Teorie del cinema - Sapienza Università di Roma del cinema 1.pdf · Christian Metz, André Bazin,...
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Teorie del
cinema
Prof. Giovambattista Fatelli
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Estetica cinematografica
Gli umili natali come fenomeno da baraccone, l’essenza
banalmente meccanica, le concessioni allo spettacolo e il
carattere commerciale di gran parte della produzione non
hanno aiutato il pensiero filosofico e il ragionamento teorico a
concentrarsi sul cinema, che però ha finito ugualmente per
occupare pian piano uno spazio sempre più importante nella
cultura del Novecento.
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Cinema e arte
Come già sappiamo, la dimensione
artistica è stata la prima aspirazione del
cinematografo, ma solo all’inizio degli
anni Venti, grazie ai miglioramenti
tecnici nelle riprese, alla raffinatezza
delle immagini e all’impiego di cifre
metaforiche e allusive, alla capacità di
confezionare in serie prodotti sempre
più interessanti, il cinema supera la
fase del velleitarismo e può seriamente
reclamare i titoli per entrare nel novero
delle arti contemporanee.
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Cinema e arte
Questo processo - avallato dall’insorgente attenzione dell’arte
moderna, soprattutto delle avanguardie, per il linguaggio del
cinema - si traduce nella considerazione di molti film come
vere e proprie «opere d’arte» e, dal canto suo, l’efficacia
spettacolare che trascina le masse ha condotto il nuovo
mezzo a un grado di maturità linguistica che influenza in modo
significativo la riflessione nella cultura e nelle arti figurative.
(Experiment in Terror, Blake Edwards 1962)
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Cinema e arte Il labirinto delle passioni (1925), il primo film di Alfred Hitchcock.
Le vere chiavi per entrare nel Parnaso sono tuttavia
l’individuazione di un peculiare concetto di «autore», allorché
nella massa degli operatori si distinguono i privi veri registi, e
soprattutto di forme espressive caratteristiche tali da
indirizzare la riflessione verso la determinazione di uno
«specifico filmico», che metterà in questione gli elementi
distintivi della nuova forma di espressione artistica.
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Cinema e arte
Con il tempo, grazie ai contributi
di pensatori come Walter
Benjamin, Siegfied Kracauer,
Béla Balázs,Léon Moussinac,
Christian Metz, André Bazin,
Georges Sadoul, Gilles Deleuze
e molti altri, si profila un’Estetica
del cinema come disciplina
autonoma che demarca un suo
spazio riconoscibile e autonomo
per la teoria del cinema.
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Teorie del cinema
Dopo la «macchina economico-industriale», che sostiene la
produzione e la circolazione dei film, e quella «psicologica», che
ne regola la comprensione e il consumo, per usare i termini di
Christian Metz, si avvia la terza macchina del cinema: quella
«discorsiva» che stabilisce gerarchie di valori e confronti con
altri fenomeni, contribuisce a rendere intelligibile quanto viene
prodotto e consumato, inquadra le novità, stimola le aspettative.
Christian Metz
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Teorie del cinema
Gli approcci teorici al cinema, inizialmente molto esitanti come si
è visto, si portano appresso una grande variabilità di prospettive
e un forte debito con gli sviluppi pratici del mezzo, ma risultano
generalmente unificati dalla vocazione a inquadrare il cinema
nel suo complesso (sia come dispositivo che come linguaggio,
forma d’arte peculiare o medium tra i media), mentre l’analisi
delle singole opere nella loro specificità genererà il settore della
«critica cinematografica».
Goffredo Fofi
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1916, a Santa Barbara si gira Youth’s Endearing Charm
All’edificazione del «nuovo» ambito di riflessione contribuiscono
dall’esterno scrittori, giornalisti e intellettuali sedotti (o disgustati)
dal cinema e, dall’interno, molti operatori che, anche perché
impegnati nell’insegnamento o nella promozione dei propri film,
sentono viva l’esigenza di emancipare la loro «professione»
dalle routines produttive e del divertimento fine a se stesso
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Estetica cinematografica
Anzi, le riflessioni degli addetti
ai lavori (registi, attori, critici,
ecc.) che, sulla base della loro
esperienza, tentano di
sviluppare una riflessione sul
significato del loro lavoro a tutti
i livelli (poetico, estetico,
tecnico-espressivo, critico e
sociale), appaiono spesso più
interessanti degli approcci
sempre piuttosto diffidenti degli
intellettuali e dei letterati. Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (1898-1948)
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Mentre le continue innovazioni suscitano riflessioni sempre più
approfondite, si delinea così nei fatti una scissione dell’idea di
regia come confezionamento efficace di un prodotto industriale
e percorso espressivo mosso da obiettivi formali e artistici.
