DAL LIBRO DELLA SAPIENZA La proverbiale sapienza di Salomone.
Studio - La Sapienza -Roma- La Logica Originaria in Heidegger
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Transcript of Studio - La Sapienza -Roma- La Logica Originaria in Heidegger
La logica originaria in Heidegger
di Massimo Vignola
Facoltà di Filosofia
Università di Roma "La Sapienza"
Relatore: Paolo Vinci
Correlatore: Edoardo Ferrario
Anno accademico: 2004-2005
La logica originaria in Heidegger
Indice:
1 - Introduzione .................................................................................................................. 2
2 - Il λόγος nella filosofia di Heidegger ............................................................................. 7
3 - Ordine e dovere ........................................................................................................... 27
3.1 Il problema della regola....................................................................................... 27
3.2 La mancanza dell’essenza del regolare nella filosofia occidentale ..................... 36
4 - Il progetto di una ridefinizione del pensiero rigoroso ed il confronto con il
ragionamento normativo................................................................................................... 53
5 - Logica originaria ......................................................................................................... 81
5.1 Apollineo ............................................................................................................. 82
5.2 Configurazione naturale - cosmica dell’ordine ................................................... 88
5.3 Ordine logico ....................................................................................................... 99
6 – Conclusione .............................................................................................................. 111
Necessità..................................................................................................................... 112
Bibliografia..................................................................................................................... 121
1
1 - Introduzione
A partire dalle opere giovanili, fino alle ultime conferenze, nel pensiero di Heidegger
emerge un’istanza fortemente strutturante.
La questione di un ordine o di una regolarità si attesta con continuità, sia in modo diretto
come nell’analisi del λόγος, sia implicitamente nell’architettura delle argomentazioni, nelle
scelte lessicali e negli ambiti semantici richiamati. Viene delineato un ordine determinante,
la cui stringenza però non risulta facilmente riconoscibile, e, comunque, non nella modalità
più consueta di una causa efficiente: a suo riguardo una estensione generale può essere
fraintesa con una sostanziale indifferenza, la sua preminenza e non deducibilità può evocare
impropriamente l’idea di assoluto.
Questa tesi si assume il compito di individuare ciò che è proprio di tale ordine, il suo tratto
caratterizzante e il senso del suo manifestarsi. Il tema della nostra analisi sarà dunque la
configurazione originaria in cui l’essere ed il pensiero si dispongono in base ad una
cogenza. L’attenzione verrà così rivolta alle dinamiche insite in quella nozione di
“medesimo” – che il filosofo reputa massimamente degna di indagine – nella quale, a
partire dall’idealismo, non viene più indicata la mera coincidenza dell’uguale ma si apre la
strada all’interpretazione di una “coappartenenza“, cui non sono estranee una contesa ed un
accordo.
2
In virtù del livello originario del tema, il significato di parole quali legge, ordine o regola
non può essere semplicemente applicato a ciò che esse devono descrivere. Di pari passo
con la chiarificazione della logica di Heidegger, infatti, i termini impiegati per definire il
tema saranno a loro volta pensati e parzialmente ridefiniti in base al loro “oggetto“. Già a
livello procedurale si ha quindi a che fare con una petitio principi che segna
inequivocabilmente lo scarto rispetto al pensiero rigoroso tradizionale.
Lo stesso argomento che si intende affrontare, sebbene ad esso siano dedicati molti scritti,
e, in particolare, l’illuminante corso del ’44 sulla dottrina eraclitea del λόγος, non è
preliminarmente del tutto acquisito. Infatti, uno studio che, come il presente, approfondisca
un aspetto all’interno di un’ampia impostazione di pensiero, e che quindi debba isolare una
questione nei limiti necessari ad un’analisi critica, ha bisogno di ribadire in modo esplicito i
propri presupposti. Ad imporre questa esigenza è il passaggio dalla speculazione e dal
linguaggio heideggeriano ad un qualsiasi punto di vista che non si annulli nell’adesione
completa alla prospettiva del filosofo. Pertanto, prima di considerare il senso della logica
originaria, bisogna comprendere in che modo si mostri un rapporto possibile tra
l’originarietà da una parte ed il dover-essere che un ordine esprime dall’altra.
Il rapporto in questione sarà pensato attraverso il concetto di regola – o, meglio, attraverso
il “regolare” che rende il valore attivo del λόγος – nel quale si verifica un ambiguo contatto
3
tra senso e alterità. Il “luogo teoretico“ della regola, in cui si dispiega l’originarietà, si
rivelerà quindi essere la nozione di limite, intesa al modo greco come πέρας.
Si parla qui volutamente di luogo, seguendo la consuetudine di un tipo di pensiero
rappresentabile, nonostante Heidegger abbia scelto di percorrere con una drasticità ben nota
le vie rischiose dell’impensato, dove le etimologie alludono e danno segni incerti, e dove
frecce e grafici, che saprebbero dar conto perfino dell’autorevole parola di Kant, si
dimostrano del tutto inutili. Nel pensiero del filosofo, infatti, l’approfondimento del λόγος
si rapporta alla riflessione sullo spazio, colto però a partire dal concetto di luogo che si
dischiude al soggiornare umano presso le cose. Per quanto concerne il λόγος, quindi,
avviene una localizzazione già a livello antepredicativo, nel colpo d’occhio della
comprensione che pone l’uomo in un mondo oltre la geografia dello spazio oggettivo,
nell’implicita consapevolezza di una proggettualità in cui è possibile muoversi. Il λόγος
viene pertanto interpretato, in primis, come struttura della comprensione.
Il dispiegamento del senso nella comprensione risulta tuttavia possibile solo in virtù di una
disposizione strutturante che sia orientata dalla trasparenza della verità che si delinea nel
destino dell’essere. Il λόγος viene quindi pensato come l’ordine originario dell’essere stesso
e, di conseguenza, del modo in cui l’essere si dona storicamente nelle varie epoche e del
rapporto tra uomo ed essere. In breve, il proprium del λόγος si raccoglie intorno al senso
4
del destino: la Moira, rispetto al Λόγος , esprime un condizionamento simile a
quell’obbligo, a quel dover-essere, senza il quale una regola non sarebbe tale.
Nella logica originaria si radica così un carattere di comando, nonostante valga una
reciprocità nel rapporto tra uomo ed essere nell’Ereignis, e nonostante l’essere si dia.
Nelle stesse parole impiegate da Heidegger nell’analisi del λόγος si registra un’insistenza
su verbi quali «governare» ed «ubbidire», nelle loro varie forme e declinazioni, e su
concetti quali «legge», «ordine» e «misura». La premessa allo studio sui pensatori aurorali,
il richiamo all’apollineo, conferma, poi, ancora più decisamente quest’interpretazione.
Heidegger ha sempre manifestato l’esigenza di una stringenza che orientasse il pensiero in
modo rigoroso, a partire dal progetto di un’ermeneutica della fatticità, quando, sulle orme
di Husserl, ha tentato di sviluppare un pensiero che fosse cogente senza essere incluso nel
modello logico scientifico – e sottoposto quindi ai suoi assiomi.
Nella ricostruzione della storia del pensiero occidentale la legittimazione di una stringenza,
di un obbligo, che si distingua da quello inessenziale che vige nel paradigma onto-teo-
logico, si annuncia nell’autonomia che permette al λόγος sia di provocare l’imposizione
della tecnica sia di «portar fuori» l’essenziale al modo della poiesis greca. Nel modo più
chiaro questo obbligo necessario – cioè radicato nella necessità dell’essere – viene
5
tematizzato nelle ultime pagine di Introduzione alla metafisica, laddove la parabola della
metafisica viene letta in base alla delimitazione dell’essere rispetto al dovere.
In conclusione, ciò che si oppone alla logica tradizionale, ossia il pensiero definito dalla
logica originaria, risulterà più stringente in quanto orientato dal destino. Ed il tipo di
cogenza che si impone sarà più determinante poiché, al contrario di un obbligo generico,
ininfluente – come può essere quello dell’inevitabilità di un ordine pregresso – essa
dipenderà dalla necessità dell’essere.
Tale pensiero, pur rimanendo ad uno stadio preparatorio, può essere presentato, in concreto,
attraverso i propri tratti fondamentali: in primo luogo esso non deve essere separato o
indifferente rispetto a ciò che pensa, e la sua essenza deve essere poietica anziché tecnica;
viene così ricercato un pensiero che sia rigoroso ma non oggettivo, che sia riflettente ma
non deduttivo e che sia in grado di affrontare il negativo senza superarlo, senza essere
dialettico. Un tale pensiero deve seguire un cammino senza per questo andare “avanti” e,
soprattutto, deve essere capace di pensare la propria origine ed il proprio altro.
6
2 - Il λόγος nella filosofia di Heidegger
Nell’avvicinamento preliminare alla filosofia heideggeriana, si vuole evitare di
decontestualizzare il λόγος dall’insieme dei motivi ai quali è legato, e pertanto, se possibile,
si lascerà che il nostro tema dispieghi il proprio senso in base all’intima necessità con la
quale viene incontrato.
Come si affaccia dunque il λόγος al pensiero della differenza?
La parola guida compare in riferimento alla comprensione, all’interpretazione e al
fondamento, ed è da queste nozioni che, di conseguenza, prende l’avvio il lavoro della
nostra tesi.
Il confronto con i termini chiave della filosofia presocratica, in primis la φύσις, il νοε̃ιν, il
κόσμος, l’ αρμονία e la Μοι̃ρα, è in un certo senso più denso di implicazioni, ma il legame
del λόγος con il fondamento e la comprensione non verrà meno neanche di fronte agli
sviluppi ultimi della domanda sull’essere e all’approfondirsi della riflessione sull’Ereignis.
Tale riferimento può essere, pertanto, preso come punto di partenza.
In realtà l’inizio di un’analisi del λόγος possiede quella stessa componente di arbitrarietà
insita nel voler accedere a un tutto strutturato, poiché è a tutto che il λόγος si collega –porre
in rapporto, collegare, riferire sono infatti le sue accezioni originarie. In tale essere sotteso
7
ad ogni relazione, il collegare autentico arretra sbiadendo – apparentemente indifferente
alle differenze – e si afferma un collegare a cui sono riconducibili sia il punto di vista
filologico che lo traduce “discorso” sia l’interpretazione, che la logica formale ne fa,
intendendolo come l’origine ininfluente di un ramo della scienza che mira alla correttezza
formale.
A partire da queste premesse viene posta ora la domanda: “cos’è il λόγος per Heidegger”?
Come viene indicato nella conferenza omonima, in Saggi e discorsi, non si può dire cosa
esso sia, è giusto solo affermare che “o λόγος λέγει”, per parlarne bisogna riferirsi alla sua
attività e non a delle eventuali proprietà. Non ci si riferisce, infatti, ad una “cosa”, fosse
anche intangibile o generale.
Nella parola λόγος, il senso richiamato a proposito del λέγειν è il “raccogliere”.
«Lego, λέγειν, in latino legere, corrisponde, come parola, al nostro «cogliere» (lesen), cogliere delle spighe,
della legna, dell’uva, o anche «scernere» (auslese) […] Questa parola significa: porre una cosa vicino
all’altra, metterle insieme, in breve: «raccogliere» (sammeln); con ciò le cose vengono contemporaneamente
distinte l’una dall’altra».1
1 Introduzione alla metafisica, traduzione di G. Masi, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000, p.
133
8
L’impiego possibile, l’adattabilità a più contesti delle diverse –eppure strettamente
collegate – accezioni è ampia. Nella lingua greca antica il termine compare in situazioni
relativamente eterogenee, se si tiene presente il significato specifico che oggi viene ad esso
attribuito. Nonostante ciò si tende, in generale, ad associare alla grecità l’uso che della
parola si è fatto nella teologia e nella filosofia successive, dando per scontata una
coincidenza nella comprensione delle diverse epoche.
In realtà, piuttosto che con una coincidenza, si ha a che fare con uno sviluppo problematico,
che suscita il bisogno di capire come l’antico significato abbia una continuità rispetto al
nuovo o, inversamente, in che modo sia giusto riconoscere nell’inizio la premessa di quel
carattere individuabile alla fine della storia della metafisica.
L’essenza fondamentale del λόγος è quindi posta in questione ripensando,
nell’impostazione invalsa, il senso dalla sua prima, decisiva manifestazione nella “chiarità
del mattino”.
Come si mostra il “raccogliere” all’interno del paradigma di pensiero occidentale? Quale
ruolo gioca nel sistema della metafisica?
9
«Il λόγος raccoglie ogni cosa in ciò che è generalmente fondato [gründed] e raccoglie ogni cosa a partire da
ciò che è unico giustificando la fondazione [begründend]».2
In base a questa indicazione che compare ne “La costituzione onto-teo-logica della
metafisica”, si può guardare alla prima determinazione del problema, in “Essere e Tempo”:
qui il λόγος viene preso a tema nel suo rapporto con le nozioni, sopra presentate, di
giustificazione e fondazione.
La prospettiva da cui prende le mosse l’argomentazione heideggeriana è quella della logica
tradizionale, ampiamente accettata ed applicata dalla filosofia. In essa, un giudizio è
giustificato se è formulato in conformità ad un processo corretto. Quando si ha conoscenza
di qualcosa, si asserisce, in modo giustificato, un giudizio vero, e quindi alla nostra
rappresentazione mentale corrisponde esattamente qualcosa di reale nel “mondo esterno”.
Ciò che riceve giustificazione, in questo modo, è la verità intesa come adequatio
dell’intelletto alla cosa.
Contestando il presupposto della conoscenza tradizionale, vale a dire della verità come
adeguazione, Heidegger riferisce la giustificazione ad un altro modo di esprimere la verità
dell’asserzione:
2 Identità e differenza, trad. di U.M. Ugazio, in «aut aut», 1982, nn. 187-188, pp. 2-37, p. 34
10
«Ciò che viene giustificato è l’essere scoprente dell’asserzione».3
Non è l’esser vero tradizionale. È d’altronde estraneo all’indagine fenomenologica,
particolarmente sentita in essere e tempo, un dualismo del tipo body/mind, cui il concetto di
verità come copia richiama. A garantire la conoscenza di qualcosa non può essere una
corrispondenza rispetto ad una rappresentazione nel senso di un’immagine mentale o di un
processo psichico.
Il discorso del filosofo si trova già in partenza al di qua di un dualismo, presso l’ente, e
nella giustificazione si deve mostrare il mostrarsi dell’ente, ossia l’ente nel come della sua
manifestazione, l’ente in quanto tale, l’ente come lo stesso di sé, il medesimo. Tale
mostrare è lo “scoprire” che è giustificato in contrapposizione all’esser vero scolastico -
metafisico.
«Essa [l’asserzione] trova la sua verifica nel fatto che l’asserito, cioè l’ente stesso, si manifesta come il
medesimo. Verifica significa: manifestarsi dell’ente nella sua identità. La verifica ha luogo sul «fondamento»
dell’automanifestarsi dell’ente».4
L’altro aspetto del λόγος, il fondamento, cui si allude brevemente, precede la
giustificazione: è la base su cui essa viene compiuta.
3 Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970 (XIV ristampa), p. 269
4 Ibidem
11
Il fondamento si collega alla manifestazione dell’ente, fonda perché dà l’appartenenza
dell’ente ad una comprensibilità, permette cioè un riconoscimento in una coerenza, in una
dipendenza, già al livello pre-predicativo dell’in quanto apofantico –non “fonda” nel senso
di istituire, di imporre una certezza positiva.
Non è possibile un “fuori” del λόγος: la sua totalità coincide con l’orizzonte umano;
un’alogicità è impossibile perfino nel caso in cui un Esserci rifiuti scetticamente la
conoscenza. Nella misura in cui fondare e giustificare fanno parte del modo involontario di
interpretare l’essere-nel-mondo, l’uomo è già sempre governato dal λόγος.
Si può indicare la necessità di appartenere alla struttura del λόγος con il Wittgenstein delle
Ricerche filosofiche, riconoscendo che “il meccanismo che cerca un ordine è, per così dire,
sempre acceso”. Sarebbe tuttavia un errore pensare che l’involontarietà del λόγος ed il suo
essere una totalità includente definiscano o dicano molto a suo proposito: un’ampia
genericità potrebbe implicare un’indifferenza, potrebbe essere un nome possibile dato ad un
limite mai esperito, ma il fatto è che l’appartenere al λόγος non è inteso come un essere
incluso in un insieme geometrico, designa bensì il modo più decisivo in cui l’essere-nel-
mondo è articolato.
12
«L’asserzione, la sua struttura, l’in-quanto apofantico, sono fondati nell’interpretazione e nella struttura, cioè
nell’«in-quanto» ermeneutico e, più originariamente ancora, nella comprensione e nell’apertura
dell’Esserci».5
Il fondare appartiene all’interpretazione delle cose, al vederle come ciò che sono e quindi,
primariamente a chi rende possibile questo processo: l’uomo. Vale a dire che l’apertura
dell’Esserci è il fondamento della struttura dell’asserzione.
Un’apertura può già dare l’idea di quale diverso significato di fondamento si abbia in vista,
più simile forse ad un pericoloso essere sfondato.
Ciò che nella gerarchia dei rimandi delle giustificazioni si trova al punto originario, non è
quello stesso fondare a cui generalmente si lega la stabilità. Risalendo un meccanismo
stringente di deduzione, ci dovremmo arrestare nel momento in cui questo fondamento
sfondato fosse raggiunto. L’aspetto più rassicurante nella logica, il poter contare su una
certezza infrangibile, che può sopravvivere agli uomini e che è ha ricevuto una
legittimazione dai propri risultati quando è stata usata dal sapere scientifico, qui affronta un
abisso. Cosa può allora assicurare la verità, quando il modo di raggiungerla non è più un
calcolo, una deduzione o un processo esatto?
5 Ivi, p. 274 (Corsivo mio)
13
In realtà niente può fornirla a buon mercato ed assicurarla, nel senso della certitudo propria
di un metodo: l’uomo, come sostiene Nietzsche, fa un “tentativo” con la verità. Si tratta di
una scommessa, in cui la posta in gioco è lo stesso scommettitore, il quale garantisce in
base alla propria esistenza, nello strano modo in cui un’apertura può essere un fondamento
su cui basarsi. Il “salto” di cui Heidegger parla racchiude un’insicurezza fondamentale,
legata alla possibilità, tutt’altro che remota, del fallimento.
«Questo coraggio dell’errore […] è cioè quello dell’intimo sacrificio del proprio se stesso nella capacità di
ascoltare e di imparare».6
Il fatto che l’uomo, che non può estraniarsi dal λόγος, possa perdersi nell’errore indica che
il λόγος stesso può essere fallace.
Nel momento in cui il tradizionale “luogo della verità” appare tanto vero quanto falso, si
impone, prima di tutto, l’urgenza di chiarire come bisogna intendere l’esser vero e l’esser
falso.
«I nostri termini «vero» e «falso», «verità» e «falsità» non coincidono con il senso che i Greci davano alle
loro espressioni ̉αληθές - ψευ̃δος. Con queste espressioni i Greci intendono piuttosto qualcosa come: verità
uguale scoprimento o essere scoperto, e ψευ̃δος, falsità, uguale coprimento o simulazione».7
6 Logica, il problema della verità, trad. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1986, p. 82
14
La verità è presupposta. L’esserci è già nella verità perché è aperto e interpreta, non deve
ricomporre un dualismo ma la dimensione in cui si trova è già vera in quanto orizzonte o
sostrato, in un senso che non esclude paradossalmente la falsità di ciò che vi si manifesta.
Il modo di essere vero degli enti è in partenza anche falso, perché la verità, in cui ci si
muove, non è trasparente: una apparenza ingannevole la dissimula senza nasconderla
completamente, rendendola del tutto separata, e la mostra nella maniera contraffatta della
parvenza.
