Tesi - Bozza Finale
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE ________________________________________
FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE Corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere
Tesi di Laurea
LA SOCIETA’ DEL BENESSERE E IL MIRACOLO ECONOMICO IN ITALIA
(1948-1973)
Relatore: Laureando: Prof. Fulvio Salimbeni Nicolas Driutti
ANNO ACCADEMICO 2003/2004
2
Indice
pag.
Introduzione 4
I. Cenni storici
Una definizione del consumismo 7
Storia del consumismo 10
Prima fase (1873 – 1945) 11
Seconda fase (1945 – 1973) 19
II. Il consumismo in Italia
Introduzione 26
La situazione politica ed economica nel dopoguerra 26
Il miracolo economico 28
Dalla società contadina alla società affluente 31
Particolarità della nascita della società dei consumi nell’ambito del
miracolo economico 37
Il ruolo dei partiti 42
Il post-miracolo (1963 – 1973) 45
La crisi del ’73 50
Echi nella letteratura, nella musica e nel cinema 53
III. Considerazioni finali
Introduzione 60
Le contraddizioni del benessere 60
I limiti del benessere 63
Il fallimento delle rivendicazioni 66
Consumismo contro democrazia 69
IV. Conclusions 72
3
Ringraziamenti 81
Bibliografia 82
4
Introduzione
L’obiettivo di questo lavoro è quello di fornire una panoramica sulla storia della
nascita e la crescita della società del benessere nell’Italia del dopoguerra, in particolare
analizzando gli stravolgimenti sociali, politici e culturali provocati dal “miracolo
economico”, che cambiarono profondamente gli stili di vita e i consumi di gran parte
degli italiani. Questo lavoro nasce dalla voglia di capire le fenomenologie legate agli
atteggiamenti consumistici presenti nella società Italiana odierna, che spesso
degenerano in patologie sociali, economiche ed ambientali. In particolare, mi sono
focalizzato sugli anni Cinquanta e Sessanta, proprio perché in quei decenni avvenne
quella trasformazione profonda degli assetti sociali ed economici che cambieranno la
natura stessa dell’Italia. La società rurale, fortemente legata alla terra e ai suoi riti
millenari, sorvegliata da vicino da una zelante Chiesa cattolica venne soppiantata nel
volgere di un decennio dalla civiltà urbana e industriale, portando l’Italia a far parte del
ristretto gruppo dei paesi più industrializzati del pianeta.
La prima parte della tesi si concentra soprattutto sulla nascita, a fine Ottocento,
dei primi grandi agglomerati finanziari e industriali,, legando così in grandi gruppi i
fornitori di capitali e i produttori. La grande crisi (causata per la prima volta nella storia
dalla sovrapproduzione) del 1873 e la sua scia dei fallimenti a catena che la seguì,
permise alle aziende e alle banche più forti di assorbire quelle più piccole, dando inizio
a un periodo di forte incremento della concentrazione produttiva e degli investimenti in
innovazione tecnologica, non più legate unicamente al genio di scienziati isolati. Da
queste premesse parte il mio approfondimento sul legame tra lo sviluppo del
capitalismo e lo sviluppo della società del benessere (ed una delle sue conseguenze più
nefaste, il consumismo) dal 1873 fino al 1973, prima negli Stati Uniti e, dal dopoguerra
in poi, anche in Europa Occidentale.
Il secondo capitolo tratta in particolare le problematiche e le particolarità del
processo di rapido sviluppo economico che favorirà la nascita della società dei consumi
in Italia, individuando nel “miracolo economico” il perno su cui si basa la mia analisi
5
dei fenomeni sociali, economici e politici fautori del cambiamento. Le trasformazioni
avvenute in seno alla società italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, oltre ad essere
caratterizzate da una velocità travolgente e dalla trasformazione del modo di vita di
milioni di persone, sarà profondamente segnata anche da gravi mancanze nella gestione
e nel controllo dei cambiamenti da parte dello Stato centrale. Queste mancanze non
saranno riscontrate soltanto nell’ambito della mancanza di finanziamenti ai consumi
pubblici, ma piuttosto alla cattiva gestione di questi fondi e al conservatorismo con cui
vengono letti i venti di cambiamento della società. Una parte importante del mio lavoro
punta precisamente a rendere più chiaro il legame tra le mancanze dello stato nella
gestione del pubblico e le conseguenze che esse ebbero sui futuri assetti della
collettività, in particolare dell’ascesa durante gli anni Settanta di due fenomeni: da un
lato dell’escalation degli attacchi dinamitardi e terroristici e, dall’altro, la diffusione in
ampi settori sociali di un crescente senso di smarrimento e scontento nei confronti dello
Stato e i suoi organi rappresentativi. Lo Stato reagisce a questo malcontento
aumentando la repressione nei confronti dei ceti in subbuglio e allargando le pratiche
della politica clientelare atte a garantirsi il consenso tra quei settori che traevano
beneficio da questo tipo di cultura politica. La particolare combinazione di cambiamenti
accelerati – assieme ad un contesto istituzionale incapace di gestirli – peserà anche nella
scelta dei consumi privati, spesso condizionati dalle mancanze dello Stato, in special
modo per quel che riguarda la mobilità ed il possesso di una casa. Con la diffusione
della società dei consumi questi atteggiamenti sfoceranno nella diffusione di
comportamenti spiccatamente individualistici per quel che riguarda la scelta dello stile
di vita ed i modi in cui raggiungere il successo personale, anche a scapito delle regole
basiche che disciplinano la vita in società.
Infine, nell’ultimo capitolo cerco di dare qualche chiave di lettura partendo dalla
critica alla società dei consumi elaborata da noti studiosi critici appartenenti a scuole
differenti, in particolare facendo riferimento a Marcuse, Galbraith e Latouche. La critica
s’incentra soprattutto sull’origine dei bisogni che portano poi all’esasperazione quasi
patologica di certi aspetti della società dei consumi, come ad esempio l’aumento dello
spreco, dell’uso di grandi quantità di materiali ed energia per scopi dettati dai capricci
della moda o delle tendenze commerciali del momento. Questi bisogni hanno origine
nel sistema produttivo, e vengono trapiantati poi nelle case di ognuno di noi attraverso
la pubblicità, che tende ad invadere spazi sempre più ampi della vita quotidiana.
Mediante questo meccanismo, sebbene aumentino la quantità di beni disponibili sul
mercato e le aziende siano in condizioni di garantire livelli d’impiego adeguati, ma così
6
si viene a creare un legame troppo pericoloso per l’intera società, che mette le sue sorti
in mano ai grandi gruppi economici, chiaramente interessati a fare innanzitutto i propri
affari, qualche volta coincidenti con quelli della collettività ma il più delle volte no,
soprattutto se consideriamo i problemi causati nel Primo e nel Terzo mondo da questo
modello di sviluppo. In particolare, mi preme mettere in risalto il fatto che il benessere
raggiunto dalle società dell’Occidente industrializzato, oltre ad essere gestito e orientato
verso le necessità dei grandi gruppi multinazionali, si poggia su basi molto fragili –
minacciando fondamentalmente la sostenibilità ambientale a lungo scadere di una tale
concezioni di sviluppo economico – e, provocando, tra l’altro, un visibile divario tra
zone ricche e povere, che tende a crescere piuttosto che a ridursi col passare degli anni,
a dispetto anche delle promesse fatte dai promotori della globalizzazione liberista del
capitalismo. A sua volta, il progredire del sistema di accumulazione capitalista, in
particolare con l’impostazione datagli dal dopoguerra in poi, svuota il peso decisionale e
la capacità di regolazione delle economie nazionali che in teoria spetterebbe alle
istituzioni democratiche, screditando in questo modo anche il sistema rappresentativo su
cui esse si fondano. Oltre a minacciare la sopravvivenza stessa dell’uomo e di molte
altre specie sulla faccia della terra, l’analisi dello sviluppo capitalistico degli ultimi
sessant’anni ci mette davanti interrogativi di pressante attualità, in particolare quello
sollevato dagli ultimi avvenimenti mediorientali: può l’Occidente mettersi in testa l’idea
d’esportare i propri sistemi democratici in certe aree del pianeta, quando il
funzionamento stesso delle sue democrazie viene continuamente falsato e scavalcato dai
flussi economici internazionali, i quali, di fatto, agiscono seguendo soltanto le proprie
regole, ovvero le regole del capitalismo?
7
Capitolo primo
Cenni Storici
Una definizione del consumismo
In questa prima parte, cercherò, utilizzando diverse fonti testuali, di formulare una
definizione del consumismo il più chiara e precisa possibile. Inizierò prima con quella
più semplice, tratta da un vocabolario della lingua italiana:
Consumismo: tendenza, tipica delle economie caratterizzate da un alto livello di
benessere, e rafforzata dalle tecniche pubblicitarie, a incentivare i consumi privati di
beni anche non necessari.1
Questa definizione, ancorché semplice, introduce già due degli elementi più
caratteristici che riguardano il fenomeno del consumismo, e cioè la società del
benessere e la pubblicità. Tuttavia, questi due elementi non esauriscono completamente
la fenomenologia che riguarda il consumismo, quindi introdurrò altre due definizioni
che ci aiuteranno ad avere un quadro più chiaro. In primo luogo, Sergio Vitale,
nell’introduzione della sua raccolta di saggi Consumismo e società contemporanea,
definisce il consumismo in questi termini:
Con l'avvento della rivoluzione industriale, la situazione subisce un radicale
mutamento: la nuova direzione assunta dalla accumulazione capitalistica, con la
sostituzione del sistema di fabbrica alla manifattura artigiana e il conseguente sviluppo
di nuove forze sociali, esige come presupposto essenziale per il funzionamento e la
sopravvivenza stessa del sistema economico che l'incremento della produzione, reso
possibile dal progresso tecnico-scientifico, non conosca in alcun modo rallentamenti o
1 Zingarelli, Nicola, Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 2000, pag. 435.
8
battute d'arresto. Questo spiega, da una parte, la continua immissione di beni e di
servizi sul mercato, la creazione di bisogni prima inesistenti, la diffusione di modelli
di comportamento sempre diversi; e, dall’altra, il consumo sempre più accelerato degli
oggetti della produzione, l’incalzante succedersi delle mode, la rapida obsolescenza
delle merci.2
In secondo luogo, abbiamo la definizione fornita da Ravaioli (2000) che, a
riguardo dello stesso argomento si esprime così:
Il consumismo, questa accelerazione coatta nell'uso di beni sempre meno necessari,
che nulla ha a che fare con una giusta diffusione di consumi tra tutti i ceti, che non è in
alcun modo finalizzato al benessere delle masse, e non serve altro obiettivo che la
continua alimentazione della spirale produttivistica, avrebbe dovuto svelare la sua
verità di strumento del capitale; il suo essere non l'aspetto negativo, eccedente, dello
sviluppo capitalistico, ma la più vistosa manifestazione della sua stessa essenza, la
concreta rappresentazione del fatto che (come diceva Claudio Napoleoni) "la funzione
specifica del valore d'uso consiste nel fornire un supporto al valore di scambio".3
Dunque come possiamo dedurre dal contributo delle ultime due definizioni, il
consumismo va oltre la sua definizione più semplice. In effetti, è un processo molto
articolato, nato nelle società dei paesi di prima industrializzazione, proprio come
conseguenza dello sviluppo dei grandi gruppi industriali che, investendo massicce
somme di capitale nella produzione devono assicurarsi lo sbocco di ciò che essi
producono in quantità sempre più elevate. La produzione abbisogna non solo di mano
d’opera a buon mercato, ma ha altresì bisogno che la mano d’opera investa i propri
redditi nell’acquisto dei prodotti messi a loro disposizione sul mercato. Se ciò non
accade, il “cerchio” non si chiude e l’economia precipita inevitabilmente in una crisi di
sovrapproduzione. Per la prima volta nella storia umana, per secoli segnata dalla
scarsità e dalle penurie, con l’avvento del sistema di produzione industriale capitalista,
si produce ad un ritmo talmente elevato che le merci non trovano sbocco sul mercato.
Trovatosi di fronte a questo problema, l’apparato produttivo non ha preso le crisi
di sovrapproduzione come se fossero una misura della sazietà del mercato (provando a
fare un’analogia col corpo umano), riducendo le proprie capacità produttive o riducendo
2 AA. VV. (a cura di Vitale, Sergio), Consumismo e società contemporanea, Firenze, Sansoni Università, 1975, pagg. 5-6. 3 Ravaioli, Carla, “Contro il mito della crescita”, in La sinistra – Rivista (rivista mensile del quotidiano “Il manifesto”), numero 9, settembre 2000.
9
il carico di lavoro richiesto ai lavoratori, giacché l’aumento della produttività non ha
conosciuto battute d’arresto, non riconoscendo che così si riuscirebbe a dare
un’occupazione a molte più persone. Sarebbe stata la cosa più logica da fare, la
produzione sarebbe continuata e allo stesso tempo le persone avrebbero potuto dedicare
diverse ore delle loro giornate alle più svariate attività personali o comunitarie.
Purtroppo però, come ce lo dimostrano tanti casi del passato e del presente, l’apparato
produttivo ed in genere l’economia rispondono solo alle logiche (ed anche alle versione
miticizzate di esse a cui sovente si appellano gli economisti quasi fosse una religione)
del profitto, la crescita, lo sviluppo, del libero mercato, a seconda della convenienza e a
scapito di tutto il resto, in primo luogo noi stessi. Ciò vuol dire che il problema della
sovrapproduzione è stato, ed è ancora risolto, stimolando attraverso la pubblicità (con
tutti i modelli di vita e consumo da essa proposti) ed il credito l’uso di porzioni di
reddito sempre maggiori per l’acquisto di merci d’ogni tipo.
Si potrebbe obiettare questo affermando che l’apparato produttivo immette
nuovi prodotti sul mercato solo per soddisfare i bisogni umani, innumerevoli, in
continuo sviluppo e spesso imprevedibili; e quindi il fatto che le persone abbiano
sempre maggiori possibilità di soddisfarli è proprio un indice del benessere raggiunto da
queste persone. Il problema, però, come ce lo dimostra Galbraith, è la fonte che
alimenta questo processo: “E’ chiaro che non si può sostenere la produzione come
strumento per soddisfare i bisogni, quando è la produzione stessa che crea tali
bisogni”.4 Il consumo di massa nelle società capitalistiche inevitabilmente degenera nel
consumismo proprio perché il consumo stesso è creato artificialmente dal sistema
produttivo, straniandosi completamente dal desiderio e dal bisogno umano, ubbidendo
soltanto alle logiche della produzione. “Non si tratta di negare che vi siano dei bisogni,
delle attività naturali, ecc., si tratta di vedere che il consumo come concetto specifico
delle società contemporanee, non è là.”5
4 Galbraith, John K., L’effetto della dipendenza, in AA. VV., pag. 297. 5 Baudrillard, Jean, La società dei consumi: i suoi miti e le sue strutture, Bologna, Il Mulino, 1976, pag. 101.
10
Storia del consumismo
Dopo aver definito cosa si intende per consumismo e quali altri concetti sono
compresi dentro questo fenomeno, cercherò di delineare un percorso diacronico in cui
verrà illustrata la nascita e lo sviluppo del consumismo fino al 1973, anno in cui si
verifica la crisi del petrolio che segna uno spartiacque nella storia economica e politica
mondiale. Così com’è capitato per tanti altri avvenimenti e processi che riguardano
l’intera società in diverse regioni del pianeta, non possiamo stabilire con precisione una
data certa d’inizio del consumismo. In ogni caso, nulla ci impedisce di effettuare una
scelta più o meno arbitraria, per appunto l’anno 1873; e anche sé arbitraria, la scelta di
quest’anno in particolare risponde a delle ragioni ben precise.
Il periodo di crisi economica che ebbe origine quell’anno e che si protrasse fino
al 1895 (conosciuta come la Grande Depressione), rientra sì nell’ambito delle crisi
croniche “di sfiato” del sistema capitalista industriale, ma con delle caratteristiche
innovative rispetto alle altre crisi verificatesi nel XIX secolo: per la prima volta le
capacità produttive sono nettamente superiori alle capacità d’assorbimento da parte del
mercato, ciò provoca fallimenti a catena, crac borsistici, licenziamenti di massa e
riduzione dei salari; nascono così in questo periodo le prime grandi concentrazioni di
gruppi industriali e finanziari che approfittano della situazione di crisi generale per fare
grosse acquisizioni. E’ la nascita di una nuova fase nell’economia, quella del
capitalismo finanziario, nascono i germi dei colossi industriali e finanziari che in futuro
si spartiranno il controllo dei mercati mondiali e saranno tra gli attori principali
responsabili per la nascita del consumismo. Il 1873 è l’anno che denota anche l’avvio
della II Rivoluzione Industriale: lo sviluppo industriale non è più solo un’esclusiva della
Gran Bretagna; d’ora in poi anche Francia, Germania e Stati Uniti (ma non solo)
cominciano a sviluppare le proprie industrie nazionali e cresce il tasso d’urbanizzazione
e di proletarizzazione delle popolazioni in questi paesi, e proprio loro saranno il terreno
di coltura ideale di cui il consumismo ha bisogno per attecchire.
11
Prima fase (1873 – 1945)
La grave crisi iniziata nel 1873 fu causata dalla concomitanza di diverse crisi
speculative combinate con la diminuzione della redditività degli investimenti e
l’aumento della concorrenza che sbocciarono in una serie di crisi borsistiche e
finanziarie (in particolare nelle borse di Vienna e New York); ma anche, ed è questo il
fatto che c’interessa in particolare, la sovrapproduzione diventa un problema per
l’economia: [In Inghilterra] “Le capacità produttive sono nettamente superiori al
fabbisogno; nel 1873 le fonderie sono in grado di produrre 2,5 milioni di tonnellate di
binari; ma la richiesta crolla a 500.000 tonnellate; fra il 1872 e il 1881 il loro prezzo
scende del 60%.”6 C’è inoltre da tener conto della caduta dei prezzi agricoli in Europa
causato dall’arrivo del grano russo e americano; le campagne europee ne soffrono
parecchio e si accentua l’immigrazione interna verso i grandi poli industriali e
soprattutto verso le Americhe. E’ una crisi che colpisce maggiormente i settori agricolo
e finanziario; quello industriale, colpito principalmente dalla sovrapproduzione, è
costretto a ridurre i volumi di produzione, i prezzi ed i margini di guadagno. Tuttavia, la
crisi fa fallire le industrie e le banche più deboli spianando il mercato a quelle più forti e
con maggiori disponibilità di capitali. Questi gruppi escono rafforzati, e grazie alle
nuove invenzioni tecniche, la riduzione del numero di concorrenti e la mano d’opera a
buon mercato sempre disponibile (si verificò, come in ogni crisi, un deciso aumento
della disoccupazione col conseguente abbassamento delle retribuzioni), riusciranno a
rimettersi in sesto.
Di questo periodo di crisi ci interessa in particolare il modo in cui i grandi
capitalismi nazionali reagirono alla Grande Depressione. Le modalità scelte per arginare
i problemi del sistema industriale e finanziario segneranno fortemente il mondo intero,
di fatti, proprio questo periodo vede la nascita dell’espansione imperialistica, la corsa
frenetica delle principali potenze mondiali verso quelle zone del pianeta ancora poco
esplorate e poco conosciute, oppure colonizzate solo commercialmente e in modo
parziale. Il mondo fu suddiviso a tavolino in aree d’influenza, tutti i continenti furono
presi di mira dall’appetito vorace delle potenze industriali: bisognava trovare mercati
nuovi in cui fosse possibile collocare i prodotti industriali in eccesso e nuove zone da
cui attingere le materie prime necessarie a sostenere l’apparato produttivo; il tutto 6 Beaud, Michel, Storia del capitalismo: dal Rinascimento alla new economy, Milano, Mondadori, 2004, pag. 158.
12
sempre giustificato dalla missione civilizzatrice ed evangelizzatrice dell’uomo bianco.
Persino i Paesi latinoamericani che avevano raggiunto l’indipendenza dalla Spagna nei
primi decenni del XIX secolo, furono costretti a rientrare all’interno di quest’espansione
del capitalismo su livello mondiale, subdolamente però, senza fare ricorso alla forza
militare. Attraverso le pressioni dei grandi gruppi finanziari mondiali, l’apertura forzata
dei loro mercati interni alla libera concorrenza e con la testa d’ariete delle
multinazionali7 che operavano nel settore delle materie prime e potevano agire a mani
libere all’interno di questi paesi complici molto spesso delle aristocrazie latifondiste
corrotte. Un contributo per poter capire la portata dell’imperialismo ce lo fornisce
Luxemburg, che agli inizi del Novecento, nell’Accumulazione del capitale, fece
un’accurata analisi dei processi sottostanti all’espansione imperialistica: “Il capitale
ozioso non trovava possibilità di accumulazione in patria, mancandovi la richiesta di
prodotti addizionali: ma all’estero, dove la produzione capitalistica non si è ancora
sviluppata, una nuova domanda si è determinata in strati non-capitalistici, o la si
determina con la forza. (...). L’essenziale è che il capitale accumulato nel vecchi paese
trovi nel nuovo una rinnovata possibilità di produrre plusvalore e di realizzarlo, cioè di
continuare l’accumulazione.”8 Fu l’unico modo con cui si riuscì a rimandare l’ipotesi di
una guerra a tutto campo (purtroppo soltanto fino al 1914) tra le potenze, rivelatasi
sempre più vicina con l’inasprimento della concorrenza soprattutto nei settori di prima
industrializzazione; e con l’inarrestabile ascesa delle nuove comparse nello scenario
internazionale (Stati Uniti e Germania) che provocarono l’aumento dei punti d’attrito tra
i paesi industrializzati. Inoltre, attraverso le politiche legate alla colonizzazione e il
fervore nazionale suscitato dalle imprese di conquista che promettevano terre e lavoro ai
diseredati dell’industrializzazione, lo Stato e gli industriali inscenavano uno spettacolo
che distoglieva l’attenzione dai problemi sociali ed economici reali, alimentando anche
il ghiotto boccone delle commesse di guerra (non dimentichiamoci che molti tra i più
micidiali sviluppi della tecnica militare sono di questo periodo9).
L’altra forma d’adattamento escogitata per far fronte alla situazione di crisi
internazionale, il capitalismo finanziario, a noi interessa in modo particolare perché darà
avvio all’assetto economico da cui scaturì l’ideazione e messa in atto di quelle misure 7 Vedere in particolare il capitolo 21 in Perrault, Gilles et al., Il libro nero del capitalismo, Milano, Net, 2003. 8 Luxemburg, Rosa, L’accumulazione del capitale, Torino, Einaudi, 1968, pag. 427. Vedere in particolare i capitoli XXX, XXXII e XXXII in cui vengono trattate le tematiche riguardanti l’imperialismo, il militarismo e l’espansione coloniale delle potenze europee. 9 Solo per citare alcune delle innovazioni, possiamo nominare il siluro inventato nel 1860, il sottomarino nel 1863, la dinamite nel 1867 e la mitragliatrice nel 1883. Rif. Bibl.: Del Torre, Giuseppe e Viggiano, Alfredo, Corso di storia e percorsi di approfondimento, Firenze, Edizioni Sansoni, 2000, pag. 373.
13
per incentivare il consumo del maggior numero possibile di beni, da noi prima definito
come consumismo. Il capitalismo finanziario segna la fine della netta divisione tra
fornitori di capitale e produttori, ora questi due fattori si legano e si concentrano sotto la
direzione dell’alta finanza. Il numero degli attori presenti sul mercato si riduce, si
verifica una fortissima concentrazione di capitali e di forza produttiva in poche mani,
s’investe nella ricerca di nuove tecniche, nuovi prodotti, nuovi fonti d’energia, nuove
modalità di commercializzazione, nuove produzioni che permettessero alle aziende di
ritornare a fare profitti. Mai prima d’ora s’era creato un legame così forte tra industria,
finanza, laboratori e scienziati; i nuovi agglomerati industriali potevano contare con un
vasto supporto finanziario per realizzare questi investimenti, altrimenti impensabili. Per
cercare d'arginare i problemi causati dalla sovrapproduzione e dalla stagnazione
generale dell'economia, le potenze industriale tornano a ricorrere al protezionismo dopo
due decenni che avevano visto l'espansione del liberismo; così, ogni potenza, mettendo
insieme i nuovi mercati aperti dalla colonizzazione protetti da barriere doganali si
credette di risolvere il problema degli sbocchi commerciali.
Nonostante il varo di misure protezionistiche e l'allargamento dei mercati
disponibili e delle conquiste realizzate dal capitalismo internazionale, la tensione e le
ipotesi di conflitto non s'allentarono affatto, anzi, nacque una corsa agli armamenti che
vide impegnate soprattutto la Gran Bretagna e la Germania, ognuna delle due messasi a
capo di una coalizione internazionale in chiave difensiva che, di fatto, comprometteva
l'Europa tutta nel gioco delle alleanze, facendo diventare il continente una polveriera
pronta a scoppiare in qualsiasi momento. E, di fatti, non ci è voluto molto tempo prima
d'andare a fuoco nel 1914. La I Guerra Mondiale ebbe effetti devastanti non solo perché
provocò la perdita di milioni di vite umane, ma anche perché sconvolse un'intera
generazione provocando cambiamenti epocali nella società, nell'economia, nel mondo
del lavoro e nei rapporti tra i sessi e tra le classi. Sul piano dei rapporti internazionali, la
guerra segna l'inizio del lento declino del primato mondiale dell'Europa e la comparsa
nello scacchiere internazionale delle due superpotenze situate proprio ai margini
dell'Europa: gli Stati Uniti e l'Urss. Fu la prima guerra “totale”; ovvero, tutto l'apparato
economico e industriale, tutte le componenti della società vennero mobilitate e
coinvolte nello sforzo bellico, costringendo ai lavoratori a fare molte concessioni sul
piano dei diritti in pro del raggiungimento degli obiettivi della macchina bellica. Fra
tutti questi fattori a noi interessano in modo particolare quelli che riguardano le misure
(e le conseguenze di esse) messe in atto durante il periodo della guerra che saranno
d'importanza fondamentale per capire gli sviluppi del consumo di massa, analizzando in
14
particolare i risvolti della congiuntura economica americana e internazionale nel periodo
tra le guerre.