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Le analisi investono i rapporti tra il cinema e le altre forme d’arte,
fra il linguaggio del film e l’analisi letteraria e animano il dibattito
teorico sulla «qualità estetica» del nuovo mezzo, alimentato a
sua volta dalle riflessioni sul montaggio, dalla catalizzazione di
una diffusa ansia di rinnovamento, dai dubbi su come e dove
collocare il cinema nel panorama delle arti contemporanee.
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In altri casi intervengono intellettuali e scrittori che trovano nel
cinema interessanti elementi di sintesi rispetto alla crisi
epistemologica, sociale e politica che agita la cultura europea.
Ma, pur mosso da bisogni circoscritti, e non di rado sfociando in
una formula («uomo visibile», «montaggio delle attrazioni»), il
discorso sul cinema tende a diventare sempre più organico.
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Si punta a mostrare la crucialità del cinema sul piano estetico,
ma anche su quello linguistico e psicologico, ponendo questioni
che riguardano le implicazioni sociali del fenomeno e la
«valutazione» della sua presenza in termini culturali e morali.
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C’è infatti in questo spettacolo popolare un quid che continua a
schivare il controllo istituzionale e delle élites intellettuali: i
messaggi visivi “funzionano meglio” quando sfuggono all’intento
pedagogizzante, assumendo così, agli occhi del potere, toni
suadenti e inoffensivi, ma anche un timbro fastidiosamente e
irriducibilmente antagonistico.
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Francis Crémieux, Louis Aragon e Léon Moussinac dopo la Liberazione
Nel 1924 viene pubblicato a Vienna Der sichtbare Mensch, oder
die Kultur des Films, di Béla Balázs e l’anno dopo esce La
naissance du cinéma di Léon Moussinac
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Der sichtbare Mensch
L’uomo visibile di Balázs (che
suscita l’ammirazione di
Musil e la polemica di
Ejzenstejn) offre la prima
compiuta formulazione dei
caratteri originali del nuovo
mezzo: la prestazione
particolare degli attori, il
fascino dei primi piani, il ruolo
degli oggetti e del paesaggio,
la tendenza al «fantastico»,
la nozione di stile.
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Béla Balázs
Béla Balázs, nato in Ungheria nel 1884, vive l’atmosfera vivace
del primo dopoguerra in Austria e poi nella Germania di Weimar,
occupandosi di teatro e di cinema ma anche scrivendo drammi,
poesie, romanzi e fiabe, libretti d’opera e testi radiofonici. Nel
1932 abbandona il paese per Mosca, dove insegna al VGIK,
l’Istituto statale pan-russo di cinematografia fondato nel 1919,
per tornare dopo la guerra in patria, dove muore nel 1949.
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Béla Balázs
Balázs non è solo un teorico ma
partecipa anche spesso al
concreto lavoro cinematografico.
Dopo aver scritto diverse
sceneggiature, nel 1931 collabora
con Pabst all’adattamento de
L’opera da tre soldi di Brecht e
nel 1932 con Leni Riefenstahl per
la realizzazione de La bella
maledetta. Tornato in Ungheria
nel 1945, continua a occuparsi di
sceneggiatura e dialoghi.
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L’uomo visibile
La ricerca di Balázs muove dall’idea che il
cinema sia un macchina che traduce e
diffonde tra le masse una precisa visione
del mondo: è quindi un medium, un mezzo
per elaborare e far conoscere informazioni,
che a loro volta incidono sul modo di
pensare e di agire di chi le acquisisce.
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L’uomo visibile
Balázs intuisce subito la
grande importanza linguistica
e sociale del nuovo mezzo,
che, aldilà dell’aspetto
artistico, considera
un’autentica Weltanschauung,
una novità antropologica che
rivoluziona la società
moderna, pari per importanza
solo all’invenzione della
stampa e meritevole di attenta
analisi.
