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IL VALORE DELL’ORGANIZZAZIONE:
UNA RICERCA EMPIRICA SUGLI EFFETTI DEL DOWNSIZING
SULLE PERFORMANCE BORSISTICHE DELLE AZIENDE ITALIANE
Giuseppe SodaUniversità Luigi Bocconi,
Scuola di Direzione Aziendale,
Area Organizzazione e Personale
Viale Isonzo 23, 20132 MilanoTel. 02-5836.2627 – 2632
Fax 02.5836.2634Email: [email protected]
ABSTRACT
Il programma di ricerca presentato in questo lavoro s’interroga sugli effetti delle strategie organizzative sul valore azionario delle imprese e sulla reazione degli investitori di fronte alle strategie organizzative decise e implementate dal management.
Negli anni novanta una parte rilevante della letteratura organizzativa e manageriale ha sottolineato la centralità dei processi di riorganizzazione come punto di partenza per la rigenerazione del vantaggio competitivo e, di conseguenza, del valore prodotto per gli azionisti. Due grandi prospettive teoriche e manageriali si sono confrontate in proposito. Da un lato, chi sottolinea la necessità di cure profonde, tutte orientate a configurare modelli organizzativi “lean and mean” attraverso la progettazione e l’implementazione di ristrutturazioni aggressive fondate, nella maggior parte dei casi, su vistosi tagli al personale. Il tutto in una logica di creazione di valore per gli azionisti, anche solo di breve periodo grazie alla positiva reazione sperimentata dai mercati negli anni ‘90. Dall’altro, gli studiosi di organizzazione sostenitori delle strategie “people centered”, prospettiva che enfatizza l’importanza del capitale umano nella difesa o riconquista della competitività perduta con la conseguente necessità di valutare attentamente le ristrutturazioni che impoveriscono di competenze le imprese. Di fronte a questo dualismo, alimentato da premesse teoriche per molti versi antitetiche, gli studiosi si sono interrogati su quale fosse la spiegazione più efficace nel predire i reali comportamenti degli investitori messi di fronte ad annunci di riorganizzazione fondati sul downsizing. In sostanza, il paper propone il confronto tra una prospettiva del downsizing come strategia che produce effetti positivi sulle aspettative degli azionisti e un’altra specificamente organizzativa che propone un’interpretazione del fenomeno come evento traumatizzante in grado di incidere gravemente sul funzionamento dell’organizzazione e sulla sua competitività duratura.
Le poche ricerche realizzate in contesti diversi da quello italiano (in particolare negli USA), hanno messo in luce una relativa convergenza, almeno nel breve periodo, nella valutazione positiva data dai mercati alle condotte organizzative di semplificazione radicale del tipo lean and mean. Altri studiosi, specie nella seconda metà degli anni ’90, hanno invece sottolineato i rischi della “anoressia organizzativa” sulla sopravvivenza di medio-lungo periodo delle imprese.
Il paper si colloca in questo dibattito, proponendo alla comunità scientifica i risultati di una ricerca empirica riferita alle aziende italiane quotate in borsa che hanno vissuto processi di drastica riduzione del personale. Dopo una rigorosa selezione dei casi di ristrutturazione di aziende quotate alla Borsa Italiana nel periodo 1992 – 2000, il modello statistico proposto nel paper analizza l’effetto nel tempo sui corsi di borsa di quattro gruppi di variabili riferite al processo di downsizing, in particolare: il primo gruppo racchiude le notizie sul downsizing messe a disposizione degli stakeholders; il secondo gruppo descrive alcune caratteristiche specifiche del downsizing; il terzo misura la componente delle aspettative in merito agli effettivi licenziamenti da realizzare (scontando quindi l’effetto “negoziale”), il quarto le caratteristiche della trattativa sindacale. I risultati mettono in luce una profonda sfiducia degli azionisti delle imprese italiane quotate verso i programmi di ristrutturazione fondati sul downsizing supportando l’interpretazione fornita dalle ricerche organizzative nell’interpretazione di questo fenomeno.
Milano ottobre 2001
1. INTRODUZIONE
Grazie ai risultati della ricerca organizzativa disponiamo oggi di molte e approfondite
conoscenze sulla razionalità degli attori economici e sulle determinanti delle azioni a livello
individuale, di gruppo, di organizzazione, di popolazioni di organizzazioni. Tuttavia, se si
escludono talune eccezioni, ad esempio la teoria dell’agenzia, le principali prospettive
organizzative non si sono soffermate molto sul comportamento degli investitori e degli
azionisti, lasciando questo compito all’economia, alla finanza e alla teoria istituzionale. Lo
stesso dibattito sulla “corporate governance” ha lasciato molti studiosi di organizzazione
indifferenti, ad eccezione di quelli più vicini agli studi di strategia.
Questo contributo, così come il programma di ricerca sulle cui basi empiriche è costruito, si
pone invece il problema della spiegazione del comportamento degli investitori e degli azionisti
di fronte ad una precisa strategia organizzativa intrapresa dal management dell’impresa. In
particolare, lo studio indaga la valutazione e la reazione degli azionisti nel momento in cui il
management annuncia l’avvio di un processo di riduzione radicale della forza lavoro
(downsizing d’ora in poi) (Cameron, 1994a). Alla luce di questo obiettivo, le domande di
ricerca proposte nel paper sono le seguenti: come reagiscono gli investitori e i detentori di
capitale di fronte ad annunci di progetti di ristrutturazione organizzativa fondati sul
downsizing? Come interpretare queste reazioni? Può un paradigma più vicino alla teoria
organizzativa aiutare a comprendere meglio questo fenomeno?
Nel tentativo di rispondere a queste domande, il paper propone il confronto tra un modello di
interpretazione organizzativo, fondato sulla centralità del capitale umano, e un modello
assimilabile alla teoria del valore e al rendimento del capitale.