Diversamente dalla situazione in cui versavano i paesi europei dopo la I guerra
mondiale, gli Stati Uniti trassero più di qualche vantaggio in particolare per quel che
riguarda l'aumento delle riserve aurifere e dal fatto che la guerra fece da volano dello
sviluppo industriale ed economico. Il deciso aumento della produttività che si verificò
nel periodo bellico fu in gran parte dovuto all'introduzione del taylorismo. Le linee
guida che ponevano le basi per l'organizzazione scientifica del lavoro, ideate da Taylor
verso la fine dell'Ottocento, prima della guerra, non avevano trovato molti adepti,
invece ora vengono applicati da tutti i sistemi industriali avanzati e non solo nella
produzione industriale. Il fattore chiave per vincere una guerra dopo la Rivoluzione
Industriale giace nell'apparato industriale di un Paese più che nella quantità di soldati
che esso è in grado di schierare sul campo. Chi riesce a produrre di più, innovare e
migliorare la distruttività e l'efficienza degli armamenti ed è in grado di assicurare e
gestire le proprie fonti di materie prime in modo migliore vince la guerra.
L'introduzione del taylorismo nelle fabbriche non può più essere arginata dai sindacati,
il cui margine di manovra è stato drasticamente ridotto dalle leggi speciali approvate nel
periodo bellico che vietavano gli scioperi od ogni tipo di protesta che prevedesse la
sospensione della produzione. Il taylorismo fu soltanto un primo passo di un
cambiamento ancora più profondo che ebbe luogo nel periodo tra le guerre negli Stati
Uniti con l'introduzione del fordismo. L'innovazione dell'organizzazione scientifica
della produzione introdotta da Henry Ford va al di là del semplice miglioramento della
produzione con la catena di montaggio e della sua applicazione in maniera sistematica
ad ogni mansione svolta in fabbrica o della produzione in serie di grandi quantità di
prodotti identici. Mi rifarò a Beaud (2004) per dare un'idea più chiara della portata del
fordismo:
Il fordismo non consiste soltanto nell'applicazione di un rinnovato modello di
organizzazione del lavoro, esso rappresenta anche un nuovo modo di inserire i
lavoratori nella società capitalista: si tratta al contempo di un nuovo modello di
produzione capitalista (con salari relativamente elevati per una parte della classe
operaia e forte aumento della produttività grazie alla produzione di massa e alla
razionalizzazione) e di realizzazione del valore così creato (con lo sviluppo del
15
consumo di massa, che si estende a un settore della classe operaia, le cui condizioni di
vita si avvicinano a quelle della classe media).10
Col five dollars a day,11 uno dei punti chiave dell'attuazione del fordismo,
nasceva un settore della classe operaia che poteva permettersi di consumare di più,
avvicinando il livello dei loro consumi a quello della borghesia americana. Di certo la
fatica e l'avvilimento prodotto dai ritmi frenetici delle nuove fabbriche ristrutturate
secondo i dettami del taylorismo e dai gesti ripetuti migliaia di volte al giorno non erano
scomparsi, tutt'altro, l'aumento vertiginoso della produttività in questo periodo è un
chiaro segnale del fatto che i ritmi di lavoro sono addirittura aumentati. Tuttavia, lo
stimolo creato dall'occasione di disporre un reddito maggiore e la possibilità di godere
un livello di vita superiore sono un attrattivo che, nonostante le voci contrarie sollevate
dagli economisti dell'epoca che consideravano ogni aumento del costo della mano
d'opera come un danno per la competitività, si rivelerà vincente. Inoltre, per poter
beneficiare del five dollars a day, i lavoratori (soltanto gli uomini che avevano lavorato
per un determinato numero di anni vi potevano accedere) dovevano sottostare a
determinate regole di comportamento, di moralità e di vita; creando così delle
differenze e delle divisioni tra quelli che lavoravano alla Ford e quelli che no, ed anche
tra le diverse categorie di operai appartenenti ad essa.
Finita la guerra sorge però il problema dell'utilizzo dell'apparato industriale
sovradimensionato e del surplus di produttività che non trovano più il suo sbocco
naturale nell'industria bellica. Il sistema industriale decise allora di puntare sullo
sviluppo dei consumi personali degli americani, Paese caratterizzato da solide tradizioni
di risparmio, tipiche della morale protestante e uno dei valori fondanti della cultura
americana. Per riuscire in quest'impresa si fece ricorso a due armi: la pubblicità e lo
stimolo a far uso del credito. Con questi due espedienti si riuscì a cambiare la mentalità
di un paese in un solo decennio, dando avvio a un nuovo sistema di sfruttamento
pilotato dall'apparato industriale che, facendo leva sui bisogni falsi,12 riuscirà a
diffondersi prima negli Stati Uniti, per seguire poi nelle altre nazioni industrializzate
dell'Europa Occidentale, e finalmente con la globalizzazione, in tutto il mondo. Lo
10 Op. cit. Beaud, Storia del capitalismo, pag. 206, [corsivo suo]. 11 Five dollars a day, in italiano “cinque dollari al giorno”, questa misura ideata da H. Ford aumentava il salario minimo nelle sue fabbriche per alcune categorie di lavoratori da due o tre dollari a cinque, e allo stesso tempo, riducendo la giornata lavorativa da nove a otto ore. 12 Secondo la definizione di Marcuse in L'uomo a una dimensione – L'ideologia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1967, pag. 25, “I bisogni «falsi» sono quelli che vengono sovrimposti all'individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l'aggressività, la miseria e l'ingiustizia.”
16
sviluppo di tecniche sempre più raffinate di marketing, pubblicità e l’invenzione del
credito al consumo vennero definite all’epoca il “Vangelo economico del Consumo.”13
Queste misure puntavano a favorire il senso di insoddisfazione cronica nella
popolazione abituata a lavorare il minimo indispensabile per poter coprire i bisogni
basici del nucleo famigliare o della persona, e che il più delle volte non ricorrevano al
mercato per soddisfare i propri bisogni materiali. Chiaramente, per il sistema industriale
americano la persistenza di questa mentalità era estremamente dannosa, l’aumento della
produttività e la razionalizzazione della produzione sfornavano sempre più prodotti che
rimanevano invenduti nei magazzini. Di fronte alla prospettiva di una nuova crisi di
sovrapproduzione, il marketing e la pubblicità, prima alquanto trascurati dal sistema
industriale che puntava soprattutto allo sviluppo delle capacità di produzione piuttosto
che allo stimolo del consumo, conobbero una forte espansione nel corso degli anni
Venti cercando di imporre alla popolazione americana nuovi modelli di vita e di
consumo. I nuovi guru del marketing e della pubblicità capirono che la chiave per
riuscire ad imporre nei cuori e nelle menti delle persone la propensione al consumo
sfrenato si trovava nel ridicolizzare lo stile di vita sobrio, la cultura del risparmio e la
produzione artigianale e, allo stesso tempo, nel bombardare la classe lavoratrice con
modelli di vita e di consumo del lusso tipici dell’aristocrazia e delle personalità famose,
nell’inventare mode e invadere il mercato con nuovi prodotti, nel programmare
l’obsolescenza dei prodotti per garantirsi gli acquirenti in futuro, nell’introdurre e
diffondere i prodotti di “marca” (più adatti allo stile di vita moderno secondo la
pubblicità dell’epoca) prima inesistenti dacché quasi tutto veniva acquistato sfuso.
Tuttavia, l’introduzione del credito e degli acquisti a rate fu la mossa vincente nel
processo di cambiamento della mentalità collettiva della classe lavoratrice statunitense:
“Fare acquisti a rate era affascinante e per molti divenne un vizio. In meno di un
decennio, una nazione frugale e lavoratrice venne travolta da una cultura edonistica che
predicava la ricerca di sempre nuove strade per la gratificazione immediata.”14
Questo processo d’incentivazione ed esasperazione dei consumi privati portato
avanti dal sistema industriale per cercare di compensare gli aumenti dei volumi delle
merci prodotte fu anche responsabile delle grandi difficoltà che ebbe l’economia
americana per risollevarsi dalla crisi borsistica del 1929. Le imprese erano riluttanti a
trasferire i guadagni di produttività ai lavoratori, alimentando un circolo vizioso da cui
si uscì soltanto grazie alla II Guerra Mondiale. Si produce di più convogliando con la
13 Rifkin, Jeremy, La fine del lavoro, Milano, Mondadori, 2002, pag. 48. 14 Op. cit. Rifkin, La fine del lavoro, pag. 52-3.
17
pubblicità ed il credito più gente al consumo delle nuove merci prodotte ma, allo stesso
tempo, la macchina produttiva aveva sempre meno bisogno di mano d’opera ed i salari
ristagnavano (tranne che per gli operai della Ford che potevano accedere al five dollars
a day) non permettendo alla gente di aumentare i loro consumi. La crisi generale che
colpì il capitalismo americano e mondiale nel corso degli anni Trenta mise a dura prova
la capacità di mantenere la stabilità sociale in un contesto di disoccupazione
generalizzata, povertà, ristagnazione economica e col continuo inasprimento dei
conflitti sociali che tutto ciò provocava. Mentre molti Paesi dell'Europa Occidentale
abbracciavano, in diverse forme, il fascino delle ideologie fasciste-nazionaliste-
scioviniste (con l'eccezione della Francia e la Gran Bretagna, Paesi in cui le consolidate
tradizioni democratiche riuscirono a reggere l'onda d'urto del nazionalismo); nel 1932
alla Casa Bianca viene eletto Franklin D. Roosvelt, grazie ad una innovativa campagna
elettorale basata sull'utilizzo della radio che denunciava gli errori della precedente
amministrazione repubblicana e prometteva al popolo americano un New Deal, un
“nuovo corso” capace di risollevare le sorti del Paese. Uno dei pilastri del programma
politico roosveltiano fu quello di riaprire il dialogo con i sindacati per cercare di
ottenere il maggior consenso possibile e a tutto campo, sia tra la classe operaia che tra i
rappresentanti dell'alta finanza e dei grandi gruppi industriali. Il problema principale
che ebbe ad affrontare Roosvelt fu la disoccupazione che aveva raggiunto livelli
spaventosi dopo il Martedì Nero di Wall Street. Prendendo spunto dai buoni risultati
raggiunti dalla ditta Kellogg15 i sindacati individuarono la soluzione al problema della
disoccupazione nelle proposte avanzate dal movimento della condivisione del lavoro,
che racchiudeva in sé due iniziative: la richiesta della riduzione dell'orario di lavoro per
poter godere di più tempo libero (un punto su cui i sindacati puntavano da anni), e allo
stesso tempo, la possibilità di far sì che più persone ricominciassero a lavorare poiché le
aziende sarebbero costrette ad impiegare più persone per coprire gli stessi turni. La paga
oraria delle persone ora impiegate si sarebbe ridotta di poco, e come conseguenza
benefica per l’economia, il reddito da loro reso disponibile insieme ad una maggiore
condivisione dei guadagni di produttività da parte delle aziende avrebbe creato le
condizioni per la nascita di un circolo virtuoso. Il maggior numero di occupati, la
riduzione delle ore dedicata da ciascuno alla produzione, legato alla ridistribuzione di
una quota maggiore di ricchezza avrebbe strappato dalla fame più famiglie, ridando
vigore all'intera economia. L'adozione di un programma così innovativo poneva però in
pericolo tutte le conquiste realizzate dal sistema industriale nel corso degli anni Venti:
15 Op. cit. Rifkin, La fine del lavoro, pag. 60.
18
innanzitutto l'establishment non vedeva con buoni occhi una maggiore condivisione dei
guadagni di produttività coi lavoratori, ed il fatto che la gente lavorasse, guadagnasse e
consumasse di meno poteva voler dire un pericoloso ritorno al passato, vanificando tutti
gli sforzi compiuti in senso contrario con le politiche del Vangelo del Consumi.
La proposta di un progetto di legge per stabilire la settimana lavorativa di trenta
ore in tutti gli Stati Uniti fu presentata dal senatore Black dell'Alabama il 31 dicembre
1932. Dopo la sua inattesa e veloce approvazione in Senato, la legge passò al vaglio
della Camera dei Rappresentanti, dove tutti prevedevano un percorso veloce. Purtroppo,
ancora una volta, le prerrogative del sistema industriale prevalsero sul benessere
generale e il Presidente Roosvelt diede l'indicazione di bocciare la legge, barattando al
suo posto il NIRA (National Industry Recovery Act), che prevedeva l'applicazione
dell'orario ridotto solo in alcuni settori specifici, bloccando, di fatto, il varo di una
normativa federale. Anche se il NIRA ed il Fair Labor Standard Act (varato nel 1937
dopo che il NIRA venne dichiarato incostituzionale) introdussero diverse novità
positive per quel che riguarda la contrattazione collettiva, la libera scelta del sindacato
da parte del lavoratore, la protezione del lavoro minorile, ecc., tuttavia non poterono
spezzare la resistenza dei grandi industriali a condividere parte delle ricchezze prodotte
nelle loro fabbriche e da loro accumulate. Roosvelt invece decise che la soluzione al
problema della disoccupazione era quello del rilancio dell'economia attraverso un
massiccio programma d’investimenti pubblici in grandi infrastrutture, sussidi per i
disoccupati e l'aumento delle tasse sui redditi più alti; lo Stato diventa il datore di lavoro
che in ultima istanza provvede a dare un'occupazione per chi non riesce a trovarla nel
settore privato. In ogni caso, “Il New Deal non è riuscito a rilanciare il poderoso
meccanismo di accumulazione caratteristico del capitalismo americano: soltanto la
guerra ci riuscirà. Certo, la disoccupazione è scesa, ma nel 1940 il suo livello resta del
10%.”16 Lo scoppio della II Guerra Mondiale sarà l'evento che farà finalmente ripartire
la macchina industriale americana, e, anche se gli Stati Uniti non furono coinvolti
direttamente nella guerra sino all'attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor,
dai primi momenti della guerra l'economia americana ne trasse vantaggio poiché era
fondamentale il suo apporto di derrate alimentari e materiale bellico alla Gran Bretagna
e ai suoi alleati. L'organizzazione dell'economia bellica prevedeva un forte intervento
statale destinato al controllo dei prezzi, dell'inflazione e dell'organizzazione della
produzione industriale. In questo contesto, la pianificazione economica sarà
16 Op. cit. Beaud, Storia del capitalismo, pag. 212.
19
fondamentale per poter portare avanti il sistema economico, e lo sarà ancor di più dopo
la fine della guerra (sia per il controllo dell'offerta che della domanda), pur essendo un
termine che provocava orrore tra i sostenitori del libero mercato contrapposto alle
economie pianificate del blocco sovietico. “Prima della guerra fredda il termine
pianificazione voleva dire evitare delle disgrazie evitabili, interessarsi per il futuro.
Dopo però, questo termine si carica di contenuti ideologici è viene abbandonato perché
considerato nemico della società liberista. L'industria moderna ed uso intensivo di
capitale e tecnologia richiede però una pianificazione a lungo raggio.”17
Nello sviluppo della seconda fase di questa storia del consumismo mi occuperò
più in profondità delle tematiche collegate alla pianificazione industriale ed il suo
legame con la pianificazione dei bisogni. In questa prima parte mi sono limitato a
trattare quasi esclusivamente il contesto economico degli Stati Uniti, trascurando
volutamente l'Europa. Le ragioni della mia scelta sono dovute al fatto che nelle
economie europee del dopo guerra, fortemente impegnate nella ricostruzione post
bellica e nel ristabilimento della parità aurea delle divise più importanti, mancavano
quelle condizioni sociali (cioè la disponibilità di reddito da parte del proletariato
salariato) e dunque anche la possibilità da parte delle imprese europee di creare una
macchina fautrice di desideri capace di stravolgere l'intiera società com'era successo in
America col Vangelo dei Consumi.
Seconda fase (1945 – 1973)
Il trentennio che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla crisi del
petrolio del ’73, è caratterizzato da un impressionante aumento della produttività e degli
scambi commerciali internazionali. Anche tenendo conto delle distruzioni provocate
dalla guerra alle economie europee e asiatiche, e dal fatto che una non trascurabile parte
del globo si trovasse fuori dall’ambito capitalista, questo sarà senz’altro uno dei periodi
di maggiore stabilità e sviluppo del capitalismo a livello mondiale. Il grande aumento
della produttività nel dopoguerra, dovuto in parte al miglioramento delle tecniche
d’automazione e razionalizzazione, ma soprattutto ad una maggiore pressione esercitata
sui lavoratori che vengono costretti a fare turni stremanti ed ad aumentare i ritmi di
17 Galbraith, John Kenneth, Il nuovo stato industriale, Torino, Einaudi, 1968, pag. 21.
20
lavoro, spesso in condizioni di lavoro molto precarie. In Europa, ciò avvenne mediante
l’introduzione del sistema americano di produzione (taylorismo-fordismo) in
concomitanza con la riconversione dell’industria bellica. La seconda fase dello sviluppo
della società dei consumi vede, innanzi tutto, il superamento dell’accumulazione di
stampo imperialistico e coloniale; con la sua suddivisione rigida del mondo in
“compartimenti stagni”, custoditi gelosamente da ogni paese impedendo il flusso libero
di capitali americani che avevano bisogno di riversarsi sull’Europa Occidentale ed i
paesi del Terzo mondo. L’arrivo di questi capitali viene accompagnato dalle promesse
di benessere e libertà (prima e ovvia conseguenza dell’arrivo del libero mercato!),
sfidando apertamente l’espansione del comunismo, che anzi, doveva essere contrastato
a livello mondiale con qualsiasi mezzo, legale o illegale, anche andando contro la
volontà popolare. L’esaurimento delle risorse delle potenze coloniali europee nel corso
della guerra non permette ad esse di mantenere i vasti imperi coloniali (le cui
popolazioni erano sempre più insofferenti nei confronti della dominazione coloniale);
gli Stati Uniti, pur consapevoli del pericolo della deriva socialista incombente sulle
nuove nazioni, s’attivano per favorire e incentivare il processo di decolonizzazione in
seno all’Onu, consci poter rimpiazzare il ruolo dell’Europa e consapevoli di essere la
prima potenza economica e militare, in grado di contrastare l’Urss in qualsiasi area del
mondo. La politica monetaria che scaturì dagli accordi di Bretton Woods diede il
supporto monetario necessario a finanziare il nuovo ruolo degli Stati Uniti nel mondo: il
dollaro venne parificato all’oro, quindi in pratica il dollaro era buono come l’oro,
diventando così la moneta di riferimento mondiale per gli scambi commerciali. Inoltre,
attraverso l’azione della Banca Mondiale e il Fmi (Fondo Monetario Internazionale,
nate anch’esse dagli accordi di Bretton Woods) – in cui gli Stati Uniti vi giocano un
ruolo di prim’ordine – si consolidarono gli interessi americani in quei paesi desiderosi
di uscire dalla povertà e il “sottosviluppo” a cui furono costretti dall’imperialismo.
Questi organismi internazionali giocarono un ruolo fondamentale nell’azione di
sostegno dell’influenza politica ed economica americana nel resto del mondo, elargendo
prestiti e aiuti militari a tutti quei paesi che giuravano fedeltà agli Stati Uniti, senza
badare molto a chi governasse questi paesi o per quali scopi fossero destinati i soldi dati
in prestito. L’enorme quantità di denaro riversatasi sul Terzo mondo con l’obiettivo
dichiarato di favorire lo sviluppo economico e colmare il divario col Primo mondo
venne utilizzato per avviare massicci programmi d’industrializzazione, vista in quel
momento – da economisti e intellettuali sia socialisti, sia liberisti – come il tassello
mancante nelle economie meno sviluppate. Si pensava che il resto del mondo doveva
compiere lo stesso percorso per riuscire a raggiungere il benessere di cui ora godevano i
21
paesi di vecchia industrializzazione, quindi vista la mancanza di un ceto di capitalista o
grado di far partire la crescita dell’industria, e vista la debolezza strutturale ed
economica dei nuovi stati, gli organismi internazionali dovevano provvedere a coprire
questa carenza. Il risultato fu però quello di far crescere soltanto l’indebitamento e la
dipendenza del Terzo mondo, in cui le differenze nella distribuzione del reddito presenti
già da tempo su scala mondiale vengono riprodotte e aumentate. Le loro economie
entrano a far parte del mercato internazionale, e spesso questa totale dedizione
dell’economia al commercio estero fa sì che le colture tradizionali siano trascurate o
completamente abbandonate; in una situazione simile, la stessa sopravvivenza della
popolazione dipende dalle derrate alimentari importate o arrivate sotto forma d’aiuti
alimentari. “In un certo modo, l’occidentalizzazione non è altro che il «rivestimento»
culturale dell’industrializzazione, ma l’occidentalizzazione del Terzo mondo è in primo
luogo una deculturazione, cioè una distruzione pura e semplice delle strutture
economiche, sociali e mentali tradizionali, per essere sostituita a lungo andare soltanto
da un grosso ammasso di ferraglia promesso alla ruggine. Il vicolo cieco industriale
conduce direttamente al vicolo cieco sociale.”18
All’interno del sistema economico americano i cambiamenti che si verificarono
in questi anni di crescita travolgente non sono da poco. Gli indugi governativi posti al
sistema economico durante la guerra vengono meno, aumenta la concentrazione
industriale e finanziaria, e cambia la struttura stessa dell'organizzazione aziendale. La
figura del padrone industriale che comanda e controlla tutto viene rimpiazzata dalla
tecnostruttura,19 ovvero, una fitta rete di impiegati intermedi altamente qualificati e
specializzati che si occupano di tutte le mansioni relative all'organizzazione della
produzione, anche se la vecchia figura del padrone (il capo carismatico da cui
dipendono tutte le decisioni prese in azienda) viene mantenuta per le occasioni
mondane. La nascita di questa nuova forma d’organizzazione aziendale è stata
agevolata dalla disponibilità di quelle nuove tecnologie applicabili al lavoro negli uffici
(in primis i calcolatori numerici), che permettono d’aumentare la produttiva dei singoli
impiegati e migliorare il coordinamento e la comunicazione degli stessi all’interno della
compagine aziendale. Un altro segno di cambiamento viene dalla mutata strategia delle
aziende, non più dedite soltanto alla ricerca del massimo profitto da distribuire fra gli 18 Latouche, Serge, L’Occidentalizzazione del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pag. 91. 19 Il termine tecnostruttura fu coniato e introdotto dall’economista John Kenneth Galbraith ed è utilizzato all’interno delle sue due opere più importanti, Il nuovo stato industriale e La società opulenta, in cui il sistema economico americano viene analizzato minuziosamente, denunciando in particolare quei meccanismi attuati dall’apparato industriale per creare e manipolare artificiosamente la domanda di prodotti industriali.
22
azionisti, ma bensì più preoccupate del mantenimento e la sopravvivenza della
tecnostruttura, ormai diventata la colonna vertebrale dei grandi gruppi che detengo nelle
loro mani quasi la totalità dell'economia americana e mondiale.20 Se potesse risultare
pericolosa per la tecnostruttura la ricerca del massimo profitto, o qualsiasi altra azione
portata avanti dall’azienda, questa viene automaticamente bloccata. Poiché le decisioni
non dipendono più dalle scelte di una singola persona, ed ogni livello della
tecnostruttura ha il compito di controllare l'altro, è piuttosto difficile il verificarsi di
errori gravi di valutazione che potrebbero recare qualche danno, sia questo l'arresto
della crescita della tecnostruttura o la sua distruzione.
L'investimento di massicce somme di capitale ed il rischio che ciò comporta,
fanno sì che sia impensabile dipendere soltanto dalla libera scelta del consumatore e dal
gioco dell'offerta e la domanda, sarebbe un rischio troppo grande che la tecnostruttura
non è disposta a correre, pena la sua sopravvivenza. E' fondamentale per tutto il sistema
economico, controllato e gestito dalla tecnostruttura, che la totalità della produzione
abbia uno sbocco commerciale assicurato sul mercato. Lanciare un nuovo prodotto o
una nuova linea di prodotti comporta anni e anni di ricerca e molti investimenti, lasciarli
in balia del mercato sarebbe quasi come giocare d'azzardo, perciò pari passo con
l'investimento in ricerca e produzione, l'investimento pubblicitario è fondamentale per il
buon andamento dei piani aziendali. Quello che una volta era considerato un
investimento inutile, che non portava nessun guadagno tangibile per l'azienda, riceve
dagli anni '50 in poi somme impressionanti di denaro,21 col chiaro obiettivo di preparare
il terreno su cui verrà poi “seminato” il nuovo prodotto. Galbraith a proposito della
20 Questa affermazione potrebbe sembrare paradossale agli occhi di molti poiché non sembrerebbe logico, se guardiamo i dettati dell’economia classica, che nell’attività imprenditoriale non si vada sempre alla ricerca del massimo profitto. In effetti, gli economisti sono sempre pronti ad affermare che questo è lo spirito che muove il capitalismo. Tuttavia, secondo l’analisi di Galbraith, questo è un concetto superato non più valido nell’economia capitalista avanzata, dove pochi grandi gruppi si spartiscono il mercato interno ed esterno, in un regime quasi monopolistico. Galbraith afferma che se la ricerca del massimo profitto sempre e comunque, anche in periodi di stagnazione, rischia di mettere in pericolo l’azienda (ergo la tecnostruttura incaricata di gestirla), questa automaticamente rinuncia al massimo profitto per consentire la sopravvivenza della tecnostruttura. Il suo obiettivo principale è quello di espandersi, o almeno, di mantenere le stesse dimensioni; quindi più spesso le aziende s’adoperano al fine di tenere i prezzi ad un livello che consenti di fare profitti, che nonostante non vengano spinti al massimo raggiungibile, consentono lo stesso alle imprese di fare lauti guadagni, visto l’esiguo numero di attori presenti sul mercato. La spartizione del mercato fra questi gruppi fa sì che concetti dell’economia classica come la concorrenza, la sovranità nella scelta dei prodotti da parte dei consumatori, la ricerca del massimo profitto e la validità stessa della legge dell’offerta e la domanda come meccanismo regolatore della vita economica non abbiano più senso. Uno degli obiettivi dichiarati dei due volumi scritti da Galbraith è proprio quello di sfatare questi miti, oramai datai e il cui uso dà una visione errata dei fenomeni economici. 21 “Tra il 1950 e il 1996 le spese pubblicitarie mondiali sono aumentate di sette volte, ad un ritmo assai più sostenuto di quello registrato dalla produzione” citazione tratta da Schiller, Dan, I parassiti della vita quotidiana, in “Le Monde Diplomatique”, maggio 2001, pag. 12.