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L’uomo visibile
L’uomo visibile è quindi
soprattutto una teoria delle
peculiari risorse espressive del
corpo, riscoperte e rilanciate
dall’immagine in movimento in
conflitto con l’astrazione della
scrittura e del linguaggio
verbale, lasciando emergere una
concezione del cinema come
grande dispositivo simbolico
guidato dai medesimi principi
dell’espressionismo.
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L’uomo visibile
Balázs ritiene infatti che la
stampa abbia reso illeggibile
con il tempo il volto degli
uomini, che hanno finito per
trascurare l’altra forma di
comunicazione, la lingua,
madre della mimica «così
dallo spirito visibile si è
passati allo spirito leggibile: la
cultura visiva si è trasformata
in concettuale».
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Ong
Nel suo libro Oralità e Scrittura (Orality
and Literacy: The Technologizing of the
word, 1982) Walter Ong afferma che «la
scrittura ha trasformato la mente umana
più di qualsiasi altra invenzione».
Considerata come una tecnologia, che
alla sua comparsa fu accusata di alienare
la mente, distruggere la memoria e
annullare il dialogo, ha iniziato la lunga
parabola che porta alla stampa e ai
computer.
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Ong
Ong sostiene che la parola è un mezzo
naturale, mentre la scrittura è artificiale: lo
scritto non nasce dall’inconscio, a differenza
del parlato, ma proprio per questo è una
«tecnica» essenziale per lo sviluppo del
potenziale interiore dell’uomo. Le tecnologie,
lungi dall’essere semplici protesi, incidono
sulle strutture mentali e vanno usate
propriamente per migliorare la vita umana.
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L’uomo visibile
Lo studioso ungherese legge
questo impoverimento in termini
marxiani, come la reificazione di
un uomo ormai vuoto, senza
anima, che può sperare nel
cinema una nuova salvezza che
saturi la frattura tra anima e
corpo grazie a una macchina che
paradossalmente sembra in
grado di incrementare le
potenzialità dello spirito, in un
circolo virtuoso fra arte e tecnica.
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L’uomo visibile
In questo modo, si
riconferma l’idea che
quella cinematografica sia
una summa di tutte le altre
arti, dotata di un
linguaggio specifico che,
come sosterrà anche il
regista Pudovkin, sarà in
grado di rendere l’uomo
nuovamente «visibile».
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L’uomo visibile
La visione del cinema di Balázs è dunque
positiva: esso infatti può riavviare quella
cultura visiva, fondata sulla forza espressiva
del corpo umano, che la cultura concettuale
tende ad atrofizzare. In quest’ottica si
comprendono meglio anche le formule usate
da Balázs, che cercano di dimostrare che il
potenziamento percettivo realizzato dal
cinema non implica tanto lo smascheramento
della sovrastruttura ideologica del reale
quanto la riscoperta della realtà fisica, e in
particolare della realtà del corpo, dell’uomo.
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Allievo di Dilthey e Bloch, Balázs ha una formazione filosofica:
conosce Bergson e Simmel ed è legato a Lukács da un lungo
sodalizio; egli trasporta quindi nell’analisi del film la sua
formazione fenomenologica, e poi la lezione marxista, a partire
da una diretta connessione del cinema col sostrato dell’Erlebnis.
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Diversamente da Kracauer, che vede nel film una riproduzione
della realtà passiva, fotografica, «realistica», Balázs pensa che
le inquadratura svelino, sotto specie di «esperienza vissuta», le
«forme esistenti» della realtà. Anzi, grazie al montaggio, il
cinema riesce a dare «consistenza (…) a ciò che è invisibile» e
a stabilire un contatto perfino con l’inconscio dello spettatore.
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Per Balázs il cinema è una grande e misteriosa macchina che
permette di «riscoprire» il mondo che si è abituati a dare per
scontato, di «vederlo» cioè veramente per la prima volta.
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Der Geist des Films
Nel 1930, all’indomani del successo del
sonoro, Balázs pubblica Der Geist der Film,
un’opera dal titolo hegeliano che affronta
anche la nuova realtà tecnica, sebbene ancora
da una prospettiva cronologico-progressiva.
