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Nicola Mattina Startup Community Quattro principi e tre obiettivi per favorire la nascita e la crescita di ecosistemi locali di startup digitali in Italia Bozza, 27 agosto 2014 di 1 21 Nicola Mattina / Startup Community

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Questo documento contiene il mio contributo alla discussione su come incentivare la nascita di comunità di startup digitali in Italia. È articolato in tre capitoli: il primo sintetizza le caratteristiche di una startup community facendo riferimento alla letteratura emersa negli ultimi anni e alle tante conversazioni avute con esperti del settore in Italia e all’estero; il secondo evidenzia due pericolose vulnerabilità dell’attuale ecosistema di tech startup italiano; il terzo, infine, contiene delle linee guida con azioni che dovrebbero essere intraprese da chi intende lavorare attivamente per sviluppare una startup community.

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Nicola Mattina !!!!!!!!!!!!Startup Community Quattro principi e tre obiettivi per favorire la nascita e la crescita di ecosistemi locali di startup digitali in Italia !!!!!!!!!!!!!Bozza, 27 agosto 2014

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Indice !Introduzione 3 Come funziona una startup community 5

Leader e feeder 5 I capitali intellettuale, relazionale e finanziario 8

Due debolezze delle startup digitali italiane 10 Mancanza di focus 11 Provincialità 12

Linee guida e azioni 12 Principio 1. I leader della community sono gli imprenditori 13 Principio 2. Il Governo ha un ruolo di abilitatore 13 Principio 3. Le grandi aziende devono contribuire 14 Principio 4. Le startup community devono essere connesse 14 Obiettivo 1. Far crescere i capitali intellettuale e relazionale 15 Obiettivo 2. Attrarre capitale finanziario intelligente 17 Obiettivo 3. Favorire il focus 19

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Introduzione !Sono passati quasi due anni da quando la task force sulle startup, istituita dall’allora ministro dello sviluppo economico Corrado Passera, licenziava il rapporto Restart Italia. Gran parte dei suggerimenti contenuti nel documento sono stati recepiti dal Decreto Crescita 2.0, che ha introdotto - per la prima volta nel nostro Paese - la definizione di nuova impresa innovativa, la startup. Per questo tipologia di azienda, il legislatore ha previsto una serie di misure che toccano tutte le fasi del ciclo di vita dell’impresa e che garantiscono numerosi vantaggi concreti: dalla semplificazione burocratica, ai benefici fiscali per l’impresa e per chi investe, fino alla modernizzazione delle disciplina del lavoro. Un enorme passo avanti! !Gran parte del documento è dedicato alla singola startup, alla sua definizione e alle misure con le quali facilitare «la nascita e lo sviluppo di nuove avventure imprenditoriali basate sull’innovazione». Molto poco, invece, si dice e si propone in merito agli ecosistemi, ossia quei luoghi, come la Silicon Valley, in cui una grande concentrazione di imprenditori, finanziatori e altri attori diventano un terreno fertile per far nascere un numero molto significativo di imprese che si sviluppano a una velocità e a una dimensione che altrimenti non sarebbe possibile. !È chiaro che la task force ha circoscritto deliberatamente il campo di azione delle proprie riflessioni con l’obiettivo di suggerire una serie di interventi normativi che fossero alla portata del Governo; il resto è stato inserito nel documento come traccia di lavoro per ulteriori approfondimenti. Tuttavia, aver omesso una riflessione strutturata sugli ecosistemi è una decisione che ha delle conseguenze sostanziali sull’efficacia dell’intero impianto propositivo per due motivi. In primo luogo, il fenomeno delle startup è intimamente legato alle startup community, giacché sono proprio queste ultime che forniscono il terreno di coltura adatto a incubare e accelerare esponenzialmente la crescita di un grande numero di iniziative imprenditoriali. Non si tratta di un aspetto secondario, perché non basta incentivare la nascita di aziende ad alta tecnologia; affinché queste abbiano un impatto sul sistema a livello di occupazione e di generazione di reddito è necessario che si espandano velocemente. In secondo luogo, l’assenza di un approfondimento sul funzionamento delle startup community espone al rischio di avanzare delle proposte che non tengono conto di quali siano gli elementi su cui occorre fare leva per creare e alimentare i necessari contesti territoriali che possano ospitare efficacemente le nuove imprese innovative. Infatti, la proposta della task force per i territori, oltre a essere molto generica, fa affidamento alla spinta propulsiva della Pubblica amministrazione:

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1. un’istituzione locale (in particolare un comune o un raggruppamento di comuni) candida un territorio ad accogliere un ecosistema di startup. L’istituzione deve aggregare il maggior numero di attori locali (università, associazioni, camere di commercio e via di seguito) attorno a un unico progetto;

2. l’ente individua un referente unico e organizza una task force locale fatta di esperti (non deve essere un tavolo di rappresentanza dei vari interessi locali). I compiti che spettano al territorio sono diversi: valorizzare, attraverso l’innovazione, la propria specificità creando o rafforzando un’identità territoriale; mettere a disposizione delle risorse economiche; semplificare e abilitare; aggregare più soggetti economici privati, stimolando l’intraprendenza delle comunità che vivono nei territori; attrarre persone da fuori; valorizzare e coinvolgere i talenti presenti sul territorio; attrarre capitali privati, anche dall’estero;

3. a fronte dell’impegno locale, il Governo delega ai territori i poteri necessari per ridurre la burocrazia locale, contribuisce ai costi sostenuti dall’ente locale e istituisce un Fondo per gli ecosistemi startup «con l’obiettivo di co-finanziare interventi immediatamente cantierabili in grado di migliorare sensibilmente e rapidamente la capacità di un territorio di ospitare startup, altri attori della filiera e, in generale, un ecosistema favorevole all’innovazione». !

Nelle intenzioni della task force, il Governo avrebbe dovuto pubblicare dei bandi già a novembre 2012, affinché gli enti locali potessero presentare delle proposte che sarebbero state valutate da un comitato composto da «esperti di chiara fama internazionale, italiani e stranieri - sulla base di criteri ben definiti, e attraverso un processo solido di peer evaluation». L’insieme dei contratti stipulati dal Governo con gli enti locali avrebbe dato vita al Piano nazionale per gli ecosistemi startup. Tutto ciò non è avvenuto. Il Governo Monti, che aveva patrocinato l’iniziativa, ha zoppicato per diversi mesi cadendo il 28 aprile 2013. Poi ci sono state le elezioni e il Governo Letta, che ha arrancato fino al 22 febbraio 2014. Oggi, negli ambiziosi piani del Governo Renzi, c’è ovviamente l’Agenzia per l’Italia digitale affidata alla neo direttrice Alessandra Poggiani e a Stefano Quintarelli, presidente del comitato di indirizzo. Palazzo Chigi si è anche dotato di un consigliere all’innovazione, affidando l’incarico a Paolo Barberis, che proviene dall’esperienza della task force. !Nei prossimi mesi l’attività del governo attorno alle startup avrà quindi un nuovo slancio ed è plausibile che il discorso riprenderà proprio dove si è interrotto, ossia dagli ecosistemi locali. In questo contesto, è necessaria una riflessione su come incoraggiare efficacemente la nascita e la crescita di startup community e di quale debba essere il ruolo degli enti pubblici. Questo documento contiene il mio contributo alla discussione ed è articolato in tre capitoli: il primo sintetizza le caratteristiche di una startup community facendo riferimento alla letteratura emersa negli ultimi anni e alle tante

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conversazioni avute con esperti del settore in Italia e all’estero; il secondo evidenzia due pericolose vulnerabilità dell’attuale ecosistema di tech startup italiano; il terzo, infine, contiene delle linee guida con azioni che dovrebbero essere intraprese da chi intende lavorare attivamente per sviluppare una startup community. Nelle pagine che seguono mi riferisco in particolare alle startup digitali, ossia quelle imprese intimamente legate a Internet e che grazie alla rete stanno progressivamente digitalizzando molti aspetti della nostra vita. Ma è possibile estendere gran parte del discorso anche a startup in altri settori, perché le meccaniche che regolano la creazione e condivisione della conoscenza lungo una rete sociale di peer non cambiano. Viceversa, mutano le dinamiche di ogni singola industria, soprattutto per quanto riguarda le attrezzature e i capitali necessari per avviare un’impresa, per entrare in un mercato e per crescere. !!Come funziona una startup community !Gli elementi che stanno alla base di una startup community sono cinque: i leader, i feeder, il capitale intellettuale, il capitale relazionale e, da ultimo, il capitale finanziario. !!Leader e feeder !Come sostiene Brad Feld, imprenditore, investitore, co-fondatore di TechStars e leader della vibrante comunità di tech startup di Boulder in Colorado, i leader di una startup community devono essere gli imprenditori. Altre soluzioni non sono efficaci e ci sono innumerevoli esempi a dimostrarlo, a partire dai molti programmi pubblici di sostegno all’imprenditoria (innovativa, giovanile, femminile e via di seguito), che hanno sempre prodotto risultati modestissimi se confrontati con le ingenti risorse allocate da enti pubblici di ogni ordine e grado. Per creare un ecosistema di nuove imprese occorre partire da chi già fa questo mestiere e decide di mettere la propria esperienza al servizio della comunità, assumendo un impegno di lungo periodo e decidendo di essere di esempio con la propria attività. !Tutti gli altri attori, le università, i mentor, le grandi aziende, gli investitori, i service provider e il governo sono feeder, ossia alimentano l’ecosistema e da esso sono nutriti (la parola feeder, infatti, significa sia “alimentatore” che “chi si alimenta di qualcosa”). Vediamoli un per uno. !