Dunque la verità c’è, ma in modo travisato. Primariamente gli enti con cui si ha a che fare
si mostrano nel modo del coprimento. Ciò che è disponibile a “portata di mano” nasconde
tenacemente il proprio senso autentico e, di conseguenza, anche se si vive già sempre nella
verità, per poterla raggiungere si impone uno sforzo, che si traduce in un sovvertimento
aggressivo del modo di interpretare ciò che è dato, l’azione con cui ci si volge al
raggiungimento del senso autentico può essere associata ad un furto, come Heidegger
sottolinea in riferimento all’alfa privativo dell’ ̉Α-λήθεια.8
7 Ivi, p. 109
8 Fink mostra questa idea radicalizzandola nella lettura del il frammento 26 di Eraclito («L’uomo si accende
una luce nella notte, quando è spento nelle sue possibilità di vedere…»): “Il frammento allude all’instabile
posto dell’uomo fra notte e luce. E questo si rivela quando è capace di schiarire [lichten] la notte. L’uomo è
15
L’interpretazione degli enti non può quindi fare a meno di un continuo scavo che
nell’interpretare traccia un percorso completamente legato all’io che lo compie (può essere
un uomo come anche un popolo) e che nel fare questo conquista comunque un senso per la
prima volta, al modo di una creazione. La ricerca profonda, diretta “alle cose stesse”,
quando è attenta alla manifestazione effettiva degli enti, è scoprente.
C’è coprimento, invece, nel momento in cui il legame diretto con il senso si allontana, fino
a perdersi del tutto. Nell’ovvietà generata dalla sicurezza, dal non bisogno di interrogare,
l’interpretazione si cristallizza, mantenendo solo un collegamento apparente con la propria
origine.
Il “mettere insieme” dunque è potenzialmente coprente.
Heidegger prova a chiarire la configurazione di un tale essere falso tramite l’esplicitazione
di alcuni pronunciamenti aristotelici che compaiono nel De interpretazione, ricavandone
uno schema che si rivela –come egli ammette – ancora inadatto a cogliere la complessa
articolazione del fenomeno.
una sorta di prometeico ladro del fuoco”. Dialogo intorno ad Eraclito, trad. di M. Nobile, a cura di M.
Ruggerini, Coliseum, Milano 1992, p. 229
16
Il filosofo riassume quindi tre opposizioni: sintetico-diairetico, scoprente-coprente,
affermativo-negativo.
La capacità denotativa delle distinzioni si rivela limitata perché esse non sono esclusive e
quindi non permettono di spiegare in base ad una suddivisione quello a cui sono riferite.
Ciò nonostante esse evidenziano alcune caratteristiche che contribuiscono a chiarire il
nostro tema nella sua generalità. I tratti della prima opposizione, in particolare,
soggiacciono alla base di tutte le altre e possono essere riscontrati tanto nella negazione e
nell’affermazione quanto nello scoprimento e nel coprimento. Viene infatti alla luce che la
σύνθεσις e la διαίρεσις non sono due forme ripartibili dell’asserzione, ma sono
riconducibili ad ogni enunciazione, e quindi appartengono ad uno stesso ambito
[Zusammengehören] che unifica il fenomeno dell’asserire.
Il mettere insieme del λέγειν viene pensato attraverso il raccogliere della σύνθεσις e
attraverso il separare del suo opposto, la διαίρεσις, nel modo in cui Sammeln ed auslese
rientrano nel lesen.
In virtù dell’approfondimento di tale dinamica interna si può riflettere adesso sulla
apparente anomalia che si incontra nel riconoscere che c’è λόγος anche nella maniera del
coprimento:
17
«Il coprimento infatti è (in quanto tale) sempre un «mettere insieme» (De anima, 6, 430 b 1)».9
Si è, tuttavia, sottolineato che
«Il coprimento altrettanto quanto lo scoprimento avviene (sempre) nell’ambito del mettere insieme e del
separare (De interpretazione,1, 16a 12)».10
Qual è, dunque, il fenomeno unificante a cui l’opposizione si riferisce? E come si configura
il mettere insieme unente separante rispetto a all’essere vero o falso?
Si è già notato che la pienezza del mostrare nel λέγειν è consentita dalla contestualizzazione
dell’intorno-a-che che circonda, accoglie e fonda l’interpretazione; la sintesi e la διαίρεσις
vanno allora riferite all’in-quanto.
Nel comprendere siamo già sempre oltre le cose circostanti, il coglierle è quindi un
retrocedere che mette in rapporto con enti determinati nell’in-quanto di ciò che sono.
Riformulando allora gli interrogativi, ci chiediamo in che modo l’opposizione interna al
mettere insieme possa e, ancora prima, debba riferirsi a questo comportamento
fondamentale dell’esserci, definito come “un retrocedere verso quel che viene in contro
trattenendosi già sempre nel punto da cui provengono il significare ed il comprendere”:
9 Logica, il problema della verità, trad. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1986, p. 91
10 Ibidem
18
«Ciò da cui proviene il significato dev’essere condotto al che-cosa della significazione e collegato con esso
(σύνθεσις), condurre e collegare in cui è nel contempo incluso che la provenienza del significare e la cosa da
significare siano presi separatamente e debbano restare separati nel compimento della significazione. Questo
collegare [Zusammensetzen] e questo condurre [Zusammenbringen] sono possibili solo nel tener-separati
[Auseinanderhalten], e, all’inverso, il tener-separati stesso è a sua volta possibile solo come questo
determinato tener-separati in un inafferrabile tener-insieme [Zusammenhalten]. Si vede quindi come il
significare di fatto si possa cogliere grazie alla struttura di in-quanto con l’aiuto delle determinazioni formali
della σύνθεσις e della διαίρεσις ».11
Gli enti possono non essere interpretati nel modo giusto quando si contravviene all’ordine
di aggregazione in cui compaiono, in base alla loro natura, è un modo, questo, di chiudersi,
rifiutandone l’osservazione.12 Ma già il più semplice comprendere, può essere vittima di un
errore, fraintendendo, in accordo con la coerenza dell’in-quanto, l’apparire di un ente con
un altro, dato che si comprende sempre, in un modo o nell’altro, perfino quando si
comprende di non aver compreso.
11 Ivi, p. 100
12 (Met. Θ 10, 1051 b 2-5) «Questo però, ossia lo scoprimento e il coprimento, consiste in riferimento alle
cose essenti nel fatto che tali cose giacciano (già) insieme o che siano prese nella loro contrapposizione,
cosicché scopre chi prende le cose contrapposte nel loro essere contrapposte e le cose che giacciono insieme
nel loro giacere insieme; mentre copre chi nel considerare qualcosa in quanto qualcosa, nel farla cioè vedere
parlandone, si comporta in modo opposto rispetto all’ente». Tradotto da Heidegger in Logica, il problema
della verità, trad. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1986, p. 111
19
L’avventura dell’interpretazione allora, il “salto”, non è del tutto disorientato, si deve
strutturare altresì come una scelta, nel “raccogliere”, diretta verso l’essere e la difesa
dall’apparenza.
Il problema si configura in una dicotomia, una scelta esclusiva tra le due possibili vie
percorribili dall’uomo: Heidegger rivolge il pensiero al poema di Parmenide, nel quale si
colloca la scelta obbligata tra la via dell’essere, scoprimento, e quella del non essere,
nascondimento.
«La via dello scoprire è raggiunta solo nel κρίνειν λόγω, nella distinzione consapevole delle due possibilità e
nella decisione per la prima».13
Il decidersi per l’una o per l’altra appare come una scelta riguardo al λόγος (κρίνειν λόγω),
ma l’espressione parmenidea si avvicina ad una tautologia, poiché il significato dello
scegliere stesso si avvicina qui alla determinazione del λόγος che distingue dando un ordine
gerarchico.
«E affatto non deve l’abitudine assai cattivante costringerti in questa direzione,/ sicché tu ti perda in un
guardare a bocca aperta, senza vedere, e in un ascoltare frastornante,/ in un parlare facondo; ma tu risolviti
13 Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970 (XIV ristampa), p. 274
20
distinguendo, raccogliendo insieme, e prospettandoti la rappresentazione del molteplice conflitto da me
offerta».14
Questa è la via aperta sulla precarietà dell’essenza umana, la via cioè che si fonda
nell’apertura, e che diventa un percorso e non solamente uno spazio, solo nel momento in
cui raggiunge chiarezza, nella scelta, appunto, del modo fondamentale di essere dello
svelamento. Per poter dire tale chiarezza si deve essere giunti a vedere il rischio della
precarietà da così vicino che solo i più arrischiati possono essere dicenti, ciò spetta pertanto
ai poeti che hanno saputo cogliere il velamento dell’essere nella sua forma più radicale e lo
hanno riconosciuto come il senso profondo della nostra epoca: Heidegger risponde alla
domanda che Hölderlin pone nell’elegia Pane e vino (“perché i poeti nel tempo della
povertà?”) investendo chi pensa essenzialmente, in poesia, del compito di trasmettere agli
uomini un monito di salvezza che sorge dal fondo stesso del pericolo.
Heidegger lascia perciò che siano i versi di un poeta, Rilke, ad esprimere l’insicurezza
dell’esistenza dell’uomo:
«Come la natura abbandona gli esseri/ al rischio della loro sorda brama, e nessuno/ particolarmente protegge
nei solchi e sui rami,/ così anche noi siamo, nel fondamento primo del nostro essere,/ non particolarmente
14 (Traduzione heideggeriana di Parmenide) Introduzione alla metafisica, traduzione di G. Masi,
presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000, p. 180
21
diletti. Siamo arrischiati. Soltanto che noi,/ più ancora che pianta o animale/ su questo rischio andiamo, lo
vogliamo talvolta anche/ siamo più arrischiati (non per nostro vantaggio)/ della vita stessa;…
ciò che, infine, ci custodisce/ è il nostro essere senza protezione, e che noi/ ci siamo rivoltati
nell’Aperto,…».15
L’uomo si trova di fronte ad un ente che si rifiuta, si ritrae. Egli si mantiene, in quanto
esser-ci, innanzi alla “rinuncia” all’ente ed esperisce, nel rifiutarsi dell’ente in mezzo alla
manifestatività, il rapporto al “non” dell’essere. L’e-sistere necessita l’uomo a non essere
l’ente che è, per tanto la scelta tra la via dell’essere e quella del non essere ha il carattere di
una de-cisione, della quale abbiamo evidenziato il modo non procedurale del suo
dispiegarsi, ossia il salto.16
Possiamo adesso, considerando la poesia di Rilke, determinare più a fondo il passaggio che
avviene nello sprung: l’assicurazione dello slancio e l’indicazione della direzione da
prendere.
15 Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La nuova Italia, Firenze 1997, p. 255
16 «L’accesso all’essenza ha sempre qualcosa di immediato e ricorda sempre il momento creativo, liberamente
scaturito. Per questa ragione parliamo di un balzo, anzi di un balzo preliminare nel farsi-essenza della verità».
Domande fondamentali della filosofia, Selezione di «problemi» della «logica», Mursia, Milano 2003, p. 144
22
Tale movimento si svolge tra due inizi. Il primo, da cui trae lo slancio, è quello in cui
l’accesso originario alla verità è stato concepito come correttezza. L’ομοίωσις, la verità -
copia, la correttezza non è solo una degenerazione nell’interpretazione dell’ Άλήθεια ma è
già presente presso i Greci, sebbene nell’antichità essa fosse ancora ambiguamente
affiancata al suo fenomeno più originario, come si riscontra, ad esempio, nel libro Θ 10
della Metafisica. Il momento attuale, nel quale la tecnica domina, si raccoglie
completamente nella forza dell’inizio, che ha inteso la verità come correttezza, limitandosi
a portare alle estreme conseguenze quel primo fondamentale passo: non c’è stato alcun
progresso, o evoluzione, a livello essenziale, si può parlare piuttosto di una riaffermazione
radicale della profonda appartenenza metafisica dell’età delle macchine alla propria antica
origine. La mancanza dell’essere, nel “tempo della povertà”, è legata infatti a quell’oblio
iniziale che avvenne già – necessariamente – in Platone ed Aristotele. Di più: solo adesso
che dell’essere “non ne è più niente”, che è stata cioè dimenticata la mancanza dell’essere
in quanto mancanza, si può cogliere, nella risonanza di ciò che nell’inizio è rimasto
impensato, quello che è degno di essere domandato (Fragwürdigste).
La nostra epoca storica ha il compito di porre la domanda sull’essere perché, nell’oblio che
dimentica se stesso, il senso dell’oblio si è dispiegato in modo completo, e dunque è stato
guadagnato il punto più perspicuo sulla perdita. Allo stesso tempo, però, questa postazione
23
è anche la più “necessaria” nel porre la Seinsfrage: poiché il negarsi dell’essere si presenta
ora quanto mai lontano dall’illusione di un sua possibile soluzione, si ha l’opportunità di
pensare l’essere in base alla necessità del suo abbandonare, senza riconoscere
nell’abbandono il carattere difettivo di uno o più impianti di pensiero affermatisi nella
storia della metafisica, bensì cogliendo il bisogno nell’essere, in sé, di andare via da sé.
Il salto che parte dall’impostazione dell’inizio greco non si allontana nell’ignoto ma si
dirige verso quello stesso momento in cui l’essere ha fatto la sua più fulgida comparsa
nascondendosi; si volge al primo inizio, eppure ciò a cui tende non potrebbe in alcun modo
essere una semplice ripetizione di quanto è già stato. Ciò che si ha di mira è, infatti, il non-
accaduto, ossia la ricerca, oltre la manifestatività dell’ente, dell’intima connessione dello
svelamento con il velamento.
La meta è dunque un “altro inizio”, il quale coincide con l’appartenenza all’aperto cantato
da Rilke.
La misura del salto viene data dall’obiettivo, l’approdo è il riferimento ma è anche,
paradossalmente, la base, perché si ha in vista l’appartenenza all’origine (Ur-sprung). Di
conseguenza, avere nella meta il principio autentico fa sì che si prenda fondo in qualcosa
che ancora non c’è, che può essere in qualche modo individuata sebbene manchi. Il
movimento assume così un sviluppo circolare mostrando una dinamica sottesa al passaggio
24
tra i due inizi, insita tanto nel fondare quanto, primariamente, nel modo in cui il nostro “ci”
corrisponde all’evento dell’essere: muoversi a partire dall’assicurazione di un terreno
significa primariamente andare via da essa
Il compito richiesto a chi si trova nell’avvento di una scaturigine è quello di sopportare
l’inizialità. Di fronte al rischio è preteso l’ardire di “fondare il fondamento”, il che
comporta il consentire alla filosofia di seguire il proprio corso; nell’isolamento del
principio non vi è nessun sostegno, se non in un senso particolare il destino, cioè la
conformità alla natura, all’ordine intrinseco, alla necessità, in base alla quale si lascia che la
filosofia sia fondante. Obbedire al destino rende il fondare, nel suo dispiegarsi,
completamente estraneo all’arbitrio di una mancanza di giustificazione, anche quando,
nell’assenza di un appiglio, si afferra solo a se stesso. Pertanto il salto che “sopporta”
l’aperto, pur essendo compiuto nella distanza rispetto a ciò che è primo, in questa distanza è
anche, tramite la costrizione del Geshick, nella prossimità dell’inizio.
È stato già riconosciuto il fondamento ultimo nell’ apertura dell’esser-ci, l’aperto che viene
ora nominato, come suggerisce facilmente la parola, è da un lato ciò che viene dischiuso
all’apertura ma al contempo aggiunge qualcosa di non implicito nella forma verbale del
participio: Heidegger pone in secondo piano la deiezione e la trascendenza, per designare
con la parola il non oggetivizzabile per eccellenza nonché l’appartenere all’evento del
25
dileguare indugiante dell’essere. L’insieme che prima si poteva cogliere nell’ordine di un
orizzonte, ora è delineato nei propri contorni dall’accecante bagliore di un fulmine e
dall’oscurità che ne segue. Heidegger si orienta infatti verso l’evento come parola chiave
del proprio pensiero.
Nella posizione della coappartenenza dell’uomo all’essere dell’evento-appropriazione, il
fondamento si mostra in una determinazione ulteriore.
Heidegger collega, infatti, all’Ereignis un tratto dell’energheia, tradotto “stare-in-opera”, e
dell’entelechia, “aversi nella fine”. Eignung, per il filosofo tedesco, dice la dynamis
aristotelica, “attitudine” come “un modo di venire alla presenza”, quindi Er-eignis/Er-
eignung è “rendere possibile” che è solo in virtù del proprio divenire, solo in quanto “non
ancora” è “già”.
Si può affermare quindi che il fondamento è in ultima analisi il rifiutarsi dell’essere e la
possibilità suprema.
Con l’analisi dei concetti heideggeriani di comprensione e di fondamento è stato dunque
delineato il contesto problematico a partire dal quale il λόγος viene pensato: «Il λόγος
raccoglie ogni cosa in ciò che è generalmente fondato [gründed] e raccoglie ogni cosa a
partire da ciò che è unico giustificando la fondazione [begründend]».
26
3 - Ordine e dovere
3.1 Il problema della regola
La comprensione si fonda nell’unione separante e nella separazione unificante dell’in
quanto apofantico. È il “colpo d’occhio”.
Al sorgere del significare noi ci troviamo per così dire a casa nel mondo: nell’insieme dei
collegamenti, dei rimandi che si mostrano già nel vedere senza guardare, viene affermato il
senso come sfondo, si cammina in esso come in un luogo, il mondo, appunto. Cogliendo il
“mondeggiare” si riuniscono le cose in un raccoglimento, il quale, a sua volta, è praticabile
solo ammettendo una differenza, tra le stesse cose, tale che la loro molteplicità non possa
essere mai del tutto perduta in un’unificazione.
Chiarificando la dinamica del λόγος Heidegger delinea un ordine. Ciò non avviene
semplicemente perché l’esplorazione filosofica di qualsiasi tema imponga inevitabilmente
di comporre una questione nella purezza di schemi teorici, ma ha una valenza ulteriore, non
scontata. Si tratta anzi di ordine nel modo più estremo, la cui costituzione implica forse la
distanza del filosofo rispetto agli scritti giovanili di Nietzsche e al suo Dioniso.
Nel comprendere emerge la mondità, cioè l’assetto del mondo, la comprensibilità è quindi
il riconoscimento di una regolarità: attraverso l’ordine, il mondo chiarisce il proprio
27
movimento, diventa ciò che è perché viene compreso in quanto ciò che è, ha una forma ed
un limite perché, anche se appena accennata, una regolarità lo pervade.
Parlare di “regola”, tuttavia, è particolarmente ambiguo. Sia l’interpretazione tradizionale
del λόγος , sia quella originaria Heideggeriana potrebbero infatti essere espresse tramite
questa stessa parola, se le sue diverse accezioni non venissero esplicitate.
Cosa si comunica, dunque, nella comprensibilità, circa la configurazione di una legge o
regola?
Viene colta generalmente una distinzione tra un regolatore ed un regolato, rispetto ai quali
si può intendere come “regola” tanto l’insieme di entrambi, considerati come esempio,
modello, quindi “norma” e perciò regola, quanto il rapporto che tra i due poli intercorre,
cioè il regolare. Regola può essere quindi l’imposizione di un ordine a qualcosa; la
descrizione di tale comando, cioè una formula; oppure lo scaturire, l’essere in atto,
efficiente dell’ordinare (nel duplice significato di configurare e di governare).
Del λόγος, come abbiamo precedentemente accennato, Heidegger non dice cosa
propriamente “sia”, ma sostiene che
28
Alla domanda che chiede che cosa sia il λόγος , c’è solo una risposta adeguata. Per noi essa suona: o λόγος
λέγει.17
Similmente, per una regola che fosse al punto estesa da coincidere con il tutto (al pari del
λέγειv) non sarebbe giusto dire cosa essa sia ma, per coglierne l’essenza, bisognerebbe dire
che essa regola.18
17 Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 150
18 Useremo, dopo le dovute spiegazioni, regola e legge come sinonimi. Heidegger, nel rivolgersi ad un ordine
originario, impiega in genere la parola “legge” (Gesetz), mentre con “regola” (Regel) si riferisce ad un ordine
positivo, come, ad esempio, quello scientifico. («L’inizio viene raggiunto solo quando noi facciamo
esperienza della sua legge, che non può diventare una regola, ma rimane unicamente di volta in volta l’unicità
del necessario». [Domande fondamentali della filosofia, Selezione di «problemi» della «logica», Mursia,
Milano 2003, p 38] o «la disciplina ha il sopravvento sulla «cosa» di cui la disciplina tratta. Ciò che è proprio
della «cosa» non lo stabilisce più la cosa stessa, la sua legge essenziale o il suo fondamento essenziale ancora
nascosto». [Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 154]). Della legge il filosofo parla anche a
proposito del principi del pensiero (Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 151) dove
essa è legge in quanto Ge-setz, «insieme di ciò che è posto».