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Der Film
Gli scritti sulla cultura «visiva» del
cinema muto e sulle diverse
possibilità offerte dal sonoro
confluiscono nel libro che compendia
la sua esperienza didattica
moscovita: Der Film: Werden und
Wesen einer neue Kunst (1945), in
cui rielabora il suo discorso senza
scindere tra muto e sonoro, dando
una nuova impostazione ai principi
teorici già espressi e riconsiderandoli
alla luce della nuova tecnica.
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Der Film
Nel saggio-collage , in cui riprende
tutto il lavoro teorico contenuto in
Der sichtbare Mensch e Der Geist
des Films, Balázs vuole stabilire le
regole e la sintassi nuova di
quest’arte nata dal capitalismo,
omogenea ma contraddittoria,
poiché nel contrasto tra parola a
stampa (alienata) e immagine
incarnata che rende visibilità al corpo
si replica quello tra valore di scambio
e valore d’uso caro al marxismo.
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Der Film
Ma quali sono gli elementi
specifici che definiscono il
linguaggio del cinema (secondo i
dettami della storia dell’arte del
periodo - C. Fiedler e K.
Hildenbrandt – che vogliono le
leggi e le regole sintattiche di
ogni arte determinate dai
materiali specifici di queste
discipline)? Il cinema deve
esprimere quello che né la pittura
né il teatro possono o sanno fare.
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Der Film
A differenza del teatro la vera sostanza poetica, la «materia
primigenia» del film, il «gesto visibile» che si ottiene con il solo
«materiale incontaminato della pura visualità». Il vero testo del
film è la sua «tessitura», che emerge sotto gli occhi collaborativi
del pubblico, nel «respiro della narrazione», determinato
dall’artificio d’attrazione e dalla durata (bergsoniana) del
montaggio, che crea un ritmo molto simile al metro poetico.
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Montaggio
I due cardini della «tessitura», nell’estetica del cinema di Balázs,
sono il primo piano e il montaggio, o, per usare la sua metafora
fiorita, il Bilderführung, guida delle immagini oppure «forbici
poetiche». Un autentico regista deve infatti convogliare le
sensazioni, magari facendole affiorare dall’inconscio dello
spettatore. È infatti «Il montaggio come associazione visiva [che]
conferisce alle singole immagini il significato definitivo».
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Primo piano
Ma le inquadrature non si devono coniugare secondo un modulo
discorsivo-letterario, anche perché ognuna ha a disposizione
soltanto il presente (pure quando ricorda) ed è carica di un
significato nascosto che emerge dalla successione con le altre.
A questo punto interviene il primo piano, «la poesia del film»
che, a differenza del teatro, crea una vicinanza privilegiata alla
micro-fisionomia e suggerisce un massimo di intensità
drammatica con minimi mezzi.
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Primo piano
Balázs considera il primo piano come un microcosmo autonomo
e significante, affrancato da spazio e materia, come ne La
passion de Jeanne d’Arc (1927) di Dreyer. Eppure, anche se
libero e imprevedibile e disgiunto dal tessuto del racconto, il
primo piano non deve mai essere fine a sé stesso, fuori dalle
logiche del dramma. In questo senso Balázs polemizza con
l’impressionismo francese e con tutti gli artifici estetizzanti.
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Primo piano
Neppure apprezza la poetica «deviante» del Dr. Caligari di
Wiene, in cui «non è l’inquadratura che capovolge e deforma gli
oggetti», mostrando lo stato d’animo di un personaggio, ma è la
scenografia dominante del film a essere distorta. Il primo piano è
dunque una sorta di atomo-microcosmo che deve rispecchiare
l’intero film.
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La tristezza della Garbo
La bellezza della Garbo non è solo un’armonia di linee, né solo
un ornamento. La sua bellezza contiene una “fisionomia” che
esprime un preciso stato d’animo. Come i volti di tutti gli attori,
quello di Greta Garbo cambia durante la scena; ride ed è triste,
è sorpresa o arrabbiata, come prescritto dalla parte. (…) Ma
dietro questa varietà di espressioni facciali noi possiamo sempre
vedere il suo viso immutato, l’immutata espressione che ha
conquistato il mondo. Non è solo bellezza, ma una bellezza dal
significato particolare, che esprime una cosa specifica. Quale?