23
tecnostruttura ci dice: “La tecnostruttura è soprattutto impegnata nella produzione di
beni e nel relativo controllo e sostegno della loro domanda. E’ evidente l’importanza
del fatto che a tali attività venga riconosciuta un’alta funzione sociale e che quanto
maggiore è la produzione di beni, tanto maggiore sarà il servizio reso alla società”.22 La
teconostruttura prende letteralmente le redini dell’intera economia, dalla produzione
alla vendita, facendosi carico e organizzando tutti i passaggi intermedi, garantendosi la
vendita dei prodotti da essa prodotti, ed elevando i miti della crescita, il Pil e la
produzione ad un livello quasi religioso (purtroppo l’azione propagandistica di questi
miti è riuscita a far breccia anche tra quelle le forze politiche “riformiste” o social-
democratiche di sinistra). E' molto difficile che una grande azienda collochi sul
mercato un prodotto di cui non è sicura d'avere un successo garantito: e il modo
migliore per assicurare il successo dei nuovi prodotti lo diede (e lo dà ancora) la
massiccia pressione pubblicitaria esercitata sulla società. Questa pressione si fa
particolarmente forte sui ceti inferiori della società, costretti in questo modo ad
inseguire il livello di vita sfoggiato dalle classe superiori e dalle icone del cinema e la
tivù, idealizzato a livello di traguardo sociale. Le massicce somme di denaro che riceve
dall’apparato industriale si uniscono alla disponibilità di un nuovo mezzo, la
televisione, con cui è in grado di raggiungere i futuri acquirenti direttamente nelle loro
case. La potenzialità di sollecitazione al consumo venne amplificata dalla combinazione
delle nuove tecniche pubblicitarie coi nuovi mezzi di comunicazione, alimentando tutte
quelle storture che col tempo diverranno la regola delle società industriali avanzate: così
l’usura e l’obsolescenza pianificate vengono giustificate dalle innovazioni incalzanti
della tecnica che costringe a buttar via o cambiare le cose dopo un periodo molto breve,
spesso senza sapere perché. Non è paradossale che proprio quando la scienza e la
tecnica siano al suo apice, i suoi prodotti durino sempre di meno?
Quest’innovazione nell’organizzazione aziendale arriva in un secondo momento
in Europa, spinta in primo luogo dall’afflusso di capitali provenienti dall’America,
derivati dall’aumento dei proventi petroliferi e destinati all’acquisto di banche e titoli
azionari delle maggiori aziende europee (assieme a questi capitali arrivano anche il
modello di concepire l’impresa e la concezione del ruolo dello Stato negli Stati Uniti,
fortemente critici dei livelli di spesa sociale dei paesi europei), e verso la fine del
decennio dall’ondata neo-liberista che porterà Margareth Thatcher al governo nel
Regno Unito. Nel primo dopoguerra lo Stato gioca un ruolo chiave nella
22 Op. cit. Galbraith, Il nuovo stato industriale, pag. 143.
24
programmazione economica, con l’obiettivo di gestire e coordinare gli sforzi della
ricostruzione, ma anche per cercare di dare una risposta ai gravi problemi sociali sorti
dopo anni di guerra e distruzioni che minacciavano seriamente la stabilità sociale dei
paesi europei (disoccupazione altissima, provvedere a sopperire le richieste di quelle
persone che si ritrovavano senza casa, ai mutilati e ai feriti di guerra, alla penuria
alimentare ed energetica, alla riconversione dell’industria bellica). In effetti, dopo
l’introduzione negli anni ’30 nei paesi scandinavi dei primi sistemi di tutela del
cittadino in cui lo Stato si assumeva l’onore di provvedere all’istruzione, alla sanità e
alla previdenza in una misura mai vista prima. Nel dopoguerra il testimone fu preso
dall’Inghilterra: il governo socialista che succedette a Churchill introdusse tutte quelle
misure e garanzie in favore dei cittadini che poi verranno riassunte sotto il nome di
Welfare state, ovvero lo Stato sociale. L’applicazione di queste tutele negli anni
successivi diverrà patrimonio comune, con tempi diversi e scegliendo modalità diverse,
anche dei paesi dell’Europa continentale. In ogni caso, le differenze del capitalismo
europee non arrestano la sempre maggiore integrazione tra le due sponde dell’Atlantico,
contribuendo a consolidare una delle tendenze tipiche del commercio mondiale, ovvero,
l’importanza sempre crescente degli scambi commerciali tra le zone più ricche e
sviluppate del pianeta, che col tempo diverranno predominanti. Non arrestano nemmeno
la diffusione dello stile di vita americano in Europa, soprattutto delle mode e degli stili
di consumo, facendo sentire la sua influenza anche sui paesi del blocco sovietico, per i
quali costituiva – seppur in maniera minore e in modi diversi – un modello da cui
attingere. Per quel che riguarda il caso italiano, dobbiamo anche tener conto che la
disponibilità di mano d’opera abbondante a buon mercato fa sì che non ce ne sia
bisogno di rinnovare né d’ammodernare il sistema economico (cioè dotandosi di una
tecnostruttura e investendo su tecnologie in grado di aumentare la produttività),
rimanendo ancorato per più tempo alla vecchia figura del padrone d’azienda onnisciente
e onnipresente. In parte un cambiamento di rotta può essere notato dopo l’ondata
rivendicativa dell’Autunno caldo e la crisi energetica, che provocarono rispettivamente
l’aumento del costo del lavoro e delle materie prime. Non fu però una svolta completa
poiché il sistema industriale italiano preferì prendere delle scorciatoie per aggirare il
problema posto dall’aumento dei costi di produzione: in primo luogo favorendo il
dislocamento di molte lavorazioni in aziende piccole e medie in cui i lavoratori e i
sindacati avevano un potere di contrattazione molto più basso, ciò si traduce
evidentemente in salari più bassi. In secondo luogo, svalutando la lira si favorisce
l’esportazione dei prodotti italiani, queste vanno in soccorso della bilancia
commerciale, fortemente penalizzata vista la totale dipendenza energetica dell’Italia.
25
La crisi del petrolio del ’73 e le sue conseguenze sul mondo capitalista; dopo un
trentennio in cui il sistema economia mondiale aveva quasi dimenticato la possibilità
della ricomparsa della crisi, ecco che ricompare sotto un’altra veste. Il petrolio è ormai
diventata la fonte energetica primordiale, surclassando il carbone ed altre fonte
d’energia d’origine fossile. Grazie all’azione combinata dei servizi segreti, e gli
interventi diretti, i maggiori paesi industriali s’erano assicurati le fonti
d’approvvigionamento nei paesi arabi tramite la presenza delle compagnie petrolifere
americane ed europee, che ottengono profitti elevatissimi, garantiscono un flusso
continuo di greggio a basso prezzo a discapito dell’economia di questi paesi, in cui la
stragrande maggioranza vive soggiogata da regimi filo-occidentali che si spartiscono le
ricchezze prodotte dal sottosuolo. La guerra arabo-israeliana del ‘73 provocò però la
reazione dei paesi produttori che decidono di ridurre la produzione ed allo stesso tempo
aumentare i prezzi, sia per tutelarsi dalla perdita di valore del dollaro dopo che questo
venne sganciato dall’oro nel ’71 (legame troppo oneroso per un paese che vedeva
crescere l’indebitamento pari passo col suo impegno nel Vietnam), sia come
rappresaglia nei confronti degli Stati Uniti, il primo e più grande alleato d’Israele. Ma se
guardiamo più in profondità, l’aumento del prezzo del petrolio non fu del tutto dannoso
per gli Stati Uniti. In effetti, le maggiori compagnie petroliere americane furono i
principali beneficiari dell’aumento del prezzo del greggio visto che i loro profitti non si
ridussero affatto con lo scoppio della crisi, anzi, avvenne proprio l’incontrario. Il
massiccio afflusso di capitali freschi rese possibile l’investimento nella ricerca e
l’estrazione di petrolio in quelle zone considerate prima troppo impervie o difficili da
raggiungere per giustificare gli investimenti necessari per l’avviamento dello
sfruttamento dei giacimenti. Le grandi piattaforme petrolifere nel Mare del Nord, nel
Golfo del Messico e in Alaska diventano ora gli obiettivi principali su cui puntano le
“sette sorelle”23 e l’amministrazione americana, desiderosa di porre fine alla sua
dipendenza dal greggio mediorientale. La situazione di continua instabilità nelle zone
mediorientali, che continua tutt’ora è in gran parte dovuta al fatto che questi paesi
letteralmente galleggiano sulla risorsa più importante per il sistema economico
internazionale.
23 Con questo appellativo viene chiamato il cartello formato dalle sette più grandi compagnie petrolifere a livello mondiale.
26
Capitolo secondo
Il consumismo in Italia
Introduzione
Nel primo capitolo ho fatto un excursus sulla storia del consumismo col quale ho
cercato di dare le premesse storiche proponendo un primo approccio al nucleo centrale
di cui è composto questo lavoro, vale a dire, lo sviluppo del consumismo nella cornice
del miracolo economico italiano e le conseguenze che esso ebbe sulla società, prestando
particolare attenzione a quelle logiche che faranno rientrare in piena regola l’Italia nella
società dei consumi, cercando di descrivere le particolarità nazionali del fenomeno. Il
mio interesse s’è rivolto in particolare al periodo del “miracolo economico” per le sue
valenze come momento di svolta nella vita sociale italiana. Una svolta che però
continuerà a portarsi avanti tante caratteristiche e zavorre del passato combinandole con
la modernità in maniera del tutto particolare, cambiando il volto del Paese.
La situazione economica e politica nel dopoguerra
L’economia italiana dell’immediato dopoguerra si trova nella stessa disastrosa
situazione in cui si trova l’intero continente dopo cinque anni di guerra e
bombardamenti: penuria di materie prime, impianti e vie di comunicazione distrutti,
mancanza di investimenti e di acquirenti, inflazione galoppante provocata anche
dall’emissione incontrollata delle Am-lire nel Mezzogiorno occupato, altissimi livelli di
disoccupazione che peggiorano nel ’48 con la politica deflazionistica di Einaudi,
colpendo soprattutto i ceti bassi; tutto questo in una situazione economica e politica che
non permette di varare quelle misure basiche di welfare capaci di alleviare in qualche
27
modo la penuria e la miseria che al momento imperversavano in tutt’Italia. La svolta
arrivò nel 1948 quando il governo americano approvò il varo del Piano Marshall,
ovvero, prestiti a fondo perduto e a condizioni vantaggiose per l’acquisto di materie
prime e macchinari destinati alla ricostruzione e alla ripresa economica dell’Europa
Occidentale, e che allo stesso tempo la fecero diventare un’appendice di quella
americana. Questi prestiti permisero una ripresa degli investimenti nell’industria
manifatturiera, che favorita dal basso costo della mano d’opera italiana e approfittando
della situazione economica internazionale positiva si tradusse in una crescita veloce e
decisa, puntando soprattutto sullo sviluppo dell’industria di base e meccanica.
Lo sviluppo massiccio del settore industriale dal ’48 in poi provocò cambiamenti
e stravolgimenti radicali nella società italiana. L’industria italiana era nata già alla fine
dell’Ottocento, concentrata soprattutto a Nord Ovest, con la costruzione delle prime
dighe sulle Alpi che diedero la disponibilità di una fonte d’approvvigionamento
energetico favorendo la nascita delle prime fabbriche; tuttavia, il settore industriale non
arrivò mai ad avere le dimensioni raggiunte da altri paesi europei continentali come la
Francia, la Germania o il Belgio. L’Italia rimaneva sostanzialmente un paese agricolo e
arretrato, nel quale erano presenti molte aree in cui i latifondi e sistemi di tipo
mezzadrile erano ancora la regola. L’arretratezza era anche dovuta al fatto che con la
divisione netta del mondo in due blocchi e l’ingresso dell’Italia in quello occidentale,
l’approvazione del versamento dei fondi del Piano Marshall all’Italia era condizionata
dall’attuazione di una decisa politica di repressione e d’allontanamento dalle strutture
dello stato di chiunque fosse sospettato di avere simpatie socialiste o comuniste, nel
quadro di un clima di repressione e caccia alle streghe che può essere benissimo
paragonato a quello scatenato negli Stati Uniti dal senatore Joseph McCarthy.
Puntualmente, questa repressione vide i momenti di più intensa esasperazione nei
periodi di maggiore tensione tra i due blocchi a partire dalla Guerra di Corea ma non
solo; la sua azione si concentrò anche nei periodi più difficili per i governi guidati dalla
Democrazia Cristiana,24 come quello scaturito dopo il tentativo di approvazione della
“legge truffa”25 del ‘53 e ogni qualvolta ce ne fossero manifestazioni di piazza con
l’intervento brutale e spesso smisurato delle forze dell’ordine.
24 D’ora in avanti Dc. 25 Un’accurata descrizione della portata di questa legge la troviamo nella prefazione del volume C’era una volta il Pci, a cura di Guido Crainz: “La definizione propagandistica è tanto efficace quanto fondata, e non è inutile ricordarlo oggi. Quel sistema maggioritario – che attribuiva il 65% dei seggi al partito o ai partiti collegati che avessero raggiunto il 50% dei voti più uno – era stato proposto dalla Democrazia cristiana proprio perché poteva funzionare solo in una direzione: certamente non a favore delle sinistre (...). Davvero una truffa, dunque: e una truffa volta a confermare e consolidare i tratti di quella
28
Sono gli anni della cosiddetta “democrazia congelata”, in cui una reale
alternativa di governo alla Democrazia Cristiana e al centrismo era improbabile e a dir
poco impossibile da prospettarsi per varie ragioni: sin dall’esclusione del governo delle
sinistre nell’aprile del ’47 si impone nel Paese un clima di scontro generale e di
demonizzazione delle opposizioni, in particolare di quella comunista, chiara
dimostrazione sul piano politico nazionale dello scontro che al contempo si verifica sul
piano internazionale. Parte dei soldi stanziati dal governo americano per la ricostruzione
furono destinati al finanziamento dell’apparato partitico democristiano e alla
propaganda anti-comunista, inoltre, prese piede la pratica del clientelismo politico atta a
garantire i consensi elettorali in quelle zone in cui la Dc era meno certa della vittoria.
Una pratica che col tempo s’intensificherà, arrivando a coinvolgere parlamentari,
membri di spicco dei partiti di governo e nel 1978, perfino l’allora presidente della
repubblica, Giovanni Leone, costretto a dare le dimissioni. La diffusione del
clientelismo politico e della corruzione saranno particolarmente gravi e dannose per il
Mezzogiorno, dove la presenza da lunga data di organizzazioni malavitose di stampo
mafioso e di una diffusa cultura del malaffare, le connivenze tra gli apparati dello Stato
e noti criminali, le speculazioni e la mancanza di scrupoli da parte dei cosiddetti
“imprenditori” edili, faranno pesare parecchio sulle spalle di una popolazione già
provata da anni di sofferenza e storicamente più bisognosa d’aiuti da parte dello Stato
centrale. In questa zona d’Italia si verificheranno le più clamorose sperequazioni, sia
attraverso gli interventi della Cassa del Mezzogiorno ma anche attraverso il controllo
degli appalti.
Il miracolo economico
La crescita economica che si protrae lungo gli anni ’50 (in particolare dal ’53 in
poi, quando vengono raggiunti e superati i livelli di produzione prebellici) porta l’Italia
ad avvicinarsi alle nazioni di vecchia industrializzazione, riducendo di molto il divario
almeno per quel che riguarda la produzione industriale, la ricchezza prodotta ed i livelli
di produttività industriale. Tuttavia, come abbiamo già accennato prima, non possiamo
dire lo stesso per quel che riguarda l’apparato statale in sé, ancora saldamente legato al
«democrazia congelata», di quella violazione sostanziale del dettato costituzionale che abbiamo appena evocato” [corsivo suo]. Op. cit. Novelli, Edoardo, C’era una volta il Pci, Roma, Editori Riuniti, 2000, pag. 8.
29
passato fascista, pur riconoscendogli qualche piccolo passo in avanti con le riforme
agrarie attuate nel ’49 dal governo De Gasperi. Nacquero diversi enti locali preposti ad
attuare la riforma agraria, attesa da anni in un Paese in cui in lungo e in largo
dominavano forme di dominazione che costringevano i contadini a sottostare ai padroni,
fossero questi i grandi latifondi del Sud o i mezzadri/fittavoli del Centro Nord. Anche in
questo caso, la gestione clientelare degli enti e dell’erogazione dei contributi per la
pensione e delle mutue portata avanti dalle associazioni collegate alla Dc provocarono
evidenti distorsioni nella distribuzione dei finanziamenti e notevoli sprechi di denaro
pubblico, penalizzando i possibili effetti positivi e limitando la portata della riforma.
Non sarà sorprendente notare che da lì a dieci anni quelle stesse campagne saranno
svuotate dall’esodo verso i poli industriali del Nord. Vale la pena citare Crainz per fare
un esempio dell’applicazione della riforma nel Polesine: “Si vedano i dati dell’Ente
Delta Padano riguardanti il Ferrarese: a fronte di 4000 famiglie cui sono stati assegnati i
terreni vi sono circa 400 dipendenti dell’Ente. E qui al 1960 – cioè pochissimi anni
dopo l’effettiva presa di possesso – il 30% delle prime famiglie assegnatarie ha lasciato
il podere, orientandosi in larghissima parte verso occupazione extra-agricole.”26
La datazione storica contemporanea ormai è d’accordo nello stabilire il 1958
come l’anno d’inizio del miracolo economico. In effetti, quest’anno vede per la prima
volta nella storia italiana gli occupati nel settore industriale sopravanzare quelli del
settore agricolo. Soltanto dopo un decennio dal varo del Piano Marshall la geografia del
lavoro in Italia è stravolta completamente: l’industrializzazione, prima prerogativa
soltanto del Nord Ovest si espande scendendo giù per la Val Padana, e comincia anche
ad interessare alcune zone dell’Italia centrale e centro orientale, in particolare la
Toscana, le Marche ed il Veneto, anche se per certi versi solo in maniera marginale ed
in alcune zone concentrata quasi esclusivamente nella riconversione dell’industria
bellica. Sono gli anni in cui s’accentua l’esodo dalle campagne povere di tutta l’Italia
verso i poli industriali del Nord (Milano, Torino, Genova, Bologna). Le periferie delle
città industriali crescono in maniera smisurata e disordinata senza alcun piano
regolatore.27 Nascono delle baraccopoli di fortuna in cui mancano i più elementari
26 Crainz, Guido, Storia del miracolo italiano – Culture, identità, trasformazioni fra anni 50 e 60, Roma, Donzelli Editore, 2003, pag. 89. 27 Nell’oscuro panorama dell’abusivismo edilizio negli anni Sessanta si può segnalare la felice eccezione dello “zoccolo duro” della sinistra italiana, l’Emilia-Romagna per l’appunto, come esemplificato da Crainz: “Una diversa realtà vi è infatti nella «regione rossa» per eccellenza, l’Emilia-Romagna, erede della tradizione socialista dei primi due decenni del secolo. L’esperienza avviata a Bologna dopo la Liberazione dal sindaco comunista Dozza si inserisce in un solco solido, anche se il percorso è ostacolato in più forme dal governo centrale.” Cfr. Crainz, Guido, Il paese mancato – Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli Editore, 2003, pag. 76.
30
servizi, tra cui l’elettricità, l’acquedotto, la raccolta dei rifiuti, le fognature. Le città in
cui si verifica un precipitoso sviluppo dell’industria non sono preparate per accogliere
questa massa di persone e, oltre al verificarsi di fenomeni di discriminazione nei
confronti dei nuovi arrivati (non mancano in una città come Torino, dove l’afflusso di
meridionale è particolarmente importante, cartelli su cui campa la scritta “Non si affitta
a meridionali”), ci sono molti che se ne approfittano della disperata condizione dei
nuovi arrivati dando vita a pratiche speculative d’ogni genere.
Come ogni altro fenomeno economico, il miracolo economico nasce
dall’accumularsi di una serie di condizioni favorevoli per il sistema economico italiano
risalenti al 1948. Abbiamo già accennato il ruolo degli aiuti americani come prima
misura atta a favorire la ripresa e la modernizzazione dell’apparato industriale italiano.
Per quel che riguarda le misure di “casa nostra” che fecero da volano allo sviluppo
industriale, mi rifaccio di nuovo a Crainz:
“E andrebbero visti assieme tre «eventi» del 1953: la nascita dell’Ente Nazionale
Idrocarburi voluto da Mattei, cui è affidato lo sfruttamento dei giacimenti di metano da
poco scoperti nella valle del Po; l’investimento di trecento miliardi da parte della Fiat
per la costruzione del nuovo stabilimento di Mirafiori, dalle cui catene di montaggio
uscirà nel 1955 la Seicento; l’approvazione della legge per lo sviluppo del credito
industriale nell’Italia meridionale e insulare, primo passo verso quella del 1957 che
precisa incentivi e obiettivi di industrializzazione del Mezzogiorno.”28
Ecco quindi che si profila la nascita ed il rafforzamento di quelli che saranno i
settori trainanti del miracolo ed in generale di tutto il periodo postbellico nell’Europa
Occidentale: l’industria meccanica e petrolchimica, col concorso ed il supporto dello
Stato, il cui era a sua volta partecipe in prima persona del processo di sviluppo
attraverso la miriade d’imprese pubbliche o semi-pubbliche gestite dall’Iri e l’Eni;
oppure attraverso l’Anas finanziando la costruzione della rete autostradale senza di cui
la motorizzazione di massa non poteva partire; e anche attraverso i dazi doganali che
colpivano l’importazione d’automobili straniere. A questi fattori vanno aggiunti anche
quelli legati alla disponibilità di un’elevata quantità di mano d’opera a basso costo
(“l’esercito di riserva” utilizzando la terminologia marxiana, formatosi analogamente al
caso inglese con l’esodo di massa dalle campagne, e anche se nel caso italiano non
c’entrano le enclosures, il ripetersi delle dinamiche del capitalismo è evidente), cui
28 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo italiano, pag. 112-113.
31
viene richiesta sempre più produttività grazie all’aumento dei ritmi di lavoro e dello
sfruttamento nelle fabbriche. Queste misure combinate ad una politica di contenimento
dei salari permisero all’Italia d’essere molto competitiva a livello internazionale,
favorendo l’andamento positivo delle esportazioni e la bilancia commerciale con
l’estero: “L’Italia poté conquistare una posizione competitiva di tutto rispetto nei settori
moderni grazie a un rapporto salari-produttività molto favorevole nel confronto coi
paesi concorrenti.”29
Dalla società contadina alla società affluente30
Il cambiamento a mio parere più radicale che si verificò negli anni del miracolo
economico avvenne nella struttura sociale dell’Italia. L’Italia contadina chiusa e
patriarcale, controllata molto da vicino dalla chiesa cattolica e in cui la mobilità sociale
era pressoché inesistente, nel volgere di pochi anni vedrà lo spostamento di gran parte
dei suoi abitanti nelle città, dove si ritroveranno a vivere in un contesto sociale
completamente diverso con regole e abitudini diverse: dovranno far fronte ai problemi
della società industriale di massa, dovranno adeguarsi ai ritmi di lavoro della catena di
montaggio che scandiscono la vita delle persone lungo l’arco di tutto l’anno e per essere
precisi, lungo l’arco di tutta la vita; ma, allo stesso tempo, avranno a disposizione nuovi
beni e servizi che renderanno la vita delle famiglie molto più facile, avranno la
possibilità di spostarsi con maggiore facilità che in passato, saranno esposti a nuovi
stimoli culturali così come a nuove sollecitazioni e nuove modalità con cui spendere la
maggior quantità di denaro reso disponibile dal lavoro salariato e dalla crescita
economica impetuosa.
Il desiderio di riscatto dalle condizioni di miseria in cui versavano larghi strati
della popolazione si fece più che mai pressante con la fine della guerra e la caduta del
fascismo. Le speranze di cambiamento e rinnovamento sollevate dal nuovo assetto
29 Maione, Giuseppe, “Spesa pubblica o consumi privati?”, in Italia Contemporanea, numero 231, giugno 2003, pag. 189. 30 Col termine società affluente od opulenta ci riferiamo a quel tipo di società nata tra le due grandi guerre negli Stati Uniti, caratterizzata dalla diffusa disponibilità di prodotti di consumo industriali sempre più differenziati attraverso le marche e la creazione di nuove mode e stili. Essi sono disponibili in quantità sempre più abbondante anche per le classi meno abbienti, e dal loro acquisto e produzione dipendono in gran parte la crescita e lo sviluppo economico. Mi soffermerò più a lungo su queste tematiche nel terzo capitolo di questa tesi.
32
politico fecero sperare in un mutamento della situazione d’oppressione, favorendo il
cambiamento nei rapporti di forza tra la classe lavoratrice (qui compresi i braccianti, gli
operai, i mezzadri, ecc.) ed il padronato. Lo Stato non poteva più disattendere le
richieste di una popolazione stremata da cinque anni di guerra e privazioni, per di più
esasperata dal protrarsi d’antichi riti, soprusi e sopraffazioni nei luoghi di lavoro che
non permettevano il miglioramento delle qualità della vita nemmeno in tempo di pace.