In Italiano, tuttavia, non è possibile una traduzione della forma verbale di legge: essa suonerebbe “legiferare”
o “legalizzare”. Pertanto, quando – spesso –si vorrà significare il movimento ordinante, si userà il verbo
“regolare” o “ordinare”.
29
Non si vuole banalmente sancire l’insufficienza di ogni possibile descrizione riguardo ad un
oggetto eccelso, a cui si addica solo “l’auto-predicazione”, si mira bensì ad evitare il
laborioso affaccendarsi – tipico proprio di un soggetto – che la seconda accezione di regola
chiama in causa formalizzando la comprensione di un ordine. La formula che ne deriva è
infatti una struttura operazionale vuota riferibile ad un contenuto: tra la formula ed il suo
possibile materiale è presente una distanza perché si presuppone uno scarto tra un soggetto
che attribuisce la legge e un oggetto che la riceve.
È chiaro che lo stile di pensiero che qui gioca è quello della scienza moderna, e della logica
formale nella misura in cui le due dottrine condividono la loro impostazione. Ed è
altrettanto ovvio che il problema della legge così intesa, a seguito dalla separazione
rispetto all’oggetto, non è sostanzialmente quello di una eventuale arbitrarietà nel compiere
il riferimento, giacché nessuno mette davvero in dubbio, ad esempio, che la gravitazione
universale si applichi alle masse. Il concetto di formula è in realtà inadeguato ad esprimere
il regolare nella sua vicinanza semantica al λόγος perché il “che cosa”, anziché essere
colto, viene appunto attribuito. In atri termini, attraverso la manipolazione operata dal
linguaggio della scienza la cosa viene resa comprensibile e quindi piegata all’uomo, o
30
meglio alla volontà dell’uomo – la stessa volontà che, ad un livello più profondo, per
mezzo dell’uomo, si vuole.19
Il legame tra il senso di regola che abbiamo menzionato per secondo e quello che si mostra
nell’imporre un ordine è piuttosto stretto.
Infatti cifre, quantità nel loro rapporto, valori possono apparire come uno scheletro da
infilare nella materia inerte al fine di articolarla e conferirle un comportamento osservabile,
ma ciò che garantisce la funzionalità del processo è una necessità attiva "per costruzione".
Si delinea, quindi, l’imposizione di un dovere al modo di un’intrusione.
Rivolgersi invece a ciò che nella regola è il puro regolare esclude in partenza un ruolo per
elementi positivi o estranei all’essenza, ma si pone il dubbio della effettiva percorribilità di
questa via, se cioè in un certo modo l’ordinare sia impensabile senza una costruzione che lo
sostenga. Una risposta può essere trovata nella trattazione heideggeriana del fondamento e
della giustificazione, i quali, in un certo senso liberano il λόγος per il suo raccogliere. La
19 «La tecnica è al tempo stesso l’organizzazione e l’organo che vuole il volere per il volere [Willen zum
Willen]. Le stirpi umane, i popoli e le nazioni, i gruppi e i singoli sono dappertutto soltanto voluti da questa
volontà e non certo di loro iniziativa, vale a dire non traggono da se stessi l’origine e il centro di questo
volere, bensì sono solo i suoi esecutori spesso perfino riluttanti». Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano
1993, p. 127
31
possibilità della terza accezione di regola è però sancita, ancora prima di ricorrere al
paragone con il λόγος –che non vogliamo presupporre –, se ad essere in questione è una
regola totale: l’ordine articolato non deve ricercare la propria origine in un soggetto
osservatore che istituisce un dovere poiché la legge è così estesa che cade essa stessa sotto
il proprio governare.
In tal senso si può spiegare il capovolgimento/riappropriazione compiuto da Heidegger
rispetto alla definizione aristotelica di uomo, da «άνθρωπος = ζω̃ον λόγος έχον» a «φύσις =
λόγος άνθρωπον έχον».20 La struttura della comprensibilità del mondo comprende
anticipatamente ogni possesso umano. La legge è il mondo stesso colto nel proprio
automovimento "vincolato".
Interpretando la regola nel suo vigere non si aggiunge nulla che non sia già parte del
regolare stesso. È dunque ugualmente sbagliato rappresentarla, ad esempio, come un
qualcosa che unifica, o -per così dire- attraverso un filtro negativo, come l’essere unificato
di ciò che è unificato: il regolare avviene nel margine di ciò che è qualcosa. Il limite che
20 Introduzione alla metafisica, traduzione di G. Masi, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000, p.
181
32
così viene costituito non è un semplice irrigidimento nella immobilità della sicurezza, ma
nella sua linea di confine si avvicina al senso greco di πέρας:
«il «fisso» ha qui il significato del delimitare, del lasciar essere nei propri limiti (πέρας), del tracciare un
contorno. Nel senso greco, il limite non imprigiona, ma, nel suo esser-prodotto, immette l’esser presente nella
sua apparizione».21
Il regolare è dunque ciò che è nella differenza tra le cose che regola, originando allo stesso
tempo tale differenza. E altrettanto viene delineato a proposito del λόγος :
«Il suo posare stesso è, nella dia-ferenza, ciò che regge».22
Osservando, tuttavia, la questione concretamente è come se la regola sparisse dentro alle
cose, senza lasciare traccia, oppure, il che è paradossalmente lo stesso, sembra che siano le
cose a sparire, lasciando emergere solo il loro senso –ossia la coerenza, la regolarità che la
legge esprime. Se, dunque, per “limite” si intende una separazione, essa non può essere
situata tra la regola e le cose: la regola è in un certo senso sola, essendo le cose già regola
poiché il loro essere è posto dal senso che essa determina. Il significato di una legge,
21 Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La nuova Italia, Firenze 1997, p. 66
22 Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 151
33
quindi, non va inteso come il limite nel modo di un confine esterno, un contenimento, ma
come il tratto fondamentale del modo di essere, dell’articolazione.
Se si ricerca invece un confine, lo si può trovare rispetto all’essere-completamente-estraneo
al senso della regola. Questa totale alterità non è esperibile in sé, altrimenti sarebbe
compresa, ma viene ammessa –nella maniera di un “prima” – nella domanda riguardo
all’inspiegabile origine del darsi di un senso. Il significare non è infatti l’insieme di un
percorso graduale, ma c’è un primo momento in cui il senso si da, per così dire, dal nulla.
Nell’inquietante contiguità di ciò che è separato da un confine abissale avviene dunque un
passaggio, sebbene l’aldiquà di questo passaggio sia, fin dall’inizio, governato da un
ordine. Capire cosa sia l’Altro è pertanto precluso, ma il fatto che l’ordine e l’Altro
condividano il proprio margine permette di cogliere l’alterità dal punto di vista del per noi.
Ciò che è quindi misterioso e Fragwürdigste, nell’origine, riguardo alla legge, è proprio la
necessità che la fa essere tale legge. Questa costrizione è per noi il darsi dell’alterità e, al
contempo, l’essenza del regolare.
Nell’analisi del λόγος, il dovere in questione sarà, allora, il criterio selettivo con cui leggere
la ricostruzione della storia della logica, e quindi della filosofia in toto, operata da
Heidegger.
34
Non ignoriamo che, nel raggiungere questo punto di vista, venga compiuta una
semplificazione rispetto all’insieme delle determinazioni del λόγος: il λέγειν è da noi
chiarito, infatti, a partire da una delle diverse accezioni del regolare. Tale scelta, tuttavia,
non è dettata dal bisogno di cercare un sinonimo che sostituisca la nostra parola guida,
sebbene anche una traduzione – qualora possibile – potrebbe essere utile a spiegarne il
significato; ma si fonda sulla convinzione che la restrizione del campo semantico compiuta
con l’ordinare, il regolare, comunichi l’essenziale.
Non ignoriamo neanche che il filosofo rifiuta l’interpretazione del λόγος come “legge
universale”, ma non è a tale concezione che ci si riallaccia. Riferendoci al regolare nella sua
purezza, il concetto di legge viene inteso tramite una precisazione, una correzione: (1) la
legge non è costruita, non è positiva; (2) è l’apparire del suo ordinare “dal nulla”, senza un
appiglio a qualcosa che la preceda; (3) non è usata, perché non è applicabile né nel senso di
νομός, né nel senso strumentale del paradigma scientifico, che la impiega per penetrare
manipolativamente la Terra o per fornire giustificazione.
Nell’insieme delle connessioni evocate dalla legge, ha cittadinanza tanto il pensiero
normativo, quanto quello originario; per mezzo di essa il λόγος viene posto in prossimità
dell’ambigua origine da cui si è sviluppato, nella storia della filosofia, anche l’orientamento
che ha condotto alla chiusura del linguaggio logico-scientifico.
35
3.2 La mancanza dell’essenza del regolare nella filosofia occidentale
Il λόγος nell’antica Grecia aveva una gamma di significati molto vasta, alla cui radice
comune, come abbiamo segnalato precedentemente,23 Heidegger pone il mettere insieme.
Ma è di primaria importanza anche il suo valore di linguaggio (per cui non esiste alcuna
altra parola sostitutiva) nonché l’impiego come “discorso” e, conseguentemente, come
“enunciato”.
Insieme, poi, alla designazione di questo o quel singolo significato, nell’uso del termine si
prevede un riferimento a qualcosa rispetto a cui il termine agisca, in virtù della costruzione
“λόγος τινός”. Viene così richiamato il carattere ostensivo legato all’ispirazione profonda
del λέγειv.
All’interno della filosofia, il λόγος indica specificamente uno dei tre ambiti in cui si
struttura la conoscenza: επιστήμη λογική, accanto alla επιστήμη φυσική ed επιστήμη ηθική.
La tripartizione, secondo Sesto Empirico (Adv. Mathematicos VII, §16), fu esplicitata per
la prima volta da Senocrate, sebbene, di fatto, essa veniva rispettata già a partire da
Platone.24
23 Cfr tesi, II.
24 Logica, il problema della verità, trad. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1986, p. 5
36
Fino ad oggi questa suddivisione rimane generalmente valida, tuttavia l’ampiezza e la
profondità che si dischiudono alle attuali dottrine della fisica, dell’etica e del λόγος
rispecchiano la codificazione, in senso riduttivo, di cui le parole greche di riferimento
(φύσις, η̃θος, λόγος) sono state oggetto nel corso della storia.
Allo scarto generato dalla differente interpretazione dei nomi delle varie “scienze”, va poi
aggiunto l’ulteriore mutamento di prospettiva che investe anche il loro stesso essere
scienze, cioè επιστήμαι:
«Che cosa significa επιστήμη? Il verbo corrispondente è επίστασθαι, vale a dire porsi qualcosa di fronte,
trattenersi presso di esso e stargli davanti affinché si possa mostrare. […] Traduciamo quindi επιστήμη con
«avere un sapere di qualcosa» [Sich-auf-etwas-verstehen] ».25
È l’essenza tecnica della scienza moderna a segnare notoriamente, per il filosofo, la
differenza fondamentale rispetto alla conoscenza antica, nonostante tra le due concezioni ci
sia anche un nesso di derivazione.
In un modo che bisogna approfondire c’è infatti ancora un nucleo di επιστήμη nella
Wissenschaft, anzi, lo sviluppo sproporzionato della tecnica porta a maturazione una
connessione originaria rispetto alla τέχνη.
25 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, pp. 126-7
37
Nell’etimo di τέχνη risuona il verbo τίκτω (generare), il quale pone in risalto l’aspetto del
“portare fuori” proprio di una generazione (ciò si rileva, ad esempio, nella parola
“architetto”: da quest’ultimo, «in quanto è l’αρχή di un τεκε̃ιν, nasce qualcosa come un
progetto»26).
A differenza del generare naturale, però, τίκτω è usato in Greco per indicare un’attività
creatrice tipicamente umana, per mezzo della quale qualcosa viene posta nel non
nascondimento, e non scaturisce unicamente da sé, nella maniera della natura. Essendo
τίκτω questo immettere, la tecnica è l’orientamento che lo dispone e che, come proprio
carattere fondamentale, sa gestire il rapporto con il non nascondimento. Si mostra così un
una capacità, simile ad una astuzia, che non ha nulla a che vedere con la moderna
“mobilitazione totale” (Ernst Jünger).27
26 Ivi, p. 133
27 Nel “sapere” della τέχνη rientrano contemporaneamente arte, mestiere, abilità e furbizia, come avviene, ad
esempio, per l’inglese “craft”.
Nell’attuale comprensione della tecnica, sono ancora mantenute alcune di queste sfumature, tuttavia si può
cogliere una opposizione totale tra antico e moderno laddove nel primo si indica una manualità, mentre nel
secondo un impiego impersonale.
38
Come si è posta allora, alla luce del senso greco di scienza, l’επιστήμη λογική?
La filosofia ha elevato a sistema una dinamica già presente nell’esperienza generale del
λόγος, anche ad un livello comune ed immediato.
In base alla struttura del λόγος-τινός, nello stabilire, nel contrapporre, nel misurare
quotidiano, un ordine sensato appare sempre riferito a qualcosa e, pertanto, individuare
l’ente con ragionevolezza è al contempo far vedere ciò a cui ci si riferisce, nel suo essere
compreso.
Il carattere apofantico poi, il mostrare, subisce dispiegandosi un lieve, eppur importante,
mutamento: diventa il dimostrare. Un ragionamento, e quindi il discorso in cui si esprime,
devono poter dare prova del proprio fondamento.
In egual modo, nella scienza logica, si manifesta una necessità di fornire ragione, λόγον
διδόναι.
Il corrispettivo filosofico del comune bisogno di giustificazione però, è molto di più di una
semplice versione teorica di un uso della lingua. Piuttosto l’impostazione data dal pensiero
platonico-aristotelico rappresenta quell’inizio rivoluzionario, il primo inizio, che sancisce la
La tecnica alla greca è anche, più in generale, uno dei tratti dello stile di pensiero heideggeriano, riconosciuto
da Derrida nell’ “artigianalità”, del tutto particolare, con cui si dispiega. (Confronta La mano di Heidegger, J.
Derrida, Laterza, Bari 1991.)
39
fine della filosofia greca e l’inizio della metafisica. Il senso del dare ragione è dunque
dipeso da tale determinazione, e più in particolare dal modo in cui è stata posta la domanda
metafisica fondamentale sulla verità: non è stata interrogata l’essenza della verità, bensì
«il vero sul quale sono posti il nostro agire ed il nostro essere».28
L’orizzonte della domanda è quindi l’essere dell’ente. La verità di un ente è la sua
ostensione, l’essente è già la più semplice e forte dimostrazione di sé.
In questo contesto la verità come adeguatio prende forma, ma non viene però fondata, non
ve ne è bisogno proprio per la particolare posizione dell’inizio: Aristotele non doveva
dimostrare l’esser vero dell’ ομοίωσις, poiché egli viveva dentro alla verità in cui tale
evidenza si è disvelata, cioè la verità come disvelamento, l’ Ά-λήθεια.
La risposta alla domanda che chiede il fondamento dell’essere dell’ente è la ricerca
dell’essenza.
Aristotele determina l’essenzialità in quattro modi: il generale, la provenienza, ciò che
rispetto alla cosa è precedente e ciò che le soggiace in quanto fondamunto; ma la risposta
28 Domande fondamentali della filosofia, Selezione di «problemi» della «logica», Mursia, Milano 2003, p. 35
40
più propria al “cos’è”, nonché la formulazione più carica di conseguenze per la storia della
metafisica –in cui i quattro modi si unificano –, è l’idea.
«L’essenza è quel qualcosa che è. E quel che il caso di volta in volta singolo è lo incontriamo come quel che,
nel rapportarci a questo singolo caso, di volta in volta abbiamo nello sguardo. […] Una cosa è vista quando si
vede cosa essa sia, il che cos’è, l’essenza. L’essenza di una cosa è quindi l’«idea», e inversamente: «l’idea»,
ossia la cosa quando è vista in questo determinato senso, l’aspetto offerto dalla cosa in quel che essa è, è
l’essenza della cosa».29
È chiaro che, in conseguenza di queste premesse, una fondazione nel senso consolidato non
esiste:
«Fornire […] la prova, mostrando nella sua essenza la cosa stessa nominata, è ovviamente il modo più sicuro
ed immediato di procurare all’enunciazione il fondamento su cui poggia quel che essa dice, coincidendo quel
che essa dice con quel che si è anticipatamente mostrato».30
Per provare ciò che ai Greci era già chiaro, si ricorre quindi all’idea, cercando in essa una
base per il fondare che è originariamente volto all’aperto, ma il dare fondo consisteva
29 Ivi, p. 52
30 Ivi, p. 59
41
appunto, in quanto idea, nel condurre anticipatamente allo sguardo l’essenza, portandola
fuori dal suo essere nascosto.31
Si può ora cogliere come il τίκτω a cui Heidegger collega l’ επιστήμη abbia, nel processo
del giustificare, un’influenza decisiva, poiché la giustificazione pro-duce la cosa a partire
dal velamento.
A causa della propria particolare posizione nel-mezzo dell’ente, come il custode del non-
nascondimento, l’uomo non si può adeguare alla misura della φύσις con l’essere
semplicemente φύσις egli stesso. Per commisurarsi alla natura e comprenderla si
presuppone un distacco nei suoi confronti, sebbene, attraverso di esso, sia alla natura stessa
che ci si volge.
La tecnica quindi è il sapere che comprende la cosa nel suo manifestarsi a partire dal
velamento, vale a dire, il sapere che coglie l’aspetto, l’ει̃δος, l’idea, tramite un produrre ed
un approntare, in corrispondenza alla totalità dell’ente nella quale l’uomo è insediato.
Il modo di procedere di questo sapere però può non dirigersi solo verso la comprensione
della φύσις:
31 Heidegger riassume in una sentenza il proprium dell’approccio greco: «Gli antichi greci pensano con gli
occhi, ossia con gli sguardi». Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, pp. 141-2
42
«Nell’essenza della τέχνη come l’avanzante ed allestente lasciar-imporsi il non-nascondimento dell’ente,
essenza richiesta dalla φύσις stessa, c’è la possibilità dell’autonomia, della posizione di fini diversi e quindi
dell’uscita della svolta necessaria della necessità iniziale».32
La perdita della necessità iniziale coincide con la trasformazione dell’idea in semplice
criterio e con l’oblio della verità come Ά-λήθεια, della quale si perde sia la tonalità emotiva
fondamentale sia la sua traccia nel linguaggio (si pensi alla veritas latina e alla Wahrheit
tedesca).
L’autonomia della tecnica, rispetto a ciò a partire da cui, in precedenza, riceveva la misura,
investe l’idea del compito di fornire la misura a sua volta e di essere quindi un modello, un
metro. Ma assumendo preliminarmente che sia ora un criterio in quanto tale a dare
l’evidenza, la giustificazione di questo procedimento può essere trovata solo in base
all’evidenza prodotta da un altro criterio; ed il canone dei canoni, l’idea delle idee a cui in
questa maniera si giunge è l’idea del bene.
Il modo in cui Heidegger interpreta tale nozione si discosta dall’esegesi platonica
tradizionale:
32 Domande fondamentali della filosofia, Selezione di «problemi» della «logica», Mursia, Milano 2003, p.
127
43
«Il significato autentico di αγαθόν: ciò che è idoneo a qualcosa e rende idoneo qualcos’altro con cui si possa
iniziare qualcosa […] non ha niente a che vedere con il significato del bene morale».33
Nella filosofia platonica, dunque.
«L’αγαθόν è il normativo come tale, ciò che conferisce all’essere la potenza di essere (wesen) come idea
come modello».34
Nel criterio, che ha così perduto il legame rispetto alla necessità iniziale, non si verifica
però un’assenza di necessità, ma una diversa disposizione di essa: il modello impone infatti
il bisogno di essere corrisposto nel modo più vincolante e rigoroso.
Tale mutamento risulta quindi in un rovesciamento rispetto al pensiero originario in cui si è
fatta esperienza dell’ Ά-λήθεια: l’idea non è più la suprema ostensione dell’essere, nella cui
verità l’uomo si trova preliminarmente, ma è il criterio a cui l’essere deve ognora innalzarsi
per ottenere una legittimità che, invece, non gli è più riconosciuta.