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La tristezza della Garbo
Greta Garbo è triste. Non solo in certe situazioni, per certi
motivi. La bellezza della Garbo è una bellezza dolente; ella
patisce la vita e tutte le sofferenze del mondo. E questa
tristezza, questa pena è molto chiara: esprime il dispiacere della
solitudine, di un estraneo che non sente nessun legame con gli
altri esseri umani. La tristezza della nobiltà interiore di una
purezza reticente, dell’appassire di una pianta sensibile sotto un
tocco rude, specialmente quando interpreta il ruolo di puttanella
squattrinata. Le sue occhiate pensierose allora emergono e si
perdono nell’infinito. È in esilio in un terra distante e non ci dice
nulla per farci sapere come è arrivata lì.
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Ma perché questo tipo di strana bellezza dovrebbe
appassionare profondamente milioni di persone più di qualche
brillante pin-up? Qual è il significato dell’espressione della
Garbo? Noi sentiamo e vediamo la bellezza della Garbo come
più nobile e raffinata precisamente perché porta stampati il
dispiacere e la solitudine. Per quanto armonioso possa essere
un viso, se sorride di contentezza, se è luminoso e felice, se
esso può essere luminoso e felice in questo nostro mondo, deve
necessariamente appartenere a un essere inferiore.
La tristezza della Garbo
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Persino una persona insensibile può capire che una bellezza
triste e sofferente, gesti che esprimono orrore per un mondo
corrotto designano esseri umani di rango più elevato, un’anima
più pura e nobile, aliena dal sorriso e dall’allegria. La bellezza
della Garbo è di quelle che si oppongono al mondo di oggi.
Milioni di persone vedono nel suo volto una protesta contro
questo mondo, gente che può perfino non essere ancora
cosciente della propria sofferente protesta; ma essi ammirano la
Garbo per questo e trovano la sua bellezza la più bella di tutte”.
Bela Balazs, Theory of film: Character and Growth of a New Art (1952)
La tristezza della Garbo
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In Cinéma et réalité (1928), uno scritto introduttivo al film La
coquille et le clergyman, Antonin Artaud, rifiutando sia il concetto
di cinema astratto che quello di cinema psicologico e d’intreccio,
individua lo sviluppo futuro nell’invenzione di un linguaggio che
possa aderire alla convulsa materia della vita e invoca un
cinema che riproduca i meccanismi del pensiero.
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Artaud
Due vie sembrano oggi aprirsi al cinematografo e nessuna delle
due è certamente la buona. Il cinematografo puro e assoluto da
una parte e dall’altra quella specie di arte venale ed ibrida che
s’ostina a tradurre in immagini più o meno felici situazioni
psicologiche che starebbero benissimo sulla scena o nelle
pagine di un libro, ma che stanno malissimo sullo schermo, non
esistendo che come riflesso di un mondo che attinge altrove la
sua materia e le sue significazioni.
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Artaud
Fra l’astrazione visiva puramente lineare (in un gioco di ombre e
di luci come in un gioco di linee) ed il film a fondamento
psicologico, compongano o non una vicenda drammatica, c’è
posto per uno sforzo verso il cinematografo di cui nulla nei films
presentatici fino ad ora intuisce la materia ed il valore.
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Artaud
Nei films a peripezia tutta l’emozione e tutto l’umorismo riposano
unicamente nel testo ad esclusione dell’immagine; salvo rare
eccezioni quasi tutto il pensiero di un film è nelle didascalie:
anche nei films senza didascalie l’emozione è verbale e richiede
lo schiarimento e l’appoggio delle parole perché le situazioni, le
immagini, gli atti, gravitano tutti attorno ad un significato ben
chiaro.
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Artaud
Non si tratta di trovare nel linguaggio visivo un qualsiasi
equivalente tecnico del linguaggio scritto di cui il linguaggio
visivo non potrebbe essere che una cattiva traduzione, ma di far
apparire l’essenza stessa del linguaggio, e di trasportare
l’azione su di un piano in cui ogni traduzione diventa inutile ed in
cui l’azione opera quasi intuitivamente sul cervello.
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Artaud
La pelle delle cose, il derma della realtà ecco qual è anzitutto il
campo del cinematografo. Esso esalta la materia: ce la fa
apparire nella sua spiritualità profonda, nelle sue relazioni con lo
spirito da cui essa nasce. Le immagini nascono, si deducono le
une dalle altre in quanto immagini impongono una sintesi
obbiettiva più penetrante di qualunque astrazione e creano
mondi autonomi.