2. IL DOWNSIZING COME “STRATEGIA ORGANIZZATIVA”
Dallo studio dei processi di riduzione della forza lavoro si possono trarre numerosi spunti di
interesse (Budros, 1999; Bruton et al., 1996; Bowman e Singh, 1993). Al di là della sua
rilevanza empirica, lo studio del downsizing e degli effetti che esso produce sul valore generato
per gli azionisti è in grado di offrire un’ampia base di riflessione sul significativo della
relazione che lega le azioni organizzative alle performance economiche e finanziarie
(Welbourne, 1996; De Meuse et al., 1994; Worrel, 1991). In particolare, una prospettiva
organizzativa nello studio di questi processi, che non sono quindi analizzati solamente come
semplici riduzioni di costo, può servire a comprendere meglio le reazioni degli investitori e dei
mercati di fronte agli annunci di azioni organizzative orientate, almeno nelle intenzioni,
all’ottenimento di risultati sul fronte della redditività d’impresa (Cameron, 1988; Cameron e
Freeman, 1993). Proprio partendo da questa considerazione, il progetto di ricerca alla base di
questo contributo trae origine da una riflessione svolta in merito alla natura delle nuove forme
organizzative, alle logiche ad esse sottese, ai paradossi che talvolta sembrano suggerire (Illnich,
D’Aveni e Lewin, 1996). Da diverso tempo ormai, gran parte delle imprese si trova a dover
fronteggiare una radicale metamorfosi nei processi competitivi riconoscendo nella ricerca di
forme organizzative innovative un efficace strumento di sopravvivenza (Volberda, 1996). Non
casualmente, dalla seconda metà degli anni ’80 e per tutti gli anni ’90 si è osservato un
continuo susseguirsi di operazioni di riorganizzazione aziendale. Oggi il tema è tornato
drammaticamente di attualità.
Nel novero delle strategie di riorganizzazione più diffuse, quali il restructuring o il
reengineering, devono essere incluse altre azioni ad esse complementari come il downsizing, il
rightsizing, il delayering (Eisemberg, 1997; Rosenthal e Wade, 1993; Hammer e Champy,
1993). Tutte queste strategie organizzative sono governate dalla stessa filosofia di fondo: la
rigenerazione della competitività aziendale ha una tappa obbligata nella massimizzazione
dell’efficienza, da ottenersi mediante un'attenta riduzione dei costi e un aumento della
produttività. Il downsizing, sebbene sia nato come strategia complementare alle grandi
ristrutturazioni, è andato sempre più assumendo un'identità propria, una dignità specifica,
attribuita dalla valenza strategica di cui è stato caricato in moltissime esperienze recenti
(McKinley et al. 1995). La peculiarità del downsizing come vera e propria corporate strategy,
si basa sull’ipotesi per cui un ridimensionamento della struttura organizzativa, attraverso una
riduzione rapida e consistente dei costi fissi legati al lavoro, possa consentire ad
un'organizzazione di perseguire non solo obiettivi di economicità, ma anche un vantaggio
competitivo duraturo (Robertson, 1987). In aggiunta, le grandi riduzioni di personale sono
generalmente affiancate dal massiccio ricorso all’outsourcing determinando una riduzione più
generale di componenti di costo fisso non direttamente riconducibili al lavoro umano. Questa
riduzione dei costi fissi è in parte compensata dalla crescita dei costi variabili ma anche da una
conseguente maggiore flessibilità e reattività rispetto al ciclo economico.
Per comprendere meglio il legame tra nuove forme organizzative e riduzioni radicali
dell’organico, è opportuno anticipare la definizione di downsizing proposta nella ricerca
organizzativa. Il concetto più esaustivo di organizational downsizing può essere considerato
quello fornito da Cameron (1994a; 1994b). Egli ha cercato di distinguere nel modo più preciso
possibile le cause delle riduzioni d’organico dagli effetti che producono. Il termine
organizational downsizing indica un insieme di attività intraprese dal management di
un'organizzazione al fine di apportare miglioramenti in termini di efficienza, produttività e/o
competitività. Si tratta di una vera e propria strategia, la cui implementazione impatta su
elementi che conferiscono all'azienda una parte fondamentale della propria identità, vale a dire:
la dimensione della forza lavoro; i costi; le modalità di svolgimento dei processi di generazione
del valore. Ciò che rende il downsizing organizzativo differenziabile da una semplice riduzione
di personale, è il fatto che la sua scelta sia motivata da una precisa ipotesi circa la relazione tra
azione organizzativa, risultato economico e impatto strategico (Cameron, Freeman e Mishra,
1991). Se tale azione si verifica in fasi recessive, come è avvenuto negli Stati Uniti dalla
seconda metà degli anni '80 e come sta accadendo in questi giorni, il comportamento del
management appare chiaramente teso ad offrire una risposta consapevole a situazioni negative.
Ciò che tuttavia impressiona maggiormente, osservando l'evoluzione temporale delle politiche
di downsizing, è come esse si siano trasformate in azioni strategiche anche e soprattutto in fasi
economiche non più recessive, anzi di crescita economica. Tale evoluzione è stata condizionata
dalle considerazioni suggerite dalla prima ondata di downsizing realizzati negli USA. Infatti,
l’emergere dei nuovi contesti competitivi sembrava suggerire, indipendentemente dal ciclo
economico, l’adozione di modelli organizzativi snelli e flessibili, sinteticamente definiti "lean
and mean" (Harrison, 1994). Tra i molteplici effetti generati, la rapida affermazione di questa
filosofia organizzativa ha contribuito in molti casi (USA e Regno Unito in testa) al declino del
valore della sicurezza del lavoro – job security –, alimentando in Italia un dibattito irrisolto
circa la presunta rigidità di un sistema produttivo e delle relazioni industriali fondato proprio
sulla sicurezza del posto di lavoro1.
Nel caso degli USA, realtà su cui è concentrata la maggior parte della letteratura e delle
ricerche empiriche sul downsizing, le conseguenze apportate dalla recessione della fine
degli anni '70, proseguita per tutta la metà degli anni '80, possono essere comprese solo
osservando il sistema economico in cui tale recessione era inserita. Tale sistema
privilegiava operazioni quali le fusioni e le acquisizioni, l'innovazione tecnologica, la
competizione a livello internazionale, e stava inoltre sperimentando una lunga fase di
lenta crescita economica e rapidi mutamenti del mercato, fomentando,
conseguentemente, una competitività basata sui costi. La riduzione dei costi del
personale assunse i connotati di una politica perseguibile in modo apparentemente
semplice, in quanto deliberabile da parte del management e direttamente collegata al
miglioramento dei costi di produzione. La presumibile assenza di lungimiranza, insita in
un comportamento del genere, non impedì la diffusione di tale best practice, tanto da far
assurgere il downsizing al ruolo di vera e propria filosofia, condivisa dalla stragrande
maggioranza degli executive americani (McKinley, Mone e Barker, 1993).