Finalmente il ribaltamento compiuto dall’ επιστήμη λογική ci pone di fronte alla comparsa
di quel “dovere” –tratto originario del regolare – che abbiamo posto come criterio selettivo
per ripercorrere l’interpretazione heideggeriana della storia della metafisica.35
33 L’essenza della verità, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1997, p. 133
34 Introduzione alla metafisica, traduzione di G. Masi, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000, p.
201
44
La limitazione dell’essere rispetto al dovere, per il filosofo, “appartiene interamente all’età
moderna”;36 nella caratterizzazione greca dell’όν come αγαθόν è possibile individuarne
solo una lontana prefigurazione. A differenza delle altre tre limitazioni37, che furono
riconoscibili già a partire dall’aurora del pensiero occidentale, questa prese piede
storicamente più tardi, eppure anch’essa, come le altre, appartiene in modo insolito
all’essere:
«Avvertiamo in queste formule qualcosa di pertinente in certo modo all’essere, proprio in quanto da lui
differente, perlomeno come suo «altro»».38
Infatti, anche nell’autonomia di una impostazione “capovolta”, nella quale il fondamento
ultimo sia posto in alto, oltre l’essere,
«è l’essere stesso che, proprio per via della sua specifica interpretazione come idea implica il riferimento a
qualcosa di esemplare, di dovuto».39
35 Cfr. tesi, III, § 1, p. 33.
36 Introduzione alla metafisica, traduzione di G. Masi, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000, p.
105
37 Essere e divenire, essere e apparenza, essere e pensiero.
38 Ivi, p. 103
45
L’obbligo percepito dall’uomo viene giustamente esperito, per la prima volta, solo quando
la verità non è più presupposto ma risultato, e ciò avviene perché quello che si esperisce
non è un semplice dovere, è invece un dovere estraneo rispetto all’essere/natura dell’ente.
Ciò nondimeno una coniugazione di obbligo va ammessa come “pertinente in certo modo
all’essere”, fin dall’inizio, in quanto possibilità della propria estraneità, nello stesso modo
in cui la negazione dell’essere implica la propria donazione epocale.
Anche nell’essere-nel-mondo greco si attestava, dunque, un senso di dovere –e si può
supporre che fosse egualmente efficace – ma non emergeva, poiché era inevitabilità, stato
di cose. Il vincolo di ciò che semplicemente si dà non può essere percepito come dovere:
non c’è obbligo, né costrizione. Per incontrare fenomenologicamente un’imposizione
ignota bisogna trovarsi (involontariamente) a contravvenire al suo ordine, suscitando così
una opposizione, una resistenza, un “no” insomma, solo a seguito del quale diviene
possibile interrogarsi sul senso della negazione ricevuta, e quindi sulla necessità del suo
prodursi.
39 Ivi, p. 201
46
«Quando qui parliamo della necessità come di quel che rende necessario quel che è dotato, nella sua necessità,
della struttura più alta, non intendiamo parlare di miseria e di carenza. Tuttavia pensiamo a un non, a qualcosa
che contiene una negazione».40
Per l’uomo moderno, nel tempo dell’abbandono dell’essere, il “non” è il presupposto di un
dover-essere, non è semplicemente il segno di una mancanza. Qui la negazione dell’essere
ordina e determina, imponendosi perentoriamente come necessità (della mancanza di
necessità).
Il punto di vista che ha guidato l’analisi si trova ora di fronte a un ostacolo.
Abbiamo iniziato a interrogare la ricostruzione heideggeriana della filosofia occidentale
alla ricerca di un carattere di dovere, che appartiene all’essere del λόγος . Come risultato,
però, il carattere in questione è apparso, fin dall’inizio, in una forma derivata, positiva,
separato ed estraneo rispetto alla legge essenziale della cosa.
La prima conseguente considerazione è che “dovere” non è la parola con cui il filosofo
designa quello che cerchiamo –ammesso che egli dia a ciò una parola, e che quindi essa
non diventi necessaria solo in una tesi su Heidegger (una interpretazione potrebbe infatti
40 Domande fondamentali della filosofia, Selezione di «problemi» della «logica», Mursia, Milano 2003, p.
108
47
scuotere,41 per comprendere, il linguaggio heideggeriano, il quale si riassesterebbe, per
forza, in maniera minimamente sfalsata).
Non è infatti nostra intenzione ignorare le diverse prospettive, i diversi interessi alla base
della sproporzione che in Introduzione alla metafisica, ad esempio, oppone le quattro
pagine della limitazione essere-dovere alle settantacinque di essere-pensare. Non
intendiamo pertanto scegliere l’una strada anziché l’altra. Ciò non sarebbe neanche
possibile, poiché tali diversi punti di vista non sono contraddittori ma coesistono
corrispondendosi.
Per di più, oltre a non poter trovare una formulazione originaria della cogenza
dell’ordinare, riscontriamo anche che il dovere estrinseco, dopo la prima attestazione, si
afferma sempre più saldamente.
Il momento chiave per lo sviluppo di questo obbligo nella metafisica è rappresentato da
Kant. L’impronta del XVIII secolo incide infatti profondamente tanto sul percorso della
filosofia in generale, quanto sulla logica nel suo rapporto con la metafisica.42 Così il
41 Cfr. Gesamtausgabe LXV, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main,
1989
42 «La «rivoluzione» del modo di pensare operata da Kant in filosofia, ha trovato il suo compimento proprio
nell’ambito della logica». «Il passo decisivo […] è il passaggio dalla logica tradizionale ad una nuova
48
dovere, sebbene non sempre esplicitamente, risulta definito nel sistema della conoscenza ed
ottiene una collocazione ancora parzialmente valida.
Rivolgiamo dunque l’attenzione al modo in cui Heidegger situa Kant all’interno del
paradigma platonico – aristotelico (prefigurazione della limitazione essere – dovere).
L’interprete parte dal “respectus logicus”, l’”è” posta tra soggetto e oggetto, e osserva un
iniziale appiattimento della copula sul senso di relazione. Successivamente, però, individua
nella la prima critica, in risposta alla problematicità delle proposizioni assolute (del tipo
“Dio è”), una nuova determinazione dell’essere, riferita significativamente ad una unità
logica:
«la particella copulativa “è” mira appunto a distinguere l’unità oggettiva di rappresentazioni date, dall’unità
soggettiva».43
In La tesi di Kant sull’essere, all’“l’unità originariamente sintetica” dell’appercezione viene
attribuito il collegare e raccogliere del λόγος greco:
«logica», a cui Kant assegna il nome di «logica trascendentale»». «Esplicitamente o implicitamente essa [la
logica] è soprattutto la via e la dimensione del pensiero metafisico». Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia,
Milano 1993, pp.152- 153
43 Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 407.
49
[L’appercezione] «contiene il fondamento stesso dell’unità di diversi concetti in giudizi, e perciò [il
fondamento] della possibilità dell’intelletto, persino nel suo uso logico».44 (Critica della ragion pura)
Heidegger ne riassume il significato in questo modo:
«Appercezione significa: 1. Essere anticipatamente presente, in quanto elemento unificante, in ogni
rappresentazione. 2. In tale anticipazione d’unità, essere ad un tempo legati all’affezione. L’appercezione così
intesa è «il punto più alto nel quale (an dem) …si deve… fissare l’intera logica»».45
Nel a priori, a cui si allude nel punto 1, sentiamo risuonare il vedere-di-vedere proprio
dell’ιδει̃ν greco, nel quale si è arroccato il senso di criterio, mentre nel punto 2 viene
chiaramente richiamata l’idea del bene come fondamento ultimo.
Il fondare dell’appercezione trae i suoi contenuti da un “noumeno in senso negativo”, ossia
“la x che è solo pensato come ciò che sta a fondamento dell’oggetto fenomenico”. L’essere
è così separato dalla ragione e per essere esperito, conoscibile, per avere alcun valore, deve-
essere sempre altro, e cioè pensiero:
«L’essere e le sue modalità devono potere essere determinati a partire dal loro rapporto con l’intelletto».46
44 Ivi, p. 408
45 Ivi, p. 409
46 Ibidem (corsivo mio)
50
Più in generale, tuttavia, questa determinazione dell’essere si verifica sullo sfondo di quella
comprensione metafisica che oppone un essere degradato, visto come natura appetitiva, al
dovere (Sollen) dell’imperativo categorico.
Heidegger, analizza “i postulati del pensiero empirico in generale” di Kant per spiegare
“propriamente le modalità dell’essere” nel pensiero critico. Egli considera tali postulati
come principi, Grund Satz (proposizioni fondamentali), fondamenti, e quindi come il
“punto più alto del pensiero”.47
«Tralasciando il chiarimento del titolo «postulati», ricordando però che questo titolo si ritrova nel punto più
alto della metafisica kantiana vera e propria, là dove si tratta dei postulati della ragione pratica».48
Ossia nel punto in cui viene posto al vertice della filosofia una nozione di libertà
inseparabile dalla stretta necessità di attenersi ad una legge. Vedremo in seguito che questa
idea si rivelerà utile a fare chiarezza sulle nozioni heideggeriane di necessità e di libertà.
Il passo successivo, ed ultimo, viene compiuto nel XIX secolo: l’essere inteso al modo della
filosofia critica, ossia l’oggetto sperimentabile per le scienze, viene interpretato come
valore.
47 Ivi, p. 412
48 Ivi, p. 413
51
Si ribadisce quindi più direttamente il ruolo del dovere in quanto criterio base :
«Il dovere deve sostenere la sua pretesa. Deve tentare di fondarsi in se stesso. […] Qualcosa come un dovere
non può che emanare da ciò che in se stesso è in grado di avanzare una tale pretesa, da ciò che ha in sé un
valore, che è esso stesso un valore».49
Il valore nasce in opposizione all’essere, poiché esso non è propriamente, ma “vale”,
tuttavia si finisce proprio con l’identificare i due opposti. Platone intese l’essere come idea,
l’idea come modello ed il modello come ciò che dà la misura; il valore così, dal momento
che dà una misura, viene equiparato all’essere. In realtà però esso esprime solo una vaga
forma di sussistenza, e pertanto
quando si arriva a parlare di un essere dei valori si arriva al colmo dell’inconsistenza.50
In Nietzsche, infine, il filosofo in cui si mostra il compimento della metafisica, la suddetta
confusione ontologica è ormai radicata –già il sottotitolo del suo progettato opus magnus,
La volontà di potenza, suona infatti, significativamente, “saggio di un rovesciamento di
tutti i valori”.
49 Introduzione alla metafisica, traduzione di G. Masi, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000, p.
202
50 Ivi, p. 203
52
4 - Il progetto di una ridefinizione del pensiero rigoroso ed il confronto con il ragionamento
normativo
Nel primo paragrafo abbiamo equiparato il mettere insieme ad un ordinare, la cui necessità
si è mostrata degna di essere domandata. Nel secondo abbiamo osservato che la necessità
del λέγειv viene posta in modo autonomo dalla componente tecnica del sapere filosofico.
Esaminiamo ora le conseguenze concrete di questa posizione nel tipo di ragionamento che
ne risulta determinato.
Dall’interpretazione platonica del λόγος alla volontà di volontà nietzscheana la filosofia
occidentale ha rivelato una specificità, che la ha distinta rispetto allo stile di pensiero delle
altre civiltà, nonché rispetto agli stessi pensatori greci dell’origine; e ha avuto anche
un’unità, che ha accomunato tutte le sue tappe interne, mostrandosi in pensatori e stili di
pensiero apparentemente inconciliabili tra loro, da Tommaso d’Aquino a Hegel, da Cartesio
a Nietzsche. Heidegger riconosce –o “pone”, a seconda dei punti di vista – questo carattere
fondamentale, e lo indica con la parola metafisica.
L’impiego ampliato del nome della “filosofia prima” lascia già intendere che il filosofo
ripudia il suo significato consueto.
Per le esigenze del nostro lavoro siamo costretti a rinunciare in partenza ad un
approfondimento esaustivo di cosa sia metafisica per Heidegger. Ci limiteremo a
53
considerare il modo essenziale in cui essa determina il dispiegarsi del pensiero occidentale,
ci rivolgiamo quindi al suo essere fondativa –vale a dire, al suo rapporto con il λόγος.
Il fondamento è la base su cui è possibile costruire una conoscenza certa. Il bisogno di
certezza muove l’attività della fondazione.
In quella che si può interpretare come una semplice fuga dall’arbitrio, o come la più folle
aspirazione a una correttezza assoluta, si manifesta il bisogno di poter riconoscere il vero
dal falso, di distinguere il discorso, κρίνειν λόγω. La metafisica, ricorrendo al fondamento,
aspira a padroneggiare il tipo di pensiero più rigoroso.
Abbiamo visto, nel paragrafo precedente, come l’interpretazione del λόγος subisca un
cambiamento quando il dimostrare prende il sopravvento sul mostrare. Il fornire
giustificazione (λόγον διδόναι) si adegua infatti all’idea secondo il dovere che da essa
emana in quanto modello, un dovere estraneo. Il pensiero così determinato è il normativo
per eccellenza, ossia la logica, una costruzione formale perfetta che serve ad ottenere la
verità, la cui strumentalità viene ritenuta neutralità.
54
È proprio a tale disciplina che la metafisica è legata indissolubilmente fin dall’inizio,51 ed è
tramite essa che la metafisica si muove nella dimensione della certezza.
Heidegger tuttavia nega che la certezza raggiunta comporti un maggior rigore e, al
contrario, la dottrina del corretto pensare segna, a suo parere, una decadenza rispetto al
λόγος originario.
Anch'egli afferma (1) il bisogno di un pensiero opposto nel modo più netto all'arbitrio, e (2)
che questo pensiero per essere tale debba essere necessario, dovuto, sia soggetto quindi a
una coazione rispetto ad una legge inaggirabile. L’ambito a cui si volge è però un punto di
confine, che può dialogare ma non si identifica propriamente con la metafisica: il λόγος di
Eraclito.
Ci chiediamo dunque: in cosa viene alla luce l’insufficienza della logica? E quindi quali
dovrebbero essere invece le sue caratteristiche?
La questione non si riduce ad un discorso sul metodo ma gli esiti di tali domande
coinvolgono la filosofia nel suo insieme. D’altronde stabilire concretamente il modo in cui
una logica possa configurarsi in un pensiero stringente ma aperto, in opposizione e ai
51 «Si può dire che cos’è la metafisica solo chiarificando l’essenza della «logica». Ma nello stesso tempo è
vero anche l’opposto: che cos’è la «logica» si chiarisce solo a partire dall’essenza della metafisica». Eraclito,
trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 166
55
margini rispetto alla metafisica, è un tema fortemente sentito da Heidegger, come
testimonia la ripetizione della domanda:
«Comment sauver l’élément d’aventure que comporte toute recherche sans faire de la philosophie une simple
aventurière?».52
Vogliamo qui analizzare la “logica heideggeriana” in rapporto alla logica formale.
Ovviamente non ci riferiamo a un presunto organon di un presunto sistema –questa
possibilità viene rifiutata dallo stesso filosofo – ma ci rivolgiamo soprattutto al tentativo
compiuto, nei semestri estivi ’43 – ‘44, di giungere ad una logica originaria attraverso
l’interpretazione di Eraclito. La breve nota introduttiva alle lezioni suona infatti:
«Il semplice intento di questo corso di lezioni è quello di raggiungere la «logica» originaria. La «logica» è
però originariamente il pensiero «del» Λόγος, se ad essere pensato è il Λόγος originario e se quest’ultimo nel
pensiero è presente per il pensiero stesso».53
52 Domanda rivolta ad Heidegger da J. Beaufret, riportata in Lettera sull’«umanismo», M. Heidegger,
Adelphi, Milano 1995, p. 101
53 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 122
56
Prima di poter entrare nel merito dei frammenti eraclitei è necessario presentare la
distinzione tra le due dottrine, ma spingeremo l’esame solo fin dove ciò è richiesto dal
confronto, senza tentare qui un chiarimento definitivo.
Prenderemo quindi le distanze dalla logica usando il suo stesso stile: formalizzando in una
lista di punti e in un linguaggio non completamente “heideggeriano” le differenze tra il
pensiero del filosofo e “lo studio dei metodi e dei principi per distinguere il ragionamento
corretto da quello scorretto”.54 Solo a partire da questa analisi sarà possibile, nei capitoli
successivi, orientarci verso un pensiero determinato da una necessità originaria.
1 - Un pensiero non indifferente e separato da ciò che pensa
La logica, all’interno della filosofia, ha tradizionalmente problematizzato aspetti metodici.
Più precisamente, l’analisi logica, si è rivolta e si rivolge ai meccanismi strutturali del
corretto pensiero, prima ed indifferentemente da una sua eventuale applicazione alle cose.
Una premessa dell’approccio logico è dunque il distacco di ciò che è pensato da ciò che è.
54 (Manuale di logica): Introduzione alla logica, Irving M. Copi e Carl Cohen, Il Mulino, Bologna, 1999, p.
19
57
«La logica, come enucleazione delle leggi del pensare e come istituzione delle sue regole, non ha potuto
nascere se non dopo che la separazione fra essere e pensare si era già compiuta»55
Tale distacco a livello storico, si può far risalire all’organizzazione del sapere nella scuole
platonica ed aristotelica. La logica ha d'altronde ancora un grande peso ed un’ampia
diffusione soprattutto nelle scuole, poiché, non essendo collegata direttamente ai
“contenuti” delle questioni filosofiche, viene ritenuta propedeutica all’esercizio del
ragionamento.
Heidegger, che ha spesso insistito sulla necessità di imparare a pensare, nel corso del
1925/26 ha distinto una logica scolastica tradizionale da una logica filosofante,56
mantenendo comunque, per la logica, il compito di custodire il rigore del pensiero.
Per raggiungere il senso autentico della logica e criticare la concezione invalsa, egli
riconduce la dottrina del λόγος al λόγος stesso e quindi allo stadio del pensiero occidentale
in cui
« Λόγος è la sola ed unica parola per essere e pensiero».57
55 Introduzione alla metafisica, traduzione di G. Masi, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000, p.
130
56 Logica, il problema della verità, trad. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1986, p. 10
58
La fenomenologia si è candidata a diventare una strada percorribile per fornire una visione
in grado di dare conto della compenetrazione dei due livelli ontologici, mostrando tanto i
contenuti noematici e le oggettualità in cui questi ultimi vengono costituiti, quanto gli atti
noetici costituenti.
Per allontanarsi dall’arbitrio che appartiene tanto ad una normatività positiva quanto ad una
semplice descrittività –che presuppone delle norme anche quando si vuole attenere al dato
oggettivo – Heidegger progetta negli anni venti di portare la fenomenologia alla vita. Il
motivo di una “ermeneutica della fatticità” è la persuasione che il rigore del pensare sia
fornito dal riconoscimento della necessità che collega essere e pensiero.
La maggiore prossimità tra i due piani ontologici viene riscontrata nella grecità: allora la
loro interpretazione convergeva verso un’unione
«Di fatto ci imbattiamo in un’originaria appartenenza di essere, φύσις e λόγος».58
57 Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 189
58 Introduzione alla metafisica, traduzione di G. Masi, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000, p.
132
59
Φύσις è, per Heidegger, la parola con cui i Greci dicono l’essere. Per gli antichi l’essere ed
il λόγος sono il medesimo, come Parmenide afferma nel frammento V (τò γάρ αυτò νοει̃ν
εστίν τε καì ει̃ναι).
La coappartenenza dei termini nel medesimo, però, non si esaurisce nella mera uniformità
dell’eguale, la loro unione non è semplice coincidenza ma turbamento. Essi corrispondono,
eppure devono differire.
«La logica nomina in questo caso il luogo in cui di volta in volta si accende la contesa originaria tra pensiero
ed essere».59
Νοει̃ν viene significativamente tradotto “apprendere”. Viene così sottolineato un aspetto di
de-cisione che nel λόγος deve dare, in qualche modo, prova di sé.
« Λόγος non può qui ora significare l’insieme raccolto (die Gesammeltheit), come connessione dell’essere,
ma, in quanto tutt’uno con l’apprensione, deve indicare quell’atto di violenza (umano) in forza del quale
l’essere viene raccolto nel suo insieme».60
Si ha, da una parte, l’onnicomprensivo, inevitabile raccoglimento che forma il pensiero e,
dall’altra, il discernimento. Entrambi sono la φύσις, ma la contraddicono anche, come
59 Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 189
60 Introduzione alla metafisica, traduzione di G. Masi, presentazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 2000, p.