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Le università sono la principale fonte di capitale intellettuale di una startup community e hanno cinque risorse che sono rilevanti per gli imprenditori: gli studenti, i professori, i laboratori di ricerca, i programmi di entrepreneurship e gli uffici di trasferimento tecnologico. Di questi, gli studenti sono di gran lunga l’asset più importante: ogni anno un gruppo di matricole arriva nel campus; alcuni di loro diventeranno imprenditori, altri lavoreranno per le startup. Ovviamente, l’ideale è quando su questo terreno fertile si innestano programmi di avvicinamento degli studenti all’imprenditoria, come Innovaction Lab, il progetto ideato in Italia da Augusto Coppola, Paolo Merialdo e Carlo Alberto Pratesi, che nei primi tre anni di vita ha coinvolto oltre 530 studenti generando 30 startup che hanno ricevuto finanziamenti per oltre 4,5 milioni di euro e creato più di 130 posti di lavoro. !I mentor sono un’inestimabile fonte di know how e la principale fonte di capitale relazionale: generalmente si tratta di imprenditori o investitori che offrono il proprio tempo e la propria esperienza affiancando le startup senza aspettarsi un ritorno economico immediato. Il loro ruolo è fondamentale e la qualità dei mentor fa la differenza, sia perché portano nella community un bagaglio di conoscenze pratiche, sia perché generalmente hanno delle reti di relazioni molto estese che possono mettere a disposizione di chi sta muovendo i primi passi nel mondo dell’imprenditoria. !Le grandi aziende possono essere una fonte di capitale relazionale, intellettuale e finanziario. In molte community giocano un ruolo importante fornendo spazi e risorse e creando programmi per incoraggiare la nascita di startup che arricchiscono il loro ecosistema. A Londra, il Google Campus è diventato un punto di riferimento e offre spazi che possono essere usati gratuitamente da chi vuole organizzare eventi interessanti per la community. Inoltre è la sede di una caffetteria dove gli aspiranti imprenditori possono lavorare e incontrarsi, di un co-working (Techhub) e del principale fondo di microseed europeo (Seedcamp). Molte grandi aziende si sono dotate di iniziative che permettono loro di interagire con il mondo delle nuove aziende. Microsoft, per esempio, ha un ventaglio di progetti: il programma BizSpark offre alle startup accesso gratuito a tecnologie, servizi ed esperti dell’azienda; Microsoft Ventures è un fondo di investimento che gestisce anche una rete di acceleratori in tutto il mondo (di cui tre in Europa a Londra, Berlino e Parigi); AppCampus è un progetto congiunto con Nokia che offre grant e know how agli sviluppatori che vogliono realizzare app per Windows Phone. In Italia, purtroppo, la maggior parte degli interventi delle grandi aziende (soprattutto banche e telecomunicazioni) sono ancora inquadrabili nella categoria dei progetti di corporate social responsability: iniziative che offrono grant e altri servizi gratuiti come spazi di co-working a giovani talenti, ma che hanno poche connessioni con il resto