Rispetto alla valutazione dei benefici e dei costi connessi a questa strategia si è
sviluppato un ampio dibattito nel quale gli studiosi di organizzazione hanno giocato un
ruolo determinante attraverso una prospettiva per molti versi antitetica a quella centrata
sulla generazione di valore per gli azionisti. Nei successivi due paragrafi saranno
sintetizzate queste due prospettive e proposte le ipotesi testate empiricamente nella
ricerca.
3. IL DOWNSIZING IN UNA PROSPETTIVA DI CREAZIONE DI VALORE PER GLI
AZIONISTI
Come interpretare il ricorso sistematico alle politiche di downsizing? Una prima risposta
a questa domanda può essere ricercata nel tipo di valutazione che gli investitori e i
mercati finanziari hanno sviluppato nel tempo riguardo agli effetti prodotti dal
downsizing. Infatti, una delle chiavi di lettura principali della diffusione delle politiche di
downsizing deve essere ricercata nell'attenzione sempre crescente posta dal management
verso la soddisfazione delle attese degli azionisti. Nei contesti in cui la separazione tra
proprietà e controllo si è realizzata nelle forme più evolute, in particolare negli USA, il
management delle imprese resta particolarmente sensibile verso la generazione del valore
per gli azionisti. Questa preoccupazione si è nel tempo amplificata alla luce delle
condizioni, economiche e istituzionali, che hanno condotto alla globalizzazione dei
mercati, come diretta conseguenza della realizzazione di una politica orientata alla libera
circolazione dei capitali. Dal momento che gli investitori hanno la possibilità di allocare i
loro investimenti liberamente, su qualunque mercato (la localizzazione non discrimina gli
investimenti), essi si orienteranno verso le migliori prospettive di investimento, a parità
di rischio. In questo modo le aziende quotate subiscono le pressioni di un mercato
finanziario guidato dal controllo degli azionisti che sanzionano il comportamento dei
manager semplicemente spostando gli investimenti da un titolo all’altro. Naturalmente,
più ampia è la proporzione delle azioni controllate dall'azionariato diffuso, maggiori
saranno le pressioni esercitate sul management attraverso la minaccia “dell’uscita” dagli
investimenti. Molti manager hanno deciso l’impiego sistematico del downsizing, sia con
l’intento di ridurre velocemente i costi, sia con l’obiettivo di comunicare all’esterno una
rigida politica di controllo dell’efficienza così da rendere l’impresa più attrattiva e
coerente con le aspettative dei conferenti il capitale di rischio (Appelbaum, Simpson e
Shapiro, 1987).
A ben vedere, una versione rigorosa della teoria del valore richiederebbe l'indiscussa
centralità degli interessi degli azionisti nel lungo periodo. Sotto questa prospettiva, gli
sforzi del management dovrebbero quindi essere orientati verso la massimizzazione del
valore attuale del flusso atteso per il futuro. Di conseguenza, i teorici del valore ritengono
che le decisioni prese dal management dovrebbero disporsi e prendere forma lungo una
prospettiva temporale ampia, con grande vantaggio, alla fine, per tutti i soggetti coinvolti
nell'attività di impresa – stakeholders -. Sotto questa luce, il downsizing può essere visto
come una strategia organizzativa aggressiva di ripristino della profittabilità attraverso una
radicale riduzione dei costi legati al personale ma che non dovrebbe incidere sul
patrimonio di competenze presente in azienda (Lesly e Ligth, 1992). Si tratta di una
motivazione razionale e in taluni casi ampiamente giustificabile con la necessità di
ripristino della competitività e, di conseguenza, della profittabilità e della sopravvivenza
nel lungo periodo. In virtù dell'esperienza vissuta o meramente osservata, molte
organizzazioni hanno così cominciato a guardare al downsizing come uno strumento in
grado di produrre vantaggi, indipendentemente dalla situazione congiunturale vissuta.
Addirittura, come l’esperienza americana ha messo in luce, si è affermata l'idea per cui
proprio le aziende che godono di migliori condizioni possono approfittare maggiormente
dei vantaggi offerti da tale pratica. Non si spiegherebbe, altrimenti l'entusiasmo espresso
nei confronti delle massicce riduzioni di personale operate da aziende con alti tassi di
crescita all'inizio degli anni '90. Già allora, i paradigmi competitivi richiesti dalla
competizione globale erano quelli dell'efficienza e della velocità di reazione, tanto che le
grandi organizzazioni apparivano come lenti giganti, incapaci di adeguarsi alla rapida
trasformazione degli scenari competitivi. In un articolo del 1995, Heenan sintetizzò
l’ottimismo connesso ai processi di downsizing elencandone i vantaggi sperati: riduzione
dei costi generali, diminuzione dei livelli gerarchici, velocizzazione dei processi di
decision making, maggiore facilità di comunicazione all'interno dell'organizzazione,
imprenditorialità diffusa, incremento della produttività. Si tratta di caratteristiche
organizzative molto importanti e coerenti con le dinamiche competitive che si sono
affermate negli anni ’90. Sotto questa luce il downsizing, agendo direttamente e in modo
visibile sulla riduzione dei costi, sintetizza la volontà del management di puntare alla
massima redditività dell’impresa e, quindi, si può interpretarne la diffusione alla luce
della relazione management – investitori nel contesto del mercato globale dei capitali e
degli investimenti.