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Artaud
Ma da questo gioco di pure apparenze, da questa specie di
transustanziazione di elementi nasce un linguaggio inorganico
che agita lo spirito per osmosi e senza nessuna specie di
trasposizione delle parole. E per il fatto che si serve della
materia stessa, il cinema crea situazioni che provengono da un
semplice gruppo di oggetti, di forme, di repulsioni, di attrazioni.
Non si separa dalla vita, ma ritrova la disposizione primitiva
delle cose.
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Artaud
Il films più riusciti in questo senso sono quelli in cui regna un
certo umorismo come i primi Max Linder, come gli Charlot meno
umani. Il cinema, mondo di sogni che dà la sensazione fisica
della vita pura trionfa nel più eccessivo umorismo: un dato
agitarsi di oggetti, di forme, di espressioni non si traduce bene
se non nelle convulsioni e nei soprassalti di una realtà che
sembra distruggere se stessa con una ironia in cui sono le
risonanze stesse estreme dello spirito.
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Léon Moussinac (1890-1964)
Di formazione umanistica, Moussinac
inizia presto a occuparsi di arti e
spettacolo, collaborando con la rivista di
Canudo, con cui fonda il Club des Amis
du septième art, e curando la prima
rubrica di cinema sul prestigioso Mercure
de France dal 1920 al 1927. Considerato
uno dei padri della critica e della teoria
del cinema, è tra i protagonisti del
movimento per la legittimazione artistica
della nuova forma espressiva che si
sviluppa in Francia negli anni Venti.
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Léon Moussinac
Colpito dalle potenzialità del cinema che
considera, sulla scia di Canudo, un’arte
sintetica (la «settima») capace di collegare le
forme espressive in una prospettiva originale
e contemporanea, unisce all’opera teorica e
critica l’attività di promozione. Membro del
partito comunista francese (e critico de
L’Humanité dal 1922 al 1933), si adopera
per diffondere in Francia il cinema sovietico.
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Léon Moussinac
Nei suoi primi testi teorici, Naissance du cinéma (1925) e
Cinéma: expression sociale (1926), Moussinac, in sintonia con
Louis Delluc e Jean Epstein, individua nel cinema (come tecnica
e come forma che colpisce i sensi dello spettatore) la modalità
espressiva che meglio rende l’immagine della contemporaneità.
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Léon Moussinac
In seguito a un viaggio in URSS nel 1927, durante il quale
conosce Ejzenštejn, Moussinac pubblica Le cinéma soviétique
(1928) e la sua ricerca teorica si allontana dal dibattito francese,
accentuando una concezione «realista» del cinema, destinato a
restituire le contraddizioni del reale; in Panoramique du cinéma
(1929) individua l’elemento distintivo nel montaggio, sintesi di
scienza e arte, elemento linguistico della realtà che il cinema
porta al culmine delle sue potenzialità.
Aleksandr Deineka, La difesa di Pietrogrado, 1928
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Léon Moussinac
Una particolare influenza,
proviene dal lavoro di Dziga
Vertov, cui Moussinac
dedica diversi scritti che
sottolineano le potenzialità
della tecnica cinematografica
nella ricostruzione creativa
della realtà. Moussinac
partecipa alla Resistenza e
dopo la Seconda guerra
mondiale ricopre diversi
incarichi prestigiosi.
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• Mario Verdone, Drammaturgia
e arte totale: l’avanguardia
internazionale: autori, teorie,
opere, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2005
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• Angela Madesani, Le icone
fluttuanti. Storia del cinema d’artista
e della videoarte in Italia, Bruno
Mondadori, Milano 2002
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• Massimo Cardillo, Tra le quinte del
cinematografo: cinema, cultura e
società in Italia 1900-1937, Edizioni
Dedalo, Bari 1987
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Opere di riferimento
• J. Mitry, Storia del cinema
sperimentale, Clueb, Bologna 2006
(1971);
• Luciano Caruso (a cura di), Manifesti,
proclami, interventi e documenti
teorici del futurismo 1909-1944,
Spes-Salimbeni, Firenze 1980;
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Opere di riferimento
• Antonio Somaini (a cura
di), László Moholy-Nagy.
Pittura, fotografia, film,
Einaudi, Torino 2010;
• Vsevolod Illarionovič
Pudovkin, La settima
arte, Editori Riuniti,
Roma 1961.