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dell’organizzazione e non sono visti dal management del marketing come opportunità per sviluppare nuove linee di business. !Gli investitori forniscono il capitale finanziario e, dopo aver investito in una startup, un quantità significativa di capitale relazionale. Si sente spesso dire che in Italia non ci sono abbastanza capitali per le startup, ma questo è un cliché: in ogni startup community nel mondo c’è qualcuno che lamenta che nel sistema non girano abbastanza soldi e, magari, invocano un intervento pubblico per colmare il gap. Occorre, invece, essere consapevoli di due cose: a) gli investitori hanno sempre una specializzazione e investono in determinati fasi di crescita dell’azienda e in determinati settori; b) il capitale finanziario è importante, ma non è vero che una maggiore quantità di soldi aumenta automaticamente il numero di startup in grado di stare sul mercato. Quindi, da un lato, occorre chiedersi quali sono gli investitori di cui ha bisogno una startup community e, dall’altro, è indispensabile verificare che la quantità di capitale intellettuale e relazionale sia sufficiente a sostenere l’ecosistema. Sul primo punto punto, c’è una sola risposta efficace: il capitale deve provenire innanzitutto dai privati perché sono gli unici che lo investono disciplinatamente in un’ottica di efficienza del ROI (return on investment). I fondi pubblici possono essere di sostegno, ma non possono essere conditio sine qua non: se non ci sono privati che investono autonomamente, allora vuol dire che non ci sono le condizioni. Infatti, le esperienze dei programmi pubblici di sostegno all’imprenditoria hanno ampiamente dimostrato che immettere soldi pubblici (anche nella forma dei co-investimento con soggetti privati) in un sistema dove non ci sono le competenze e le reti di relazioni indispensabili a far crescere le aziende, livella drammaticamente la qualità verso il basso e produce unicamente fenomeni di parassitismo. !Ogni startup community ha bisogno di fornitori: avvocati, consulenti, agenzie di selezione del personale e via di seguito. I migliori di loro investono il loro tempo per aiutare le aziende early-stage a muovere i primi passi e non è raro che alcuni decidano anche di investire magari lavorando in cambio di equity dell’azienda. !Il governo, infine, può giocare un ruolo positivo in una startup community a patto che non pretenda di assumere il ruolo di leader. Gli enti pubblici, infatti, si muovono molto lentamente e prediligono le strutture gerarchiche. Esattamente il contrario di quello di cui ha bisogno una startup community in cui le cose accadono molto velocemente, non c’è un’organizzazione cristallizzata e tanto meno una burocrazia. Gli imprenditori prosperano in reti di relazioni, che si riconfigurano continuamente in funzione delle persone che entrano ed escono dal network o che cambiano ruolo. Inoltre, i governi centrali e locali hanno dei cicli di vita legati alle elezioni: all’indomani di una tornata elettorale, nuovi politici spendono diversi mesi a insediarsi e a

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pianificare cosa fare; quindi si inizia a mettere in pratica i nuovi programmi, giusto in tempo per arrivare a nuove elezioni. Ogni volta, tra campagne elettorali e startup di un nuovo governo di fatto vanno persi tra i sei e i dodici mesi. Infine, chi lavora per enti pubblici non ha idea di cosa significhi fare un’azienda e quindi fatica a costruire dei programmi che vadano oltre l’allocare una serie di risorse finanziare da distribuire. Questa è una strategia che produce dei risultati nel breve periodo, ma nel lungo termine ha dimostrato di essere del tutto inefficace. Basti pensare ai guasti prodotti dall’enorme quantità di denaro riversato dal dopoguerra in avanti nel Mezzogiorno a favore delle imprese. Chi amministra un territorio dovrebbe invece agire sulle leve che permettono allo stesso territorio di essere più attraente per imprenditori e investitori e di competere con altre zone facilmente raggiungibili: l’abbattimento dell’imposizione fiscale sui profitti delle aziende e sul capital gain, la semplificazione del diritto societario e della burocrazia, gli investimenti in ricerca di base per creare la tecnologia che sta alla base dei prodotti, università e altre scuole di formazione in grado di produrre le risorse umane necessarie, l’efficienza dei servizi locali. !È importante sottolineare che non basta un solo attore per creare un ecosistema. Programmi di accelerazione isolati dal contesto o iniziative universitarie di promozione dell’imprenditorialità rischiano di morire di inedia. Occorre creare una massa critica che permetta di alimentare un meccanismo di selezione darwiniana, grazie alla quale i migliori progetti imprenditoriali diventano effettivamente delle aziende in grado di competere sul mercato, mentre quelli più deboli muoiono o vengono assorbiti. Non è un gioco a somma zero: ogni nuova esperienza che nasce nella startup community, anche quelle che si concludono con un insuccesso, arricchisce l’ecosistema e lo fa prosperare. !!I capitali intellettuale, relazionale e finanziario !Quando si parla di startup, si finisce inevitabilmente a discutere del capitale finanziario sottovalutando l’importanza dei capitali intellettuale e relazionale. Eppure, è chiaro che, se parliamo di aziende ad alta tecnologia, il capitale intellettuale è una conditio sine qua non per avviare e, soprattutto, tenere in vita un ecosistema imprenditoriale sano e prospero. Di che tipo di conoscenze parliamo? Innanzitutto di quelle legate alle tecnologie che stanno alla base dei prodotti sviluppati dalle startup. Tali conoscenze sono generalmente insegnate nelle università. Non è un caso che la maggior parte degli hub tecnologici nasca in prossimità di atenei importanti e che, spesso, le startup nascano