Il quadro ora delineato non è tuttavia completo, occorre infatti aggiungere un ultimo
importante tassello. In realtà, la grande diffusione delle strategie di downsizing si deve
anche ad un effetto complementare di breve periodo. Si tratta di un fenomeno
empiricamente imponente, generato non tanto dalle aspettative di ripristino della
competitività, ma proprio dalla stessa reazione che i mercati hanno sperimentato negli
anni scorsi di fronte agli annunci dei tagli di personale. In teoria, le operazioni di
ristrutturazione vengono svolte al fine di soddisfare le aspettative degli investitori
attraverso la creazione di condizioni d’impresa in grado di generare rendimenti medi
attesi pari almeno alla remunerazione offerta da altre attività di rischio. Non esiste,
dunque, alcun riferimento alla adeguatezza dei profitti, né nel breve, né nel lungo
periodo. Forti di questa considerazione, i manager delle aziende possono decidere di
annunciare una drastica ristrutturazione, confidando comunque in una reazione positiva
da parte degli investitori e del mercato al fine di ottenere un vantaggio non
necessariamente reddituale, non necessariamente nel lungo periodo, ma patrimoniale e di
breve. Gli eventi degli ultimi dieci - quindici anni hanno infatti mostrato come, di fronte
ad annunci di downsizing, il valore delle azioni della società interessata tenda a salire
vertiginosamente. Il prezzo delle azioni, infatti, è condizionato fortemente dal valore
percepito, un valore che risente dell'asimmetria informativa esistente tra investitori
(shareholders) e management. Quest'ultimo, dunque, dimostrerà scarso interesse nel
perseguimento della massimizzazione del valore attuale, dal momento che, nel breve
periodo, il valore percepito rappresenterà ciò che condizionerà maggiormente
l'andamento del titolo. Sotto questa luce, il downsizing viene ad assumere le
caratteristiche proprie di una tattica esercitata al fine di incrementare rapidamente e
consistentemente, il valore delle azioni di una società.. L'unico imperativo sarà puntare
alla credibilità delle decisioni intraprese. Il mercato deve infatti percepire in modo chiaro
l'intenzione, da parte di chi guida l'organizzazione, di accrescere continuamente il valore
dell'azienda, sebbene, ciò che può avvenire non sia altro che il fenomeno del "quick fix"
descritto da DeVries e Balazs (1997). Poco importa, dunque, se l'intenzione effettiva sia
orientata esclusivamente alla realizzazione di guadagni in conto capitale ottenibili nel
breve periodo, cosa che, tra l'altro, si concilia perfettamente con la tendenza a concedere
stock options al top management, nel tentativo di allineare interessi dei dirigenti e degli
shareholders2. E’ dunque facile comprendere come annunci di cambiamenti strutturali a
livello organizzativo possano modificare profondamente le aspettative degli investitori e
quindi gli andamenti del mercato finanziario. Di conseguenza è probabile che queste
stesse strategie vengano decise e implementate proprio per agire su queste aspettative.
In sintesi, si evince una sorta di circolo vizioso: da un lato, la valutazione positiva degli
investitori, giustificata dalle migliori prospettive di competitività, che incentiva il
management a realizzare consistenti riduzioni del personale; dall’altro, questa stessa
fiducia accresce la propensione a realizzare downsizing in virtù degli effetti patrimoniali
legati alla crescita del valore delle azioni, indipendentemente dalla capacità o meno
dell’azienda di rigenerare la propria competitività.
Possiamo sintetizzare questa prospettiva con un’ipotesi riguardo alla reazione degli
investitori di fronte agli annunci di downsizing:
Ip. 1: Quanto più radicale è la riduzione di personale dichiarata da un’impresa in sede
di annuncio, quanto più favorevole sarà la reazione degli investitori con conseguente
beneficio per il valore azionario dell’impresa stessa
4. IL DOWNSIZING IN UNA PROSPETTIVA ORGANIZZATIVA E FONDATA SULLE
STRATEGIE PEOLPE CENTERED
Esiste però un risvolto della medaglia del quale gli studiosi di organizzazione hanno
colto la portata e ne hanno verificato empiricamente le implicazioni. Già nei primi anni
’90 erano disponibili numerose evidenze empiriche che descrivevano gli effetti tutt’altro
che positivi, nel medio periodo, delle strategie di downsizing (Worrel et. Al, 1991). I
programmi di ricerca realizzati a partire dalla seconda metà degli anni ’80, sottolineano
come l’ondata di downsizing abbia generato negli USA ripercussioni non trascurabili sul
sistema delle imprese. Rimandando all’ampia letteratura esistente l’analisi delle
ripercussioni a livello di sistema economico generale, è interessante per le finalità di
questo lavoro indagare gli effetti sulle singole imprese.
La ricerca organizzativa ha messo a fuoco un nuovo fenomeno micro-organizzativo
denominato significativamente “survivors' syndrome" – sindrome dei sopravvissuti -
(Brockner et. Al, 1985; Brockner et al. 1992; Brockner, 1992; Marks, 1995). Esso sta ad
indicare la quasi totale perdita di fiducia, da parte dei lavoratori, nella possibilità poter
conservare il proprio posto di lavoro; senso di precarietà e sempre più scarsa fiducia nelle
proprie capacità rappresentano gli elementi classici di un fenomeno ampiamente diffuso
nelle imprese che avevano sperimentato cospicui tagli del personale. Descritto in questi
termini, il perseguimento di un miglioramento della performance d'azienda sembra non
giustificabile nel medio/lungo periodo, poiché, in seguito ad una riduzione dell’efficacia
del coordinamento e della motivazione, i risultati non possono che essere negativi. In
molti casi l'effetto della prima ondata di downsizing fu infatti un aumento della
produttività e una riduzione dell’incidenza del costo del lavoro per unità prodotta, ma
solo relativamente al periodo immediatamente successivo alla sua implementazione.