La modernità bussava alla porta degli italiani, ed essi non erano intenzionati a farla
aspettare fuori. Coloro che non scelsero la strada dell’emigrazione verso l’estero (ed
erano ancora in tanti a farlo, nemmeno la crescita economica verificatasi prima e
durante il miracolo riuscirà a fermare questa tendenza) dovettero fare i conti col
fallimento della riforma agraria, costatando amaramente che poco era cambiato rispetto
al passato. Anzi, in un certo senso si può benissimo dire, senza timore d’esagerare, che
lo stato di cose era rimasto pressoché invariato: alle sofferenze della vita quotidiana
s’aggiungeva la disillusione per una democrazia che per il demos faceva ben poco. E
non solo, a questi fattori si aggiunge l’avanzare sempre più incalzante della
meccanizzazione nelle campagne, che lascia senza lavoro intere famiglie di braccianti,
costringendole quindi a lasciare le loro tradizionali occupazioni e modi di vita.
La diffusione sempre più capillare dei mezzi di comunicazione di massa in ogni
caso portava agli occhi degli italiani la promessa di trovare altrove la possibilità di
costruirsi una vita nuova che gli era negata nel paesino natìo. Prima dell’avvento delle
trasmissioni televisive, elemento che giocherà un ruolo chiave nelle profonde
trasformazioni degli anni ’50 e ’60, il fotoromanzo sarà portatore d’importanti novità
proponendo nuovi modi di rapportarsi tra i sessi e non solo, arrivando anche nelle
borgate più sperdute dell’Italia contadina.31 Genere d’invenzione italiana, poi esportato
nel resto del mondo, il fotoromanzo conoscerà una larghissima diffusione negli anni del
dopoguerra, soprattutto tra il pubblico femminile. Spesso ingiustamente criticato con
l’accusa d’essere portatore di falsi valori e promesse, contrari alla morale cristiana per
alcuni, mezzo per la diffusione dell’americanizzazione delle masse per qualcun altro. E
se non viene criticato duramente, passa completamente inavvertito, snobbato dalle
pubblicazioni critiche dell’epoca. Il fotoromanzo fece vedere a tantissime donne, per la
prima volta, nuovi orizzonti di vita in cui poter indirizzare il loro futuro, facendole
31 Un’altra prova della popolarità che ebbe il fotoromanzo tra il pubblico femminile ce la fornisce la circolazione del fotoromanzo anche al di fuori dell’Italia, nelle zone interessate dall’emigrazione (perfino in quelle extra-europee), come la città di Resistencia, nella Repubblica Argentina, in cui le donne italiane leggevano e si scambiavano tra di loro intensamente “Grand Hotel” (Testimonianza fornita da Mariutte Zuttion in Driutti tramite suo nipote Artenio Driutti, padre dell’autore di questa tesi).
33
capire che avevano il diritto di pensare con le loro teste, uscendo finalmente dai vecchi
ruoli che volevano una donna sottomessa entro le mura domestiche. “Nella trama di
estasi e formalismi che è la formula modernista-americaneggiante delle tre testate
classiche, passa un modello che nell’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta non è affatto
universalmente accettato, il matrimonio d’amore come valore cui devono inchinarsi
interessi familiari e convenienze sociali: non è la rivoluzione, ma è un passo verso il
cambiamento”32, e “Difficile non vedere in questa sintonia accusatoria anche una
questione di genere sessuale: si tratta di giornali destinati alle donne e letti in massa
dalle donne, che in Italia sono ancora considerate labili minorenni a vita”33 e finalmente
“(...) nelle campagne povere e poco alfabetizzate, leggere «Grand Hotel» significa
aspirare alla promozione culturale, all’autonomia, a qualche spicchio di modernità.”34
Non bisogna dimenticare che soltanto nel 1956 le donne saranno ammesse nelle Corti
d’assise e nei tribunali per i minorenni (e sollevando anche aspre polemiche da parte del
governo e degli interessi di ceto presenti all’interno del corpo dei magistrati), e
bisognerà attendere addirittura fino al 1968 perché la Corte costituzionale stabilisca che
l’adulterio da parte della donna non costituisce reato.
Possiamo senz’altro affermare che il mezzo che più di tutti portò le immagini
della tanto agognata modernità ed insieme ad esse la voglia di cambiamento in ogni
angolo d’Italia fu la televisione. Proprio la concretezza e la chiarezza delle immagini
che arrivavano nei bar (prima della comparsa in tutte le case degli apparecchi Tv negli
anni ‘70, la gente si radunava nei bar, nelle osterie, nei circoli per guardare le
trasmissioni) di tutta Italia portando esempi di nuovi stili di vita, di nuovi modi di
concepire i rapporti sociali, di concepire la sessualità, di consumare, di avere, insomma,
la prospettiva di una vita migliore lontano dall’ombra del campanile e dalla
sorveglianza di padroni e preti. La Rai comincia le trasmissioni nel gennaio del ’54,
subendo una stretta sorveglianza e censura da parte della Dc; infatti, sono i preti delle
piccole parrocchie nelle campagne, in stretto contatto con la popolazione, i primi a
rendersi conto della capacità di stravolgere la realtà sociale immobile delle campagne
insita in questo nuovo mezzo. Ai fini d’illustrare la capacità di sconvolgere gli assetti
sociali e l’immaginario delle campagne della tivù, riporto un brano tratto dalla Storia
del miracolo, che riporta un’intervista a un contadino comparsa in un programma
dedicato al modo in cui gli italiani guardano la televisione: “Poi ad un anziano
32 Bravo, Anna, Il fotoromanzo, Bologna, Il Mulino, 2003, pag. 84. 33 Op. cit. Bravo, Il fotoromanzo, pag. 109. 34 Op. cit. Bravo, Il fotoromanzo, pag. 110.
34
contadino viene chiesto qual è lo spettacolo più bello della televisione, e lui risponde,
un po’ in dialetto: «Il bacio, il bacio in pubblico... perché si vede che non è peccato, si
può fare...».”35 Pur essendo una tivù scevra di contenuti culturali di qualsiasi tipo, in cui
facevano piazza pulita il balletto del sabato sera e “lascia o raddoppia?”, dove non c’era
nemmeno il più piccolo spazio per le opposizioni (o una qualsivoglia critica all’operato
del governo) e in cui le prime tribune politiche compariranno soltanto quasi un decennio
dopo l’avvio delle trasmissioni (nel 1960), la sua importanza nell’innescare i primi
sommovimenti del mondo contadino è innegabile. C’è anche da segnalare che il
modello dominante presentato dalla tivù di quegli anni è quello di un mondo quasi
mitico di felicità, benessere e opulenza, uno spaccato miticizzato di un’Italia
democristiana e perbenista, una visione imbonitrice e fasulla della realtà italiana ai
tempi del miracolo. Dall’altra parte dello schermo si nascondono agli occhi della povera
gente le insidie della società moderna, proponendo soltanto un modello di società senza
incrinature, a cui tutti sarebbero in grado arrivare, trascurando allo stesso tempo di
presentare la dura realtà della vita nelle coree36 e del lavoro industriale, con cui gli
emigranti dovevano fare i conti quando arrivavano in città. Un altro elemento che aiuta
ad aumentare il potenziale di suggestione della tivù fu la comparsa, nel 1957 (e andrà in
onda fino al 1977), dei primi “spot” pubblicitari, all’interno della trasmissione
“Carosello”, che anche se venivano limitati al codino iniziale della trasmissione e non
avevano ancora quei connotati d’invasività tipici della pubblicità odierna, hanno giocato
un ruolo non marginale nella presentazione di nuovi prodotti e stili di vita.
Probabilmente, il fatto che la pubblicità fosse limitata solo alla parte iniziale della
trasmissione seguita poi da un cartone o una scenetta, ha fatto sì che l’impatto sui
telespettatori della propaganda commerciale venisse in qualche modo ammorbidito,
attenuando il primo approccio del pubblico italiano con la pubblicità. Questo tipo
format godette di molto successo nei primi anni della televisione, soprattutto tra i più
piccoli, segnando indici di ascolto da capogiro, in futuro diventati avidi consumatori
d’immagini televisive, dei prodotti in essa pubblicizzati e subiranno non poche
influenze dai modelli proposti dalla tivù. La comparsa di un determinato prodotto in una
pubblicità televisiva ne determina il successo; la sua bontà e la sua superiorità rispetto
agli altri prodotti sono confermate dalla sua comparsa sullo schermo televisivo. La
televisione diventa anche un mezzo efficace per presentare i nuovi prodotti della società
industriale (siano essi alimentari, mobili per l’arredamento, accessori ed apparecchi per
35 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo economico, pag. 101. 36 Così furono chiamate le periferie delle città cresciute a dismisura e disordinatamente, caratterizzate dalla mancanze dei più elementari servizi , dall’insalubrità e dal sovraffollamento.
35
la casa, ecc.), sconosciuti agli occhi di una popolazione che fino ad allora era abituata ad
acquistare il minimo indispensabile. L’introduzione delle differenze di marca trova un
terreno più fertile in tivù che negli altri mezzi di comunicazione, e pur avendo una
diffusione ridotta nei primi anni, la capacità di fondere suoni ed immagini in un
messaggio pubblicitario sarà la carta vincente del nuovo mezzo (non a caso al giorno
d’oggi la tivù in pratica monopolizza il mercato degli introiti pubblicitari, raccogliendo
più pubblicità di tutti gli altri mezzi messi insieme). I nuovi arrivati nelle città e nella
società di massa venivano tempestati dagli svariati stimoli provenienti dalla pubblicità,37
con i nuovi prodotti che trovavano spazio in anch’essi nuovi modi di distribuzione dei
beni. Dagli Stati Uniti arrivarono i supermercati e con questi un modo completamente
nuovo di concepire gli acquisti. I consumatori entrano in contatto diretto con le merci
profusamente esposte lungo gli scaffali, viene meno la mediazione ed il senso di
distacco tra le merci e gli acquirenti provvista dal bottegaio e dal bancone del negozio
tradizionale. Si crea un rapporto vis-à-vis tra le merci e la persona, non è più un’altra
persona a mediare la scelta del prodotto, spetta solo all’individuo di decidere non solo
cosa comprare (dato presumibilmente noto in partenza), anche se non lo si può dare
sempre per scontato, le merci sono disposte all’interno del supermercato spesso in
maniera poco chiara e non sempre seguono un ordine logico. Ciò non è dovuto al caso o
a impiegati poco attenti alle regole dell’azienda, infatti, più tempo la gente è costretta a
districarsi tra gli scaffali in cerca di un determinato prodotto e più aumentano le
probabilità di essere stimolati e spinti ad acquistare cose che uno non s’immaginava
nemmeno quando era entrato dentro al supermercato. Qui entra in gioco soprattutto il
meccanismo della pubblicità, che indirettamente condiziona il subconscio
dell’acquirente: chi non ha sperimentato, entrando in un supermercato, al guardare un
determinato prodotto, di ricordarsi della sua pubblicità o di certi aspetti appariscenti
attinenti ad essa come il colore, la forma, un motto particolare abbinato al marchio, ecc.
L’esplosione di questo fenomeno si avrà con la comparsa, verso la fine degli anni ’70
delle emittenti private, in cui la totalità dei finanziamenti arriva dagli introiti
pubblicitari. La pubblicità si ritaglia così uno spazio maggiore nelle trasmissioni,
diventando il perno su cui si muove il mondo televisivo, sia pubblico che privato.
Parlando di questo periodo e dell’affermarsi di nuovi stili di consumo, Crainz sostiene:
“La corsa ai consumi assume di nuovo i ritmi degli anni sessanta: accentuando il valore 37 Presto venne sfruttata dalla pubblicità la memoria del tempo ciclico contadino per inserire in questa scansione temporale prodotti e comportamenti di consumo tipici della civiltà industriale, divenendo “simboli” delle scadenze religiose o mondane. Per elencare qualche esempio, basta vedere i nuovi comportamenti sociali e di consumo riguardanti le diversi occasione in cui diventa un obbligo fare dei regali, oppure l’elevazione a consumo nazionale di certi prodotti prima solo di zone determinate del territorio, come ad esempio il panettone.
36
di status symbol di essi, dilatando il peso e il ruolo della «dimensione simbolica del
benessere, con i suoi idoli e le sue icone». (...). E’ un fenomeno accentuato dal peso
crescente dei messaggi pubblicitari e dai modelli che essi propongono: veicolo
importante di questo dilagare è il prepotente affermarsi – proprio in questo periodo –
delle televisioni commerciali.”38
Il ceto che più di tutti subì l’attrazione di questo nuovo mondo fu quello
giovanile; non c’era più ragione per cui continuare a soffrire la miseria e a sopportare
l’immobilità sociale subita dai loro antenati. I giovani sono uno dei ceti più dinamici e
più rappresentativi dei mutamenti in corso nella società italiana del miracolo. Per la
prima volta trovano uno spazio proprio nella società, si verifica sempre di meno il
passaggio diretto dall’infanzia all’età adulta caratteristico della civiltà contadina; i
giovani scoprono questa tappa intermedia grazie anche al prolungamento del tempo
trascorso a scuola39 che aiuta loro a scoprirsi come “gruppo” differenziato dagli altri.
Nascono nuovi spazi d’aggregazione dediti esclusivamente agli adolescenti, in cui le
differenze di ceto se non scompaiono, vengono in gran parte attutite dalla condivisione
delle stesse preferenze d’abbigliamento e gli stessi consumi culturali. La scelta di
determinati tipi di prodotti e stili aiutano la definizione di questa nuova comparsa nello
scenario della società italiana, che trovava ora la possibilità di definirsi e mostrarsi in
virtù dell’importante crescita demografica verificatasi nell’immediato dopoguerra (il
cosiddetto baby boom) e utilizzando i mezzi messi a loro disposizione dal mutato
assetto sociale (la vita nelle grandi città) ed economico (i nuovi beni messi a loro
disposizione dalla società industriale). Sarà su di loro che l’“americanizzazione” diverrà
più evidente: i flipper ed i juke-box non mancavano mai nei luoghi di ritrovo dei
giovani. Il cinema americano, il cui acquisto e diffusione a quote fisse venne imposto
alla fine della guerra, porterà molte novità che subito troveranno riscontro tra gli
adolescenti italiani; per citarne alcune: il rock and roll, i jeans, la diffusione del
38 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 592. Un’altra conferma dell’importanza acquisita dalle tivù commerciali ce la daranno le elezioni politiche del ’94. L’imprenditore televisivo Silvio Berlusconi, dopo la sua “scesa in campo” un anno prima, ottenne la vittoria guidando una coalizione di centro destra, facendo leva sulla sua estraneità ai misfatti della “Prima Repubblica”, proponendosi agli elettori come una istanza di rinnovamento dell’ormai logoro apparato di potere. Paradossalmente, fu proprio grazie alla struttura di potere di quella “Prima Repubblica” che Berlusconi riuscì a consolidare la posizione di dominio della sua azienda stabilendo, di fatto, la nascita del “duopolio”. 39 La scuola media unificata e obbligatoria fu introdotta nel 1962, cancellando finalmente la distinzione tra la scuola media inferiore e la scuola d’avviamento professionale. Una delle poche, se non l’unica pagina felice della stagione riformista dei primi anni Sessanta, la cui portata purtroppo venne azzoppata dal mancato avvio di una riforma del sistema scolastico nel suo complesso. Gli anni Cinquanta e Sessanta vedono un marcato aumento delle iscrizioni alle scuole medie superiori e all’università, e anche della durata complessiva della permanenza degli alunni nelle strutture scolastiche, pur caratterizzate da un elevato tasso d’abbandoni che colpivano prevalentemente gli allievi dei ceti bassi.
37
consumo della gomma da masticare, e così tanti altri. Lentamente cominciano a
diffondersi anche nuovi metodi anti-concezionali che cambiano il modo in cui è
concepito il rapporto tra i sessi. Queste manifestazioni d’adesione a modelli e consumi
americaneggianti; il maggiore interesse per la ricerca di nuovi luoghi d’incontro e
divertimento fuori delle strutture tradizionali proposte dalle due subculture di massa
(cattolica e comunista) non ci deve indurre a stilare ipotesi affrettate sulla condizione
della “gioventù bruciata e qualunquista”, come venne chiamata da qualcuno, nel
classico tentativo di scaricare sui giovani colpe e mancanze degli adulti, dimenticando
che essi non sono un elemento estraneo alla società in cui vivono, bensì sono il riflesso
dei vizi e delle virtù di un determinato periodo storico. Proprio dai giovani nasceranno
le spinte che porteranno poi alla contestazione profonda e radicale del sistema, sia dai
giovani operai che non volevano più subire passivamente l’ostilità della fabbrica, sia
dagli studenti liceali e universitari che contestavano l’arretratezza e l’inadeguatezza del
sistema scolastico ad una realtà sociale profondamente cambiata. Non a caso le
contestazioni del ’68 e dell’Autunno caldo vedranno la partecipazione massiccia degli
studenti accanto agli operai, non solo con il loro coinvolgimento nei cortei e nelle
occupazioni, ma anche nel ruolo di promotori di nuove e originali forme di lotta e
d’incontro tra i movimenti.
Particolarità della società dei consumi nell’ambito del miracolo
economico
Diversamente da ciò che avvenne nelle società degli altri paesi industrializzati,
in particolar modo gli Stati Uniti, dove la nascita della società dei consumi avvenne
qualche decennio prima che nell’Europa Occidentale, in Italia c’è un intreccio
particolare tra l’esperienza di vivere in una grande città e subire il fascino e l’attrazione
dei nuovi consumi che coincide con l’occasione di milioni di persone di trovare
finalmente risposta alle esigenze di una migliore condizione di vita, intesa in tutti i
sensi. Vuol dire che la nascita della società dei consumi si produsse in un momento
storico in cui per la prima volta la popolazione intravedeva la possibilità di soddisfare i
più elementari bisogni insieme ai desideri di riscatto sociale e morale attesi da lungo
tempo. Volle dire non solo poter guadagnare di più, ma anche poter mangiare meglio,
poter vestirsi meglio, poter spostarsi liberamente, poter mettere su famiglia in un
38
ambiente adeguato e ricevere adeguata assistenza sanitaria e istruzione. Queste esigenze
vennero però a cozzare da un lato con la dura realtà delle periferie industriali e del
lavoro in fabbrica, da un altro, con l’incapacità dello Stato centrale nel gestire i consumi
pubblici, più che mai necessari in un periodo di forte mobilità sociale che vedeva la
concentrazione di un numero sempre più elevato di persone nei tessuti urbani delle città,
col conseguente aumento dei compiti e le responsabilità di gestione della pubblica
amministrazione. Le più gravi mancanze dello Stato risiedono non tanto nel mancato
intervento o nella mancata disponibilità di finanziamenti, bensì nelle modalità scelte per
realizzare tali interventi. Una volta date queste premesse possiamo capire il perché di
certi orientamenti nei consumi degli italiani, come ad esempio nel caso della
motorizzazione di massa, prima con l’aumento del numero delle moto, e poi con
un’espansione fortissima del settore auto (che porterà in futuro a raggiungere il rapporto
più elevato di automobili per abitante al mondo, superando persino gli Stati Uniti).
Questa partiva dall’esigenza di maggiore mobilità delle persone (in particolare dei
giovani, ma non solo), da una parte, nelle zone rurali con lo scopo di raggiungere i
centri abitati più grandi nelle giornate libere, che fungono da punti di riferimento in cui
si può “cambiare aria”, trovarsi con altre persone della stessa fascia d’età, divertirsi,
spezzare l’immobilismo secolare delle campagne. Dall’altra, in città, il possesso di un
mezzo di trasporto privato serve a coprire i vuoti lasciati da un sistema di trasporto
pubblico inadeguato alle nuove dimensioni delle città ed ai bisogni della gente che deve
raggiungere il posto di lavoro e spostarsi da una parte all’altra della città. A questi
fattori possiamo anche aggiungere l’importanza che ha un mezzo di trasporto privato (in
particolare per quel che riguarda l’Italia dove gli investimenti nelle ferrovie furono – e
lo sono ancor oggi – notevolmente trascurati in favore di quelli per la costruzione del
sistema autostradale) per il godimento di una delle novità più importanti della società
opulenta: il tempo libero e le vacanze. L’industria del turismo di massa nasce proprio in
questo frangente, con l’aumento esponenziale delle presenze nelle strutture alberghiere40
e nei campeggi, nasce e s’impone su tutte le altre la moda delle vacanze al mare, ma
ogni occasione è buona per una scampagnata o una gita breve. Da essere un’esclusività
delle classi più agiate, il turismo e i viaggi diventano un’esperienza alla portata di quasi
tutti, e a questo concorrono non solo la riduzione dell’orario di lavoro con
l’introduzione della settimana corta e le vacanze; sono anche uno dei pochi modi a
disposizione per uscire dalla monotonia e la noia caratteristiche del lavoro in fabbrica o
40 Questo fenomeno alimenterà purtroppo l’espansione dell’abusivismo edilizio nelle località di villeggiature delle coste italiane, in particolar modo nelle regioni del Sud, dove si verificheranno gli scempi del paesaggio più clamorosi.
39
in ufficio. Vi si possono ritrovare in questi due casi, la motorizzazione ed il turismo di
massa, le spinte che nascono dal desiderio di raggiungere uno status, una maggiore
visibilità sociale, accentuandola attraverso lo sfoggio di una certa vettura, nota per le
sue particolari qualità sportive; oppure facendo vedere agli amici le foto di una vacanza
in un luogo esotico. Tuttavia, un’analisi del genere non può essere applicata che ad una
piccola percentuale della popolazione. L’acquisto di un’autovettura utilitaria per la
maggior parte delle persone imponeva notevoli sforzi economici alle famiglie, e quelle
che sono in grado di permetterselo spesso sono costrette a ridimensionare le altre spese,
in qualche caso anche quelle alimentari (di per sé non elevatissime in questo periodo, in
cui per la prima volta è possibile disporre di proteine in quantità adeguate nella dieta di
ogni giorno). Ci sarebbe da chiedersi il perché di questo comportamento, perché
scegliere di privarsi di certi consumi basici pur di poter acquistare un bene durevole, il
cui costo pesa parecchio sul bilancio familiare? Possiamo ipotizzare diversi motivi: la
ricerca di status, il sopperire alle mancanze del trasporto pubblico per coprire le
necessità basiche di mobilità, la maggiore disponibilità di credito al consumo, le
conseguenze delle sollecitazioni pubblicitarie che trovano un terreno particolarmente
fertile in una popolazione che ha subito per lungo tempo privazioni d’ogni genere. Ci
sono due linee di pensiero principali che cercano di dare una spiegazione
dell’andamento dei consumi nel dopoguerra: la prima afferma che c’è stata una netta
predilezione per i consumi privati, anche di beni piuttosto costosi (“opulenti”) per il
reddito medio dell’epoca a scapito di consumi più essenziali; la seconda, invece, cerca
di confutare quest’ipotesi mettendo a risalto il fatto che comunque i consumi di beni
durevoli in Italia restavano inferiori alla media europea, e che l’entità dell’intervento
pubblico non era da trascurare: l’intervento pubblico, assieme a una politica di
tassazione che bersagliava pesantemente i consumi opulenti favorivano il risparmio (più
alti in Italia che negli altri paesi europei), fondamentali per permettere allo Stato
d’investire nella spesa pubblica e nelle aziende controllate attraverso i diversi enti.41
Crainz a sua volta, propone una mediazione fra queste due correnti, non confutando una
per favorirne un’altra, bensì le fonde cogliendo gli aspetti fondamentali messi in
evidenza dalle diverse teorie: “Proprio perché il punto di partenza era basso, quegli
indici hanno un significato rilevantissimo: la rapidità con cui nuovi consumi si
affermano insieme alla soddisfazione di antichi bisogni incide in profondità nella vita e
nell’immaginario collettivo del paese. E la «possibilità» di accedere ai nuovi consumi è
elemento altrettanto forte dell’accesso effettivo ad essi.”42 Ed è qui che entrano in gioco
41 E’ questa la tesi di Giuseppe Maione nel suo articolo Spesa pubblica o consumi privati?. 42 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo economico, pag. 134.
40
tutte quelle dinamiche che fanno capo alle nuove pratiche di sollecitazione al consumo
tipiche delle società industriali di massa, puntando sulla creazione di nuovi bisogni
attuata dalla pubblicità favorisce la nascita del desiderio di consumare anche in quelle
persone che non hanno una disponibilità economica tale da permettere loro l’accesso ad
un determinato bene. E nel caso italiano, come ricorda Crainz, è anche molto importante
il peso dell’immaginario e della “carica ideale” intrinseca a certi prodotti (e insieme a
questi la capacità di raggiungere un livello di consumi più elevato). Non sarà marginale
il ruolo che queste spinte avranno nell’aumentare la capacità d’attrazione delle città
(nell’immaginario dell’epoca, il luogo per eccellenza in cui risiede la modernità e
l’emancipazione dalla miseria), facendo sì che la gente sopportasse privazioni e in molti
casi un lavoro non affatto soddisfacente perché convinta che ciò gli avrebbe permesso in
futuro di godere una qualità di vita migliore.
Indubbiamente il benessere possibile, prima ancora di quello reale, innesca
meccanismi rilevanti di consenso al sistema nel suo insieme e fonda un nuovo modello
di «nazionalizzazione» basato sulle «aspettative crescenti». Inoltre, nel momento in cui
si rompe un orizzonte basato rigidamente su bassi redditi e bassi consumi prende corpo
un elemento centrale, che ha comunque una carica liberatoria: la soggettività. Per questa
via, i consumi «diventano sempre più il prodotto di un modello culturale in senso forte:
di sistemazione dell’esperienza individuale e di orientamento delle sue scelte.43
In questa prospettiva s’inserisce l’analisi della società dei consumi fatta da
Baudrillard nel suo famoso saggio Il sistema degli oggetti, in cui sostiene che la
relazione tra persone e oggetti è mediata dalla presenza di un sistema di significati e
segni intrinseco alle merci (in analogia con la scienza semiotica). Questo concetto è
chiaramente sintetizzato da Sassatelli: “I consumatori non consumano insomma
specifici oggetti per rispondere a concreti e specifici bisogni, ma segni che sono parte di
un sistema «culturale» che «sostituisce un ordine sociale di valori e classificazioni a un
mondo contingente di bisogni e piaceri»”.44 L’universo di segni in relazione agli oggetti,
oltre ad essere presente nel vissuto personale, viene caricato di nuovi significati grazie
all’azione della pubblicità e dei nuovi modelli di vita da essa presentati.