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per commercializzare i risultati della ricerca realizzata nei dipartimenti universitari. Allo stesso tempo, le università tecniche forniscono i profili professionali necessari alle imprese: programmatori, ingegneri, esperti di biotecnologie o nanotecnologie e via di seguito. La seconda tipologia di conoscenze indispensabili a una startup community riguarda il fare impresa. Alcune università hanno dei corsi di imprenditorialità, ma nella maggior parte si tratta di percorsi destinati agli studenti di economia che non tengono conto delle pratiche e della letteratura che sono emerse negli ultimi anni. Mi riferisco in particolare al lavoro di Steve Blank ed Eric Ries sulla Lean Startup e alle innumerevoli riflessioni e suggerimenti pratici che si trovano in rete sull’argomento. Idealmente, i corsi di avvicinamento all’imprenditorialità dovrebbero coinvolgere studenti da diverse facoltà e avere un taglio estremamente pratico, con l’obiettivo di far sperimentare agli studenti cosa significa passare da un’idea a un prototipo, portare questo prototipo verso i potenziali clienti, testare il mercato, capire se l’idea può diventare un prodotto e se ci sono le condizioni per costruirci un’azienda attorno. Non tutti coloro che partecipano al corso diventeranno imprenditori, ma non è questo l’obiettivo: occorre sdoganare l’idea che avviare un’attività imprenditoriale è un’opzione percorribile tanto quanto affannarsi per farsi assumere da una grande azienda o dalla pubblica amministrazione o, ancora, iniziare il percorso per diventare libero professionista. !Non tutta la conoscenza necessaria a fare un’impresa può essere acquisita tramite corsi e workshop. Infatti, le startup community funzionano come delle vere e proprie comunità di pratica e quindi sono animate da una serie di attività relazionali che hanno l’obiettivo di condividere esperienze, generare e organizzare nuova conoscenza di qualità cui ogni partecipante alla comunità può avere libero accesso. In Startup Community, Brad Feld evidenzia quali sono gli eventi che hanno prodotto i risultati migliori nel costruire il capitale relazionale della comunità di Boulder in Colorado: hackathon, tech meetup, open coffee club, startup weekend e acceleratori come TechStars. Queste tipologie di eventi, che durano da poche ore a tre mesi, hanno diversi vantaggi rispetto ai semplici eventi di networking, i premi o i dibattiti pubblici. Infatti permettono di: • ottenere dei risultati concreti, come un progetto o un prototipo funzionante nel caso

di uno Startup Weekend o un’azienda finanziabile da un investitore professionista nel caso di un acceleratore;

• coinvolgere tutti i partecipanti di una startup community, dagli imprenditori fino ai rappresentanti del governo locale. Un acceleratore, per esempio, richiede la partecipazione di molti mentor di diversa provenienza professionale;

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• accogliere i nuovi arrivati, che possono avvicinarsi alla community con un evento semplice e informale come un open coffee e poi cercare un coinvolgimento più profondo partecipando ad altre attività più impegnative. !

Infine, il capitale finanziario. Diamo per scontato che, dal punto di vista degli imprenditori, la quantità di denaro a disposizione delle startup sarà sempre insufficiente. Allo stesso tempo, dal punto di vista dei finanziatori, la quantità di buone iniziative imprenditoriali sarà sempre inadeguata alle risorse che potrebbero mettere a disposizione. È fisiologico che sia così, sopratutto in ecosistemi che non hanno ancora generato dei campioni e in cui la maggior parte degli attori si muove goffamente e con cautela. Per le startup community molto giovani, preoccuparsi solo di immettere capitale finanziario nel sistema è probabilmente controproducente. Il capitale finanziario, infatti, non può produrre grandi ritorni sugli investimenti se non poggia su una solida base di capitale intellettuale e relazionale. Il rischio è di supportare iniziative isolate costruite sulla base di idee superficiali. Questo è quello che sta avvenendo nell’ecosistema delle startup digitali in Italia. !!Due debolezze delle startup digitali italiane !Negli ultimi sei o sette anni, in Italia, sono nate molte iniziative legate alle startup digitali: programmi di accelerazione, fondi di micro-seed, network di business angel e progetti di corporate social responsability di grandi aziende che offrono grant a giovani talentuosi. Nel sistema sono arrivati soldi in ordine sparso e in diverse zone della penisola: tante piccole iniziative, un po’ campanilistiche, che hanno finanziato una nuova generazione di giovani imprenditori con risultati poco incoraggianti, tanto che le storie di successo cui si fa riferimento nel 2014 sono ancora quelle della new economy. Non sorprende che, dopo un momento di euforia, quasi tutti gli investitori privati abbiano rallentato o cambiato i modelli di business. Non è colpa della crisi (gli investimenti in innovazione sono anti-ciclici) e neanche del fatto che ci sono pochi soldi in circolazione: molte delle iniziative finanziate crescono troppo lentamente oppure non crescono affatto e una percentuale rilevante delle startup che figurano nei portfolio di acceleratori e fondi sono in realtà morte o agonizzanti. !Da un certo punto di vista è fisiologico. L’ecosistema è molto giovane e soffre di una generale mancanza di esperienza di investitori, imprenditori e policy maker: gli errori sono inevitabili. Tuttavia, ci sono alcuni comportamenti specifici che rischiano di