Accanto a questi effetti di breve periodo, è emerso il fenomeno della "corporate
anorexia" o “dumbsizing” (Eisenberg, 1997). Il termine, indica un processo di riduzione
di costi e dimensioni aziendali di ampiezza e profondità tali da impoverire il patrimonio
di competenze e capacità presenti in azienda. Numerose sono le controprove che
dimostrano quanto il ricorso al downsizing, in una gran parte dei casi, sia stato effettuato
senza una razionale e consapevole riflessione sulle potenziali evoluzioni che 12
l’organizzazione potesse subire, a partire dalla serie di studi condotti nel tentativo di
confrontare le organizzazioni che avevano operato un downsizing a quelle che avevano
preferito ricorrere a strategie alternative. Le pubblicazioni di De Meuse, Vanderheien e
Bergmann (1994) e di Cascio, (1997) hanno evidenziato come le aziende che hanno fatto
ricorso al downsizing si siano rivelate meno produttive e, in taluni casi, non più in grado
di dimostrarsi efficienti. Non solo, è stato provato quanto fosse negativo l'effetto
provocato sui comportamenti di ruolo e extra ruolo dei dipendenti e, conseguentemente,
quanto plausibile fosse il verificarsi di fenomeni di conflitto, alienazione e turnover. In
sintesi, riassumendo la ricerca svolta nel 1991 dalla Wyatt Company su un campione di
1005 aziende che avevano sperimentato processi di downsizing, si può riscontare che:
1. meno di 1/3 delle aziende considerate ha ottenuto i profitti sperati;
2. solo il 21 % delle aziende considerate ha ottenuto incrementi in termini
di ROI;
3. il 46% delle aziende considerate ha realizzato che la riduzione del
personale non consente la riduzione di costi auspicata
Dunque una prospettiva organizzativa del downsizing consente di studiarne gli effetti
meno visibili, ma altrettanto importanti per l’acquisizione di un vantaggio competitivo
strutturale. Cameron ha per lungo tempo studiato secondo questa prospettiva il fenomeno
del downsizing, proponendo una classificazione delle conseguenze comportate da tal
genere di strategie, qualora queste vengano condotte senza alcuna consapevolezza dei
limiti e delle potenzialità dell'organizzazione. Le deduzioni fornite nel programma di
ricerca di Cameron sono la conseguenza di un ragionamento lineare ed empiricamente
fondato: l’impreparazione sulle implicazioni organizzative con cui le aziende affrontano i
processi di downsizing è, nella quasi totalità dei casi, fonte di situazioni di grande
difficoltà. Nello specifico, il downsizing può generare un deterioramento consistente
dell’efficacia organizzativa attraverso la crescita dei carichi fisici e psicologici sui
dipendenti. L’effetto di queste maggiori pressioni possono essere inoltre amplificate dal
mancato adeguamento dei sistemi di ricompensa e dalla mancata revisione dei processi
aziendali (Manzini e Gridley, 1986). Un’organizzazione incapace di comprendere gli
effetti “di sistema” del downsizing non è in grado di tutelare adeguatamente il patrimonio
di competenze presenti in azienda, configurando le basi per il fenomeno che Cameron,
con un’altra analogia medica, definisce “anemia delle competenze” (1994). Questa
anemia organizzativa è in grado di produrre effetti diretti sulla qualità dei prodotti e sul
livello di servizio offerto al cliente. Sempre Cameron (1998) ha raggruppato le
disfunzioni organizzative più frequenti in un insieme definito The Dirty Dozen. La
“sporca dozzina” del downsizing comprende: la centralizzazione, la visione di breve
periodo, la perdita di capacità di innovazione, la resistenza al cambiamento, il
peggioramento del morale, lo sviluppo di colazioni di interesse conflittuali, la non chiara
definizione delle priorità, la perdita di fiducia, l’aumento dei conflitti, la diminuzione
della comunicazione, la mancanza di teamworking, l’assenza di leadership.
In sintesi, questa prospettiva aiuta ad identificare le cause del fallimento dei programmi
di downsizing in un approccio che non assegna il giusto peso all’impatto che le riduzioni
di personale hanno sui processi di funzionamento dell’organizzazione e che porta il
management, ma anche gli investitori, a non sviluppare tutte le dimensioni del problema,
limitandosi ad una visione superficiale (Sutton, D’Aunno, 1989). Il paradigma che sta al
centro di questa riflessione si propone di identificare nelle persone e nelle conoscenze di
cui esse dispongono le risorse centrali e critiche per la competitività dell’impresa. Sotto
questa luce tutte le modalità in cui viene ad applicarsi la riduzione di personale, siano
pure esse le meno aggressive come il freno alle assunzioni, prepensionamenti, esodi
agevolati, ecc., conducono comunque al medesimo risultato di impoverire i livelli del
“capitale umano” presenti in azienda. Senza contare che, il conseguente senso di
insoddisfazione potrebbe condurre ad un ennesimo tentativo di ristrutturazione,
innescando una spirale negativa perversa (Brockner, 1988). L'attenzione rivolta alla
valorizzazione del capitale umano all'interno dell'organizzazione, come principale
determinante di un vantaggio competitivo realmente sostenibile, trae origine dalle
teorizzazioni svolte da diversi studiosi, nel tentativo di sviluppare in chiave organizzativa
le ipotesi della resource based view of the firm (Barney, 1991; Peteraf, 1993). Questa
impostazione propone nei contesti competitivi attuali una visione del capitale umano
come variabile fondamentale, garanzia dell'unicità e dell'inimitabilità dei vantaggi
ottenuti dall'impresa. Il segreto normativo per sostituire la tendenza ad adottare soluzioni
quali il downsizing, consisterebbe dunque nel coraggio di mettere in testa alle strategie il
patrimonio di competenze di cui dispone l’azienda. In sintesi, "putting people first",
usando un'espressione impiegata da Pfeffer nella spiegazione della human equation
proposta nel 1998 e considerata universalmente una sorta di manifesto per questa
prospettiva teorica (Pfeffer, 1998). L’equazione umana di Pfeffer si basa sull’ipotesi che
una strategia "people-centered" si basi concretamente sul rispetto della persona, non solo
all'interno del proprio contesto lavorativo, ma proprio in quanto individuo, foriero di una
unicità dalla quale l'azienda non può che coglierne vantaggi (Pfeffer e Veiga, 1998). Tale
rispetto deve concretizzarsi nella garanzia, offerta ai collaboratori, di godere della priorità
assoluta, anche nel confronto con azionisti e clienti, nella possibilità di condividere
conoscenza e informazioni con i membri dell'organizzazione, nella gratificazione
riconosciuta al proprio operato attraverso una misurazione su basi obiettive, nella
costituzione di contesti lavorativi high performance e, soprattutto, nel riconoscimento
dell'importanza della persona nel successo dell'organizzazione. Un high performance
management system, costituito su queste basi, tutela l'organizzazione poiché garantisce
inimitabilità dal momento che i valori sono orientati attorno al cambiamento,
all'apprendimento, allo sviluppo organizzativo. La riflessione condotta da Pfeffer ha
permesso l'individuazione di sette strategie, coerenti con le ipotesi menzionate, che si
traducono in:
sicurezza del posto di lavoro;
assunzione selettiva;
team autonomi e decentralizzazione,
formazione estensiva;
riduzione delle differenze di status;
condivisione delle informazioni;
retribuzione elevata e contingente.