La somma delle distorsioni nell’impiego dei soldi pubblici e l’inadeguatezza
delle istituzioni di fronte all’avanzare dirompente della nuova società, reticenti ad
43 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo economico, pagg. 134-5. 44 Sassatelli, Roberta, Consumo, cultura e società, Bologna, Il Mulino, 2004, pag. 110.
41
affrontare qualsiasi tentativo di riforma e modernizzazione, aggravarono le mancanze
già piuttosto gravi sul terreno della spesa pubblica. Queste mancanze crebbero in
maniera esponenziale durante il miracolo economico, e riguardavano in particolare un
bene fondamentale qual è la casa. La presenza dello stato nel settore edile è pressoché
inesistente di fronte alla crescita della domanda che si registra con l’afflusso di un gran
numero di persone nelle città, per la prima volta in grado di possedere un immobile, e
senz’altro particolarmente bisognose di averlo considerando le dimensioni dell’esodo
dalle campagne. Si aggiungano a questo i piani regolatori inesistenti o nei casi in cui
esistevano, le amministrazioni erano pronte a sanare qualsiasi irregolarità: l’abusivismo
cresce e s’alimenta soprattutto dal bisogno di possedere una casa. Le mancanze dello
stato in questo caso si riveleranno particolarmente rovinose, poiché oltre a favorire
l’illegalità e la speculazione edilizia a danno degli acquirenti e dei comuni, contribuisce
all’arricchimento di pochi imprenditori poco attenti alla qualità dei fabbricati (nascono i
“palazzoni” e gli “alveari” delle periferie), al rispetto dei diritti dei lavoratori (l’edilizia
conosce da sempre tassi molto alti d’infortuni sul posto di lavoro) e non meno
importante, incentivò il deturpamento e l’inquinamento dell’ambiente. Col passare degli
anni, la pratica dell’abusivismo e della speculazione edilizia arriveranno ad interessare i
litorali e in genere quasi tutte le località di villeggiatura interessate dal turismo di
massa: nuovi alberghi, villaggi turistici, seconde case, tutti bocconi molto ghiotti per gli
imprenditori del mattone.
Infine, un’altra particolarità dell’affermarsi della società dei consumi in Italia lo
si può trovare nelle differenze tra quelle zone più dinamiche dal punto di vista
economico, ossia il Centro Nord, e il Sud, dove l’unico elemento di novità che si pensa
possa distribuire i frutti dello sviluppo economico consiste nella presenza di qualche
mega-impianto siderurgico o petrolchimico finanziato dalla Cassa del Mezzogiorno.
Proprio l’estraneità di queste tipologie d’intervento statale rispetto alla situazione di
partenza dell’economia meridionale, votata prevalentemente all’agricoltura, farà sì che
le differenze, di per sé già molto consistenti, crescano ancora. Le differenze di reddito
col Settentrione, la persistenza di forme d’organizzazione agricole arretrate in cui la
maggior parte della forza lavoro era costituita da braccianti sottopagati, la mancanza di
un settore industriale capace di raccordarsi con le vocazioni economiche storiche del
territorio e la disoccupazione che ne consegue ostacoleranno l’avanzare di quella società
dei consumi, per certi versi già consolidata al Nord. Questo costituirà anche un altro
elemento che spingerà tante persone ad emigrare e alimenterà anche un diffuso senso
d’insoddisfazione e smarrimento. La tivù e le testimonianze di tante persone che se
42
n’erano già andate portarono agli occhi dei meridionali la consapevolezza dell’esistenza
nel Paese di zone in cui il benessere non era più un miraggio, alimentando lo scontento
di ampi settori della popolazione. Una manifestazione di questi sentimenti di sconforto
la si può ritrovare nello scoppio della rivolta generale nella città di Reggio Calabria nel
1970, provocata dalla contesa con Cosenza per la scelta del capoluogo regionale, ma al
cui interno confluiscono tutte quelle situazioni di disagio presenti nel territorio: la
disoccupazione, la mancanza di prospettive per il futuro se non quella di prendere la via
del Nord, la diffusa criminalità, la presenza di una classe politica corrotta che si dà da
fare solo in vista delle scadenze elettorali, ma anche questioni prettamente localistiche
come la disputa per la scelta della sede universitaria regionale.
Il ruolo dei partiti
Volgendo lo sguardo sui due “mondi” che caratterizzano la scena politica
italiana in quegli anni, possiamo segnalare che, in modi diversi, entrambi erano
impreparati all’impatto col boom economico e le sue conseguenze. La sinistra
conservava ancora una chiave di lettura catastrofista dell’avvenire del capitalismo in
Italia e nel mondo, rifiutandosi di vedere i segnali di cambiamento e di progressivo
adattamento che esso mostrava da diversi anni e che l’avrebbero portato a crescere in
maniera ininterrotta fino al ‘73. Chiudendosi in questa visione, la sinistra non riuscì,
innanzitutto, a cogliere la portata dei mutamenti in corso nella società, non essendo in
grado di capire i desideri e le speranze dei propri elettori e/o iscritti. Col passare degli
anni, costretta com’era a stare in una posizione difensiva nei confronti dei partiti della
maggioranza, senza la prospettiva di arrivare a governare il Paese (ciò vale in particolar
modo per il Pci), non riuscì nemmeno a darsi un impianto programmatico capace di
proporre delle alternativa ai governi centristi, né a dare delle proposte soddisfacenti per
affrontare i problemi sempre più assillanti che si vennero a creare negli anni del
miracolo economico. Credo il maggiore sbaglio delle analisi prodotte dalla sinistra
d’allora sia stato quello di confondere molti dei desideri di riscatto e le richieste di
miglioramento della qualità della vita venute dalla gente con una cieca adesione allo
stile di vita americano. Ciò era vero per taluni atteggiamenti, come per esempio
l’acquisto di un’automobile, ma non si può dire la stessa cosa per altri consumi che
alleggerirono il carico di lavoro delle donne dentro le mura domestiche, alleviando e
43
riducendo il tempo necessario per sbrigare le faccende quotidiane, aiutando la loro
emancipazione e permettendo loro di acquisire un ruolo più attivo nella società.
All’interno del dibattito interno del Pci, spesso le chiavi di lettura della nuova fase del
capitalismo sviluppatasi dopo gli accordi Bretton Woods del ’44, in particolare quelle
proposte dai membri della Scuola di Francoforte (molti dei quali emigrarono negli Stati
Uniti dopo la presa del potere da parte del partito nazionalsocialista in Germania), e mi
riferisco in particolare al consumismo, non vennero neppure prese in considerazione se
non da voci isolate, puntualmente taciute con le solite accuse di “qualunquismo”. La
stessa visione della centralità del partito nella vita politica fu la causa di quel distacco
dai movimenti avvenuto nel ’68, favorendo la nascita della sinistra extraparlamentare, in
cui confluirono gli elementi più politicizzati del movimento. Un altro elemento di
distacco del partito dalla nuova realtà politica in fermento lo diede la repressione attuata
con le truppe del Patto di Varsavia del movimento di rinnovazione del comunismo
prima in Ungheria e poi in Cecoslovacchia . L’iniziale scostamento da quella azione
repressiva e le voci di dissenso (tra l’altro molto deboli) non furono seguite da un vera
analisi critica della democrazia nei paesi del “socialismo realizzato” e dei rapporti tra il
Pci e il Pcus che rimasero in sostanza immutati. Fu il colpo di grazia inflitto
all’immagine e al mito dell’Unione Sovietica (di per sé incrinato dopo i fatti del ’56 in
Ungheria), non più visto come il paese guida nella lotta al capitalismo, baluardo della
rivoluzione, da parte dei giovani. Una conferma di ciò ce la dà il sostanziale crollo delle
iscrizioni alla federazione giovanile del partito, che scende ai minimi storici proprio nel
’68, pur essendo gli anni di maggiore coinvolgimento in politica dei giovani. Guardando
anche il numero degli iscritti al partito, si consolida sempre di più quello scarto tra
elettori e iscritti al partito: il numero di elettori rimane pressoché invariato e anzi,
subisce un leggero incremento di elezione in elezione (il numero di elettori del Pci
crescerà in continuazione fino al 1979) ma al contempo il numero degli iscritti cala
visibilmente. Viene a mancare quel legame stretto tra il partito e le sue strutture
periferiche che coinvolgevano e coordinavano l’attività del “popolo comunista”. Per
vedere una vera proposta politica per il cambiamento, all’altezza dei tempi, bisognerà
aspettare fino a metà anni ’70, quando Berlinguer (nel contesto dei governi d’unità
nazionale che per la prima volta videro il coinvolgimento dei comunisti, seppur limitato,
nell’azione di governo), constatando la gravità della crisi energetica e del modello di
sviluppo dei due decenni passati propone la politica dell’austerità. Le sue linee guida in
sostanza criticavano la diffusione del consumismo, il culto del denaro e la crescita
economica totalmente dipendente da fonti energetiche inquinanti, la cui importazione
era parecchio onerosa per lo Stato e quindi per i cittadini, soprattutto per coloro i quali
44
avevano uno stipendio fissato da un contratto e dunque venivano penalizzati più degli
altri dalla crescita dell’inflazione. Purtroppo, anche in questo caso – così com’era
successo ai socialisti nel ’64 – la linea di evitare la rottura con la Dc, onde uscire
dall’isolamento storico a cui furono costretti per anni i comunisti, prevalse sulla volontà
di applicare l’austerità a tutto campo, colpendo anche quei settori economici privilegiati
i cui interessi venivano da sempre protetti dalla Dc. L’austerità così come veniva
effettivamente applicata faceva pagare i costi della crisi ai ceti bassi, chiedendo sacrifici
a coloro che li avevano sempre fatti, e oramai non più disposti a subire le conseguenze
dell’agire di una classe politica più interessata ad occupare poltrone piuttosto che a
interessarsi per i problemi del Paese. La perdita della sua identità, le contraddizioni di
una retorica che condannava i ministri e l’operato della Dc mentre in Parlamento si
scendeva a compromessi, in poche parole l’ingresso del Pci nelle logiche della
“democrazia dei partiti”, oltre ad essere responsabile del crollo del ’79, sancisce anche
la definitiva estraniazione di strati sempre più ampi della società civile dalla politica. Un
fatto che non può darsi per scontato dopo le ondate di partecipazione e mobilitazione
verificatesi dieci anni prima, arrivando ad un grado di politicizzazione della società tra i
più alti d’Europa.
Dall’altra parte, l’arroccamento del maggior partito di governo (la Dc) ed i suoi
alleati dentro posizioni ultra conservative, guidate da un anticomunismo viscerale, dalla
paura di perdere consensi tra il padronato e l’elettorato moderato, e dall’uso di fondi
pubblici per soli scopi clientelari hanno fatto sì che il governo disperdesse tempo e
risorse, trascurando di risolvere i più gravi problemi del Paese, siano questi vecchi
(come l’annosa questione meridionale e la riforma agraria) o nuovi (come la gestione
dei flussi migratori nei grandi agglomerati urbani, la lotta contro la criminalità
organizzata e l’abusivismo edilizio). Ci risulta molto utile, per spiegare l’atteggiamento
del governo nei confronti del problema dell’accoglienza dei flussi migratori nelle città,
questo esempio tratto sempre da Crainz: “Si può aggiungere che governo e prefetti
pongono una qualche attenzione alle migrazioni interne solo quando i risultati elettorali
sembrano indicare che la crescita delle sinistre nelle grandi città del nord è dovuta al
voto degli immigranti (oltre che a quello dei giovani).”45
La breve esperienza del centro sinistra nei primi anni ’60 porto con sé speranze
di riforme e miglioramenti dell’ordinamento giuridico, del sistema fiscale, ed il varo di
45 Op. cit. Crainz, Storia del miracolo italiano, pag. 107.
45
nuovi piani urbanistici (onde contrastare l’allarmante espansione dell’abusivismo su
tutta la penisola); in molti casi inadeguati alla mutuata condizione economica e sociale
del Paese, ed in molti altri casi carichi ancora del pesante fardello lasciato in eredità dal
ventennio fascista. Purtroppo tranne che per qualche successo parziale, l’impulso
riformatore del centro sinistra fu subito bloccato dall’ottusità dei settori più reazionari e
conservatori della Dc (ci fu persino un tentativo di colpo di Stato, il cosiddetto “piano
Solo” nell’estate del ’64, che diede il colpo di grazia alle speranze di cambiamento), e
anche se formalmente il Psi continuava a far parte del governo, avrà le mani legate fino
alla fine del decennio quando s’esaurirà definitivamente l’esperienza del centro sinistra.
Il post-miracolo (1963-1973)
Il periodo di spettacolare crescita economica (oltre il 6% annuo dal ’58) finisce
nell’estate del ’63; seguiranno due anni in cui ci troveremo in una fase di crisi
temporanea denominata “congiuntura”. Una crisi che nei suoi molteplici risvolti si
rivela essere più una crisi auto-prodotta dal sistema industriale e finanziario italiano
piuttosto che una vera crisi dovuta all’accumularsi di fattori recessivi interni od esterni.
E’ vero che nel ’63, dopo l’ondata rivendicativa protrattasi dal ’59, l’aumento dei salari
pareggia (e anche per un breve periodo, supera) l’aumento della produttività; ma ciò
non basta a motivare il sorgere di una crisi, in special modo quando questi aumenti si
verificano dopo anni e anni di crescita sostenuta da una politica di contenimento
salariale. Perché, dunque, parlo di una crisi auto-prodotta, o meglio, auto-indotta?
Partiamo innanzitutto dalla situazione politica interna. Dalla fine del ’62 all’estate del
’64 vengono discusse dal governo e dalle Camere le più importanti proposte di riforme
avanzate dal centro-sinistra: l’introduzione della tassazione dei redditi finanziari (la
“cedolare d’acconto”, introdotta nel dicembre del ’62, che mirava a colpire la diffusa e
sempre più preoccupante evasione fiscale), la proposta di legge per l’introduzione di
piani urbanistici (sempre della fine del ’62, puntava a disciplinare il settore edile, uno
dei più dinamici del miracolo che, tuttavia, s’era sviluppato al di fuori d’ogni regola e
rischiava d’intaccare gravemente intere aree del paese), e infine, la riforma scolastica
(ho già fatto cenno alle vicende riguardanti questa riforma nella nota 15). L’allarmismo
dei settori più conservatori sul rischio di sovietizzazione dell’economia italiana fu
sollevato anche un anno prima, dopo la nazionalizzazione della produzione e la
46
distribuzione dell’energia elettrica; tra l’altro riuscita solo di facciata, visto che i due
colossi che controllavano il settore (la Montecatini e l’Edison) grazie alla pressione
esercitata sul Parlamento dall’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, e dal
nuovo Presidente della Repubblica, Segni, riuscirono a snaturare completamente la
nazionalizzazione. In poche parole, le aziende private si videro pagare gli indennizzi in
contanti, non in azioni dell’azienda di Stato, perciò subito dopo aver perso il monopolio
dell’energia ebbero a disposizione un’ingente quantità di capitali, prontamente investiti
nei settori della chimica e la siderurgia.46 Una situazione simile si verificò anche per le
altre riforme: le pressioni effettuate dalle frange più conservatori della maggioranza,
della Presidenza della Repubblica, della Confindustria (e della stampa legata ad essa)
insieme a quella del governatore della Banca d’Italia riuscirono a creare un argine che
bloccò, insabbiò o snaturò fino al punto di rendere vuote le proposte di legge più
innovative sorte dalle menti più innovative del centro sinistra. Nemmeno gli esponenti
di maggiore peso tra le fila del Psi fecero molto per tentare d’evitare l’insabbiamento
delle riforme, pur facendo formalmente parte del governo in carica. Preferirono
scongiurare l’ipotesi di una spaccatura totale con la Dc e di rimandare le riforme
rimanendo all’interno del governo, in attesa di una congiuntura economica più
favorevole (in linea con la politica “attendista” di Aldo Moro). L’incredibile passività
socialista può essere anche letta con un’altra chiave di lettura: il cedimento senza lotta
pur di mantenere intatti i rapporti con i democristiani fu anche motivato dalla minaccia
di una deriva autoritaria e anticostituzionale, sorta dall’insofferenza di certi settori del
Paese nei confronti di un governo troppo, secondo la visione di alcuni settori, troppo
spostato a sinistra. Una conferma di quest’ipotesi verrà data nel ’67 da un’inchiesta del
settimanale “L’Espresso”, in cui vengono finalmente alla luce le trame e gli obiettivi del
“Piano Solo” che vedrà il coinvolgimento, oltre ai vertici dell’arma dei carabinieri ed i
servizi segreti, anche parlamentari, ministri e lo stesso Aldo Moro. In questo clima
politico, matura la decisione degli industriali di sferrare un’offensiva contro i sindacati
per recuperare il terreno perduto nell’ultima contrattazione, rendendosi responsabili di
peggiorare la situazione economica. Frenando gli investimenti produttivi (il cosiddetto
46 Il disastro del Vajont (9 ottobre 1963) avvenne proprio nel momento in cui veniva effettuato il passaggio da privato a pubblico: i privati velocizzarono i lavori di costruzione della diga quando cominciarono a correre le prime voci sulla statalizzazione per aumentare il valore dell’azienda che stava per essere venduta allo Stato trascurando volutamente i rapporti che indicavano la pericolosità dell’opera. Purtroppo, l’Enel non diede ascolto alle voci d’allarme che provenivano da diverse fonti e che alla fine si rivelarono vere. Mi preme evidenziare, tra tutti gli aspetti sconvolgenti del disastro del Vajont, l’atteggiamento dell’allora capo del governo, citando Crainz (Il paese mancato, pag. 7): “Che sia un’Italia da rimuovere sembra pensarlo anche Giovanni Leone: come capo del governo accorre sui luoghi del disastro a promettere giustizia, come avvocato lavorerà al processo dalla parte degli imputati, non dei superstiti.”
47
“sciopero degli investimenti”) proprio in un momento in cui la domanda interna
cresceva (aiutata in questo senso dagli aumenti salariali ottenuti con i nuovi contratti) si
favorì l’aumento dell’inflazione e del disavanzo della bilancia commerciale, nonché un
ulteriore rincaro del costo della vita e del deficit dei conti pubblici. La classe
imprenditoriale italiana preferì esportare gli enormi guadagni del periodo precedente
all’estero piuttosto che investirli nelle proprie fabbriche, motivando questa decisione
con l’aumento della pressione fiscale e dell’ingerenza dello Stato nella gestione dei
propri capitali. Un primo e blando tentativo di dare un sistema fiscale adatto ad uno
stato moderno, in un paese dove l’evasione fiscale e l’esportazioni di capitali sono la
regola, fa balzare dalla sedia l’establishment; non c’è da meravigliarsi se da lì a qualche
anno si vivrà una stagione di conflitti e tensioni senza paragoni in Europa. E non è finita
qui: l’offensiva padronale si scaglia anche contro gli operai più sindacalizzati e più
impegnati in politica, si moltiplicano, infatti, i licenziamenti arbitrari, che puntano solo
ad indebolire il sindacato o semplicemente ad abbassare la qualifica degli operai (che
magari da lì a qualche mese vengono riassunti, chiaramente partendo dalla categoria più
bassa e senza il riconoscimento di alcuna anzianità). Inoltre, la politica di
ristrutturazione aziendale avviata in quegli anni si basa esclusivamente sull’aumento dei
ritmi di lavoro nella catena (seguendo le stesse linee guida del periodo precedente),
provocando un aumento sensibile del numero degli infortuni sul posto di lavoro e la
crescente insoddisfazione di tantissimi lavoratori costretti ad un lavoro frenetico, che
oltre a provocare malattie fisiche e mentali, istupidisce le persone poiché non valorizza
in alcun modo le capacità e il percorso di studi dei lavoratori. Insomma: “sciopero degli
investimenti, ristrutturazione aziendale basata sull’intensificazione del lavoro, evasione
fiscale ed esportazione di capitali: se questa è la norma, come confermano molti studi,
c’è anche chi fa di peggio.”47
La sconfitta definitiva delle speranze di cambiamento dopo l’esile fiammata
riformista, fa ripiombare l’Italia nell’immobilismo, nel congelamento caratteristico dei
governi del “regime democristiano”48 (in cui rimanevano soltanto le spoglie di quel che
fu il centro sinistra), coinvolgendo sempre di più anche il suo alleato di governo nelle
47 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 38. 48 Ho trovato questo termine nell’articolo “Alle sue spalle l’agonia dell’Europa” di Donatella Di Cesare, comparso su il manifesto, pag. 14, del 31 dicembre 2004. Mi sembra adeguato a descrivere la situazione in cui si venne a trovare la Repubblica Italiana, governata ininterrottamente sin dal ’48 da innumerevoli governi di coalizione rimasti sempre sotto la guida dei democristiani. Questi governi furono spesso incapaci capaci d’innovare ed aggiornare il modo in cui gestivano il potere, ignorando i cambiamenti prodottisi in seno alla società italiana negli anni del miracolo economico, e allo stesso tempo, attuando politiche repressive nei confronti degli oppositori che sfioravano il limite della legalità.
48
logiche di partito che esso s’era proposto di combattere entrando al governo:49
spartizione di uffici su basi arbitrarie, clientelismi, ecc. Saranno gli anni sprecati, del
tempo perso, che contribuiranno e non poco all’acuirsi delle richieste di cambiamento
portate avanti da quei settori maggiormente penalizzati che troveranno in seguito modo
di sfogarsi nel ’68 degli studenti e successivamente nell’Autunno caldo.
Mi interessa in modo particolare l’analisi della contestazione dal punto di vista
delle critiche sorte dalla constatazione del delinearsi sempre più evidente di uno dei
fenomeni da poco comparsi nella società italiana, mi riferisco cioè al consumismo.
Benché la rivolta studentesca sia nata dalla contestazione delle arretratezze del sistema
universitario – e più in generale dell’istruzione italiana nel suo complesso – col tempo il
movimento studentesco s’arricchisce coinvolgendo dentro di sé diverse stanze di
protesta. Sono gli anni in cui si crea un forte legame col mondo operaio, gruppi di
studenti marciano insieme agli operai nei cortei di protesta e nascono i primi gruppi di
coordinamento tra le diverse “anime” del movimento; vi giocano un ruolo fondamentale
i giovani, siano essi studenti universitari, medi od operai. In questo senso, le chiusure ed
il rifiuto di qualsiasi dialogo da parte delle autorità non fanno che aumentare la
politicizzazione e la voglia di partecipazione dei giovani, essi non si sentono più
rappresentati dai partiti né dalle associazioni collegate (mero prolungamento dei partiti
nelle università, cui unico ruolo è quello di fare da ponte di lancio per chi volesse far
carriera in politica). Fu così che si svilupparono nuove forme di lotta e di contestazione
non ortodosse: occupazioni di facoltà, volantinaggi nei teatri e cartelloni su cui
comparivano degli slogan che ironizzavano sulle istituzioni dell’ordine stabilito. Nelle
fabbriche si diffondono gli scioperi a scacchiera, i cortei dentro gli stabilimenti e le
occupazioni che comportano il blocco totale della produzione; tutte forme di lotta che
molte volte contrastavano con le indicazioni dei sindacati, questi, infatti, venivano
considerati troppo accomodanti nei confronti dell’establishment. La contestazione per la
prima volta coinvolse anche larghi settori del sindacato cattolico e delle Acli, che per la
prima volta seguono una linea nettamente contraria alla Dc, vista anche da loro come un
partito che reagisce soltanto quando deve bloccare in Parlamento le iniziative volte a
dare un nuovo assetto all’apparato statale. Un esempio di ciò lo possiamo trovare ancora
in Crainz: “Al «Natale consumistico» è contrapposto in molte città il «Natale dei
49 Nel gennaio del ’64 si verifica la scissione della sinistra del Psi che dà vita al Psiup (Partito socialista di unità proletaria), il resto di del partito si fonde col Psdi (Partito social democratico) forma il Psu (Partito socialista unificato). Crainz la descrive come “un’operazione di vertice, insomma, concepita in termini di puro schieramento (...)”, in Il paese mancato, pag. 67.
49
poveri», spesso ad opera di gruppi cattolici: a Venezia come a Sassari, a Trento come a
Verona, a Milano come a Bologna (qui protestano anche gli scout).”50
E’ particolarmente interessante l’esplosione di questa contestazione nella società
italiana perché fondamentalmente i “giovani anticonformisti” degli anni Sessanta sono
la prima generazione nata e cresciuta col miracolo economico, nel contesto della società
del benessere, in cui una larga percentuale della popolazione può godere di un livello di
consumi mai visto prima, e può allo stesso tempo, permettersi di rimanere più a lungo
fuori dal mercato del lavoro. Coloro i quali teoricamente dovevano essere i più
mansueti, i più vogliosi d’entrar a far parte del sistema poiché non avevano subito le
penurie delle generazione passate sono tra i primi a ribellarsi, rivelando le storture e gli
inganni cui veniva sottoposta la gente in nome del benessere. Questo viene molto
chiaramente esplicitato da Crainz: “In questo quadro i giovani appaiono incerti e quasi
lacerati fra due poli: da un lato l’orizzonte mentale e le regole sempre meno accettabili
della società precedente, con i suoi vincoli e i suoi tabù, le sue gerarchie e le sue
ipocrisie; dall’altro, i nuovi modelli di un consumismo senza regole, lo scarso appeal di
un mondo segnato – nella sua norma, prima ancora che nei suoi versanti patologici – da
nuovi conformismi e disvalori.”51 A questa situazione interna si sommano anche le
vicende internazionali: in primis la contestazione al crescente coinvolgimento
americano in Vietnam ed in genere la contestazione dell’“equilibrio del terrore” che
minacciava d’annientare l’umanità intera, le suggestioni venute dalla rivoluzione cinese
e dal tentativo di espandere la rivoluzione nell’America del Sud compiuto da Ernesto
“Che” Guevara che portarono agli occhi dell’opinione pubblica dei paesi del primo
mondo l’attualità dei problemi di quel lontano Terzo mondo, rimasto fino allora
nell’oblio.