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compromettere gli sforzi privati e pubblici. Ne ho individuati due: la mancanza di focus e la provincialità. !!Mancanza di focus !Se parliamo di startup digitali, non possiamo non notare che c’è un sostanziale difetto di focus sia per quanto riguarda il territorio che per quanto riguarda il mercato. Sotto il primo punto di vista, gli acceleratori sono sparsi in tutta Italia e non si è creata ancora alcuna concentrazione di strutture in un solo luogo: il risultato è un proliferare di strutture isolate affette da nanismo, che in alcuni casi agiscono in contrapposizione con l’idea di affermare una presunta superiorità di un territorio rispetto a un altro. Sotto il secondo punto di vista, non c’è alcuna sostanziale forma di specializzazione. La maggior parte delle startup finanziate in Italia operano (principalmente o esclusivamente) in settori che hanno già subito un forte impatto dal digitale, in cui esiste già molta concorrenza sia locale che internazionale: prodotti editoriali, servizi per il marketing, e-commerce, turismo e via di seguito. La mancanza di focus territoriale ha come effetto collaterale una insufficiente formazione di capitale intellettuale e relazionale, perché le singole iniziative non hanno la forza di alimentare quel sistema di eventi e manifestazioni necessario a connettere le persone e le idee. L’insistenza su settori in cui, in Europa o nel mondo, esistono già dei campioni ha due effetti collaterali significativi: a) costringe le startup italiane al nanismo perché il sistema non è in grado di fornire i capitali necessari a far competere queste aziende internazionalmente; b) non permette di sviluppare un posizionamento riconoscibile delle nostre startup community rispetto a quelle di altri Paesi. Su questo secondo aspetto, è utile ricordare quanto è accaduto alla Finlandia che, nel giro di pochi anni, si è accreditata come hub continentale per il mobile gaming e ha generato campioni come Rovio e Supercell. I numeri del piccolo Paese scandinavo (poco più di 5,4 milioni di abitanti) sono interessanti: nel primo trimestre del 2014, si contavano oltre 200 aziende dedicate allo sviluppo dei giochi soprattutto per piattaforme mobili. Le startup (la maggior parte ha meno di due anni di vita) impiegavano oltre 2.400 persone con un fatturato complessivo di quasi 900 milioni di euro (circa quattro volte superiore a quello del 2012). Molto è merito della specializzazione e della riconoscibilità della startup community a livello internazionale: oggi, se vuoi sviluppare giochi per piattaforme mobili, ha molto senso prevedere almeno un periodo di formazione e crescita professionale in Scandinavia. !!