In conclusione, se si osserva il downsizing nella prospettiva ora discussa si tratta di una
strategia che non è in grado di assicurare benefici nel medio lungo periodo e che quindi
dovrebbe non essere attrattiva, anche per gli investitori. L’ipotesi conseguente è:
Ip. 2: Quanto più radicale è la riduzione di personale dichiarata da un’impresa in sede
di annuncio, quanto più negativa sarà la reazione degli investitori, con conseguente
riduzione del valore azionario dell’impresa stessa.
5. LA RICERCA EMPIRICA: VARIABILI, DATA SET E TEST DELLE
IPOTESI
Abbiamo esplorato due modi antitetici di interpretare l’effetto delle strategie di
donwsizing. La prima prospettiva ha offerto un’immagine del downsizing come una
strategia che produce effetti positivi sulle aspettative degli azionisti. In effetti, tante volte
è capitato di osservare i titoli delle aziende acquisire alte quotazioni a seguito di annunci
di downsizing. Al contrario, la prospettiva organizzativa ha messo in guardia dai facili
entusiasmi, proponendo un punto di vista più complesso che guarda alle riduzioni di
personale come eventi traumatizzanti e che possono incidono gravemente sul
funzionamento dell’organizzazione e sulla sua competitività duratura.
Chi ha dunque ragione? Qual è il livello di consapevolezza degli investitori di fronte ai
rischi organizzativi del downsizing? Qual è la situazione in Italia.
Proprio sulla scorta di queste domande ha preso vita il disegno di ricerca alla base di
questo lavoro. A fronte di una cospicua letteratura dei risultati osservati all'interno del
contesto americano si è voluto analizzare statisticamente l'effetto che le politiche di
downsizing esercitano sull'andamento di borsa delle aziende del nostro Paese, per capire
se fosse possibile identificare nel comportamento degli investitori e degli azionisti,
all'interno di un contesto ben diverso da quello statunitense, le stesse logiche che hanno
guidato l'evoluzione del downsizing oltreoceano. E’ la prima volta che una ricerca di
questo tipo è stata realizzata in Italia. Il data set è stato raccolto su un arco temporale di 7
anni identificando 45 eventi di downsizing (che corrispondono a 35 imprese quotate) - si
veda l’appendice 1 per la descrizione del campionamento -. Di questo campione si è
studiato l'andamento azionario a seguito all’annuncio di downsizing mediante la
costruzione di una variabile dipendente definita "ritorno" e rappresentante la variazione
subita dal titolo all'interno di uno specifico intervallo temporale, depurando l’effetto dagli
andamenti generali del mercato. L’intervallo temporale è stato scelto confrontando con
alcuni operatori di borsa il modello applicato da Lurie (1998).
Attraverso la costruzioni delle variabili indipendenti si è cercato di catturare la
maggioranza degli elementi relativi alle riduzioni di personale che dovrebbero esercitare
un condizionamento sulle aspettative degli investitori. Sono state operazionalizzate nove
variabili indipendenti sospettate di essere esplicative per l'ipotesi della ricerca. Le
variabili possono essere classificate in quattro gruppi, alcuni dei quali tengono conto dei
fattori specifici del contesto istituzionale e industriale italiano. Il primo, racchiude le
notizie messe a disposizione degli stakeholders nell'annuncio di downsizing. Nel secondo
gruppo le variabili descrivono il singolo comportamento aziendale nei confronti del
downsizing. Il terzo gruppo sintetizza la componente delle aspettative in merito ai
licenziamenti effettivi. Il quarto introduce alcune variabili relative ai condizionamenti
esercitati dalla vertenza sindacale sui progetti di riorganizzazione. In sintesi le variabili
indipendenti per ciascun annuncio di dowsizing sono:
1. il numero assoluto di dipendenti in esubero annunciati;
2. il totale dei dipendenti al tempo dell’annuncio di dowsizing;
3. la percentuale di dipendenti dichiarati in esubero;
4. una variabile dummy che indica se il downsizing è la conseguenza di (1)
o meno (0) di una fusione o acquisizione;
5. una variabile dummy che indica se l’annuncio di downsizing è fatto nel
primo o nell’ultimo mese dell’anno fiscale (1) oppure in altri periodi (0);
6. una variabile dummy che indica se l’annuncio di downsizing è fatto da
un’azienda che ha già realizzato processi analoghi nei precedenti 5 anni (1)
oppure se non vi sono precedenti (0);
7. Una variabile dummy che indica se il numero di lavoratori annunciati in
esubero è superiore (1) rispetto alle notizie circolate in precedenza e a
disposizione degli investitori;
8. Una variabile dummy che indica se il numero di lavoratori annunciati in
esubero è inferiore (1) rispetto alle notizie circolate in precedenza e a
disposizione degli investitori;
9. Una variabile sulla durata della vertenza sindacale che ha portato
all’annuncio
5.1. Risultati e discussione
Prima di analizzare il modello di regressione volto a studiare l’effetto delle variabili
indipendenti concernenti il downsizing e la variabile dipendente del “ritorno azionario”, è
opportuno verificare quanta della variazione azionaria registrata a seguito della notizia di
downsizing potesse essere considerata un evento raro rispetto al precedente andamento
del titolo in questione. Seguendo l’indicazione adottata in ricerche analoghe (Lurie,
1998) si è quindi adottata l’ipotesi per cui se il ritorno del titolo si discosta in un certo
giorno dalla media della sua distribuzione con una probabilità superiore allo 0.00001%,
al di sopra o al di sotto della sua deviazione standard, l’evento possa essere considerato
raro. L’intervallo di confidenza che ne è derivato ha consentito di evidenziare come solo
nel 25% dei casi di downsizing si sono registrate fluttuazioni del titolo riconducibili agli
andamenti di mercato; il restante 75% rappresenta aziende che hanno sperimentato
reazioni specifiche degli investitori a seguito dell’annuncio di riduzione dell’organico3.
La tabella 1.1 e la tabella 1.2. riportano i modelli di regressione realizzati con tutte le
variabili dello studio sulle sei variabili dipendenti di ritorno, ossia dal giorno
dell’annuncio (giorno 0) sino ai cento giorni successivi (giorno 100).