La richiesta di rinnovamento delle istituzioni scolastiche e di nuovi diritti per la
collettività si unisce con lo scontento provato nei confronti della società ed i suoi valori,
in particolare, quello del lavoro e del voler guadagnare sempre di più. I giovani si
chiedevano allora se ne valeva veramente la pena di finire a fare un lavoro faticoso e
che non richiedeva alcun impegno intellettuale, il più delle volte senza nemmeno sapere
che cose si stesse facendo. L’aumento della produttività ottenuto dal ’63 in poi fu
dovuto principalmente alla messa in pratica di nuove misure di stampo tayloristico
mirate a razionalizzare ed ottimizzare le azioni svolte da ogni persona nella catena,
50 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 279. 51 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 198.
50
chiaramente aumentando la fatica del lavoro. Non si può certo dire che fosse un
problema soltanto attinente alla classe operaia, la situazione di molti dei “colletti
bianchi” era simile, senz’altro non avevano a che fare con una catena di montaggio
sporca ed insalubre, tuttavia, le direttive mirate ad aumentare l’efficienza degli
impiegati facevano sì che lo stress sofferto da queste categorie di lavoratori aumentasse,
così come i carichi di lavoro da svolgere in ufficio.52 Certo chi svolgeva mansioni più
pericolose, in cui i rischi per la salute erano maggiori, era ricompensato da un salario
più elevato; è qui che vediamo l’ondata di cambiamento insita nei movimenti del ’68,
non s’è più disposti ad accettare la monetizzazione della salute, sorge la richiesta
puntuale e precisa del diritto a lavorare in un ambiente sano. Il lavoro finalmente
acquisisce quel valore di diritto fondamentale d’ogni persona, base della costituzione
della Repubblica Italiana; il movimento sessantottino agevola la generalizzazione di
questo concetto e della consapevolezza che bisogna lottare per ottenerlo, lasciandosi
definitivamente alle spalle la concezione del lavoro come favore concesso
dall’industriale al proletario (la pratica di andare dal prete perché lui desse conferma al
padrone per cui si voleva lavorare dell’“integrità morale” di una persona, ovvero di non
essere sindacalisti né d’avere simpatie socialcomuniste, si protrasse fino agli anni
Sessanta).
La crisi del ‘73
La crisi energetica di fine 1973 arriva in un momento particolarmente delicato
per le istituzioni e l’insieme della società italiana. L’avvio della “strategia della
tensione” con la strage di Piazza Fontana nel dicembre 1969, col chiaro intento di
spostare l’opinione pubblica a destra proprio nel periodo in cui le agitazioni operaie si
estendevano a macchia d’olio in tutto il Paese, farà piombare l’Italia nell’incubo degli
“anni di piombo”. Anche in questo caso, la gestione poco chiara delle indagini,
volutamente di parte e spesso in collusione con gruppi eversivi di stampo neo-fascista
effettuata dalla magistratura, che cercò di scaricare le colpe su un gruppo d’anarchici,
52 Nel romanzo La vita agra di Luciano Bianciardi, si raccontano le vicende di un laureato in lingue di Grossetto che si trasferisce a Milano in cerca di lavoro, lasciandosi dietro la moglie e il figlioletto. Il romanzo descrive le difficoltà incontrate dal protagonista nel far quadrare i conti ogni mese, nel rispettare le scadenze al lavoro e anche nel gestire il rapporto con la sua amante. E’, a mio parere, un’ analisi interessante delle difficoltà nel vivere in una grande città, con cui dovevano fare i conti anche quegli emigranti in qualche modo “privilegiati”, inseriti tra i colletti bianchi ma che ugualmente erano costretti a patire ritmi di lavoro snervanti.
51
con lo scopo di far sorgere nell’opinione pubblica la convinzione dell’esistenza di un
legame tra l’inasprimento dei conflitti sociali degli ultimi anni e la strage.
Successivamente, nuove indagini riveleranno la falsità delle accuse rivolte agli
anarchici, mettendo in chiara luce le responsabilità della magistratura nell’ideazione di
una messinscena destina a colpevolizzare gli anarchici, e con essi, tutto il movimento di
contestazione. Ma la strage di Piazza Fontana non fu che l’inizio di un’offensiva
neofascista destinata a colpire sindacalisti, militanti di sinistra, sedi di partito, luoghi
pubblici, manifestazioni, treni, col chiaro obiettivo d’installare un governo autoritario,
in grado di contrastare “efficacemente” l’offensiva della classe operaia e degli studenti.
Il fatto che rende ancora più grave la situazione, e che segnerà indelebilmente la storia
italiana futura, viene dall’atteggiamento delle istituzioni nei confronti di questa
offensiva terroristica. Non pochi furono i tentativi da parte di alti rappresentanti delle
istituzioni e dei servizi segreti di depistare, insabbiare o rallentare le indagini per non far
emergere le responsabilità di certi gruppi neo-squadristi negli attentati dinamitardi.
Oltre a ciò possiamo evidenziare la prassi naturale di cercare le colpe tra i manifestanti
ed i militanti di sinistra, tipica di certi settori della magistratura formatasi nel Ventennio
e di chiaro stampo conservatore, principali responsabili dei gravi ritardi e delle falle
nelle indagini. Questo quadro politico non fa che consolidare nell’opinione di gran parte
della stampa e di quella “nuova borghesia” arricchitasi col boom economico, la
convinzione che l’ondata di protesta si fosse prolungata troppo a lungo, e che certi
gruppi legati alla contestazione fossero i responsabili della recente ondata di terrore. Per
questo nuovo ceto medio, che Crainz descrive come “portatori di una «laicizzazione»
consumistica, intrisi di modelli acquisitivi individuali, alla ricerca di nuove forme di
prestigio coniugate al benessere. Aperti, certo, alla modernità: ma una modernità priva
di valori, intrecciata spesso alla rincorsa di nuovi privilegi, di nuove forme di «difesa
dallo Stato», o di «rifiuto dello Stato» (...).”53 In questo contesto di scontro e di
crescente ostilità nei confronti del movimento, matura in quelle frange più estremistiche
l’idea della lotta armata, che la crisi del ’73 farà esplodere portando gli scontri a livelli
paurosi. Dopo parecchi anni di lotta, cortei e scioperi – che certo portarono novità
legislative (si pensi al varo dello statuto dei lavoratori) e miglioramenti salariali – ma il
tutto sempre rimanendo dentro il medesimo schema di società capitalistica e
percorrendo sempre le stesse vie per raggiungere lo sviluppo economico; e vedendo
spesso la complicità delle istituzioni nelle trame eversive, perciò in molti videro la lotta
53 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 381.
52
armata come l’unica alternativa rimastagli a disposizione per riuscire a raggiungere
quegli obiettivi per cui molte persone avevano tanto combattuto.
L’arrivo della crisi energetica provocherà anche un grande contraccolpo a
livello dell’immaginario collettivo: all’epoca la si vide come la fine di un’epoca piena di
speranze e fiducia riposte nel futuro, che in parte aveva motivato così tante persone a
scendere in piazza qualche anno prima, ma che ora di fronte all’evidenza della crisi e
delle mancate riforme, gettava un velo di sfiducia in grado di arrestare molti di quei
fermenti presenti nel ’68 e nell’Autunno caldo. Le pur importanti riforme portate avanti
dagli ultimi bagliori riformisti del centro sinistra – attuazione delle regioni e dell’istituto
del referendum, l’introduzione del divorzio, la legge sulla casa, lo Statuto dei lavoratori
e la legalizzazione dell’obiezione di coscienza54– difficilmente immaginabili senza la
pressione ed il continuo spronare dei movimenti, subirono però, come dieci anni prima,
continui tentativi d’insabbiamento, emendamenti per rallentare il percorso delle leggi
nelle Camere che alla fine portarono al progressivo svuotamento e sfibramento delle
riforme.55 La sconfitta di questo nuovo tentativo di governare lo sviluppo significò non
solo il definitivo abbandono della formula del centro sinistra, ma anche del diffondersi
di un più generale distacco dalle istituzioni e dall’apparato di governo, i cui vizi a danno
della collettività aumentavano d’anno in anno, mantenendo il consenso attraverso la
concessione di privilegi quei ceti e gruppi, vecchi e nuovi, che si arricchirono durante il
miracolo approfittando della mancanza di controlli, spesso inserendosi nelle logiche
clientelari facenti capo ai partiti di governo. L’arenamento delle riforme fu anche un
duro colpo per i sindacati, che avevano puntato forte su di esse e poi finirono per
trovarsi con le mani vuote, o meglio, con le tasche vuote, vista l’impennata
dell’inflazione provocata in parte dagli aumenti salariali (dopo quasi un decennio di
restrizioni salariali). Tuttavia, gli aumenti salariali non furono accompagnati da una
politica antinflazionistica efficace, quindi tutto quel che venne guadagnato con gli
aumenti salariali finì per essere rosicchiato dall’inflazione. L’inefficacia dell’operato del
governo non fu solo casuale, l’aumento dell’inflazione, infatti, permise al governo
d’indebolire ancora una volta la posizione di lavoratori e sindacati, colpevolizzati dal
governo e da una parte della stampa d’essere i responsabili dell’impennata
54 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 419. 55 Un esempio ce lo fornisce l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1971, importante sì per tutelare i lavoratori dipendenti dei grandi complessi industriali, ma inapplicabile in quelle piccole e medie imprese che da lì a poco diverranno gli attori principali dell’industria italiana, icone per eccellenze del modello “Nord Est” (in contrapposizione al modello della grande fabbrica tipico del triangolo industriale), che in parte deve il suo successo alla sua estraneità da quei vincoli posti alle imprese dallo Statuto.
53
inflazionistica. Quando nel dicembre del ’73 l’aumento del prezzo del greggio e
l’aumento dell’inflazione che ne seguì si fecero sentire in Italia al governo c’era già la
nuova maggioranza di centro destra capeggiata da Giulio Andreotti. Questa
maggioranza decide di cambiare rotta, applicando una politica inflazionistica che
prevedeva l’aumento del debito pubblico (che in gran parte finì per finanziare gli
investimenti pubblici nelle aziende “decotte” e l’allargamento della rete clientelare) e
nell’estate del ’73 la svalutazione della lira. Difficile trovare una combinazione
peggiore per le tasche dei lavoratori dipendenti, che oltre a vedere decurtato il proprio
potere d’acquisto subiscono anche la beffa delle misure restrittive varate da un governo
tutt’altro che votato al risparmio.
Echi nella letteratura, nella musica e nel cinema
Seguendo la metodologia di lavoro usata da Crainz, nella Storia del miracolo e
ne Il paese mancato, introdurrò qualche spunto di riflessione su questo periodo storico
sorto dal lavoro di scrittori, registi e musicisti dell’epoca e anche più recenti. Nella
storia contemporanea – in special modo dal dopoguerra in poi, in cui il ruolo dei mezzi
di comunicazione di massa e della cultura ormai anch’essa massificata è diventato via
via sempre più importante – l’analisi della produzione culturale può risultare molto utile
alla comprensione degli umori delle persone e dei riflessi che gli eventi storici ebbero
sulla collettività. In primo luogo perché spesso gli artisti si sono avvalsi degli eventi
storici e politici usandoli come spunti di riflessione, ma non solo. La scuola
cinematografica neorealista, nata in Italia nel dopoguerra, basa le proprie realizzazioni
sull’analisi della società nel suo complesso, cogliendone gli aspetti più profondi da cui
nascono le storie che vengono raccontate e proposte al pubblico attraverso i film. Lo
stesso si può dire dei riflessi che questa ebbe sulla produzione letteraria, il vissuto e le
sofferenze quotidiane, sono la materia su cui poi viene innestato il testo letterario. La
mia intenzione non è quella di presentare un quadro complessivo ed esaustivo di tutta la
produzione culturale che in qualche modo ha a che fare con le tematiche di questa tesi,
mi limiterò ad analizzare un numero limitato di opere che ho considerato
rappresentassero con efficacia certe caratteristiche della nuova società che ebbe origine
col miracolo economico e, allo stesso modo, i connotati di quella società che l’Italia si
lasciò alle spalle. Mi rifaccio a Barraclough in questo caso, che afferma “Ma sarebbe
54
anche sorprendente se gli umori della letteratura e delle altre forme di espressione
umana non fossero alterati dal nuovo ordine sociale prodotto dalla nuova civiltà
tecnologica.”56
Il mio primo sguardo si volge verso la letteratura: si potrebbero citare tanti
esempi, vista la prolificità e la ricchezza di spunti di riflessione provenienti dalla
produzione letteraria italiana contemporanea, anche limitando la trattazione al secondo
dopoguerra. Ho preso in considerazione due brani tratti da due opere diverse di Italo
Calvino. Il primo s’intitola Marcovaldo al supermarket, è una delle tante novelle che
compongono la raccolta Marcovaldo – Ovvero le stagioni in città,57 scritta nel decennio
che va dal 1952 al 1963 (e pubblicata in questo stesso anno), quindi è una valida
testimonianza (anche se romanzata e non situata in nessuna città in particolare) dei
cambiamenti profondi e delle novità che in quel momento stavano cambiando l’Italia.
Le novelle sono suddivise seguendo l’ordine delle stagioni naturali e la sua ciclicità, in
evidente contrasto col trascorrere del tempo caratteristico delle civiltà urbana, lineare e
monotono. Marcovaldo, che di mestiere fa il manovale in una ditta non precisata, è un
elemento estraneo all’ambiente urbano, infatti, le uniche cose che riescono ad attirare la
sua attenzione sono quei piccoli segni e indizi forniti dalla natura visibili in città, che
stanno ad indicare il passaggio di una stagione all’altra. Non riesce ad inserirsi né tanto
meno a comprendere i ritmi esasperati, i comportamenti e le regole del contesto sociale
in cui si trova. Nella novella in questione, Marcovaldo e la sua famiglia vanno a spasso
in città quando la folla dedita a fare spesa la sera attira la loro attenzione; in effetti, il
loro divertimento consiste nel vedere gli altri fare spese. Decidono di entrare in un
supermercato per cercare di vivere l’esperienza di fare acquisti in uno di quei nuovi
negozi self-service. Ma, poiché sono squattrinati (l’affitto ed i debiti si portano via tutto
lo stipendio), Marcovaldo ed i suoi sono costretti ad aggirarsi per il supermercato coi
carrelli senza poter caricarli; il supermercato diventa quasi una specie di museo, in cui si
può solo guardare ma non si può toccare. Ad un certo punto, però, la tentazione diventa
troppo forte e, credendo di non essere notato dagli altri membri della famiglia,
Marcovaldo comincia a riempire il suo carrello imitando le altre persone, promettendosi
di rimettere tutto sugli scaffali dopo aver fatto un giretto col carrello pieno. Non
s’accorge, però, che il resto della famiglia ha deciso di fare la stessa cosa, e tutt’a un
tratto, si ritrovano tutti coi carrelli pieni di una spesa che non possono pagare. Cercano
56 Barraclough, Geoffrey, Guida alla storia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2002, 7a ed., pagg. 241-2. 57 Calvino, Italo, Marcovaldo, Milano, Garzanti, 1990, pag. 103.
55
di rimettere i prodotti sugli scaffali frettolosamente, tuttavia, continuano a riempire i
carrelli man mano che li svuotano, e vanno avanti così fino a quando sentono l’annuncio
che ricorda tutti l’avvicinarsi dell’orario di chiusura. La vicenda si chiude con l’uscita
fortunosa di tutta la famiglia attraverso una parete aperta da un cantiere che sta portando
avanti i lavori di ampliamento del negozio. Questa breve novella ci presenta, seppur in
forma tragicomica, alcune delle caratteristiche del miracolo: in primis, la comparsa di
un nuovo tipo di negozio, caratterizzato da una maggiore dimensione in cui la
profusione e l’attrazione delle merci viene aumentata ad hoc; e dal nuovo ruolo che
l’acquirente vi gioca. Inoltre, la figura del manovale Marcovaldo raffigura in qualche
modo la persona emigrata in città ed il suo confrontarsi con la nuova realtà cittadina; in
questa novella in particolare viene evidenziata la dicotomia tra il tempo di produzione e
quello di consumo, con le sue suggestioni che coinvolgono anche una famiglia non in
grado di partecipare “attivamente” alla festa del consumo che ha luogo in città ogni
sera. Se prendiamo in considerazione le altre novelle presenti nella raccolta, riusciamo a
ritrovare altri aspetti che hanno a che fare con il miracolo, partendo dal lavoro faticoso,
monotono e mal retribuito, la vita in una soffitta con poco spazio per una famiglia
numerosa, le differenze sociali stridenti, per finire con il fantasticare la campagna e gli
spazi verdi (forse Marcovaldo l’ha conosciuta da piccolo, forse non l’ha mai vista;
Calvino non lo esplicita mai) in una città stretta nella morsa dell’abusivismo.
Il secondo brano che ho scelto di prendere in considerazione s’intitola Le città
continue, una delle tante città descritte all’interno del romanzo Le città invisibili.58 Il
romanzo si basa sulla figura del viaggiatore veneziano Marco Polo, incaricato
dall’imperatore dei tartari, Kublai Kan, di viaggiare in lungo e in largo per il territorio
imperiale a lui ignoto, riportandogli una precisa descrizione delle città e dei luoghi
incontrati nel viaggio. I luoghi e le vicende descritti nel romanzo sono fantastici, non
esiste un riferimento preciso ad alcuna città in particolare. In ogni caso, ne Le città
continue, pur non chiamando causa nessuna città, possiamo ritrovare i connotati di
alcuni tra gli aspetti più negativi di una qualunque città moderna, ovvero il problema
dell’immondizia. Qui ci viene descritta la città di Leonia, in cui l’opulenza ed il
benessere goduti dai suoi abitanti contrasta con le immense quantità di rifiuti da essa
prodotti, ogni giorno ammassati sulle strade aspettando di essere portati fuori città. Ciò
non costituirebbe un problema, se non fosse perché la città cresce sempre di più ogni
anno, espandendosi verso quelle zone in cui prima venivano portati i rifiuti, cui
58 Calvino, Italo, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, pag. 119.
56
smaltimento diventa anch’esso più problematico col passare degli anni perché in città
“l’arte” di creare nuovi materiali non conosce soste, di conseguenza anche i rifiuti sono
più resistenti. L’altro serio problema che dev’essere affrontato a Leonia è quello della
concorrenza: ci sono anche altre città che producono fiumi di spazzatura, queste città si
contendono gli immondezzai dove poter scaricare i propri rifiuti. Nelle zone di confine
si creano montagne di spazzatura, la cui altezza cresce minacciando di franare su
Leonia, ricoprendola completamente coi suoi rifiuti, spianando così nuovi terreni sui
quali le altre città, senza perdere tempo, si espanderanno. Non si può fare a meno di
non vedere in questo racconto un chiaro legame con la situazione che s’è venuta a
creare in molte città italiane, ma, in genere anche nelle città di tutti i paesi
industrializzati: la gestione dell’immensa massa di rifiuti prodotti nelle città e nelle
fabbriche che aumenta d’anno in anno e diventa sempre più difficile da smaltire. In
pratica, ogni cosa che acquistiamo, piccola o grande, è confezionata utilizzando grandi
quantità di cellofan, cartone, plastica, ecc., e se a questo aggiungiamo anche i rifiuti
prodotti nei passaggi intermedi della produzione, il tutto sommato alla grande varietà di
materiali presenti al giorno d’oggi sugli scaffali di tutti i negozi, il problema dello
smaltimento (e anche della bonifica di quei rifiuti industriali troppo pericolosi perché
siano processati direttamente) diventa di prim’ordine. In questo racconto breve abbiamo
anche un ammonimento, non basta allontanare l’immondizia dagli occhi, nascondendola
sotto terra oppure cercando di bruciarla. Prima o poi le cose che abbiamo gettato
torneranno e saranno la nostra rovina. E’ chi può negare l’analogia con la situazione
attuale,59 con le discariche piene fino all’orlo e senza più posti dove aprirne di nuove,
montagne di rifiuti tossici smaltiti abusivamente dalle “ecomafie”, scorie nucleari in
attesa di trovare un luogo sicuro in cui poter riposare per qualche migliaio di anni
cosicché non possano presentare più un pericolo per l’ambiente e così via; non voglio
andare oltre perché per fare un elenco di tutte le situazioni problematiche provocate dai
rifiuti della nostra società dei consumi ci vorrebbe più di una tesi.
Per quel che riguarda la produzione cinematografica, un film che rappresenta in
maniera inequivocabile e anche tragicomica le vicende di un operaio trapiantato dalla
Sicilia a Torino è Mimì metallurgico ferito nell’onore del 1972 in cui vengono proposte
59 Per un approfondimento di questi argomenti vedere il sito www.report.rai.it, nella sezione ambiente è possibile trovare la trascrizione delle puntate del 01/03/01 e del 06/05/04, in cui viene riportata un’inchiesta sulla situazione delle scorie nucleari e delle centrali nucleari dismesse. Sull’emergenza rifiuti nel Mezzogiorno nell’estate del 2004 vedere l’articolo: http://www.repubblica.it/2004/c/sezioni/cronaca/rifiutcas/nonpart/nonpart.html. Ma gli esempi che si potrebbero citare sono tanti, l’“emergenza rifiuti” si ripete quasi ogni anno in Campania ed in altre regioni del Sud d’Italia.
57
tutte le difficoltà dell’adattamento alla nuova realtà e alla durezza del lavoro in fabbrica.
Costretto a lasciare la sua vita e la sua moglie a Catania per via delle sue simpatie
politiche che gli costano il posto di lavoro, grazie ad un’associazione di immigrati
siciliani riesce a trovarne uno nuovo a Torino, che poi però si rivelerà per essere una
mera facciata per coprire le attività illecite di un gruppo mafioso. In questa vicenda
s’intreccia anche la relazione amorosa del protagonista con una ragazza conosciuta a
Torino, con cui ha anche un figlio. Tornato di nuovo in Sicilia con la sua nuova
compagna, si mette al servizio della mafia grazie ai suoi agganci conosciuti in seno
all’associazione siciliana a Torino, ma scopre anche che la moglie ha una relazione con
un finanziere. La vicenda si complica ancora quando Mimì mette incinta la moglie del
finanziere per gelosia, e quindi i sicari della mafia uccidono il finanziere temendo
rappresaglie nei confronti del suo assassino, che è appunto Mimì. A questo punto, Fiore
(l’amante del protagonista) non vede con buoni occhi il voltagabbana ideologico e
decide d’abbandonare Mimì. Il film racconta molto efficacemente le vicende e le
problematiche che affliggevano l’emigrazione meridionale nelle città del Nord, ma
anche mette a luce i problemi degli operai politicizzati, colpiti da licenziamenti arbitrari
e costretti a dover emigrare per trovare una nuova occupazione.
Nell’ambito della musica prenderò in considerazione due canzoni del gruppo
“Modena City Ramblers”: Quarant’anni60 e Giro di vite.61 La prima canzone si riferisce
appunto ai primi quarant’anni di vita della Repubblica Italiana, denunciandone le
storture, puntando il dito soprattutto sulla cultura clientelare spesso intrecciata coi
gruppi malavitosi e con la pressante minaccia di una deriva autoritaria, tutti mali già
presenti nel ’64 (anno del “piano Solo”) e che col progressivo aumento della tensione
sociale sarebbero peggiorati, sfociando nella strategia della tensione da una parte;
nell’esplosione del debito pubblico ed il sempre maggiore distacco della classe politica
dalla società civile: “Ho quarant’anni spesi male fra tangenti e corruzione/ ho comprato
ministri, faccendieri, giornalisti [...]/ Ho quarant’anni ed un passato non troppo
edificante/ ho massacrato Borsellino e tutti gli altri [...]/ Ma ho scoperto l’altro giorno,
guardandomi allo specchio/ di essere ridotta ad uno straccio/ questo male irreversibile
che mi ha tutta divorata/ è un male da garofano e da scudo crociato”. Il riferimento al
regime partitocratrico e alle sue pratiche di governo è più che evidente, e anche se la
60 Terza traccia dell’album Riportando Tutto A Casa (1994). 61 Settima traccia dell’album La Grande Famiglia (1996).
58
degenerazione totale della politica verificatasi nel corso degli anni ’80 col craxismo62 e
ed il pentapartito va oltre il periodo analizzato in questa tesi, sono tutti fenomeni le cui
radici si possono ritrovare nel profondo degli anni ’50, ma anche prima visto che i primi
casi d’uso clientelare di soldi pubblici ci riportano indietro al 1948.
La seconda canzone che ho scelto si riferisce più in particolare alla
composizione di quel “blocco sociale”,63 base di consenso del craxismo, anch’esso
figlio delle problematiche irrisolte nei decenni precedenti nel periodo dello sviluppo
non-governato, caratterizzato da un individualismo e da una voglia di arricchirsi a
dispetto d’ogni regola e soprattutto a dispetto della collettività:
E’ cominciato in silenzio nella Milano da bere
tra i padri di famiglia coi loro BOT e le loro Mercedes
timorati di Dio e delle tasse, elettori di Craxi e dei suoi
spaventati di perdere tutto se qualcuno li avessi sorpresi
-
E’ continuato a Pontida in un grido di rabbia e paura
di geometri con lo spadone, e dentisti con l’armatura
decisi a difendere il Patrol e la villetta sulla tangenziale
le nigeriane sui viali e la loro evasione fiscale
In seno a questo blocco sociale si formeranno nel corso degli anni ’80 quei
gruppi che rivendicano la particolarità storica, politica e culturale del Settentrione, quali
la Liga Veneta e la Lega Lombarda che confluiranno nella Lega Nord, criticando la
corruzione e gli sprechi di denaro pubblico del governo, chiedendo in qualche caso
addirittura la secessione dal resto dell’Italia. Non ci sarebbe nulla da obiettare nel loro
atteggiamento critico nei confronti degli sprechi dello Stato, se non fosse perché la loro
stessa base politica s’è arricchita grazie alla pratica dell’evasione fiscale diffusa.