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Provincialità !Una delle principali vulnerabilità delle startup digitali italiane è la loro sostanziale provincialità. Sia gli investitori che gli imprenditori hanno scarsissima propensione a confrontarsi con i mercati internazionali e con i loro colleghi negli hub tecnologici europei. Anche in questo caso, la scelta non è priva di conseguenze fortemente negative per l’intero ecosistema. Da un lato, gli imprenditori finiscono per rivolgersi a un mercato piccolo e arretrato come quello italiano, mentre i loro concorrenti europei ed extra-europei testano prodotti e servizi su mercati che sono decisamente più ricettivi e in cui c’è un numero di early adopter assai superiore. Dall’altro lato, i nostri investitori sono assai poco connessi: non investono in deal che provengono da altri Paesi e non riescono a coinvolgere i colleghi europei nei propri deal. Questo non fa che aggravare il deficit di capitali finanziari, che - soprattutto per quanto riguarda gli step successivi ai micro-seed - sta diventando sostanzialmente dipendente dall’intervento pubblico e dal crowdfunding. Molte startup, dopo essere passate per un acceleratore, trovano soldi solamente da finanziarie pubbliche, compromettendo le proprie chance di compiere ulteriori round di finanziamento, qualora fossero necessari per la crescita dell’azienda. I termini imposti dalle finanziarie pubbliche, infatti, sono spesso incompatibili con l’intervento di capitale privati (soprattutto stranieri) e questo non fa altro che contribuire al nanismo complessivo del sistema. Altre startup riescono a farsi finanziare solamente da investitori amatoriali che usano piattaforme di crowdfunding come Siamo Soci per impiegare piccole somme in iniziative ad alto rischio. !!Linee guida e azioni !Nelle pagine precedenti ho riassunto le caratteristiche fondamentali di una startup community, facendo riferimento alla letteratura che è emersa negli ultimi anni sull’argomento. Allo stesso tempo, ho messo in evidenza due sostanziali vulnerabilità dell’attuale ecosistema delle startup digitali in Italia. Quali sono, quindi, le azioni utili a supportare la nascita e la crescita di community di startup digitali nel nostro Paese? La mia risposta è articolata in quattro principi e tre grandi obiettivi sotto i quali ho raggruppato una serie di attività concrete. Queste attività non hanno bisogno di soldi pubblici per essere realizzate, ma possono certamente beneficiare di un intervento pubblico, che aiuti ad amplificarne gli effetti. !!

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Principio 1. I leader della community sono gli imprenditori !Come abbiamo visto, la leadership di un comunità imprenditoriale spetta agli imprenditori. Se non ci sono imprenditori interessati ad assumere questo ruolo a prescindere dall’intervento pubblico, allora non è possibile avviare e sostenere un sano ecosistema di startup. D’altro canto, se guardiamo alle esperienze significative maturate in Italia dal dopo guerra in avanti, i tanto celebrati distretti industriali sono nati e si sono sviluppati per iniziativa privata e non certo perché il sindaco di qualche comune aveva deciso che la propria cittadina fosse un buon posto per produrre un determinato tipo di beni. Questo punto è di fondamentale importanza e non può essere sufficiente una dichiarazione di intenti di uno o due imprenditori locali, il cui unico obiettivo e avviare un processo che ha come risultato l’erogazione di fondi pubblici. Ci deve essere un impegno concreto in prima persona e, quindi, gli imprenditori che decidono di diventare leader di una startup community devono essere disposti a investire in prima persona. Sarebbe auspicabile anche radicalizzare il principio: lo Stato non dovrebbe fornire risorse finanziarie all’ecosistema. Infatti, soprattutto nel nostro Paese, i soldi pubblici generalmente alimentano fenomeni di clientela e di parassitismo livellando la qualità verso il basso e facendo scappare i più bravi che, invece, vogliono puntare in alto e fare la differenza. Soprattutto le regioni del Sud sono piene di cattedrali nel deserto, aziende nate grazie ai soldi dei contribuenti e chiuse quando le sovvenzioni si sono esaurite. Gli imprenditori sono tali perché investono i propri soldi e si assumono il rischio dell’insuccesso: se l’unica condizione per attirare investimenti in una determinata zona geografica è che lo Stato fornisca dei contributi, allora vuol dire che non ci sono le condizioni affinché in quella zona nasca e cresca spontaneamente una startup community. Non dimentichiamo che gli investimenti per avviare delle startup digitali sono molto contenuti: non è necessario costruire grandi stabilimenti, né costose infrastrutture e quindi non c’è alcun motivo reale per cui lo Stato debba finanziare la nascita di nuove aziende intervenendo direttamente o indirettamente nel capitale di rischio. !!Principio 2. Il Governo ha un ruolo di abilitatore !Il governo (centrale e locale) deve avere un ruolo di supporto. I suoi compiti dovrebbero essere: • incoraggiare gli investimenti privati riducendo il carico fiscale sulle attività di impresa

e contribuendo a rendere meno rischiosi i finanziamenti da parte di business angel

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mediante il credito di imposta. In Italia, norme in questa direzione sono state introdotte dal Decreto Crescita 2.0 anche se quando previsto dal legislatore del nostro Paese è ben lontano dai benefici che garantiscono iniziative come il programma SEIS in Gran Bretagna;

• eliminare le frizioni burocratiche e regolamentari. Anche in questa area, il Decreto Crescita 2.0 introduce dei significativi miglioramenti, che sono un ottimo punto di partenza per adeguare le norme che riguardano le imprese a quelle di ordinamenti di economie più avanzate della nostra;

• investire in beni comuni, di cui possano beneficiare tutti i partecipanti all’ecosistema e non solamente i pochi che hanno buone relazioni con politici e amministratori;

• investire in formazione e ricerca di base, con l’obiettivo di creare il capitale intellettuale necessario alle imprese.