Tabella 1. Significatività dei modelli di regressione completi (tutte le variabili indipendenti) sulle 6 variabili dipendenti
Day 0
Day 1
Day 5
Day 25
Day 50
Licenziamenti annunciati
-.432 -.427 .142 -.084 -.421
Numero dipendenti
.397 .727 ***
-.067 -.029 -.538
Percentuale licenziati
.078 -283 -.784 ***
-.264 -254
Fusioni- acquisizioni (dummy)
.015 .276 -.265 .105 .207
Motivazioni fiscali (dummy)
-.108 .153 .137 .011 .317
Non primo downsizing (dummy)
.382 .080 -.165 .335 -.114
Al di sotto delle aspettative
.250 -.153 .091 .013 -.100
Al di sopra delle aspettative
.107 .095 .0163
.074 .098
Durata vertenza sindacale
.474 .285 .041 .158 .340
Tabella 2. Variabile Dipendente: Ritorno al giorno 100
Model A Model BNumero licenziamenti annunciati -.456
**-.596
**Numero dipendenti -.549
**-.559
**Percentuale dipendenti licenziati -.733
***-.687
***
Fusioni e acquisizioni .145
3
Motivazioni Fiscali .243Non primo downsizing .140Sotto le aspettative .219Durata della vertenza -.135F 5.589
***5,589
**Adjusted R2 .531 .582
** < .05 *** < .01
Per ragioni di spazio, nel prossimo paragrafo si descrivono sinteticamente i sei modelli
ponendo in luce solo le principali evidenze empiriche. Prima di ciò e considerando che la
variabile dipendente è identica ma misurata in modo longitudinale, era necessario
escludere l’effetto di autocorrelazione. Dal test di Durbin-Watson per l’autocorrelazione
dei residui si ricava una situazione di autocorrelazione praticamente nulla. E’ tuttavia
vero che il ridotto numero di casi potrebbe influenzare la bontà della stima.
5.2. Principali risultati
1. Se si assume come variabile dipendente il ritorno azionario il giorno stesso
dell’annuncio di downsizing (giorno 0 tabella 1.1.), si ricava che la variazione per
il 95% dei casi rientra nelle variazioni normali di mercato (l’ipotesi nulla non
può essere negata). E’ possibile dunque negare una reazione a caldo degli
investitori di fronte all’annuncio del downsizing;
2. Il giorno immediatamente successivo all’annuncio (giorno 1 tabella 1.1.), l’unica
variabile in grado di fornire un potere esplicativo sull’andamento del ritorno
azionario è offerto dalla dimensione dell’azienda che realizza il taglio di
personale. In sostanza, quanto più grande è la dimensione dell’azienda tanto più
la reazione degli investitori di fronte al downsizing assume segno positivo. In
questo caso è verosimile che gli investitori reagiscano positivamente nei casi di
aziende di grandi dimensioni poiché è più probabile che in esse si siano nel
tempo accumulate inefficienze che il downsizing potrebbe contribuire a
correggere.
3. Le reazioni al quinto giorno (giorno 5 tabelle 1.1. e 1.2) sottolineano l’evolversi
di dinamiche più complesse. La percentuale di dipendenti annunciati in esubero
presenta livelli di significatività molto elevati nel predire le variazioni del titolo.
Il coefficiente è pari a -.784 con una significatività = .015. La relazione
lineare negativa indica quindi una reazione di sfiducia da parte degli investitori
nei confronti di riduzioni di personale che impattano su percentuali elevate di
dipendenti. Le ragioni di questa sfiducia possono essere molte, non ultime le
caratteristiche istituzionali italiane che sfavoriscono o rendono questi processi
difficilmente realizzabili.
4. Il risultato più importante e significativo è rappresentato dal modello del
centesimo giorno (si veda la tabella 1.2.). I dati confermano la tendenza già vista
al quinto giorno con una reazione linearmente negativa da parte degli investitori
nei confronti degli annunci di downsizing. Maggiore è la proporzione di
dipendenti annunciati in esubero, maggiore sarà la reazione negativa degli
investitori che cercheranno di disfarsi del titolo. Il modello di regressione
descritto nella tabella 1.2. riporta 8 delle 9 variabili con una significatività
generale molto buona (si osservi il valore del test F e del r-squared). E’
interessante osservare che la variabile “sotto le aspettative”, indicativa della
differenza negativa tra quantità di esuberi dichiarati prima dell’annuncio ufficiale
e quantità dichiarata al momento dell’annuncio non influenza la significatività
del modello. Analoghi studi negli USA hanno invece dimostrato come questa
dimensione influenza negativamente la percezione del mercato (Lurie, 1998).
Allo stesso modo nessun effetto sembra essere riconducibile alla durata della
vertenza sindacale.
In sintesi, a fronte di un'illusione suggerita dalla risposta positiva del ritorno nel giorno
successivo al downsizing rispetto al numero dei dipendenti impiegati, e dunque alle
dimensioni di azienda, il mercato, già a partire dal quinto giorno, sembra rispondere
mediante negativamente rispetto alla percentuale dei dipendenti licenziati. Il titolo,
dunque, dopo il primo giorno tende a scendere velocemente. Nel medio periodo (se si
considera lungo periodo l'arco temporale definito dai nostri 100 giorni), ovvero nei giorni
25 e 50, non si registra alcun effetto esercitato dalle variabili indipendenti coinvolte sulla
variabile dipendente, forse a causa di un naturale stallo dovuto al fatto che l'effetto
sorpresa della notizia è andato scemando, e gli investitori vanno più cauti nella
formulazione delle proprie aspettative. Quel che, invece, può essere affermato con
certezza è che esiste un chiaro condizionamento delle tre variabili numeriche contenute
nella notizia - numero di licenziamenti annunciati, numero dipendenti impiegati al
momento del downsizing, percentuale licenziati sul totale dei dipendenti; tutte e tre sono
legate all'andamento dei ritorni del centesimo giorno mediante un coefficiente molto alto.
Se si volessero, dunque, trarre conclusioni, si potrebbe affermare tranquillamente che più
severa e drastica appare la riduzione della forza lavoro in un'azienda, più punitive si
rivelano le misure adottate dagli investitori.