L’aspetto senz’altro più negativo del sorgere di queste nuove formazioni politiche –
spesso di vedute molto corte – lo si può ritrovare nel loro uso manipolatorio della storia
e della mitologia celtica per rivendicare una particolarità alquanto dubbia e ancora
peggio, per arroccarsi dentro posizioni molte volte xenofobe e/o razziste nei confronti
62 Il craxismo fu quella stagione politica italiana caratterizzati dalla forte alleanza tra Psi e Dc e gli altri tre partiti minori (Pri, Psdi e Pli), sempre in chiave anti Pci, che a differenza del passato, dal 1983 in poi vedrà il susseguirsi di diversi governi capeggiati da Bettino Craxi, leader del Psi. Per la prima volta, un rappresentante di un partito minoritario rispetto alla Dc, ha la responsabilità di formare il governo. Questa novità non muterà di fatto l’andazzo del sistema politico italiano, che anzi, sotto la guida di Bettino Craxi conoscerà alcune delle sue pagine più oscure. 63 Op. cit. Crainz, Il paese mancato, pag. 597.
59
degli stranieri ma anche degli abitanti delle altre zone d’Italia. Il fatto assurdo è che,
spesso, sono queste persone a lavorare nelle loro fabbriche, piccole officine, aziende
agricole e cantieri edili. C’è una contraddizione troppo evidenti, una specie di xenofobia
intermittente che scatta ogni volta che loro si sentono presumibilmente penalizzati dallo
Stato oppure la loro “integrità culturale” viene minacciati dai non nativi; ma che
scompare quando si tratta di assumere mano d’opera a basso costo venuta da fuori o
quando si tratta di evadere il fisco o si ricevono aiuti da parte dello Stato. Tutte questi
fenomeni di individualismo esasperato e di rigurgito dei particolarismi locali sono
problematiche nate dal mancato adeguamento dei poteri pubblici al mutamento veloce
subito dalla società italiana nel volgere di due decenni. Dopo che è passata l’euforia del
miracolo, è sopravvenuta la crisi e si sono spente le illusioni di un cambiamento
profondo dell’assetto generale del Paese, la cui classe politica perdeva il tempo nei
meandri della partitocrazia e della politica clientelare, s’approfondirono nella società
italiana le spinte individualistiche che vedevano nello Stato e le sue regole un nemico se
non da sconfiggere, almeno dal quale sfuggire. Queste spinte si manifesteranno in
maniera diversa a seconda del contesto in cui si presentano, a Nord ad esempio con
l’evasione fiscale diffusa da parte dei lavoratori autonomi e del ceto imprenditoriale; a
Sud con la diffusione a livelli mai visti prima della corruzione e dei legami tra apparati
dello Stato e la mafia, compiendo così un salto di qualità che la porterà a essere meno
presente sulle pagine dei giornali ma, nel contempo, a fare più affari.
60
Capitolo terzo
Considerazioni finali
Introduzione
Dopo aver esaminato in particolare la nascita della moderna società del
benessere nell’Italia del miracolo economico, in questo capitolo conclusivo mi
propongo di fornire ai lettori qualche spunto di riflessione ispirato dalla teoria critica
della società dei consumi facendo riferimento a diversi autori, in particolare Galbraith e
Marcuse. Entrambi, negli anni ’60, partendo da presupposti filosofici e punti di vista
diversi, fecero un’accurata analisi critica della società che si andava creando nei paesi
industrializzati dal dopoguerra. In particolare, studiano gli sviluppi della società
americana visto il suo ruolo guida nell’economia mondiale, ma quest’analisi può anche
essere estesa ai paesi dell’Europa Occidentale, i quali, seppur in tempi e maniere
diverse, seguirono anch’essi linee di sviluppo simili a quelle statunitensi.
Le contraddizioni del benessere
La riduzione del divario nei consumi ha reso possibile l’integrazione delle classi
lavoratrici nelle logiche del capitalismo azionario. In Italia, la concomitanza di
quest’integrazione con la possibilità storica di poter uscire da una condizione di miseria
estrema fece sì che la contrapposizione e la denuncia a tutto campo del nuovo sistema di
sfruttamento sorto con la società dei consumi venisse in qualche modo attenuata dalla
paura di dover tornare indietro nel tempo, di ripiombare ancora nella miseria e la fame.
Le più gravi mancanze dei partiti di sinistra e dei maggiori sindacati risiedono proprio
qui: non riuscirono a proporre altro che la parificazione dei consumi delle classi
61
inferiori con quelli della borghesia e le classi più agiate. Trascurarono completamente la
possibilità di proporre un cambiamento radicale, in grado di portare la società oltre la
nuova condizione di sfruttamento insita nel capitalismo industriale. Marx ed Engels, nel
loro celeberrimo Manifesto, parlando del nuovo tipo di sfruttamento caratteristico della
società borghese, affermano che “In una parola, al posto dello sfruttamento mascherato
da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto,
indifferente.”64 Constatando il salto di qualità rappresentato dalla moderna società dei
consumi, possiamo ben affermare che ora lo sfruttamento viene di nuovo mascherato,
ma stavolta gli sfruttatori fanno appello al benessere, al prestigio personale, allo status e
alle possibilità di scalata sociale. Ciò non toglie che di sfruttamento sempre si tratti.
L’iniziativa nel campo della contestazione radicale venne presa soltanto da piccoli
gruppi “extraparlamentari”, nati anche grazie all’impulso sempre più forte dato dalla
critica ai partiti e ai sindacati tradizionali. Certamente, la possibilità d’accedere ad una
più ampia varietà di consumi privati e pubblici e l’emancipazione dalle gerarchie
padronali di stampo feudale presenti nelle campagne furono raggiunti; tuttavia, ciò non
fa del nuovo sistema una panacea in grado di liberare l’intera umanità dalla sofferenza e
dalla fame, anzi, promuove la nascita di un nuovo sistema di sfruttamento e di
accumulazione capace di indebolire e soffocare le spinte centrifughe e gli
anticonformismi con la promessa del benessere, dell’arricchimento personale, della
scomparsa della povertà: tutte belle promesse che svaniscono appena uno volge lo
sguardo verso le profonde contraddizioni presenti nel sistema e da esso alimentate. In
primis, l’oscena condizione di sfruttamento a cui è sottoposta gran parte dell’umanità
che permette all’altra piccola parte di godere i benefici della società del benessere.
Benefici per molti versi relativi, dacché si basano sull’utilizzazione di materie prime
non rinnovabili e creano all’interno della società opulenta gravissimi problemi di
squilibrio sociale e contraddizioni ancor più insopportabili: solo per citare un esempio,
mentre si spendono ingenti somme nella ricerca medica e nel mantenimento dei sistemi
di sanità pubblica che hanno sì dato importanti risultati per quel che concerne il
debellamento di molte malattie prima mortali, dall’altra parte poco si fa e si è fatto per
contrastare l’inquinamento industriale e domestico responsabile di non pochi morbi. La
mancanza d’azione in questo senso è motivata dal timore di rallentare la crescita
economica, primo e principale obiettivo del governo di un paese, e senz’altro, per gli
economisti, indice dell’abilità dei politici nel creare le condizioni per il benessere della
sua popolazione. La profusione di nuove merci, anche a portata di mano di quei settori
64 Marx, Karl, ed Engels, Friedrich, Manifesto del Partito Comunista, Milano, BUR, 1998, pag. 55.
62
storicamente esclusi dai consumi di beni durevoli, si dimostra essere abilmente pilotata
e gestita dai grandi gruppi industriali e dalla pubblicità. Non è stata di certo la loro
bonarietà ad averli portati a condividere merci prima gelosamente riservate solo a pochi
privilegiati, quali segni del loro status e del loro prestigio sociale. Il motivo di questo
cambiato atteggiamento è molto semplice, e lo si può ritrovare nello spirito che ha da
sempre guidato l’agire del capitale: la possibilità di fare profitti. La dimensione
raggiunta dalle fabbriche ed i livelli di produttività sempre crescenti abbisognavano
disperatamente di nuovi acquirenti, altrimenti all’orizzonte si prospettava nuovamente
la minaccia di una crisi. Dando alle classi sfruttate maggiori disponibilità economiche –
mediante l’uso di politiche fordiste oppure con lo Stato che funge da mediatore in linea
con le idee keynesiane d’intervento pubblico a sostegno dell’economia – e attuando una
politica di sollecitazione al consumo, si riuscì a far ripartire la macchina
dell’accumulazione capitalistica, giocando anche la carta dell’aumento del benessere dei
ceti bassi. Un benessere relativo però, che nasconde tutte le insidie e le storture di un
sistema che basa il proprio successo sul controllo della domanda dei prodotti che esso
stesso produce, e allo stesso tempo, sul mantenimento di uno squilibrio internazionale
nella distribuzione e nell’uso delle ricchezze del pianeta. Benessere che spesso e
volentieri si confonde e si riduce soltanto al ben-avere,65 ossia, confondere il mero
possesso e l’ampia scelta di merci a disposizione sul mercato col stare bene realmente
(il ben-essere), non solo in senso materiale o economico.
Nulla di tutto ciò ha fatto però cambiare idea agli economisti che ancor oggi
predicano i dogmi del mercato libero, la concorrenza salutare e del libero arbitrio dei
consumatori. Siamo succubi di un sistema di pianificazione ideato solo per raggiungere
gli scopi del sistema industriale, e cioè, produrre sempre di più, senza avere altro
traguardo che quello della crescita fine a sé stessa. Tutto il benessere della società
occidentale dipende da pochi fattori: l'aumento della produzione e la crescita del PIL, in
cui vengono sommate tutte le cose che si producono senza far uso di alcun
discriminante, anche se a nessuna persona ragionevole verrebbe in mente di mettere
sullo stesso piatto la produzione di armi e quella di cibi in scatola. Contribuiscono ad
accrescere i numeri del PIL anche tutte quelle spese a carico della collettività che
servono a riparare i danni causati dalla corsa frenetica allo sviluppo, causa principale di
innumerevoli problemi per la salute umana e ambientale innati nello stile di vita delle
società industriali e post-industriali. Spetta anche alla corsa dissennata verso la crescita
65 Ho preso questo termine da Latouche, Serge, La megamacchina, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pag. 145.
63
di garantire l'occupazione che permette agli individui di godere un livello di vita mai
conosciuto prima nella storia umana, e quindi lo Stato, attraverso la tassazione dei
redditi dei lavoratori e delle imprese, può garantire un livello minimo di Welfare state,
ovvero quell’insieme di garanzie e protezioni per le persone disoccupate o indigenti,
nonché la pubblica istruzione, la sanità garantita per tutti, ecc. Qualsiasi tentativo
d'arresto sarebbe dannoso per tutti quanti, anzitutto per le persone che verrebbero a
trovarsi senza lavoro per causa della diminuita produzione e della minore richiesta di
servizi. Tutto ciò non ha fatto che alimentare quel circolo vizioso in cui si è venuto a
trovare il proletariato66 dei paesi industrializzati: se da un lato la solidarietà nei
confronti delle problematiche del Terzo mondo è sempre più diffusa, grazie anche alla
maggiori visibilità dei problemi internazionali data dalla globalizzazione dei media ed il
miglioramento delle comunicazioni su vasta scala, dall’altro il relativo benessere dei
lavoratori delle società opulente dipende dal sistema di sfruttamento messo in piede
dall’apparato industriale-finanziario, principale responsabile a sua volta, della
condizione di miseria in cui si trova gran parte del mondo “sottosviluppato”.
I limiti del benessere
Possiamo essere certi che la prosecuzione degli obiettivi del sistema economico
sia l'unico modo per garantire il benessere della società? Ci siamo mai fermati ad
analizzare il modo in cui questo benessere nostro è stato costruito costringendo a gran
parte del genere umano a vivere in condizioni di estrema povertà? Possiamo fidarci
ciecamente della sicurezza economica e occupazionale offertaci dal sistema industriale,
quando questa sicurezza si basa sull’aumento continuo della produzione, la crescita ed il
consumo? Non basterebbe applicare le stesse formule anche nel Terzo mondo per far sì
che questo si risollevi dalla sua condizione di miseria e sfruttamento? Il capitalismo e
l’industrializzazione s’internazionalizzano, e come bene spiega Beaud, “L’attuale
sistema capitalista mondiale è, su una scala mai raggiunta finora, al contempo unico
66 Per la definizione questo concetto mi rifaccio a Negri e Hardt: “Con «proletariato» intendiamo riferirci dunque non solo alla classe operaia di fabbrica, ma a tutti coloro che producono, subordinati e sfruttati, sotto il comando del capitale”. Op. cit. Negri, Antonio, e Hardt, Michael, Impero, Milano, Rizzoli, 2001, pag. 244. Come vediamo, il passaggio da un’economia in cui gli occupati nel settore industriale sono la maggioranza, ad un’economia in cui il settore terziario è diventato quello predominante, non ha sancito per nulla la scomparsa del proletariato; bensì ne ha segnato una modificazione della sua composizione. Finché rimarremo in un sistema economico guidato dalla logica dell’accumulazione capitalistica lo sfruttamento del proletariato continuerà ad esistere.
64
(mercato mondiale, multinazionalizzazione della produzione) e diversificato (disparità
di costi della forza lavoro, forti differenze nei “valori nazionali” di una stessa merce).”67
L’industrializzazione, la liberalizzazione dell’economia e l’imitazione degli stili di vita
occidentali vengono proposti come gli unici palliativi in grado di ridurre il divario tra i
paesi supersviluppati e quelli non ancora sviluppati. L’evidente fallimento di queste
proposte stanno sotto gli occhi di tutti, basti vedere le conseguenze dei “programmi di
aggiustamento strutturale” proposti dal Fmi ai paesi sottosviluppati, non più in grado di
pagare i prestiti dati dallo stesso organismo per favorire lo sviluppo economico di questi
paesi. Questi programmi non hanno fatto altro che sancire la dipendenza dal Fmi e dai
capricci del mercato internazionale dell’intera economia dei paesi sottoposti ad
aggiustamento, costringendoli a cancellare le poche garanzie sociali esistenti e
privatizzando selvaggiamente tutti i servizi pubblici, ora in mano a grandi gruppi
multinazionali. Tutta la ricchezza prodotta da un paese che applica le “ricette”
economiche ed i programmi d’aggiustamento del Fmi, viene utilizzata per pagare i
prestiti e gli interessi dei prestiti accumulatisi con gli anni, arricchendo i paesi creditori,
che di per sé sono i paesi più ricchi e sviluppati del pianeta. Tornando ad occuparci del
“benessere” del Primo mondo, esso innanzitutto poggia su delle basi molto fragili, ed è
alquanto relativo, poiché perfino all’interno di quello che viene considerato come il
Primo mondo rimangono ancora grandi sacche di povertà, disoccupazione o
occupazione precaria e/o temporanea. La totale dipendenza da fonti d’energia non
rinnovabili, in particolare del petrolio, oltre che mettere delle serie ipoteche sul futuro
dell’umanità e causare problemi ambientali di cui non si conosce ancora la portata, sono
fonte di continui conflitti internazionali per il suo controllo e distribuzione (la questione
del petrolio sta dietro gli ultimi scenari di guerra a livello globale, l’Afghanistan e
l’Iraq, anche se ufficialmente le cause dello scoppio di questi conflitti si vogliono
attribuire allo “scontro di civiltà”), alimenta tutta una serie di comportamenti tendenti
allo spreco energetico, sia in ambito privato che in settori chiave dell’economia dei
paesi industrializzati. L’esempio che ci mostra più di tutti la fragilità di un legame così
stretto tra il petrolio e le possibilità di successo della nostra economia lo si può vedere
già nelle conseguenze sociali di una pur lieve crisi quale fu quella del ’73. O ancora, la
gestione della moderna agricoltura industriale europea, responsabile di innumerevoli
problematiche ambientali ed economiche. Com’è noto, il settore primario nell’UE ha
bisogno di una forte politica di sovvenzioni comunitarie e controlli pubblici per
scongiurare il rischio della sovrapproduzione, che provocherebbe conseguentemente
67 Op. cit. Beaud, Storia del capitalismo, pag. 279.
65
l’abbassamento dei prezzi delle derrate agricole e quindi la crisi totale del settore.
Ebbene, anche un settore che si penserebbe poco dipendente dalle dinamiche del prezzo
del greggio come l’agricoltura, nel caso di un’improvvisa impennata delle quotazioni o
della sua mancanza si troverebbe in difficoltà: oltre al combustibile necessario per far
andare le macchine agricole, tutta la filiera della produzione agricola moderna ha
bisogno di una continua immissione di sostanze chimiche, fertilizzanti, diserbanti ed
altro ancora per garantire la produzione, sostanze cui prezzo è strettamente legato a
quello del petrolio. L’esasperata ricerca di più alti livelli di produttività agricola, oltre
che favorire la sovrapproduzione, l’esaurimento dei campi, l’inquinamento delle falde e
l’eutrofizzazione dei fiumi con la conseguente comparsa di mucillagini sulle nostre
coste, è colpevole di trascurare la qualità dei prodotti agro-alimentari; la civiltà
industriale ha portato insidie alla salute umana anche sulle tavole. Inoltre, la politica di
sussidi al settore primario, finora, oltre a favorire lo sviluppo di un’agricoltura per certi
versi pericolosa per la salute umana (senza rallentare lo svuotamento delle campagne) e
a cui è destinata metà del budget comunitario, è in aperto contrasto con le politiche
ultra-liberista sbandierate da gran parte dell’establishment e dagli organismi
internazionali come soluzione ai problemi dei paesi poveri. Il problema risiede nel fatto
che il libero mercato è finora rimasto come un’imposizione per i poveri e un optional
per i ricchi, che lo applicano secondo convenienza.
Un’analisi simile potrebbe essere effettuata in ogni singolo settore economico, e
le contraddizioni e gli inganni che ne verrebbero fuori non sarebbero di certo minori.
L’analisi delle aberrazioni più evidente della società industriale (che diverranno ancora
più forti nella cosiddetta società post-industriale) immancabilmente portano a luce le
storture presenti su scala internazionale, le quali ci conducono direttamente al suo
fautore: il capitalismo. All’inizio di questo lavoro mi sono posto la domanda se fosse
possibile immaginare lo sviluppo economico dentro il sistema capitalista senza il
consumismo; pensando erroneamente che il consumismo fosse una deviazione evitabile
rimanendo sempre all’interno della cornice dell’accumulazione capitalistica. Ora, dopo
aver analizzato le dinamiche in cui questo fenomeno nacque e s’espanse, mi risulta
difficile ipotizzare una società non-consumistica rimanendo dentro l’ambito dello
sviluppo del capitalismo industriale: lo stesso concetto di “sviluppo” verrebbe limitato o
annullato dalla mancanza di un sistema di sollecitazione al consumo in grado di creare
artificialmente livelli di domanda pronti ad assorbire quei prodotti e servizi sfornati in
continuazione dal sistema economico. E come sappiamo, qualsiasi limitazione o intoppo
alla crescita economica tende ad essere eliminato dal sistema stesso, sempre alla ricerca
66
di nuovi mercati dove espandersi o, quando non esiste la possibilità di andare oltre –
vista la limitatezza della superficie terrestre – il capitalismo s’accanisce sui mercati già
acquisiti cercando di spremerli il più possibile, puntando precisamente sulla promozione
del consumismo esasperato. “L’espansione della sfera della circolazione può essere
realizzata potenziando i mercati esistenti all’interno della sfera capitalistica con
l’induzione di nuovi bisogni e desideri. E tuttavia, la quantità di salario a disposizione
del lavoratore per il consumo e la necessità da parte del capitalista di accumulare sono
limiti che ostacolano rigidamente questa espansione. (...). Per il capitale, l’unica
soluzione efficace è di guardare oltre se stesso e scoprire dei mercati non capitalistici in
cui scambiare le merci e realizzare il loro valore.”68
Il fallimento delle rivendicazioni
Le richieste portate avanti da alcuni dei movimenti sessantottini e, soprattutto,
quelle proposto dai sindacati durante l’Autunno caldo, col senno di poi, si possono
ritenere non del tutto giuste, poiché miravano quasi esclusivamente alla parificazione
del livello dei consumi con la borghesia. Non intendo dire con questo che fosse
sbagliato scendere in piazza e alzare il livello dello scontro, tutt’altro, la mia critica si
rivolge contro ristrettezza d’orizzonti dimostrata dai sindacati che indirizzarono la
mobilitazione popolare verso traguardi non abbastanza ambiziosi: poter consumare
come i ceti superiori non volle dire e non vuol dire ancora adesso raggiungere un livello
di vita migliore, bensì costituisce soltanto una specie di risarcimento materiale dato in
cambio per le penose condizioni di lavoro, l’inquinamento ambientale, lo
sconvolgimento della vita di tante persone costrette ad adattare le loro vite alla volontà
di un padrone, la distruzione delle risorse del pianeta a vantaggio di pochi, e molto altro
ancora, questi che ho nominato non sono che alcuni dei problemi con cui il proletariato
ha a che fare in tutto il mondo. La portata di queste richieste, esasperate col passare
degli anni per via della totale negazione di qualsiasi concessione da parte del padronato
e del governo; insieme all’avvento della stagione del terrore provocò, col trascorrere
degli anni, il confluire di gran parte del movimento in quell’appiattimento conformista
caratteristico di larghi settori della società verso la fine degli anni ’70 e per tutti gli anni
‘80. Per altro, i settori da sempre privilegiati e quelli arricchitisi considerevolmente
68 Op. cit. Negri e Hardt, Impero, pag. 213.
67
grazie al miracolo, non vedevano con buoni occhi l’avanzata salariale delle classi
inferiori, desiderose com’erano di mantenere il divario ad ogni costo (spesso durante la
stagione dell’Autunno caldo gli impiegati scioperarono proprio per mantenere nelle
“giuste misure” il divario con gli operai), quindi la rincorsa dei ceti bassi diventa
infinita. Anche perché la stessa borghesia è impegnata nella rincorsa di consumi più alti,
quello delle star del cinema, della vecchia e nuova aristocrazia, dei personaggi da
rotocalco, ecc. Quest’eterna rincorsa di modelli di consumo superiori è uno dei motori
che tengono in piedi l’economia, costituisce una delle più forti spinte al consumo e al
ricambio delle merci, fatta grazie all’abilità della pubblicità nel convincere le persone
che sia possibile migliorarsi attraverso l’acquisto di determinate merci o servizi. Inoltre,
questi processi di livellamento e miglioramento salariale innescano quei fenomeni
descritti da Marx e che io propongo qui con le parole di Negri e Hardt: “Le lotte
proletarie costituiscono – in termini reali, ontologici – il motore dello sviluppo
capitalistico. Costringono il capitale ad adottare livelli tecnologici sempre più avanzati
e, in tal modo, trasformano il processo lavorativo.”69 Così facendo, oltre ad aumentare i
profitti e la produttività, si modifica profondamente la struttura della classe lavoratrice,
spezzandone l’unità e creando tutta una nuova serie di rapporti di produzione in cui
nascono nuovi gruppi privilegiati ma anche nuovi diseredati. E’ il caso delle società
post-moderne, le cui economie sono caratterizzate dalla forte presenza del terziario e
dalla scomparsa dell’identificazione proletario uguale operaio dell’industria. In
economie come queste, il proletariato è multiforme e si trova ad avere a che fare con
nuove forme di sfruttamento e insicurezza, prima fra tutte, il lavoro precario o a tempo
determinato. Allo stesso tempo, il nuovo proletariato possiede una preparazione
culturale maggiore ed è inserito in settori chiave de “l’economia dell’informazione”. Il
suo potenziale di contestazione dell’ordine stabilito non s’è affatto affievolito, è solo
una questione di trovare nuovi modi per esprimersi e convogliare le proprie forze.
Negli anni ’70 prevalse la convinzione che niente sarebbe cambiato, quindi le
richieste e le manifestazioni avevano principalmente (anche se non per tutti: c’erano
frange più politicizzate attente ad altre tematiche) lo scopo di strappare al padronato
qualche concessione salariale, trascurando volutamente o a causa dei continui
fallimenti, la ricerca di un mutamento profondo che riuscisse a cambiare i rapporti di
forza ed il modello di società verso cui si avviava il Paese. Il fallimento dell’esperienza
dell’Autunno caldo può anche essere attribuito al mancato raccordo fra i settori più
69 Op. cit. Hardt e Negri, Impero, pag. 199.
68
all’avanguardia del movimento e settori più ampi del mondo operaio (e della società nel
suo insieme), raccordo non favorito da sindacati troppo impegnati nel contenere i settori
più intransigenti che scavalcavano in continuazione i suoi confini, piuttosto che nel
cercare di creare punti di contatto tra le diverse anime del movimento onde favorire la
creazione di un soggetto sociale il più ampio possibile e quindi in grado di ottenere il
cambiamento del paradigma dominante nella società italiana. Paradigma che la guidava
e la portava soprattutto verso il consumismo, la produzione fine a sé stessa, il possedere
simboli di status: tutti bersagli dei settori più anticonformisti all’interno del movimento
sessantottino. Vittorio Foa a questo proposito sostiene: “Il principio di autorità era stato
scosso ma non si era creata una nuova autorevolezza, un diverso disegno della vita. Il
consumismo come dogma dei consumi privati rimase sovrano. (...). Ma la lotta operaia,
pur nella sua grandezza morale, nella sua affermazione di valori diversi da quelli del
mercato, era però ancora dentro il modello dei consumi privati. Certo, essa si è anche
data come obiettivo il servizio pubblico collettivo, ma la spinta profonda della lotta fu
sempre la richiesta di rompere un muro d’inferiorità sociale, di essere come gli altri, che
voleva dire consumare come gli altri.”70
Le conseguenze della mancanza di anche un minimo segnale di cambiamento,
sommate alle riforme incomplete e presto vanificate dalla comparsa della crisi
petrolifera approfondiranno il divario tra politica e società civile in maniera più che
evidente. Questa separazione si manifesterà pienamente nello scontento giovanile
caratteristico delle sommosse del ’77, che a differenza di quelle del ’68 non andranno
oltre l’ambito studentesco e in cui il senso di smarrimento e la mancanza di prospettive
di futuro prevarranno sulle istanze di cambiamento della società. La carica di profonda
disillusione (alimentata anche dall’aumento della disoccupazione giovanile, fenomeno
quasi sconosciuti nei decenni precedenti) nei confronti del mondo politico, e della
società degli adulti in genere, spesso troverà modo di sfogarsi in atti di violenza prima
inconcepibili, come ad esempio la diffusione dell’uso d’armi da fuoco tra i membri dei
servizi d’ordine in occasioni delle manifestazioni di protesta. L’altra faccia
dell’allontanamento della società civile dal regime partitocratico può essere ritrovata
nella diffusione dell’individualismo esasperato, in cui prevale soltanto la volontà
d’arricchimento personale, raggiunto molto spesso a scapito dei diritti della collettività
ed in netto contrasto con le leggi dello Stato, resosi colpevole di favorire questo modello
per via di un lassismo spiegabile solo dalla paura di perdere i voti di quei settori agiati
70 Foa, Vittorio, Questo Novecento, Torino, Einaudi, 1996, pag. 317 [corsivo suo].
69
che continuavano ad arricchirsi approfittando della totale mancanza di controlli e
sanzioni.71
Consumismo contro democrazia
Nel libro di Ellen Meiksins Wood, Democracy against capitalism,72 l’autrice
analizza come il capitalismo, mentre ha permesso l’allargamento della cittadinanza a
quasi tutti le persone nell’ambito degli stati nazionali, al tempo stesso ha svuotato di
significato la portanza politica del concetto di cittadinanza. Nella democrazia ateniese,
pur con tutti i suoi aspetti negativi (in particolare la schiavitù e la negazione dei diritti
politici alle donne), anche i contadini e gli artigiani potevano accedere alla cittadinanza.
