova Italia, 1980
• G. Appella, Leo Longanesi, editore, scrittore, artista,
1905 – 1957, Milano, Longanesi & C., 1996
• V. Corti, Rosai e Maccari al tempo del Selvaggio
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• R. De Berti, I. Piazzoli, Forme e modelli del rotocalco
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• S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992
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• L. Piantini, Quaderno ’70 sul Novecento, saggi di L.
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• A. Savinio, Leo Longanesi, Milano, Hoepli, 1941
• N. Tranfaglia, La stampa del regime, 1932 – 1943. Le
veline del Minculpop per orientare l’informazione, Milano, Bompiani, 2005
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