4.1. Discussione, implicazioni e limiti dello studio
Non vi sono in Italia ricerche analoghe svolte in passato per poter realizzare un
confronto. Interessante, a solo titolo esemplificativo, è la risposta fornita all’autore
durante le interviste preliminari da un imprenditore italiano di grande valore che ha
quotato il proprio gruppo alla borsa di New York: “Se un’azienda annuncia licenziamenti
vuol dire che va male, perché mai dovrei comprarne le azioni? Anzi se ne possedessi
qualcuna le venderei subito”. Come nel caso di questo imprenditore, dalla ricerca emerge
in modo sufficientemente chiaro che gli investitori messi di fronte ad annunci di
downsizing di aziende italiane non reagiscono in modo euforico, al contrario dimostrano
reazioni negative. Delle due ipotesi proposte nello studio, la seconda sembra quindi
trovare conferma. Già alcune evidenze empiriche precedenti avevano messo in luce
questo tipo di effetto. In particolare, i risultati sono convergenti, anche dal punto di vista
temporale con l’analisi di Worrel, Davidson e Sharma (1991) sugli annunci di
downsizing di 194 aziende americane e canadesi. L’effetto evidenziato nella ricerca di
Lesly e Light (1992) in cui la temporale tra annuncio e quotazione assume la forma di
una U-rovesciata.
Con riferimento ai risultati di questa ricerca, si può osservare come più drastica e severa
appare la riduzione della forza lavoro in un’azienda italiana, più punitive si rivelano le
risposte adottate dagli investitori e dai detentori di capitale. L’esiguo numero di casi
inficia inevitabilmente la significatività statistica dei risultati, sebbene, alla luce della
definizione di downsizing organizzativo, la ricerca abbia analizzato tutto l’universo degli
eventi in un arco temporale ampio. I risultati emersi, che a rigore possiamo definire
preliminari, tracciano alcune tendenze sulle quali è utile offrire qualche riflessione. La
relazione negativa tra dimensione del downsizing e fiducia degli investitori può essere
letta e interpretata da molteplici angolature. Tra queste ve ne sono almeno due che
meritano di essere brevemente discusse.
La prima riguarda la sfiducia con cui gli investitori considerano la realizzabilità dei
processi di downsizing nel contesto più generale in cui operano le imprese in Italia. Il
forte impatto che questi processi hanno sull’opinione pubblica, sulla legittimazione, sulla
cultura della concertazione e del compromesso sindacale rendono infatti questi processi
complessi e irrazionali. In un Paese come l'Italia, saldamente legato ad una cultura di
strenua difesa del valore della job security, sulla scorta di motivazioni più di carattere
etico che economico in senso stretto (ammesso che le due cose possano essere distinte),
gli investitori comprendono bene l’impatto esterno negativo di un atteggiamento secondo
il quale la competitività d'azienda deve essere perseguita ad ogni costo. Da qui il timore e
la sfiducia verso gli annunci.
La seconda spiegazione dice che, forse proprio laddove il contesto istituzionale rende
questi processi inerziali e complessi, gli investitori sembrano comprendere più che
altrove l’impatto organizzativo negativo delle riduzioni di personale. Si tratta in questo
caso di un impatto interno all’organizzazione con effetti sul conflitto, sul morale dei
dipendenti, sulla qualità dei processi produttivi. Tutto ciò è considerato pericoloso per la
redditività dell’azienda nel medio-lungo periodo. Se questa sia una conferma
dell’equazione umana di Pfeffer è difficile dirlo. Probabilmente la ricerca non è in grado
di cogliere pienamente questo aspetto. La ricerca fornisce per il contesto italiano una
prima prospettiva di analisi, limitandosi a indicare la direzione della reazione degli
investitori, ma senza indagarne a fondo le cause. Sappiamo ora dello scetticismo degli
investitori riguardo agli annunci di downsizing e sappiamo della relazione tra radicalità
delle riduzioni di personale e negatività della reazione. Poco sappiamo invece delle
ragioni se non attraverso inferenze logiche. Certamente, possiamo escludere l’esistenza in
Italia di un circolo vizioso tra reazione di borsa positiva e frequenza del ricorso al
downsizing. Paradossalmente, l’inerzia della trattativa sindacale, la cultura della job
security ha scoraggiato azioni del management delle imprese volte ad assicurarsi vantaggi
patrimoniali di breve confidando sulla reazione positiva dei mercati. Tutto ciò non fa che
aumentare il senso di responsabilità e l’impegno del management italiano che devono
trovare altre strade, probabilmente più utili in termini generali, per la competitività e la
creazione di valore per gli azionisti.
Questo filone di ricerca potrebbe rivelarsi molto interessante se svolto analizzando più
direttamente le cause e le motivazioni che spingono gli inventori alle reazioni che la
ricerca qui presentata ha posto in luce.
NOTE
In realtà, il dibattito sull’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori è solo una parte del problema.2Ragioni di spazio non consentono di sviluppare questo importante punto. Alcune ricerche stanno mettendo in luce come i piani di stock-options producano una maggiore propensione del management ad attuare strategie di downsizing.3 Un test di significatività unidirezionale, non riportato per ragioni di spazio, che tiene conto della volatilità del titolo conferma questo dato. L’autore è disponibile per fornire i risultati di questo importante test.
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Appendice 1: campionamento delle notizie di dowsizing
Integrando le indicazioni riportate nello studio di Lurie (1998) con le interviste realizzate ad operatori italiani, si è deciso di campionare un evento come downsizing in presenza delle seguenti condizioni:
1. La società è quotata nella Borsa Italiana al momento dell’annuncio;2. La sede legale della società è in Italia;3. La notizia del downsizing è riportata da doppia fonte Reuters e Sole 24 Ore;4. Le imprese o le unità operative a cui è riferito il downsizing con almeno 20.000 dipendenti
devono annunciare un esubero di almeno 1000 posizioni;5. Se i dipendenti sono inferiori a 20.000 il taglio annunciato non deve essere inferiore al 3%
del totale;6. Si includono i dipendenti annunciati in esubero indipendentemente dalla posizione
pensionistica;7. Si considerano i dipendenti annunciati in esubero e non quelli effettivamente licenziati,
messi in mobilità, prepensionati o incentivati a lasciare l’azienda;8. Per le società che hanno annunciato nel periodo di rilevazione più di un esubero devono
essere trascorsi almeno sei mesi dal precedente.