La cittadinanza non solo permetteva loro di avere voce e voto in ambito politico, ma
voleva anche dire che la maggioranza della popolazione faceva valere le sue ragioni. Ad
Atene la cittadinanza non veniva conferita solo ai grandi proprietari terrieri o ai ricchi
commercianti, perfino gli artigiani o i piccoli contadini erano in grado di ottenerla,
dovevano solo essere ateniesi. Questa organizzazione sociale permetteva a queste
persone di godere pieni diritti politici e, soprattutto, di far fruttare il loro lavoro
esclusivamente per sé, senza dover sottostare ai soprusi dei ceti economicamente più
forti, poiché sul piano giuridico e politico, tutti i cittadini godevano degli stessi diritti.
Nelle moderne democrazie Occidentali, impostate secondo la tradizione anglo-
americana e caratterizzate dalla rappresentatività dei singoli cittadini in un parlamento,
l’estensione del diritto di voto al proletariato e alle donne venne accompagnata dalla
perdita di quella forte valenza che aveva la cittadinanza ad Atene. La rappresentanza dei
ceti più bassi in Parlamento, nei casi in cui non viene direttamente operata dalla
borghesia o dai ceti più agiati, s’organizza in modo di far sì che la maggioranza della
popolazione conti poco o nulla in Parlamento. Ed anche nei casi delle democrazie più
avanzate, dove questi scogli alla rappresentanza popolare vengono meno (anche se in
ogni caso si deve far fronte all’astensionismo ed alla continua estraniazione della
popolazione dalla politica), ci si ritrova di fronte al dato di fatto che nell’ambito
dell’accumulazione capitalistica, la sfera politica s’è completamente distaccata dalla
sfera economica, perdendo la capacità di controllo e regolazione, per non parlare
nemmeno di indirizzarla verso obiettivi che rispondano alle esigenze umane e non a 71 Ho già fatto riferimento a questo fenomeno nella parte finale del secondo capitolo. 72 “Democrazia contro capitalismo” [tr. dell’autore].
70
quelle dell’espansione del capitale. Nessuno vuole contestare il chiaro avanzamento
fatto sul terreno dei diritti politici e sociali, e dalla diminuzione delle differenze e le
discriminazioni tra i sessi e tra le razze nei paesi del capitalismo avanzato. Il problema
risiede nel fatto che la capacità di contrattazione nei confronti del mondo economico di
questi nuovi diritti è stata ridotta a livelli infimi. L’ampliamento del diritto di voto ai
ceti proletari non ha posto indugi all’espansione imperialistica né tanto meno allo
strapotere dei grandi gruppi multinazionali, in grado di movimentare più risorse di
capitale ed umane degli stessi stati nazionali, scavalcando i confini secondo le proprie
convenienze. Inoltre, il radicamento delle prerogative del capitale in ogni sfera della vita
umana (soprattutto in quella lavorativa, ma non solo), e cioè, della crescita e
dell’aumento della produttività ad ogni costo e in qualsiasi condizione ha
definitivamente inglobato la sfera privata (quindi anche quella politica) dentro le
logiche del capitale. Questo vale sia per il caso della sollecitazione di impulsi, bisogni e
desideri di consumi congrui alle aspettative e necessità del sistema economico e della
sua tecnostruttura (indipendentemente dal fatto che si tratti del settore secondario o
terziario, cambiano solo i prodotti/servizi forniti, ma non le logiche che stanno dietro
alla loro creazione); costringendo quindi la gente a lavorare più del dovuto per potere
così procurarsi sul mercato i beni che fanno comodo all’apparato economico. Le stesse
contraddizioni appaiono anche al momento delle elezioni, in cui le campagne di
propaganda politica vengono sempre di più gestite allo stesso modo in cui vengono
orchestrate le campagne di propaganda commerciale: si punta tutto sull’immagine e le
caratteristiche fisiche dei candidati, spettacolarizzando in stile hollywoodiano le loro
presentazioni televisive e riducendo i loro progetti politici con semplici slogan ad
effetto (come se scegliere un determinato partito o candidato fosse paragonabile alla
scelta tra due marche diverse di pasta). In questo modo, l’appiattimento dell’agire
politico e delle scelte dei partiti sono all’ordine del giorno, persino i partiti della sinistra
moderata ispirati dalla socialdemocrazia e dal riformismo si trovano con le mani legate
in materia di politica economica, di fronte all’inevitabilità delle scelte decise dai gruppi
dirigenti delle multinazionali; e spesso diventano anch’essi zelanti difensori della
liberalizzazione dell’economia, sempre chiaramente in nome della crescita e lo sviluppo
economico, minacciati dalla “rigidità” della legislazione dello Stato Sociale.
Lo sviluppo del consumismo si consolida legando la creazione di posti di lavoro
(e conseguentemente anche la stabilità sociale e la sicurezza economica che dipendono
dall’occupazione del maggior numero possibile di persone) alle prerogative del sistema
economico internazionale e le sorti della politica alle decisioni dei consigli
71
d’amministrazione delle multinazionali, concentrati soprattutto nell’incrementare i
propri dividendi ed accrescere le loro quote di mercato. In ultima istanza le grandi
multinazionali – e soltanto se ciò può risultare conveniente ai fini delle loro
tecnostrutture – possono anche pensare a condividere obiettivi che favoriscano la
crescita non solo materiale della collettività. L’agire dei sindacati, i programmi e gli
orientamenti dei partiti politici e, come ho cercato di dimostrare prima, le elezioni nei
sistemi democratici rappresentativi – strutture fondamentali per il buon funzionamento
della democrazia – vengono così soggiogati irrimediabilmente alle scelte spietate del
capitalismo. E’ questo il triste corollario che possiamo trarre alla fine di questo lavoro:
pur possedendo istituzioni che in teoria rappresentano l’intero spettro sociale e che
sarebbero (o almeno dovrebbero esserlo) in grado di convogliare le richieste ed i
desideri provenienti dalla società in agire politico, condizionando quindi le scelte
economiche per far sì che queste si adattino meglio alle reali necessità della collettività,
e in particolare di quei settori più svantaggiati, il sistema capitalista ha trovato il modo
di scavalcarle e di far prevalere i propri bisogni, mettendo in questo modo a repentaglio
la sopravvivenza stessa della specie umana su questo pianeta.
72
Chapter Four
Conclusions
The purpose of this thesis is to shed some light on the birth of the affluent
society in Italy, treating in particular the post-war period up to 1973, the year of the
Arab-Israeli war which caused the first global oil crisis. I decided to take on this
particular argument because my attention was caught by the way how some “rituals of
consumption” in the modern Western society have gradually degenerated up to the point
of becoming a social illness, causing as well many environmental and economic
problems. On one side, environmental problems mostly concern the disposal of
enormous quantities of industrial and domestic waste, which day after day is becoming
a critical problem in several Italian and European regions; furthermore, the massive use
of plastics is nowadays widespread all over the world and it is present in almost every
passage of the economic system. On the other side, the economic implications inherent
in the affluent society imply that economic development (and thus employment and
social stability) relies mostly on the continuous increase of the consumption of the
goods and services offered by the industrial apparatus. In doing this, the economic
establishment acts through two main means: increasing the offer of consumption credit
and launching massive advertising campaigns. The main role played once in economics
by production has been displaced by consumption; proof of this, is the amount of money
which increasingly flows towards advertising agencies and related sciences, in charge of
concocting new ways of inducing people to use greater and greater amounts of their
income to buy new goods. My research looks backwards to mid-nineteenth century,
trying to trace back in time the beginning of all those phenomena which set up the roots
of the affluent society and consumerism in the Western capitalist world, to focus then
my attention in the period of the Italian “economic miracle” with all the consequences it
had on social, political and economic relations.
73
The first chapter starts by giving a definition of consumerism, aided in this by
different sources which contribute to build a theoretical frame capable of supporting my
critical approach towards modern consumer society and the economic system laying
behind it, namely capitalism. In short, consumerism is the artificially stimulated
creation of new habits of consumption by the industrial apparatus in the context of the
modern mass society. Such new habits tend to contrast with traditional consumption
habits, so that new products and costums need to be widely “cultivated” by
advertisement before rooting definitively in a determinate social context. Another
important characteristic of modern consumer society is that not only consumption of
new goods needs to be accelerated, but also, these new goods proposed to the public
tend to have an artificially limited life span (be it due to the effective bad quality of the
product or be it because it has become out of fashion, socially inducing the need of a
replacement), introducing once again a new potential factor of environmental pollution
and consumeristic exacerbation.
After defining the object of this study, I carry on giving a historical excursus on
the history of consumerism taking into consideration the century that goes from 1873 up
to 1973. I do not analyse the history of the rise of the affluent society in one country in
particular (although many parts of it are referred mainly to the US due to its role as
leading country of world’s capitalism: as a matter of fact, the fundamentals of the
consumer society first appeared in the Twenties in the US). My purpose, instead, is that
of seizing those particular phenomena developed in world’s capitalistic system from the
1873 crisis on. This crisis marks a very important shift in the history of economic
relations: the Great Depression that started in 1873 was the first crisis caused by
overproduction, meaning with this that the availability of goods went over the market’s
capacity to absorb them, causing an abrupt price fall and a series of bankruptcies that
affected mainly the smaller banks and the smaller industrial groups, less capable of
adapting to the new market situation. As a consequence of this, banks and industrial
groups which benefited from bigger capital availability joined together in the race for
the bankrupted societies, giving birth to the first trusts, ancestors of modern
multinational companies. Another reaction to the crisis was the increase of customs
barriers between major European nations, in order to protect local market and national
industry from foreign competition, but as a counterpart, European countries increased
the competition for new colonies in the rest of the world in order to find new markets to
place the increasing amount of goods produced by industry, and at the same time, to
find new raw materials reservoirs, opening the sad season of European Imperialism.
74
This race to conquer new lands managed to avert the risk of war between the European
great Powers for some decades, but eventually it exploded in 1914, seeing the
confrontation of the most powerful nation in the world at the time, Great Britain, and
one of the newcomers on the scene of the industrialized Powers, the German Empire. At
this point one might be tempted to think, “what has all this got to do with the formation
of the consumer society and of consumerism”? Well, while the European Powers
economic and social situation at the end of WWI was completely disastrous, the USA,
which had entered the war in 1917 and did not suffer the weigh of the armies in its
territory, increased its gold reserves and the capacity of its productive system by means
of selling foodstuff, weapons and war materials to the other members of the Entente.
The enormous growth of its industrial system was aided as well by the introduction of
the Taylorist and Fordist models of industrial organisation, which made productivity
figures rise to levels never seen before. When the war was over, much of that industrial
capacity was destined to be seriously cut unless some new market outlet was found to it.
This outlet was to be found in the American population, which consequently underwent
a massive consumerist indoctrination, leading to the abandonment of the traditional
puritan way of thinking, in which saving and self-sufficiency played an important role.
This mentality was constantly demonised by specifically designed advertisement
campaigns that in the course of a decade managed to change an entire society, giving
birth to the first mass consumer society in the world. This situation, so far, could only
be found in the USA, since major European countries would struggle to recover from
the ravages of war throughout the Twenties.
An important challenge to the consumer society was the 1929 Wall Street Crash,
an event that reached global dimensions, affecting not only the most developed nations,
but the whole of the economic system – showing the level of connection reached by
capitalistic economy, not only between the Powers and its colonies, but also between
the financial systems of the rich countries. Traditional economic measures (following
the indications of liberal economist) were not able to solve the problems created by the
Crash, above all unemployment, which was cause of growing social unrest and
industrial paralysis (no jobs meant no wages, thus stagnation). American Trade Unions,
following the positive experience at the Kellogg industries, proposed the “job sharing”
policy, that is to say reducing the numbers of hours each worker had to spend in the
factory in order to give more people the chance of getting an occupation. Implementing
this policy would had meant less working hours and slightly reduced wages, so that
people would have had more free time to spend in non-economical activities, out of the
75
reach of the market. Unfortunately, Roosevelt, who at first seemed to share the Trade
Union’s point of view, fearing retaliation from the owners and the industrial class,
which insisted on saying how dangerous the job sharing policy might have been to the
American working spirit, reducing the USA to an undeveloped state, full of lazy people
and moreover, unwilling to work for more than what was necessary, the real fear for the
American establishment. If people were willing to work just for the amount of time
needed to provide for their living, all the efforts carried out by advertisement campaigns
intended to urge the purchase of new and often unnecessary goods, would have been
vain. The “New Deal” president preferred to approve the NIRA, a series of Keynesian
economic policies aimed at increasing occupation by stimulating the private sector with
public money, increasing the number of civil servants and introducing a plan of big,
publicly financed infrastructures intended to create new jobs and thus bringing the
economy back to life. Even though all the efforts made by the Roosevelt administration
to improve American internal situation, only WWII provided the thrust needed to restart
industrial production and therefore employment and internal consumption.
After World War II, the USA were undoubtedly the first world Power in terms
of economical and military power, having taken advantage of the war to grow at an
impressive rate while again Europe find itself totally devastated after five years of a
shattering war, fought with the precise objective of annihilating the enemy. On the other
bank of the river, a new economic Power is raising from war destruction, the Soviet
Union, proposing a completely different conception of economy, society, politics and
production. The friendship bond that linked the two super Powers in the fight against
the common Nazi-fascist enemy was broken after Roosevelt’s death, starting the atomic
race and Cold War. In this confrontation context, world was divided in influence areas,
the Western and the Soviet blocs, each Power influenced heavily the political and
economical course of the countries belonging to each of the blocs. The USA played an
important role in the reconstruction of Western Europe economies, and at the same
time, it made them complementary to the American monetary system, linking tightly the
fortune of the two sides of the Atlantic. In this new global context, American industry
found the necessary outlet of it productivity directing the amount of goods in excess to
cover the European needs of industrial, agricultural and military goods (the armies of
the North Atlantic Treaty were refurnished by the US), developing the nuclear weapons
sector and increasing internal consumption.
76
This was possible thanks to the appearance of a new mass media: commercial
television. Using the new tool, commercial advertisements reached directly American
homes, giving further impulse to the affluent society and consumerism. The financial
and industrial concentration process continued, reaching almost monopolistic levels,
supported this time by the introduction of a new type of enterprise organisation: the
technostructure. Companies are no longer guided by a sole figure, the omnipresent
capitalist manager, responsible of all the decisions taken. The huge amounts of money
invested in the ideation and production of a new product by modern companies required
a solid network of intermediate groups of highly prepared technical employees, whose
task was to control all the processes linked to the realisation of new products.
Launching a new product or a new line of products has become an extremely delicate
operation due to the amounts of capital and time required by the design, ideation,
planning, manufacturing and advertise, thus it is an essential requirement to guarantee a
large number of customers ready to purchase it. This amount of “willing-to-buy-
customers” is provided thanks to the joint work of advertisement campaigns and
technostructure, in charge of leading the direction publicists should take and, first of all,
of providing the necessary financial support to the advertising system. Other than being
focused on making profit for its company, the technostructure pursues two main goals:
developing to the biggest extent possible, surviving the negative economic periods, and
being able to generate the maximum demand available to the goods it is in charge of
producing and selling.
In the second chapter I deal specifically with the development of the affluent
society in the post-war Italy, that is, from 1948 up to 1973. I have chosen this period in
particular because the birth of this new type of economic and social organisation
coincides with other important novelty: after centuries of misery and sufferings, an
important part of the Italian population can finally receive part of the benefits of
economic growth and live in an political context no longer dominated by small
aristocratic groups or the terror and repression of a fascist regime. After the referendum
celebrated June 2nd 1946, Italians chose democracy, obliging the members of the Savoia
royal house to flee for exile. Democracy, however, didn’t automatically mean enjoying
a better quality of life and total freedom of speech and thought. Being in the context of
the Cold War, with Italy firmly attached to the Western bloc, the relative majority party
(Democrazia Cristiana, or Christian Democratic party) allied with the small pre-fascist
parties, excluded in 1947 the Opposition parties (formed by the Italian Socialist Party
and the Italian Communist Party) from the government of National Unity, obeying an
77
American diktat. This started a period of uninterrupted Christian Democratic
governments which lasted until 1992 when this political stall was swept away by the
Mani Pulite scandals. The strategy of the party was quite simple as a matter of fact: it
consisted mainly in isolating the main Opposition party, the Pci (the Communist Party),
through different alliances with smaller parties in order to find itself always with the
majority of votes in the Houses of Parliament. The lack of a real alternative in the
government of the country meant increasing cases of corruption and patronage politics
causing the waste and embezzlement of colossal sums of public funds, particularly in
Southern Italy, historically the most penalised region in terms of occupation, education,
public safety and wealth. Paradoxically, Southern Italy was the region supposed to
receive most of public funds in order to reach at least the conditions of the North and
Central areas; however, most of the money destined for the South finished in the wrong
hands, filling the pockets of corrupt public servants, criminals, mafia groups and so on,
creating just a series of useless and unproductive industrial sites, totally out of context
in the economy of the Mezzogiorno.73
In this environment of political immobility, the entire country goes through a
deep change in its social composition and in the distribution of the population. The
quick economic growth started in 1948 (thanks to approval in the US of the Marshall
Plan consisting of loans and supply of raw materials and machinery at very
advantageous interest rates). The GDP rates grew constantly until 1963, reaching its
highest peaks from 1958 until 1963 and the extraordinary levels of productivity and
wealth reached all along this years induced historians to call it the period of the
“economic miracle” or “economic boom”. The most important sectors of the period
were mainly car manufacturing and engineering, which explains the elevation of the
FIAT Cinquecento and the Vespa motorbike as symbols of the Sixties in Italy and the
economic miracle. Nothing was left untouched by the miracle: industrial cities in the
North West saw the arrival of several thousands of people which left the economically
depressed countryside hoping to find new life prospects there. The lack of adequate
urban development plans favoured unscrupulous construction entrepreneurs who took
advantage of the need for new housing for the immigrants, becoming responsible of
severe environmental disfiguration and the construction of low quality buildings (which,
other than being architectonically horrendous, lacked of the minimum necessary public
services, such as sewage, public transportation, parks, libraries, etc.). New consumer
73 In analogy with the French word Midi (midday), used in the English language to talk about Southern France; in Italian the same word, Mezzogiorno, is normally used to make reference to Southern Italy.
78
habits coming from the USA and diffused by the mass media, typical of the Western
industrial society started to appear in everyday life. An important role in this diffusion
was played (as in the American case) by television, which started transmissions in 1954,
hitting hard on the traditional peasant society and its cutoms, presenting new lifestyles
and products even in the most remote villages of the Peninsula. The modern mass
consumer society facilitated the emergence of a new social category – young people,
whether adolescent students or young workers – remained for long time in the shadows
of a society that witnessed a very quick passage from childhood to adult life. The other
novelty that helped this emersion was the approval, by the Houses of Parliament in
1962, of the law that established compulsory free education up to the age of 14. Young
people had the chance to know each other (considering as well the growth of the young
population in the post-war time, also known as the baby boom) and stay out of a work
context longer than in the past. The figures of young people that carried on studying
after the compulsory age, reaching the higher levels of education, grew at very high
rates. These young people, who now had the occasion of discovering themselves and the
society in which they lived, would be, from 1968 and afterwards (and even before, as
the backwardness of the Italian Education system had been perceived since the
beginning of the Sixties), protagonists of the massive street riots that intended to attack
not only State immobility (incapable of adapting State laws and regulations to the new
national reality) and corruption, but it was also aimed against Vietnam war, bad
working conditions and the permanence of a rigid class system in most of the public
institutions (starting from schools, universities, and even in the courts of law).
Finally, in the concluding part of the second chapter, I focus on the analysis of
the decade that goes from 1963, the year which marks the end of the miracle, up to
1973, which marks the end of the Sixties euphoria. This abrupt halt will shock all the
Western developed countries, but the particular situation of the Italian political system
and the “winds of change” appeared inside the 1968 political movements and in the
massive 1969 strikes (known as the Autunno caldo or “Hot Autumn”) would greatly
characterise the social reactions to the crisis. In fact, the last part of the Sixties and up to
the mid-Eighties would see the rise of many terrorist groups that intended to shock
Italian population and wanted to favour the creation of an authoritarian dictatorship
from one side (the so called black terrorism); and from the mid-Seventies, as a reaction
to this, more and more extreme left-wing groups decided to apply the same tactic in
order to favour a popular Revolution against the State (the so called red terrorism). At
first, the reaction of the State against these attacks was quite inefficient and weak, and
79
in some occasions even the State was directly involved in some of the bomb attacks,
causing increasing social confusion and the common feeling that the State was merely a
big structure only preoccupied of the relations between parties and favouring the groups
linked with corruption and crime. The total inability of the government to read the
increasing social unrest, and the total refusal to find any agreement with the Trade
Unions, helped and encouraged the explosion of terrorism and also the growth,
especially in the middle and upper classes, of many subtle attitudes against the State,
mainly tax evasion and exportation of capital to tax havens. The sum of all this
particular Italian social and economical characteristics prepare the ground for the
disastrous Eighties74, when the links between crime, politics and Masonic lodges (like
the famous P2 lodge) gave rise to some of the most clamorous scandals of Italian
republican history, accentuating the already big distance between political sphere and
civil society.
The third and final chapter tries to show and analyse the contradictions of the
affluent society in Italy and its bond with capitalism and economical development, as
conceived in the Western world. The affluent society in Italy, even though it contributed
to the modernisation and improvement of life quality in some areas of the country, was
also responsible of the generalisation of many of the most negative characteristics of
capitalism, such as consumerism and the total dependence on imported energy sources.
These contradictions become more and more evident with the worsening of
environmental conditions in the First World countries and with the worsening of
poverty and famine in the Third World, closely linked by the way world economy has
been guided since the end of WWII. Moreover, affluence and the relative social security
provided by national Welfare policies in Europe depend mostly on the success of the
industrial system, which success relies exclusively on the continuous increase of
consumption. Not only employment, but also success and good government of a nation
are measured by the figures of the GDP, leaving aside any possibility of pursuing “anti-
economic” or “anti-consumerism” policies which may result in a real improvement in
the conditions of life. In my analysis I also deal with the kind of requests made to the
establishment by major Trade Unions during the “Hot Autumn”: in fact, they limited
their request just to economics. Their main goal was to reach the same wage and
consumption levels present in the bourgeois classes, forgetting that even reaching those
levels without a radical change of the rules which guide economic relations, the gains
74 Guido Crainz, in his book Il paese mancato, called the Eighties “the catastrophe”.
80
were relative, only with regards to the material aspects. But it is well proved that an
improvement of the economical situation in a general context which is characterised by
poor social relations, pollution, oil wars, political decay and competition at all levels
cannot be considered as an actual improvement. The very concept of affluence and
wealth should be reviewed considering the weak basis on which it is founded, and why
not, the very economic and social system that lies on top of it. This is the system that
considers “normality” the increasing social insecurity in the First World (how long will
Welfare States and worker’s rights resist the attacks of those economists which consider
those social warrants just as an obstacle to the development of economy?), and misery,
famine, death and tyranny in the Third World. On behalf of this view, I would like to
add this quotation which concisely describes the nature of capitalism, the system I was
referring to before:
Capitalism is constituted by class exploitation, but capitalism is more than just a
system of class oppression. It is a ruthless totalizing process which shapes our lives in
every conceivable aspect, and everywhere, not just in the relative opulence of the
capitalist North. Among other things, and even leaving aside the direct power wielded
by capitalist wealth both in the economy and in the political sphere, it subjects all social
life to the abstract requirements of the market, through the commodification of life in all
its aspects, determining the allocation of labour, leisure, resources, patterns of
production, consumption and the disposition of time.75
In the crusade for profit, even democracy and constitutional rights are constantly
menaced by the urgent needs of capitalism everywhere in the world, influencing not
only politicians (nowadays multinational groups have got more influence and power on
politicians than their electors) but even the way in which elections are carried out.
Political campaigns use the same techniques used by advertisers to sell products and
very little space is left to real debate and discussion about real political issues; image
and propaganda always seems to come first.
75 Meiksins Wood, Ellen, Democracy against capitalism, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 262-3.
81
Ringraziamenti
Vorrei in primo luogo ringraziare Olga e Artenio, i miei genitori, per il
loro contributo nella correzione e nella lettura delle prime bozze di questa tesi; grazie a
loro sono riuscito ad arrivare fino in fondo nella stesura di questa tesi. Mi preme anche
ringraziare i loro costanti contributi bibliografici e spunti di riflessione, nonché lo
spirito critico che ho sin da piccolo appreso da loro, d’estrema utilità nell’affrontare le
diverse tematiche e argomenti presenti in questo lavoro. In secondo luogo, vorrei
ringraziare tutti gli amici e i compagni, sia udinesi che bolognesi, i quali col loro
costante incoraggiamento e supporto mi sono stati sempre vicini nel travagliato periodo
di gestazione e stesura della tesi.
82
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