175 (“qui ora” si riferisce al primo verso del sesto frammento di Parmenide)
60
diventa palese quando un atto umano si procura l’ordine, sebbene esso non faccia altro che
approfittare della possibilità insita, fin dall’inizio, nella libertà di riconoscere e scoprire il
senso, ossia di ubbidirgli. L’atto umano che si rappresenta “una logica” ha il fondamento
nell’autonomia per il lasciar-imporre il non-nascondimento dell’ente, che si mostra
completamente nella tecnica, e che già si manifesta già in quell’ordine (della
comprensione) che lascia riconoscere l’ordine stesso.
Per “violenza” intende solo la forza del distacco, il modo autentico di praticarla consiste
infatti in un “lasciare stare” la coappartenenza dell’essere e del pensiero. Il λόγος che lo
esprime infatti dice la loro medesimezza: è ομολογει̃ν.
In conclusione
«Il pensiero non è mai anzitutto «logico» perché segue le leggi del pensiero, bensì queste leggi esistono come
principi perché il pensiero è per natura «logico», cioè ponente fondamento (Grund-setzend), ed è così rinviato
al fondamento, vale a dire al λόγος inteso come l’essere dell’ente».61
Per il pensare, dunque, l’essere logico non è l’istituzione di una struttura migliorativa, ma è,
in realtà, l’osservanza del Λόγος, vale a dire il riscontro della medesimezza di essere e
pensare (che comunque rimane vero anche quando non la si riconosce).
61 Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 189
61
2 - Un pensiero riflettente, non deduttivo
Il riflettere appartiene al pensiero in quanto tale, ed è quindi comune tanto alla filosofia
della differenza quanto alla tecnica moderna.
Secondo Heidegger, ogni genere di pensiero non si limita ad autorispecchiarsi ma ruota
intorno a se stesso, ora in senso alto ora basso.62 Egli ricorre all’immagine di un rilucere
reciproco del pensato sul pensiero e del pensiero sul pensato.
Nello specifico, per il ragionamento dell’età moderna, che si preannuncia nell’ ιδέα e che
entra completamente in gioco nell’idealismo speculativo, si ha a che fare con un “ripiegarsi
all’indietro”:
«Da un lato ciò [la riflessione] significa ripiegamento (Rüchbeugung) su se stesso. Nella misura in cui il
pensiero, in quanto rappresentare, rappresenta qualcosa, in un certo modo appare a se stesso in ciò che è da
esso rappresentato e vi trova l’occasione per ripiegarsi all’indietro (sich zurüchbeugungen), cioè riflettersi sul
suo stesso rappresentare».63
Con un lieve eppure decisivo cambiamento di prospettiva, viene opposto a questo un
diverso senso di riflessione che immette il pensiero nella relazione al proprio riflettere
(ripiegarsi):
62 Ivi, p. 178
63 Ivi, p. 176
62
«Viceversa, nella misura in cui il pensiero è esperito in quanto rappresentare che pone innanzi a sé e porta
verso di sé ciò che è presente, al pensiero appartiene la relazione riflessiva (Rückbeziehung) con se stesso,
vale a dire la riflessione».64
Dunque l’alternativa al primo tipo di riflessione è un’altra riflessione, non un semplice
innalzamento o abbassamento del suo livello di profondità, bensì una reinterpretazione
della profondità stessa come suo elemento. Die Tiefe infatti non viene pensata in
opposizione all’altezza ma relativamente all’idea di una vastità che si apre occultandosi,
come può essere quella di un bosco profondo.
«Se però esiste qualcosa come un «superamento» della forma moderna della riflessione, ossia della riflessione
della soggettività, questo superamento diventa possibile solo mediante un’altra riflessione».65
Questa riflessione si dirige a ciò per cui l’uomo ha una inclinazione e da cui egli è amato ed
attratto. Ciò rivolge all’uomo un appello che lo richiama all’amore per la propria essenza
(nel senso che chiede che essa sia mantenuta). L’origine del richiamo è tenuta e tiene
nell’essenza solo se l’uomo la ri-tiene, non la lascia cadere dalla propria memoria.
Quello che nel più profondo si ama è quello che deve essere considerato (das zu-
Bedenkende) e ri-tenuto, ossia raccolto nella memoria.
64 Ivi, p. 177
65 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993. p. 139
63
Il pensiero rammemorante (Andenken) schiude l’accesso al pensiero profondo.
«Se però pensiamo agli oggetti nominati in quanto cose, cioè li esperiamo rammemorando, essi non ci
rinviano alle nostre prospettive e rappresentazioni, bensì accennano a un mondo in base al quale sono ciò che
sono».66
Il pensiero rammemorante, altrettanto quanto l’origine disconosciuta della logica segnano il
continuo sforzo di mantenere l’essenziale, mentre la dottrina logica, e quindi tutto il
pensiero metafisico, ha preliminarmente individuato le proprie premesse, stabilendone in
anticipo il significato. Di conseguenza la garanzia del modo in cui si dispiega la correttezza,
cioè l’inferenza, conduce efficacemente alla verità solo se quanto conclude è già implicito
nelle sue premesse. La verità suprema è così l’autocoincidenza di una tautologia in senso
tradizionale (non un λέγειv το αυτό), ossia una chiusura e una ripetizione.
3 - Un pensiero che affronti il negativo ma non sia dialettico.
Per Heidegger la riflessione e la dialettica sono strettamente collegate:
«Solo nella dimensione della dialettica vengono completamente alla luce il perché e il modo in cui il pensiero
è riflessione».67
66 Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 177
67 Ivi, p. 116
64
La dialettica si è affiancata alla logica fin dall’inizio, in modo tale che anche a livello
linguistico, come ricorda il filosofo, “il greco λέγειv rimane presente nel nome
«dialettica»”68. Alla luce di questa presenza, il senso di διαλέγεσθαι viene indicato come:
««Percorrere qualcosa mettendo insieme». Questo legen che percorre tutto, si dice in tedesco überlegen, che
significa: «meditare su qualcosa e in tal modo attestare (belegen) ciò che è pensato»».69
Avviene così un ripiegamento tra l’attività pensante di un io ed il suo prodotto, si delinea
un ambito in cui il pensiero raggiunge se stesso: è il cogito ergo sum, con il quale, secondo
Hegel la filosofia può finalmente dire “terra!”.
Heidegger tuttavia vede in questa delimitazione, che si verifica nel ripiegamento, la
parzializzazione a cui la dialettica non riesce a reagire.
«Ogni dialettica è il tentativo di integrare questa limitatezza del pensiero […], vale a dire di determinare il
pensiero in base a un intero della sua essenza razionalmente intesa. Tuttavia tale intero rimane pur sempre in
ultima analisi la luce senz’ombra della ragione e della soggettività assolutamente certa di se stessa».70
Il merito più grande della dialettica, riscontrabile in un certo senso già in Platone, quando
viene contravvenuto il divieto parmenideo di pensare il non essere, è quello di affrontare il
68 Ivi, p. 138
69 Ibidem
70 Ivi, p. 175
65
negativo. È alla “forza del negativo” che Hegel imputa il movimento del proprio pensiero,
il quale ne è intriso così profondamente da portare all’abbandono, nella Scienza della
logica, del principio di non contraddizione.
La logica originaria condivide l’esigenza di affrontare il negativo, ma non il modo in cui
tale bisogno viene interpretato dalla dialettica.
Come già emerge in Essere e tempo, la negazione non si radica al livello di un rapporto
difettivo tra gli enti, ma è il “no” che arriva all’esserci dal proprio silenzioso e angosciato
essere “colpevole”, vale a dire:
«Essere fondamento di un essere che è determinato da un «non», cioè essere fondamento di una nullità».71
C’è dunque una negazione, la più fondamentale e spaesante, nello stesso abbandono
dell’essere.
Ciò segna la lontananza di Heidegger dal superamento del negativo che si verifica quando,
nella dialettica, la negazione viene compresa nel sistema.72
Per cogliere il senso dell’ineliminabile immanenza del “no” è illuminante l’interpretazione
della tragedia in Nietzsche, la critica mossa dal maestro dell’eterno ritorno alla catarsi
71 Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1970 (XIV ristampa), p. 343
72 Cfr. punto 6
66
aristotelica: in essa manca un avvicendamento delle passioni volto alla soluzione finale, ma,
al contrario, viene affermata l’appartenenza del terribile al bello.73 Il pensiero tragico viene
così opposto all’ottimismo dialettico di Socrate. In questo passaggio il corretto approccio
del pensiero non si radica per Nietzsche nella pace della chiarezza ma nella massima
inquietudine, è sotteso alla differenza tra le forze.74 Similmente per Heidegger il pensiero
ha il suo elemento nella έρις75, e non tende a una possibile conciliazione ma mantiene il suo
insuperabile legame al negativo. L’ultima citazione che chiude il discorso di rettorato può
essere ascoltata in tal senso:
«Tutto ciò che è grande… è nella tempesta».76 (Platone, Politeia 497 d,9)
73 Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2000, p. 237
74«Sappiamo già che la vita psichica non è la trasparenza del senso né l’opacità della forza, ma la differenza
nel lavoro delle forze. Nietzsche diceva questo». J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Venezia
1999, p. 260
75«La lotta è il cangiante e consapevole auto-esporsi dell’essenziale […]». L’autoaffermazione dell’università
tedesca, il melangolo, Genova 2001, p. 54
76 L’autoaffermazione dell’università tedesca, il melangolo, Genova 2001, p. 45
67
La logica e la dialettica componendo l’opposizione, l’instabilità, la contraddizione,
l’antitesi in una forma razionale e poi, eventualmente risolvendole, distolgono, in realtà, la
loro attenzione dall’esperienza autentica del “non”. In questo modo alla razionalità è
preclusa, ad esempio, la comprensione dell’immanente, incomponibile contraddizione
dell’eterno sorgere tramontante della φύσις. La mancanza del bisogno di superamento viene
dunque sancita con la massima decisione, come testimonia anche il paradosso che vede la
circolarità logica diventare addirittura, per il filosofo, il segno che si è raggiunto il punto in
cui inizia ad esserci qualcosa degno di essere pensato.
4 - Un pensiero non tecnico ma “poietico”
Questa antitesi ripropone la differenza tra tecnica moderna e poesia: da una parte si è soliti
vedere l’affidabilità dello strumento e dell’altra l’azzardo del “soggettivo”. In realtà però
una simile impostazione nasconde, secondo Heidegger, il rischio insito nella tecnica, il
pericolo per eccellenza, che consiste nel fraintenderne il significato essenziale. L’essenza
della tecnica infatti non è né meramente strumentale, né neutra, ma al contrario impone il
suo ordine al mondo e all’uomo, invertendo i ruoli di comando. Attraverso di essa tutto
viene incontrato come un “fondo”,77 e l’uomo stesso diventa una “risorsa umana”78.
77 Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 12
68
Per quanto riguarda il significato della poesia, invece, non ci si rifà all’accezione letteraria
(Poesie) della parola, ma al poetare (dichten) che intende quel modo in cui per un popolo si
apre storicamente il suo mondo nello storicizzarsi del linguaggio.
«La Poesia [Dichtung] qui è pensata in un senso così ampio e, ad un tempo, in così intima ed essenziale unità
col linguaggio e la parola, da lasciare aperta la questione se l’arte, in tutte le sue maniere, dall’architettura alla
poesia [Poesie], esaurisca veramente l’essenza della Poesia [Dichtung]».79
“…Poeticamente, abita l’uomo…” è il verso Hölderliniano con cui il filosofo pensa il
senso dell’ethos. L’uomo è già sempre legato immediatamente alla poesia, ma rimane da
individuare cosa essa nomini a livello originario. Heidegger lo indica citando Platone:
«Ogni far avvenire di ciò che –qualunque cosa sia – dalla non-presenza passa e si avanza nella presenza è
ποίησις, produzione (Her-vor-bringen)».80
78 A tal proposito viene detto: «L’uomo è l’impiegato (der Angestelle) dell’ordinare […] L’uomo è ora colui
che è ordinato nell’ordinare in base a esso e per esso». Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano
2002, p. 53
79 Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La nuova Italia, Firenze 1997, p. 58
80 Platone, Simposio (205 b), tradotto da Heidegger in: Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano
1976, p. 9
69
Abbiamo già incontrato il pro-durre a proposito della τέχνη greca. Tentiamo quindi di
riportare queste nozioni al discorso precedentemente svolto.
La τέχνη e la ποίησις greche sono quasi sinonimi quando si riferiscono all’operare
dell’artigiano o dell’artista. Eppure:
«Il disvelamento che governa la tecnica moderna […] non si dispiega in un produrre nel senso della ποίησις.
Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione (Herausfordern)».81
Lo scarto presente tra la tecnica quale la esperiamo noi oggi e la sua versione antica può
apparire incolmabile, ma per il filosofo, stante il cambiamento, in entrambi i casi ciò che
appare è un modo del disvelamento.
«Ora, quell’appello provocante che riunisce l’uomo nell’impiegare come «fondo» ciò che si disvela noi lo
chiameremo il Ge-stell».82
Questa parola indica l’essenza non posta in questione.
«Il Ge-stell come essenza della tecnica moderna deriva dal lasciare lì dinnanzi (λόγος) come lo intesero i
Greci, dalla ποίησις a dalla θέσις greche. Nel porre [stellen] di questo secondo Ge-stell, cioè, ora, nella
richiesta di porre ogni cosa in uno stato di sicurezza, si annuncia l’esigenza della ratio reddenda, cioè del
λόγον διδόναι; di modo che tale richiesta assume, nel Gestell, la potenza dell’incondizionato e il rappresentare
81 Ivi, p. 11
82 Ivi, p. 14
70
[Vor-stellen = porre-innanzi] trapassa dal percepire in senso greco, al porre-innanzi in modo sicuro e
garantito».83
Dunque un pensiero, un linguaggio, tecnico non viene rifiutato perché lo si voglia sostituire
a vantaggio di un altro tipo di strumento filosofico (ad esempio la ποίησις), poiché
l’appartenenza alla tecnica è inevitabile. Tuttavia è possibile prenderne le distanze in virtù
del modo in cui si è compresi al suo interno: riconoscendo l’inessenzialità che lo interpreta
come strumento ed orientandosi verso il suo fondamento originario nella ποίησις, appunto.
5 - Un pensiero rigoroso non oggettivo
Dal punto di vista della scienza, in tutte le sue “-logie” particolari, l’oggettivo è il dato, la
realtà, il fondamento certo. L’oggettivo è ritenuto ciò che è massimamente certo,
indipendente da pregiudizi, ciò che è separato dal soggetto, un stato di cose, ma anche ciò
che è unito indissolubilmente al soggetto per mezzo di un stile di pensiero “adeguato” (il
pensiero che si adegua alla forma “soggetto – oggetto”).
A partire dall’epoca moderna quello oggettivo è stato uno “stile” con delle caratteristiche
ben precise: quantitativo – in quanto legato a valori –, legittimato dal ricorso a delle sue
83 Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La nuova Italia, Firenze 1997, p. 67
71
proprie leggi fondamentali, consequenziale e metodico, nonché dimostrabile,
rappresentabile e rappresentativo; equiparabile, in breve, al calcolo.
Contro questo paradigma teorico Heidegger rivolge le stesse critiche che dirige alla pretesa
del calcolo di applicare un metodo che conduca alla verità: abbiamo già visto che non un
metodo, ma un saltus può portare l’uomo nell’essenza del fondamento; la verità in
questione, poi, è la correttezza del riferimento tra l’intelletto e la cosa, e non dice nulla
circa l’ente nel suo essere non-nascosto.
Il pensiero che ora domina si è imposto come l’unico strumento valido per la conoscenza.
La visione che ha di sé dipende dal proprio modo oggettivo di vedersi, così come il proprio
essere strumento è interpretato in modo strumentale.84
Tale prospettiva viene messa in discussione, prima di tutto, partendo dal punto di vista della
scienza storica, la quale, secondo il filosofo, non permette di accedere a quel significato
proprio delle epoche che, solo, può configurare un ordine. In essa c’è già, infatti, un criterio
ordinatore che consiste nella successione cronologica, e nella “traduzione” unilaterale del
passato nella comprensione della modernità. Heidegger chiama la storia intesa in questo
modo Historie, storiografia, e da essa distingue la storia (Geshichte) nella quale egli
84 Cfr. punto 4
72
sottolinea il peso della dipendenza etimologica da “destino” (Geshick). Una traduzione in
italiano, quindi, oltre al significato “storia”, richiamerebbe anche al senso di una
destinazione. Ciò che viene destinato, il senso proprio di ogni epoca, è la donazione -
privazione dell’essere.
L’oggettività viene criticata partendo dalla sua storia, incontrata però in base alla
concezione di Geshichte sopra presentata.
In questo caso, la ricostruzione dello sviluppo di un paradigma, non preordinato
dall’osservanza dei suoi stessi principi, ma esposto in base all’affermazione dei suoi
momenti decisivi –così come, senza garanzie, con il rischio dell’errore, sono stati
individuati da uno sforzo di comprensione originaria –, ha come risultato l’individuazione
di un fallimento.
L’insuccesso, in cui la razionalità è incorsa, consiste nell’essersi allontanata dalla propria
meta: il rigore.
È questo un tema molto presente nelle opere heideggeriane, talvolta sotto forma di
considerazioni incidentali, tal altra in maniera più estesa.
La nascita di un problema del rigore ha, inoltre, anche una attestazione molto precoce e
determinante che risale ai primi passi compiuti verso la rielaborazione della fenomenologia.
73
Si pensi, in particolare, al rifiuto husserliano di attribuire alla filosofia la funzione di fornire
una visione del mondo (Weltanschauung).85 La mancanza di rigore di cui questa
interpretazione del mondo è sintomo viene ricondotta da Heidegger al pensiero
rappresentativo proprio dell’età moderna, e quindi all’oggettivazione che permette ai
soggetti di fare i loro calcoli. L’oggettivo si esperisce, infatti, in base al modo di incontrare
l’ente come oggetto, il che presuppone l’attività di un soggetto, che lo ponga dinnanzi –ma
che ad esso rimanga anche vincolato.
«L’oggetto (Gegenstand) nel senso di ob-ietto si dà solo quando l’uomo diventa soggetto, quando il soggetto
diventa io e l’io diventa ego cogito, solo quando questo cogitare viene concepito nella sua essenza come
«unità originariamente sintetica dell’appercezione trascendentale», solo quando il punto supremo della
«logica» è raggiunto (nella verità come certezza dell’«io penso»)».86
Il fondamento ultimo della razionalità –e quindi la cogenza del ragionamento scientifico –
consiste nel ritrovarsi anticipatamente dell’uomo nell’essente, attraverso la forma del
soggetto.
«L’ente in quanto ente è un sub-jectum (υπο-κείμενον), qualcosa che pre-stà in base a se stesso, qualcosa che
come tale sta anche alla base delle sue proprietà costanti e dei suoi stati mutevoli. Il predominio di un
particolare sub-jectum (come fondamento di ciò che è fondamentale), la cui particolarità sta nell’essere sub-
85 Cfr. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, laterza, Bari 2000, pp. 71-106
86 Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 55
74
jectum in modo essenzialmente incondizionato, deriva dalla pretesa umana ad un fondamentum inconcussum
veritatis (di un fondamento autonomo e indubitabile della verità intesa come certezza) ».87
Per mezzo della rappresentazione, dunque, l’uomo calcolatore diviene sicuro dell’ente e,
contemporaneamente, la sicurezza di sé e dell’ente viene fatta dipendere dal tipo di
rapporto soggetto-oggetto.
In conclusione, quindi, il genere di pensiero in questione è considerato non rigoroso perché
non segue o ricerca la verità (Άλήθεια) e la sua legge, bensì attribuisce indiscriminatamente
a tutto la rappresentazione di sé. Un simile comprendere, “porre trappole” è coprente
perché sordo all’essere dell’ente che si manifesta nella storia (si tratta, d'altronde, di un
pensiero storiografico).
Pertanto, sebbene nella filosofia della differenza non sia contemplata la possibilità di
negare o ignorare il paradigma teorico moderno, è comunque lecito porlo in questione e
non abbandonarsi ad esso incondizionatamente, cosicché nella logica originaria la necessità
di rigore non sia declinata nella maniera dell’oggettivo.
87 Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La nuova Italia, Firenze 1997, p. 94
75
6 - Un pensiero che segua un cammino, ma non vada “avanti”.
Alla logica vengono estese alcune caratteristiche fondamentali della scienza moderna:
anch’essa viene considerata perfettibile, cumulativa e progressiva. Si tende a interpretarla
nell’ottica di un’evoluzione, non solo per quanto concerne il ramo induttivo (al quale il
metodo scientifico appartiene), ma anche rispetto alla totalità del suo impianto. Viene
infatti riconosciuta una linea storica di cambiamento composta da teorie sempre più efficaci
in risposta ai vari problemi sorti nel tempo.
La logica del filosofo, al contrario, non procedere ma si muove, per così dire, spinta da una
forza centripeta.
«Stando infatti [un pensatore] con le sue domande nel suo pensiero, questi è già da sempre più avanti di
quanto sappia […] Le espressioni avanti e non avanti… sono proprie dell’ambito della scienza e della tecnica,
nel quale il progresso è necessario e dove soltanto possono essere calcolati avanti e non avanti. In filosofia
non c’è progresso, quindi nemmeno regresso. Qui –come nell’arte – rimane da chiedersi solo se essa sia o non
sia se stessa.88
Heidegger, muovendo questa obiezione a chi considerava la fedeltà di Nietzsche al tema
dell’eterno ritorno come una incapacità di sviluppare una filosofia, risponde, in realtà,
anche all’insuperato legame del proprio pensiero rispetto alla domanda sull’essere. Come
88 Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2000, p. 269
76
ribadisce nel confronto con Hegel, il bisogno di “andare avanti” non attiene alla filosofia, e
anzi contraddice l’interrogazione autentica circa la verità. In modo diametralmente opposto
alla Darstellung, la Darlegung89 heideggeriana, qualora le si dovesse attribuire una
direzione, andrebbe all’indietro, verso ciò che non è stato pensato in quello che è avvenuto.
«Per noi il carattere del colloquio con la storia del pensiero non è più il superamento [Aufhebung], ma il passo
indietro […] Il passo indietro indica nella direzione dell’ambito, trascurato fino ad oggi, a partire da cui
l’essenza della verità diventa, più di ogni altra cosa, degna di essere pensata [denkwürdig]».90
Il passo indietro, come viene dichiarato nello stesso luogo, “non indica un passo isolato del
pensiero ma il modo di incamminarsi del pensiero [die Art der Bewegung] e un lungo
cammino [Weg]”.
Il passo indietro ci immette nella metafora viatica che accompagna tutta la sua filosofia da
“In cammino” verso il linguaggio, a Segnavia, a Sentieri interrotti. Il filosofo dà, dunque,
coscientemente al percorso e al camminare il compito di simboleggiare il proprio lavoro,
come testimonia il motto in esergo all’opera omnia: Wege – nicht Werke.
89 «Presentazione», in cui «udiamo nel contempo il senso greco del λέγειv come far «stare dinanzi ciò che
appare»». Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 141
90 Identità e differenza, trad. di U.M. Ugazio, in «aut aut», 1982, nn. 187-188, p. 22
77
7 - Un pensiero che possa pensare la propria origine ed il proprio altro
La domanda circa l’origine delle leggi fondamentali della logica non segue i criteri in base
ai quali si può ottenere una risposta logicamente valida. E questo vige più in generale per
tutto il pensiero che si vuole ritenere corretto: si riconosce tradizionalmente un
cambiamento, un innalzamento di rango, tra il ragionamento comune e quello rigoroso. C’è
una diversità tra i due, l’uno è interno e l’altro esterno ad un ordine, eppure entrambi sono
oggetto dello stesso tipo di sguardo ordinatore (l’illogico, ad esempio, deve essere
comunque almeno psico-logico o antropo-logico).
A monte delle varie dottrine viene attuato un approccio logico-scientifico che ha
anticipatamente stabilito il modo in cui qualcosa possa avere senso. Cogliere alcunché,
quindi, significa ridurre un “x” ad una spiegazione in base ad una comprensibilità.
Tale maniera di incontrare le cose è una modalità della riflessione (chiamata da Heidegger
“ripiegamento”91) che richiama, nella cosa di volta in volta rappresentata, l’atto con il quale
un soggetto la rappresenta, e quindi il soggetto stesso.
È facile notare che, in una simile impostazione, un completamente altro sarebbe
impensabile o assurdo a priori.
91 Cfr. punto 2
78
Nel considerare un determinato ragionamento non logico, lo si incontra per mezzo degli
stessi criteri di una “logia”, salvo poi considerarli, nel singolo caso, inapplicabili, riducendo
così il grado di certezza cui si ambisce. Il modo di rivolgersi a qualcosa non è posto in
questione, proprio perché è in esso che si riconosce l’unico elemento stabile e unificante.
Il pregiudizio che consente questo comportamento assume che tutto sia osservabile
razionalmente, anche l’assenza della razionalità, poiché lo stile di pensiero di oggi non solo
viene visto come uno tra i tanti che si sono succeduti e sviluppati ma è prima di tutto, esso
stesso, il metro dell’essente.
Una giustificazione per l’impiego generalizzato del punto di vista della ragione è la sua
neutralità dovuta all’essere una struttura vuota, uno strumento, dotato di una correttezza
oggettiva, impiegabile seguendo un metodo corretto (che ambisce ad avvicinare il suo
grado di certezza a quello della deduzione). Le critiche heideggeriane a tali determinazioni
sono già state presentate nei punti precedenti.
Al ragionamento calcolante, tuttavia, il filosofo non contrappone semplicemente
l’alternativa di un nuovo pensiero.
Le aspirazioni del suo percorso filosofico sono, in un certo senso, più limitate e partono
dalla consapevolezza di un condizionamento metafisico inevitabile per tutta la storia
79
dell’occidente, tanto nella violenza del suo inizio quanto nella forma estrema del suo
compimento. La ragione nell’evo tecnico si è chiusa in un cerchio
«che, in quanto cerchio, è sì chiuso, ma in quanto chiuso conserva tutt’intorno un rado ed un aperto entro cui,
forse, chiama un non detto, senza di per sé mostrarsi».92
Heidegger assume quindi il pensiero metafisico ma con la ricchezza dell’impensato che gli
è propria. È a partire dalla sua storia che diventa praticabile il “passo indietro”93 con il
quale egli definisce il modo di dispiegarsi della filosofia della differenza.
Tale atteggiamento, da cui si è sviluppato il decostruttivismo, non pretende di poter
demolire la struttura dell’interpretazione in cui si è compresi.
La reazione heideggeriana al pensiero calcolante è simile a quella nietzscheana contro il
nichilismo: come il serpente-nichilismo, in Zarathustra, può essere ucciso dal pastore
unicamente quando egli abbia rinunciato a strapparlo dall’esterno, così l’uomo
contemporaneo deve assimilare l’ultima forma in cui si è manifestato il sapere della
metafisica, la volontà di volontà della tecnica, per poter sperare in un nuovo inizio.
Heidegger ricerca per l’essere una parola
92 Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, p. 119
93 Cfr. punto 6
80
«Perciò per dire l’essenza dell’essere la lingua dovrebbe trovare un'unica parola, la parola unica».94
Ciò nondimeno, il suo pensiero si raccoglie nel silenzio, ove unicamente è possibile
ascoltare, in Essere e tempo, il “no” del più proprio angosciato essere-colpevole, ed auto-
progettarsi nell’essere-per-la-morte; e donde unicamente è possibile, negli scritti più tardi,
ascoltare il richiamo dell’amore per il più profondo, l’Andenken.
La sua riflessione è limitata dalla stessa presupposizione dell’altro: non “indaga” o
“rappresenta”, ma “ascolta”, eventualmente anche senza successo, qualora l’altro non si
manifesti.
All’illuminazione totale dell’ υποκείμενον oppone una reciprocità tra l’uomo e l’essere, in
cui il pensiero non è solo, non è autosufficiente e non dà la misura di un rapporto
all’alterità.
La logica originaria, non essendo compresa in una totalità includente, può anche risalire
all’origine del λόγος, non interpretandola però come l’evidenza dell’assioma ma come la
fonte di un mistero, la cui conoscenza si traduce nella sua preservazione in quanto mistero.
94 Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La nuova Italia, Firenze 1997, p. 342
81
5 - Logica originaria
5.1 Apollineo
Il bisogno di un punto di vista che possa permettere ad Heidegger di criticare in toto
l’impostazione onto-logica porta il filosofo ad interrogarsi sul senso λόγος a partire dal
momento storico che offre l’angolo più ampio nell’osservazione della parabola della
metafisica.
La ricerca del λόγος originario si struttura attraverso il confronto con il filosofo del λόγος
per antonomasia, Eraclito.
Come si accosta Heidegger al presocratico?
Alcune costanti interpretative vengono capovolte, come, ad esempio, l’idea di
incompletezza dovuta all’esiguità e frammentarietà dei brani eraclitei giunti fino a noi. Non
disporre di un’intera opera viene considerato, al contrario, come un occasione per dedicarsi
con maggior attenzione e più approfondimento allo studio delle frasi rimaste. Una
attenzione che possa salvare i frammenti dai giudizi semplicisti che hanno associato le
questioni dei pensatori iniziali ai problemi della metafisica e che li hanno ridotti a sentenze
generalmente condivisibili anche se spesso ambigue o “primitive”.
82
L’intervento ermeneutico sul presocratico viene prefigurato dalla riflessione sugli stessi
aneddoti greci che lo riguardano: la sua importanza che si accorda ad una apparente
semplicità (aneddoto del forno); l’essenzialità, in virtù della quale disdegna le questioni
politiche (aneddoto del fanciullo).
Soprattutto, però, Heidegger premette a tutto il suo studio il richiamo al forte legame del
pensatore antico, Efesino, al culto della dea Diana e quindi a suo fratello Apollo. Non si
tratta di una nota prettamente biografica ma, come viene fortemente ribadito,95 di un
elemento condizionante per la filosofia.
Nella pubblicazione del corso del 1943,96 infatti, il richiamo al dio –quasi fosse una
rielaborazione del τόπος dell’invocazione – appare all’inizio e alla fine, nelle posizioni
chiave che raccolgono l’insieme del cammino interpretativo percorso. Il λόγος viene così
posto sotto gli auspici di Apollo.
Il gesto fornisce un aiuto importante alla chiarificazione del λέγειν inteso come “regolare”:
l’analisi viene orientata più precisamente alla regola, alla legge e all’ordine attraverso
l’ambito semantico che si raccoglie intorno al dio delfico.
95 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 16
96 L’inizio del pensiero occidentale, in Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993.
83
La regola si applica infatti a ciò che ha misura, proporzione, nel dominio di ciò che è
chiaro, che ha forma e limite. Vengono richiamate la coerenza, la comprensibilità, la
consequenzialità e quindi una struttura e una parola rigorosa. Si delinea il mondo olimpico
della luce, che garantisce il rapporto tra gli uomini. La legge, come νομός, è legata al loro
accordo – ordine, gerarchia – al discorso, al parlare in pubblico per annunciare (κατ-
αγορεύειν) e quindi anche all’asserzione.
L’armonia, il limite, la forza governata – Heidegger ne parla in toni pressoché neoclassici –
offrono l’orientamento per accostarsi al λόγος.
«È in virtù del suo contorno che nella luce greca la montagna si staglia nella sua quiete. Il limite fissato è la
sorgente del riposo –e proprio nella pienezza della mobilità».97
Sarebbe facile qui pensare che, ad essere introdotto, sia uno dei due principi dell’arte
all’origine della tragedia attica. Non è così:
«Il pensiero di Eraclito […] diventa un pensiero «apollineo». Noi usiamo questa denominazione in un senso
ancora da chiarire e che si distingue tanto dal concetto di apollineo elaborato da Nietzsche, quanto dai
rimanenti concetti in uso nella cerchia dell’«umanesimo» e di ogni forma di «classicità»».98
97 Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La nuova Italia, Firenze 1997, (aggiunta apparsa nel 1961), p. 66
98 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 17
84
Il punto in cui viene chiarito il senso filosofico della devozione eraclitea ad Apollo è
l’analisi del frammento 93, nelle ultime pagine.
«Il signore il cui luogo della profezia che dà indicazioni si trova a Delfi, non disvela (soltanto), né nasconde
(soltanto), bensì dà segni».99
Il σημαίνειν è non pienezza, travaglio, differenza. La traccia che il dio lascia si protende
oltre la comprensibilità precostituita del pensiero metafisico, poiché allude, fa cenno al
contrasto originario presente nella φύσις . Disvelando e nascondendo allo stesso tempo,
l’indicare viene corrispondere al darsi dell’essere.
Dal punto di vista di Heidegger, la diversità del proprio apollineo rispetto al concetto
nietzscheano è inevitabile, data l’interpretazione in senso metafisico del maestro dell’eterno
ritorno. Ma, proprio per questo, si può cogliere una singolare somiglianza tra i due
rivolgendo l’attenzione alla lettura che Derrida fa di Dioniso:
«Se con Schelling è necessario dire che “tutto non è che Dioniso”, è anche necessario sapere che come la
forza pura, Dioniso è travagliato dalla differenza».100
99 Ibidem
100 J. Derrida, La scrittura e la differenza, trad. di G. Pozzi, Torino, Einaudi, 1971, p. 36
85
la figura di Dioniso per il francese rammemora la differenza nel suo essere in atto, non è la
rappresentazione oggettivante di un soggetto. È in tal senso che il σημαίνειν di Apollo è
accomunato ad una lettura non heideggeriana del dionisiaco nietzscheano.
Il presupposto per questa associazione è la “retroazione” sul linguaggio di una contesa
originaria, il cui non detto increspando la parola dà una traccia di sé non solo in quello che
la parola dice ma anche nella parola stessa. È come se il linguaggio, di fronte alla propria
insufficienza ad esprimere ed esporre, faccia un passo avanti, tentando di somigliare e di
trasformarsi in quello che il detto vorrebbe – ma non può – dire. Non si ha a che fare con
un’adequatio ma, in un certo senso, con qualcosa di meno: un indicare della traccia che, a
differenza della “cifra” del calcolo, necessita di uno sforzo per essere compreso (anche
rispetto alla possibilità di essere riconosciuto, esso stesso, come traccia).
In breve, nell’interpretazione di Eraclito, l’apollineo significa molto di più di uno stile del
pensiero, è il modo di aprire, di volgere la comprensione alla natura dell’ordine.
Nell’abissale distanza tra l’ordine ed il totalmente altro ciò che si mostra degno di essere
domandato è l’origine e l’essenza dell’ordinare.101 Questa è paragonabile ad un dovere
intrinseco, che però nella storia del pensiero si è sempre manifestato in forma derivata,
101 Cfr. tesi, III, §1
86
imposto dalla preponderante componente tecnica del λόγος. Ora, indipendentemente
dall’appartenenza o meno del presocratico al metro metafisico –giudizio su cui Heidegger
muta opinione nel tempo –, la riflessione dell’”oscuro” fornisce il contesto nel quale
rintracciare il dovere essenziale.
Il “luogo” in cui si dispiega la filosofia di Eraclito è infatti il margine tra il regolare e
l’alterità.
Attraverso quattro parole guida: il λόγος, l’αρμονία, la φύσις ed il κόσμος, il senso del
regolare viene determinato a livello originario.
«Il λόγος è una parola fondamentale di Eraclito, che per lui non significa dottrina, discorso o senso, bensì la
riunificazione che disvela, nel senso dell’unità armonica e dell’inappariscente accordo. Λόγος – αρμονία –
φύσις – κόσμος dicono la stessa cosa, ma ogni volta esprimono una diversa determinazione originaria
dell’essere».102
Tra i quattro, il λόγος ha però un ruolo più importante: si trova affiancato agli altri termini,
ma permette anche la loro comprensione:
«Il dire stesso deve essere compreso come un rapportarsi all’unità dell’accordo che dischiude però al tempo
stesso questa stessa unità».103
102 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p., p. 118
103 Ivi, p 117
87
Dopo aver riconosciuto nelle parole chiave della filosofia di Eraclito l’espressione di una
“determinazione originaria dell’essere” è pertanto necessario ora chiarire in che modo essa
si configuri primariamente come ordine, e non ad esempio come una energia o una volontà
che attraverso un ordine possano essere spiegate.
5.2 Configurazione naturale - cosmica dell’ordine
Il mutamento della logica voluto da Heidegger viene sviluppato in base alla concezione
eraclitea di ordine, ossia in base ad un ordine essente.
La meditazione del filosofo inizia prendendo in esame la φύσις, è infatti a partire da essa
che si dispiega un’alternativa al pensiero della correttezza. Tuttavia questa stessa alternativa
viene anticipatamente richiesta ed accettata nell’analisi della φύσις la quale designa, in
contrasto con la logica tradizionale, tanto uno degli elementi di un’opposizione quanto
l’essenza del loro rapporto. Nel caso in cui si voglia prendere seriamente in considerazione
la meditazione sull’origine, si deve quindi abbandonare il tipo di ragione che riduce la
dinamica della φύσις ad un’asserzione “irrazionale” del genere “A e nonA = A” –
l’abbandono comunque non implica già l’acquisizione completa della logica originaria.104
104 «Ci muoviamo quindi in un circolo: presupponiamo che il detto sia un detto del pensatore e sulla base di
questo presupposto mostriamo che il detto, pensato essenzialmente, dice qualcosa di diverso da ciò che
88
L’indagine prende l’avvio da due frammenti (il numero 16 ed il numero 123) che per livello
di importanza vengono riclassificati come primo e secondo, e che rispettivamente recitano:
«come potrebbe qualcuno nascondersi di fronte a ciò che non tramonta mai?» (n°16) e «il
sorgere dona il favore al nascondersi» (n°123).
Il non tramontare mai viene equiparato ad un eterno sorgere, e “ciò che sorge da se stesso e
quindi si manifesta e si fa presente, si chiama τά φύσει όντα, oppure τά φυσικά”.105
Il participio tradotto “ciò che… tramonta…” (δυ̃νον) viene inteso in senso verbale, come “il
tramontare”, nello stesso modo in cui si intende la domanda sull’ente di Aristotele (τì τò
όν?), nel cui participio si lascia risuonare anche la domanda sull’essere (τì τò ει̃ναι τών
όντων?). Nel senso verbale viene pensato anche l’essere: verbale in tedesco è Zeit-wort è
«parola che esprime un tempo»106 e quindi primariamente la parola “essere”, in virtù della
cooriginarietà di essere e tempo.
Nella φύσις però l’essere è pensato in modo più diretto di quanto avvenga per il semplice
impiego di una forma verbale, come viene affermato attraverso la domanda retorica:
intende il pensare comune. Se per questa via mostriamo che il presupposto è esatto, ciò avviene perché in
questo mostrare facciamo ricorso al presupposto stesso. L’intero procedimento è «illogico»». Ivi, pp. 80-81
105 Ivi, p. 42
106 Ivi, p. 42
89
«Il non tramontare mai è solo un modo dell’essere insieme ad altri, oppure l’essenza nascosta di ciò che viene
chiamato «essere» si trova forse racchiusa nel non tramontare mai?»107
Nell’eterno sorgere, il senso della φύσις viene associato alla vita (ζωή)
«La radice ζα è in relazione a qualcosa di simile al dio che mostrandosi si manifesta, a qualcosa di simile alla
tempesta che si manifesta scoppiando improvvisamente, a qualcosa di simile al fuoco che accendendosi fa la
sua comparsa, a qualcosa di ben nutrito che nasce, si differenzia e si manifesta crescendo».108
Detto questo si sono poste le premesse per riconoscere nel frammento 123 una
contraddizione fondamentale tra il sorgere ed il nascondersi (che si deve intendere come un
tramontare).
Il rapporto tra sorgere e tramontare è “il tratto fondamentale della έρις, della lotta”109, come
si evince chiaramente dalla loro opposizione, ma ciò nondimeno la parola con cui si nomina
il rapporto è φιλία, cioè amicizia, amore o favore. Il problema non si trova al livello di una
traduzione greco-tedesco o tedesco-italiano, giacché l’uso di “amore” per descrivere una
contesa viene determinato dal modo in cui il “sorgere dispiega in sé la propria essenza in
107 Ivi, p. 57
108 Ivi, p. 74
109 Ivi, p. 89
90
quanto nascondersi”.110 Il φιλει̃ν è un modo di proteggere, che garantisce il sorgere
mettendolo al riparo nel nascondimento.
Come è facile notare, il discorso sulla φύσις corre parallelo a quello sull’αλήθεια anzi,
secondo Heidegger, nella natura greca, prima che il suo senso si esaurisse nell’idea
platonica, veniva pensata anche la verità. Questa osservazione può aiutare a capire come il
non-nascondimento, ed insieme ad esso il sorgere, non sarebbero ammissibili senza la loro
reciproca negazione. L’argomentazione viene riassunta tramite una similitudine con l’arte
che avrebbe potuto facilmente pronunciare anche Merleau-Ponty:
«Che cosa infatti riuscirebbe a dipingere un pittore che non vede oltre e al di là di ciò che possono offrire
colori e linee? Tutto il visibile, senza l’invisibile che deve darlo a vedere, sarebbe una mera fantasia
visiva».111
Pertanto:
«Nel sorgere, il sorgere stesso, proprio in quanto apertura, non si sottrae affatto al chiudersi, bensì lo esige per
sé come ciò che accorda il sorgere e dà sempre al sorgere la sola ed unica garanzia».112
110 Ivi, p. 91
111 Ivi, p. 92
112 Ivi, p. 89
91
La descrizione delle dinamiche della natura ha trovato dei canali, delle limitazioni e una
direzione. In chi pensa la φύσις, l’approfondimento dell’indagine comporta una coscienza
nuova e diversa di ciò che viene pensato. Avvicinarsi alla sua essenza coincide con il suo
graduale riconoscimento, non primariamente come sorgere, come vita o come contrasto e
associazione di due principi ma come “accordo”.
Fin qui nulla impedisce di ritenere che l’individuazione di un ordine sia assolutamente
scontata e necessaria, poiché in tale riconoscimento si comunica che qualcosa diventa
rilevante, che qualcosa viene riconosciuto come quella cosa che è proprio per mezzo di una
forma di ordine che la determina. Per quanto concerne la natura, però, noi non abbiamo
colto un ordine ma è il tramontare ed il sorgere che hanno fatto un accordo. Questa non è
una semplice forma retorica volta ad umanizzare due processi non in grado, propriamente,
di agire (nel senso di regolare), perché tale punto di vista si fonda già sull’assunto non
posto in questione che ad agire ponendo un ordine sia solo l’uomo, e quindi presuppone la
negazione di un’alterità irriducibile. Si sottintende che la scoperta di un ordine efficace, che
cioè garantisce una certa preveggenza nell’analisi del mondo, corrisponda al reale e sia
l’unico modo in cui un ordine possa esistere – a tal proposito sarà successivamente
necessario capire che tipo di libertà l’uomo abbia nel riconoscere un ordine.
92
«La φύσις stessa, che si dà a vedere nel dispiegamento essenziale nominato dal frammento 123, è l’accordo
[Fügung], in cui il sorgere si accorda [sich füght] col nascondersi e quest’ultimo col sorgere. La parola greca
per «accordo» è armonia».113
La φύσις infatti non mostra o esprime, ma è l’accordo.
L’essenzialità di questo accordo è sancita proprio dalla non separabilità tra la regola e
regolato, dalla loro unicità, che fa sì che l’ordine venga “assorbito” e scompaia quasi
nell’ordinato. Il senso dell’ordine, infatti, in questo modo non dilegua ma è ancora più
potente (κρείττων).
L’armonia è un’armonia inappariscente. Heidegger lo asserisce traducendo quello che
ritiene il terzo frammento per importanza, cioè il numero 54:
«l’accordo inappariscente è superiore alla connessione che si introduce nell’apparire».114
È infatti l’accordo che permette l’apparizione di ciò che viene in chiaro. Esso è simile alla
luminosità nella quale gli oggetti vengono visti, quella stessa luminosità che non viene
colta in quanto tale poiché è “la trasparenza del chiaro”.
L’armonia della φύσις non diventa mai presente non a causa del coprimento originario che
le si oppone (esso, al contrario, la garantisce) ma perché il suo sorgere è più aperto di ogni
113 Ivi, p. 94
114 Ibidem
93
cosa manifesta, e cioè più di quanto l’uomo possa involontariamente ordinare con la
comprensione o volontariamente con l’interpretazione. Così l’ordine che essa è, è superiore
nei confronti di ogni ordine riscontrabile poiché “non è formato da ciò che è costruito
artificialmente” all’interno di un ambito, ma è coestensivo e cooriginario alla totalità di ciò
di cui si può fare esperienza.
Ecco che allo scacco del pensiero logico tradizionale subentra la luce e l’armonia di Apollo.
O meglio – abbandonando il linguaggio figurato – dove il pensiero non è più in grado di
districarsi seguendo il significato degli oggetti, si rivolge ad una rischiosa ambigua
interpretazione del segno: il σημαίνειν apollineo. In tal modo, per mezzo degli attributi di
Diana (e di Apollo), l’arco e la cetra, ci si rivolge all’accordo armonico inappariscente della
natura (fr. 51). 115
Nell’arco, il contrasto tra le forze divergenti coincide con la loro collaborazione: esse non si
associano in base ad un obbligo esteriore. Il συμφέρειν impiegato permette di anticipare
una riflessione sul “riunire” (λέγειν), da cui dipende almeno etimologicamente la logica.
115 «Essi non concordano su come ciò che è discorde, pur essendo discorde (nell’essere in se stesso discorde)
debba essere concorde; tenendosi all’indietro (distendendosi) (ciò che è discorde) dispiega l’accordo come si
(l’essenza) mostra nella vista dell’arco e della lira». Ivi, p. 98
94
««Riunire» [Sammeln] significa: rendere visibile l’unità, che dispiega già la propria essenza a partire da se
stessa; «riunire» significa infatti anche: mettersi insieme inserendosi in una determinata unione che non è stata
prodotta da noi e che si offre a noi anticipatamente».116
Nella versione di Diels, viene significativamente riportato ομολογέει al posto di
συμφέρεσθαι.
La parola guida con cui viene pensata, infine, l’armonia della φύσις è il cosmo.
Anche in questo caso la traduzione filosofica si discosta da quella filologica:
«Il termine κόσμος indica l’ornamento [die Zier], che si presenta in un «ordine»; il termine significa anche
«onore», «onorificenza», ossia pensato in modo greco: l’apparire nella luminosità, lo stare nell’aperto, in cui
riluce gloria e splendore.»117
Il cosmo non intende l’essente nella sua totalità ma “l’accordo della compagine strutturata
dell’essente, l’ordinamento nel quale e a partire dal quale l’essente appare nel proprio
splendore”. La misura, la struttura la regolarità si offrono nel modo più estremo e più
elevato: all’invadenza della forma circoscritta si associa la rarefazione del senso della luce.
La luminosità si dirige sulle cose, le mostra e così le individua definendole, si oppone a e si
compone di oscurità, ed estendendosi dà misura.
116 Ivi, p. 98
117 Ivi, p. 108
95
Il fuoco del carro del Sole, il fuoco delle stelle o delle torce rimanda all’illuminare, ma
anche all’accendersi, al consumarsi e allo spegnersi. Il fuoco, soprattutto in virtù del suo
divampare, se associato alla φύσις rende l’idea dell’eterna forza sorgente della vita –in tal
senso πύρ αείζωον è sinonimo di natura.
Il momento più significativo, da cui l’ordine dipende come la cenere rispetto alla fiamma, è
l’”ordinare”. Non esiste infatti un ordine nel senso indicato dalle parole guida eraclitee
distaccato da un’attività regolatrice, poiché esso è questa stessa attività. Il momento che
racchiude il senso profondo della luce del fuoco che misura limita e dispone, è il breve
istante in cui si abbatte la saetta:118
«Questo «adornare» non è il risultato dell’aggiunta secondaria di un ornamento particolare, bensì – proprio in
quanto originario lasciar risplendere nello splendore del sorgere – è in modo unico e improvviso
quell’ordinamento che irrompe in un ambito privo di ordine simile all’abbattersi del bagliore di un
fulmine».119
Il fulmine che governa, epiteto di “Zeus”, libera dal superfluo di ciò che riguarda
l’illuminare e ci pone di fronte all’essenziale.
118 Cfr. Fr. 64: «Il fulmine governa l’essente nella sua totalità»; e Fr. 66: «Il fuoco, costantemente in attività,
mette in risalto ed allontana tutte le cose (congiungendosi ad esse)». Ivi, pp. 108-9
119 Ibidem, p. 109
96
Prima conseguenza è lo stupore, il senso di stranezza che si collega inevitabilmente
all’essenziale e all’iniziale: si impone un avvenimento per nulla graduale, una “irruzione”,
attraverso la quale si verifica un cambiamento.
Il regolare si dà “in un ambito privo di ordine” e governando limita, ossia fa esistere
sensatamente la più intima identità unente separante di regolato e regolatore. Tuttavia
questo comando, questo ordine diretto (non costruito o riconosciuto da qualcuno120), nella
totale differenza tra ordine e mancanza di ordine, riporta ad un confine assoluto: il mistero
della sua origine. Anche l’essere-fondante del pensiero, che abita la compagine strutturata
dell’essente – non la semplice dipendenza logica dal fondamento – orienta verso la propria
origine e da essa dipende in senso non meramente causativo, eppure l’origine dell’ordine
rimane il totalmente altro.
120 Frammento 30: «Questo ordinamento, che ora abbiamo appena nominato, e che è lo stesso in ogni cosa che
risulta ordinata, non lo ha prodotto nessuno degli dei o degli uomini (qualcuno), bensì esso fu sempre ed è
(sempre) e sarà (sempre): (cioè) il fuoco che sorge eternamente e che, accendendosi, [dispiega] le distese
(radure luminose), spegnendosi (chiudendosi) [ritrae] le distese (ritirandosi in ciò che è privo di radura
luminosa)». Ibidem, p. 109
97
Seconda conseguenza è che del regolare fulmineo non rimane un ordine inerte che possa
essere davvero ricollegato al dovere originario che si è espresso nell’attività illuminante-
limitante, ma solo una traccia che indica verso lo stesso governare.
Rimane quindi sconosciuta proprio l’originarietà del regolare, rispetto alla quale il pensiero
è una domanda posta, ma si è comunque potuta fare chiarezza in merito a tale originarietà
intesa nel senso della sua inizialità e della sua preminenza rispetto a tutti i tipi di formule e
spiegazioni. Ciò che tramite il cosmo viene detto riguarda infatti l’essere stesso:
«Il verbo «adornare» – κοσμοέω – e il termine «ornamento» – κόσμος – vanno intesi rispettivamente nel
significato di «mettersi in ordine» e di «ordinamento» e saranno detti dell’essere stesso».121
Per l’ultima e più importante parola guida di questa analisi occorrono delle precisazioni
preliminari: il λόγος eracliteo può essere considerato un sinonimo del κόσμος, dell’armonia
e della φύσις nel pensare l’essere in modo conforme all’essere stesso, eppure esso non è
una parola semplicemente affiancata alle altre in modo sinonimico, ma è quell’unica parola
in cui tutto viene collegato.
Con l’accenno finale al κόσμος si sono poste le premesse per affrontare la discussione sul
λόγος.
121 Ivi, p. 108
98
«Dobbiamo pensare il λόγος e l’essenza del λέγειν se non proprio come luce, perlomeno nella luce dell’essere
esperito grecamente in modo iniziale. Da questa comprensione del Λόγος inteso in questi termini si genera la
«logica» originaria, da cui possiamo apprendere nel modo più originario l’essenza del pensiero».122
5.3 Ordine logico
«Se non avete ascoltato soltanto me, ma avete prestato ascolto al λόγος (disposti verso di lui, a lui attenti), il
sapere (consiste in questo), nel dire – dicendo la stessa cosa che dice il λόγος – che tutto è uno».123
Il λόγος è “uno – tutto”.
Questa definizione, nella sua sintesi, è sia il punto di partenza che il punto di arrivo della
meditazione di Heidegger sulla λόγος, se ovviamente si considera il passaggio dalla
comprensione comune del frammento all’interpretazione del filosofo.
Nel detto, il “prestare ascolto” non viene colto come l’ascoltare sensibile, ma come il
fenomeno dal quale dipende la possibilità di udire; è un far anticipatamente parte di ciò
verso cui si rivolge l’attenzione.
Per udire qualcosa in generale è infatti necessario essere coinvolti in un contesto che
permetta di ricondurre un suono a ciò che lo ha prodotto, e così sentire di volta in volta una
122 Ivi, p. 233
123 Ivi, p. 160
99
determinata cosa che produce il suono, e non “un suono” cui attribuire successivamente una
causa.
Affinché l’udire non passi inosservato, sullo sfondo, bisogna disporsi in modo recettivo
verso ciò che viene detto, mettersi in ascolto.
Il modo più profondo di concentrare l’attenzione pertanto è in un certo senso un
appartenere: “abbiamo udito (gehört) quando apparteniamo (gehören) a ciò che viene
detto”124. Se quindi ad essere ascoltato è il λόγος ciò avviene quando si diventa parte del
suo stesso raccogliere.
L’ascoltare autentico è quindi un raccogliere lo stesso, un ομο-λογείν: con questo termine si
annuncia il modo umano di corrispondere al λόγος, il quale consiste appunto in un ascolto.
Il regolare che abbiamo precedentemente individuato, mostra nei frammenti una doppia
declinazione: da una parte si scorge l’uno unificante del tutto con il quale si pensa l’essere,
dall’altra emerge un λέγειν prettamente umano, che designa l’attività umana del parlare, del
raccogliere, dell’ordinare e, primariamente, dell’ascolto e dell’obbedienza alla legge
dell’uno. Eraclito sostiene, infatti, che il λόγος appartiene all’anima umana (frammento 45)
in un senso apparentemente inconciliabile con il frammento 50, nel quale esso è l’ordine
124 Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 145
100
cosmico a cui bisogna rivolgere l’attenzione – e rivolgerla per di più inutilmente, dato che
esso, nello stesso frammento, viene dichiarato inconoscibile, poiché i suoi limiti, nella
psuke, non possono essere raggiunti:
«Per quanto tu percorra fino in fondo ogni via, non potresti mai trovare sulla tua via i confini estremi
dell’anima; tanto vasta è la sua raccolta (riunione)».125
La questione centrale diventa allora il senso del rapporto tra λέγειν umano ed oltre-umano,
tenendo presente che entrambi sono a loro volta dei rapporti e che quindi ciò che si vuole
stabilire è un rapporto tra rapporti, cioè un “rapporto puro, che non è stato originato da
qualcos’altro”.126 Di conseguenza il discorso volgerà necessariamente al problema del
rapporto tra uomo ed essere.
Il modo più immediato di vedere la questione, che deriva dall’approccio comune, è quello
di un’alternativa estrema tra una logica naturalizzata, e la logica come strumento di una
appropriazione umana assoluta, di un umanismo tout court.
Il riconoscimento del λόγος originario come attività, in coerenza con il senso attivo del
regolare (λέγειν), non ci permette di escludere una o entrambe le possibilità presentate. Nel
125 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 185
126 Ivi, p. 215
101
primo caso infatti il fare sarebbe semplicemente inclusa nella naturalizzazione, anche se, ad
un livello più profondo, dipenderebbe comunque dal soggetto metafisico che ne avrebbe
anticipatamente definito il valore; nel secondo il λέγειν potrebbe arrivare a coincidere con il
concetto hegeliano di azione,127 ed essere l’elemento che permette l’auto-riconoscimento di
quella che Heidegger interpreta come l’autocoscienza di un soggetto.
Tuttavia, mentre il pensiero logico fa calcolando, misurando, per il λέγειν umano l’essere
attivo non implica manipolatività, è un ascoltare: sebbene sia un Tun è in gioco una forte
componente di passività. Ciò non sorprende, dopo la discussione dell’ordine vivente
(αείζωον) della φύσις e del κόσμος: come è d’altronde possibile, che sia il pensiero, a
costruire, stabilire, distinguere se l’unica legge autentica dell’ente nel suo insieme precede e
determina le norme umane? Non sarebbe la legge stessa a dispiegarsi per mezzo del
pensiero?
127 «L’azione è la forma pura della volontà, è la semplice conversione della realtà essente in realtà agita: è la
conversione della mera modalità del sapere oggettivo nella modalità del sapere che sa la realtà come un
prodotto della coscienza» Hegel, Fenomenologia dello spirito, A cura di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano
2000, p. 845
102
In parte è così. Se, infatti, il λόγος viene inteso come l’uno – tutto allora “non può essere
qualcosa che sta «accanto» all’uno e «accanto» al tutto”128, ed il raccogliere umano non
potrebbe non essere definito dalla limitante luminosità cosmica. Se, però, il ragionamento
fosse sempre e comunque sottoposto al Λόγος non si vedrebbe neppure la ragione di
criticare la logica: anch’essa avrebbe lo stesso grado di rigore del pensiero della differenza.
In aggiunta, la semplice inclusione nel raccogliere rende superflua la presenza di una sua
versione umana.
Il problema, in realtà, è insito nella stessa idea di attività ricondotta al raccogliere, che può
tanto collegare dando origine ad una propria regola, quanto seguire il richiamo della legge
che già sempre la governa. Qui è in gioco quel carattere fondamentale della logica preso in
considerazione al punto 4 del precedente capitolo (un pensiero non tecnico ma poietico).
La ποίησις, al pari della τέχνη greca, non riguarda primariamente un ambito pratico ma
teoretico: denomina il sapere in grado di trattenere l’imporsi della φύσις nel non-
nascondimento.
Il fare, pensato come un comportamento umano è visto più facilmente come il contrario
della natura, dato che questa è il sorgere a partire da se stesso. Tuttavia, esplicitando il
128 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 187
103
senso della parola greca, quello che essa esprime – tanto nel designare il lavoro artigianale
quanto nel costruire, fino all’arte e alla poesia – è un «portar fuori».
«Il ποιείν non è un fare che produce effetti, ma è letteralmente un portar fuori, un produrre, un collocare e un
presentare, vale a dire è un riunire il non nascosto in quanto tale».129
Per mezzo della vicinanza semantica tra il fare ed il raccogliere del λέγειν, si può capire
quale sia il tipo di attività della logica che si confà alla meditazione heideggeriana. Il
frammento 112 ne fornisce una sintesi chiarificatrice, che può valere da manifesto per la
dottrina del λόγος originario:
«Il sapere autentico consiste nel dire e nel fare ciò che non è nascosto, a partire dal raccolto ascoltare
[Hinhorchen] che è conforme e commisurato a ciò che si mostra da se stesso».130
I termini fondamentali di cui si è parlato nelle pagine precedenti compaiono insieme, nella
seconda parte del detto (Άλήθεια λέγειν καì ποιείν κατά φύσις), in una simmetria
esplicativa dell’agire logico: “λέγειν”, il custodire che riunisce dal non nascosto, e “ποιείν”,
il produrre e riunire il non nascosto in quanto tale. Le parole significano “la stessa cosa”,
esprimono la medesimezza unificando nella legge unificante del λόγος.
129 Ivi, p. 240
130 Ivi, p. 164
104
Il riunire così non si dissolve nell’indeterminato dell’essere ma porta l’essere stesso nel non
nascondimento e così lo raccoglie nell’ente che di volta in volta sorge all’interno del suo
limite. Il portare fuori non è mai «produrre» (macht).
Il detto completamente esplicitato suona così:
«il pensiero meditante è la cosa più nobile, e questo perché il sapere è riunire il non nascosto (a partire dal suo
nascondimento), portandolo fuori da se stesso in modo adeguato al sorgere; (tutto questo però) prestando
ascolto alla riunificazione originaria».131
Il frammento è l’ultima frase del corso sulla logica, lo conclude.
L’individuazione dell’unico tipo di attività confacente ad una dottrina della logica soddisfa
gli intenti dichiarati della meditazione heideggeriana: viene “conservata la denominazione
«logica»”, ma attraverso la meditazione sul λόγος ciò che si nomina è “qualcosa di meno
definito”, che si raccoglie nel pensiero mosso dalla propria legge essenziale.
Tuttavia, se ci chiediamo in che modo il movimento sia possibile, cosa attivi l’attività che
viene descritta, troviamo, nelle argomentazioni del filosofo, delle prospettive che
travalicano in parte le conclusioni.
131 Ivi, p. 243
105
È necessario vedere cosa di importante emerge nel rapporto λέγειν – λόγος, se e come il
regolare mostri la sua cogenza. Forse essa prima di emergere del tutto si annuncia nei toni
ed in alcune sfumature lessicali: Heidegger parla, da un lato, di una «ubbidiente docilità»,132
di una «docile disposizione»,133 e dall’altro di un «governare».
«L’udire, lo stare in ascolto, l’essere attenti ad una cosa alla quale noi già apparteniamo, alluderebbe ad una
concezione di soggezione [Hörigkeit] che non ha niente a che fare con la schiavitù, perché tale soggezione
originaria, che equivale all’essere aperti verso l’aperto, sarebbe la libertà stessa».
L’impressione è che la coerenza con il senso dell’ordinare venga assunta in modo
completo, fino a sfociare nel comando.
Il dare ordine è sicuramente il tratto più riconoscibile del pensiero normativo il quale
scandisce con le sue regole l’obbligo di essere preso a misura nella sua forma esemplare e
nei suoi fondamenti indubitabili. Ciononostante il governare è anche una possibilità propria
– forse la più propria – dello stesso Gefüge apollineo, nel quale l’armonia della luminosità
non esclude anzi presuppone (pratica) un vincolo.
Nel rapporto tra uomo ed essere si riconosce l’equilibrio della reciprocità: l’essere si dà, e
l’uomo lo salvaguarda. Eppure la relazione viene anche connotata come una severa forma
132 Ivi, p. 172
133 Ivi, p. 212
106
di dominio, conciliabile con la libertà solo a patto che questa sia intesa come libertà per
qualcosa. La subordinazione di chi ascolta è ovvia, e se non la si vuole chiamare schiavitù
si deve comunque riconoscere che, nell’apertura all’aperto, il livello dell’autonomia umana
non può che ridursi ad un amor fati.134
L’uomo non è un semplice ente in mezzo agli enti ma e-siste, e quindi decide se e come
accettare di essere determinato da quella legge essenziale che in ogni caso, anche per suo
mezzo, già si estende su di lui. Ciò non influisce però sul senso della legge vigente che,
rispetto al dichten poietico, si impone come un Diktat.
È quindi possibile, come viene riconosciuto nel frammento numero 72,135 che il λόγος sia
per la maggior parte del tempo ignorato dall’uomo.
134 «È la volontà trasfiguratrice di appartenere a ciò che dell’ente è massimamente ente. Il fatum è desolato e
intricato e opprimente per chi si limita a starsene lì e da esso si lascia sopraffare. Il fatum è invece sublime ed
è il sommo piacere per colui che sa e capisce di appartenervi in quanto è creativo, cioè, sempre deciso. Questo
sapere non è altro che il sapere che necessariamente palpita in quell’amore». Nietzsche, a cura di F. Volpi,
Adelphi, Milano 2000, p. 390
135 «Nei confronti di questo Λόγος, verso il quale sono sommamente ed ininterrottamente rivolti, proprio con
esso sono in disaccordo [e si allontanano] anche da ciò (dalle molte cose) che incontrano ogni giorno».
Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, pp. 222-3
107
Il λόγος è l’inappariscente, l’armonia che sottende il presentarsi degli enti senza venire di
per sé individuata, poiché è troppo vicina e troppo luminosa per essere vista.
In tal senso capiamo perché nel detto 45 i confini dell’anima non possono venire conosciuti
a causa della vastità del suo raccogliere: l’anima che corrisponde al λόγος non può essere
conosciuta alla maniera di una cosa perché è ciò che dà i limiti e sebbene si possa
presupporre solo considerando il limitato, non si può identificare con esso.
Questo essere inarginabile è in un certo senso il tratto dell’assolutezza che storicamente è
stato identificato con il λόγος – e che ha avuto una straordinaria fortuna dal Vangelo di
Giovanni alla Scienza della logica.
Ma in Eraclito il Λόγος assoluto, «quello che è separato da tutto» (Diels), è la traduzione –
sbagliata secondo Heidegger – del «πάντων κεχωρισμένον» che appare nel frammento 108.
L’intero frammento suona:
«Di tutti i molti λόγοι che io ho già ascoltato, nessuno arriva al punto di riconoscere che quel che veramente
va saputo dispiega la propria essenza in rapporto con ogni ente a partire dalla sua (propria) regione».136
136 Ivi, p. 216
108
“Quello che va saputo”, ciò il cui sapere quindi si impone e domina in base ad un dovere,
dispiega l’essenza a partire da una regione. Nella “regione” come concetto per spiegare il
λόγος si manifesta il dominare del pensiero originario.
Χεχωρισμένον deriva da χωρίζω, che significa separare e distinguere. Nel verbo è presente
la parola χώρα, χώρος, che significa appunto territorio o regione.
La regione di cui il filosofo parla non è, naturalmente, uno spazio oggettivo, è
«L’aspetto strutturante e caratterizzante che si nasconde nella regione, senza che essa diventi propriamente un
oggetto».137
Dal momento che la regione consente di localizzare e contenere in una coerenza ogni cosa,
potrebbe essere immaginata come l’in quanto della comprensione: nel principio della
separazione (διαίρεσις) cooriginario all’unione (σύνθεσις) si può riconoscere il
collegamento che ha portato il verbo χωρίζω, attraverso l’etimologia χώρα, a significare
una distinzione.
Un simile approccio però, secondo Heidegger, non arriva a cogliere la regione.
La rappresentazione ermeneutica si riferisce al λέγειν umano, e si verificherebbe
un’inversione se si volesse pensare il Λόγος, sovrano, in funzione del modo di obbedirgli.
137 Ivi, p. 219
109
Tra i due, in realtà, si presenta una forte analogia, ed il Λόγος sarebbe comunque
inaccessibile senza la comprensione, tali osservazioni però non autorizzano ad attribuire la
forma della comprensione all’essenza di ciò da cui essa dipende. È infatti necessario, al
contrario, far dipendere il modo di pensare la σύνθεσις e la διαίρεσις dal modo di pensare la
χώρα.
Affinché questo avvenga il λέγειν deve essere condotto innanzi al suo perché: bisogna
trovare, all’interno della comprensione, ciò che permette di riconoscere la legge in quanto
tale, ossia il dovere che, attivandola, la mostri nel suo regolare, e non come una regola
positiva.
La necessità, riconosciuta come dovere all’interno del raccogliere, sarà il Λόγος stesso, a
cui il raccogliere deve obbedire.
L’individuazione della regione, nel κεχωρισμένον inteso in senso mediale, risponde alla
ricerca del governare, quindi, dal punto di vista del filosofo, non alla ricerca del senso del
governare ma – in primo luogo – del governare del senso.
«Qui [nella regione] domina (waltet) la differenza originaria tra l’ente e l’essere».138
138 Ivi, p. 221
110
Il λόγος umano dipende quindi dal Λόγος inteso come dominio della differenza, che
designa il modo in cui l’essere si destina nelle diverse epoche storiche.
Il senso della logica originaria, quindi, prima di essere il pensiero del Λόγος, è il pensiero
di questo destino.
«Che tipo di necessità determina qui il nostro pensiero in modo tale che senza questa determinazione da parte
della cosa il pensiero non sarebbe pensiero? […] Pensare è necessario per poter rispondere [entsprechen] ad
una destinazione ancora completamente nascosta dell’uomo autenticamente storico [geschichtlich]. […]
L’espressione «uomo storico» indica quell’umanità alla quale è assegnato un destino nella forma di ciò che è
da pensare».139
139 Ivi, p. 125
111
6 – Conclusione
Necessità
Al fine di stabilire un senso del λόγος che si radicalizzi coerentemente in un’idea di
comando – anche al di là delle conclusioni esplicite di Heidegger – la cogenza è stata
ricondotta ad uno spazio strutturante, la regione, attraverso la quale il filosofo introduce la
parola chiave del suo pensiero: la “differenza”.
Il fatto che in tale “τόπος λόγικος”, a cui si è giunti meditando sul λόγος eracliteo, domini
la differenza originaria tra essere ed ente chiarisce la dichiarazione secondo la quale φύσις,
λόγος, αρμονία e κόσμος «dicano la stessa cosa»140: tutte e quattro le parole guida
esprimono infatti diverse determinazioni di quello stesso contrasto nel medesimo con cui si
attesta il differire dell’essere dagli enti; tutte esprimono l’ordine dell’essere. Il genitivo, con
il quale i due termini si relazionano, non sta però a significare l’appartenere dell’ordine
bensì la soggezione – e quindi un limite – dell’essere.
La nozione di assoluto con cui alcuni filologi traducono il “πάντων κεχωρισμένον” del
frammento 108, è pertanto inadeguato a descrivere quel λόγος, che designa il suddetto
ordine, proprio a causa della necessità che si antepone all’essere.
140 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 118
112
Nel pensiero della differenza l’essere non è assoluto. Non lo è al modo della
rappresentazione teologica di un uno in sé conchiuso ed autosufficiente, indifferente al
mutare del mondo, né al modo della coincidenza finale tra l’essere dell’oggetto e la
soggettività del soggetto in una completezza totalizzante che compendia il senso della
storia. Al pari dell’uomo che, coinvolto nel destino, ha la necessità di custodire la memoria
dell’essere assente e di attendere l’essere a venire, così anche l’essere, a sua volta, ha
bisogno dell’esistenza affinché la sua verità venga testimoniata.
L’essere della differenza si configura dunque come relazione, come apertura della
molteplicità degli enti, del gioco incalcolabile delle differenze, che si fa evento
nell’esistenza. Abbiamo già visto, però, attraverso l’analisi del λέγειν e dei frammenti di
Eraclito, che il nome per la relazione che regola il tutto altro non è che “Λόγος”, “ciò che
nella diaferenza regge”.141
Se si volesse rappresentare la necessità, con lo stesso procedimento con cui si rappresenta
una cosa, delineandone cioè la forma, la struttura, si dovrebbe allora tracciare un limite che
mostri il senso dell’insieme dell’ente, che lo raffiguri nella mutevolezza dei suoi rapporti.
Ma una simile struttura intangibile, confinata al margine di tutto ciò che è qualcosa, e che,
141 cfr. tesi p. 32. da Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 151
113
nondimeno, dispone ogni cosa nella sua presenza è il regolare del Λόγος. Se il muoversi,
l’accadere che riguarda l’insieme strutturato dell’essere potesse venire posto su un enorme
pezzo di carta forse disegnerebbe il volto ignoto della necessità.
Il Λόγος tuttavia non “rappresenta”, e conseguentemente la necessità che lo governa è più
effettiva di una semplice rappresentazione.
Nell’idea stessa di regola è presupposta una cogenza, sarebbe lecito, quindi, ipotizzare che
il collegamento tra i due sia una coincidenza. Heidegger sostiene, invece, che
«Ζευ̃ς [il Λόγος] non è egli stesso l’Ev, benché, come folgore, egli governando compia i decreti del
destino».142
Il governare del Λόγος è al contempo un eseguire. La sua attività, costringendo, lascia che
il necessario si compia.
Il senso di questo rapporto può essere inteso in più modi diversi: vi si può riconoscere il
compiersi nella realtà di un piano preordinato, o un’attività già racchiusa in una immobilità
o, ancora, l’individuazione a posteriori di una possibile arci-struttura, ma l’orientamento
adeguato per la nostra interpretazione va cercato nel significato della necessità.
142 Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 153
114
Heidegger la intende in modo inusuale. Nel pensatore, infatti, il senso filosofico di
necessità, cioè “obbligo assoluto”, “che è e non può non essere”, “inaggirabile” si
sovrappone al senso comune che la intende come “bisogno”, “povertà” (Not des Seins).
La coesistenza di entrambe le accezioni prefigura e rende inevitabile la messa in questione
del senso della regola, poiché una regola necessaria, che contiene quindi in base al metro
heideggeriano una componente di mancanza, non può avere la stessa pienezza, la stessa
evidenza di una formula logica. Al contempo, però, questo suo carattere è il presupposto –
o la conseguenza – del suo diritto di mostrare quell’ordine dell’essere che, similmente,
appare negandosi.
L’essere infatti
«è necessitante in questo senso doppiamente unitario: è ciò che non-lascia-perdere (das Un-ab-lässige) e ciò
che ha bisogno (das Brauchende) in riferimento all’occupazione (im Bezug) dell’asilo, e come tale asilo è
essenzialmente presente (west) l’essenza a cui l’uomo, come colui di cui c’è bisogno (der Gebrauchte),
appartiene».143
Inoltre, la coincidenza della massima determinazione con il senso di indigenza giustifica
anche il mostrarsi della cogenza, all’uomo moderno, come un “no”:144 la stringenza
143 Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2000, p. 855
144 Cfr. tesi, p. 45
115
dell’ordine di cui si ha bisogno non consente un appagamento, poiché il bisogno fa parte di
quello stesso ordine, e quindi la mancanza che si prova è già un ”urto” contro l’imporsi
della necessità; l’unico modo per ignorarla, giacché non la si può annullare, consisterebbe
quindi nell’abbandono alla sicurezza che deriva dalla negazione di questa mancanza della
mancanza.
La necessità, che porta l’essere e l’uomo a relazionarsi nel destino, imponendosi in questo
duplice senso, è una nozione assai diversa dall’idea della giustificazione teleologica
comunemente equiparata all’immutabilità indifferente delle cose, non è un ininfluente
ordine pregresso ma è qualcosa che esprime un carattere forte, condizionante.
Nel modo più impreciso e più evocativo la si può intuire nel fascino dell’apollineo.
L’armonia, il ritmo delle forme, l’aggressione strutturante del chiaro, estende le sue linee
pure definendo il κόσμος come un giudizio inappellabile. La regolarità che allora risalta
quasi con invadenza, l’”eccesso di donazione”,145 richiama, con la sua stessa potenza, al
bisogno del suo imporsi.
145 Domande fondamentali della filosofia, Selezione di «problemi» della «logica», Mursia, Milano 2003, p.
109
116
Se fosse lecito osservare con una semplificazione di tipo strutturale le dinamiche descritte
dalle parole fondamentali del pensiero di Heidegger potremmo scorgere un gioco calibrato
di opposizioni. Quest’ultimo non si estende, però, alla necessità.
La φύσις, infatti, l’eterno sorgere, è in rapporto al tramontare, ma è, allo stesso tempo, il
rapporto tra sorgere e tramontare; similmente il λόγος, che viene pensato come un
raccoglimento, è anche il sostrato comprendente associazione e separazione; ed anche per
quanto riguarda la verità si può individuare un simile movimento. La necessità, invece, si
dispiega senza mediazioni: la possibilità non le si oppone, ma la accoglie, e l’arbitrio risulta
semplicemente annullato. Essa non ha, così, nessun ostacolo, ha, al massimo, chi la segue e
chi la ignora – seguendola suo malgrado.
Tale potenza tuttavia non può essere conosciuta come una “qualità” del destino, poiché non
è possibile risalire alla sostanza cui essa debba essere eventualmente attribuita.
La possibilità più coerente prospettata da questa inconoscibilità è che la potenza non sia
una “veste” per qualcos’altro ma il modo più proprio in cui vada pensata l’origine
dell’ordine logico.
Il destino è incomprensibile, vale a dire che non è consentito, in base alla comprensibilità
che ha aperto, dirigere spiegazioni verso di esso nel tentativo di appropriarlo. Eppure è
117
proprio la forza del destino che delimita originariamente il senso ad essere primariamente
evidente.
«Nella conferenza Il principio di ragione è citato il detto di Goethe:
Come? Quando? E dove? – Gli dei restano muti!
Tu tieniti al poiché (Weil) e non chiedere: perché? (Warum?)
Il poiché nella conferenza citata è il permanere (Waren), ciò che perdura in quanto destino. All’interno del che
e nel senso che esso delimita il pensiero può anche stabilire qualcosa come una necessità nella successione,
qualcosa come una legalità e una logica».146
Il destino determina storicamente il pensiero per mezzo di epoche a cui fa capo una diversa
interpretazione dell’essere. Il tentativo di capire il motivo di questo processo si infrange
semplicemente contro la perversa necessità con cui l’essere si dona, in virtù della quale
l’essere si rende bisognoso dell’uomo e, ciò nondimeno, rimane per l’uomo inaggirabile.
Quella stessa necessità è però anche l’origine e l’essenza del pensiero che, nel caso della
metafisica, cerca la sua via attraverso la certezza del fondamento e della giustificazione.
L’attività del pensiero è quindi sempre subordinata all’imposizione perentoria di quelle
coordinate iniziali che la dirigono.
146 Protocollo di un seminario sulla conferenza «Tempo ed essere», in Tempo ed essere, trad. di E. Mazzarella,
Guida,Napoli 1998. p. 165
118
«Ogni sapere intorno alle cose è innanzitutto alla mercé della tracotante ultra-potenza del destino, e votato a
fallire di fronte ad essa».147
Anche la filosofia di Heidegger sarebbe votata al fallimento se si limitasse ad esporre una
dottrina, ma egli non intende proporne una. Nella storia del pensiero, infatti, ogni momento,
ogni punto di vista, è stato irrimediabilmente coinvolto nella propria particolarità,
venendone limitato in modo tale da veder compromessa la trasparenza del proprio senso
autentico; ed il filosofo sa che il tecnoevo non fa eccezione. Perfino Eraclito, i cui detti
hanno guidato la riflessione heideggeriana, ha permesso di individuare la radice della
questione del pensiero, ma non ha dato egli stesso una risposta ad essa, non ha saputo, per
così dire, saltare oltre la propria ombra.
La logica originaria, dunque, si deve muovere ancora in una dimensione preparatoria. Il suo
rigore però viene già dichiarato maggiore di quanto sia riscontrabile nel pensiero oggettivo.
Ciò che garantisce la superiore stringenza è proprio il modo in cui la logica originaria
prende fondo consapevolmente nel destino, il che si traduce in una tensione del pensiero
verso l’essenza della suo ordine e cioè verso la determinazione generata dalla semplice e
necessaria immanenza del senso.
147 L’autoaffermazione dell’università tedesca, il melangolo, Genova 2001, p. 37
119
Viene così rifiutata ogni legge estrinseca, ogni modo di indirizzare la riflessione che non sia
direttamente dipendente dall’imporsi dell’essenziale ma si organizzi in base a ragioni
metodologiche e sistematiche.
In ultima analisi il rigore è il modo dell’apertura attento all’eventuarsi della verità, ed è
quindi il raccoglimento nell’arrecare che insieme libera e cela del tempo autentico: in ciò si
palesa la superiorità rispetto al pensiero logico-metafisico e si mostra il carattere
determinante e cogente del destino per la logica originaria.
In base allo studio affrontato, pertanto, la dottrina heideggeriana del pensiero non trae
primariamente determinazione del Λόγος, come viene dichiarato nell’avvertenza
preliminare del corso del ’44:
«Il semplice intento […] è quello di raggiungere la «logica» originaria. La «logica» è però originariamente il
pensiero «del» Λόγος, se ad essere pensato è il Λόγος originario e se quest’ultimo nel pensiero è presente per
il pensiero stesso».148
La logica si caratterizza, invece, nel modo più proprio come il pensiero «del» destino.
148 Eraclito, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 122
120
Bibliografia
Opere heideggeriane:
Ordinate in base al numero di volume della raccolta delle opere complete (Gesamtausgabe),
per i caratteri di V. Klostermann, Frankfurt am Main. Seguono: il titolo originale, la data di
stesura, l’anno di pubblicazione e la relativa traduzione italiana.
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Milano 1970 (XIV ristampa).
- V Holzwege (1935-1946) 1977. Trad. it.: Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La nuova
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- VI Nietzsche I (1936-1939), 1996; Nietzsche II (1939-1946), 1997. Trad it.: Nietzsche, a
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- VII Vorträge und Aufstäze (1936-1953), in prep. Trad it.: Saggi e discorsi, a cura di G.
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Altri testi consultati
- Irving M. Copi e Carl Cohen, Introduzione alla logica, Il Mulino, Bologna, 1999.
- Sofocle, Antigone, BUR, Torino 2000.
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- www.heidegger.org (10/04/2005)
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