Questo tipo di interventi, più difficili da programmare, possono produrre effetti strutturali di lungo periodo che sono ben superiori a poche decine di milioni di euro distribuiti a pioggia a una manciata di startup. !!Principio 3. Le grandi aziende devono contribuire !Le grandi aziende devono contribuire in modo significativo alla nascita e alla crescita di startup community e non possono limitarsi a qualche modesto programma di corporate social responsability per premiare i giovani talenti. Mi riferisco, in particolare, a quelle corporation che hanno commesse importanti con lo Stato, sono titolari di concessioni pubbliche o sfruttano complessi meccanismi di ingegneria fiscale grazie ai quali eludono gran parte delle tasse dovute in Italia. Queste imprese non possono sottrarsi al dovere morale di investire in modo strutturato e significativo nello sviluppo economico delle comunità in cui operano contribuendo allo sviluppo di capitale intellettuale e relazionale, nonché fornendo capitale finanziario. !!Principio 4. Le startup community devono essere connesse !Non possiamo rassegnarci alla contemplazione dei successi degli imprenditori che lavorano in ecosistemi più avanzati del nostro, né assistere laconicamente alla fuga all’estero di chi ha ambizioni più grandi di quelle che può sostenere il nostro Paese. L’unico modo per assicurare prospettive di crescita alle startup digitali italiane è commettere le community con gli hub tecnologici e internazionali, favorendo l’osmosi di competenze e attirando capitali internazionali nel nostro Paese.

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Qualunque attività che venga messa in campo non può prescindere dalle seguenti domande: come posso creare connessioni con le altre community all’estero? come faccio a essere riconoscibile e unico rispetto agli altri ecosistemi in altre parti del mondo? !!Obiettivo 1. Far crescere i capitali intellettuale e relazionale !Poiché una startup community non può prescindere dai capitali intellettuale e relazionale, chi vuole sostenere la crescita di un vibrante ecosistema locale deve innanzitutto concentrare la propria attenzione sulle strategie che permettono di crearli e farli crescere. Gli interventi elencati di seguito possono essere realizzati coinvolgendo diversi attori in funzione delle specificità locali. !Supportare gli eventi per le startup Dare supporto agli eventi per le startup significa essenzialmente due cose: fornire una location adeguatamente attrezzata e garantire qualche risorsa economica per gestire la logistica. I format di evento che hanno dimostrato di funzionare sono noti: si va dagli open coffee, incontri settimanali che si svolgono dalle 8 alle 9 di mattina durante la colazione, agli hackathon, raduni periodici di developer che si incontrano per sviluppare nuove soluzioni a un problema in un giorno e una notte. E via di seguito. Generalmente, questi eventi sono organizzati da uno degli imprenditori che ha deciso di assumere il ruolo di leadership della community con la collaborazione di altri soggetti che forniscono le risorse. Per esempio, a Londra, Google mette a disposizione gratuitamente gli spazi del Campus di Shoreditch, mentre a Boulder gli eventi vengono organizzati principalmente presso la locale università. Anche in Italia ci sono esempi virtuosi, come quello della Camera di Commercio di Roma che da alcuni anni sostiene un gran numero di iniziative sotto il brand di World Wide Rome. Ovviamente non c’è una ricetta fissa e la forma che assumo gli eventi localmente dipende in gran parte dai soggetti che sono disposti a contribuire. !Favorire la formazione universitaria sull’imprenditorialità Parallelamente allo sviluppo di una letteratura sulle tecniche per avviare una nuova impresa, sono anche emerse diverse esperienze di insegnamento di queste tecniche, che sono accomunate dall’approccio estremamente pratico e sperimentale. Per esempio, negli Stati Uniti, Steve Blank - pioniere della materia - ha elaborato un syllabus per aiutare i ricercatori delle università americane a convertire i risultati delle proprie ricerche in prodotti commerciali. Nella Silicon Valley è nato anche il Founder Institute, un programma di training per imprenditori diffuso in 40 Paesi, che ha aiutato il lancio

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di oltre 1.200 imprese in 5 anni. In Italia, InnovactionLab è certamente l’esperienza più significativa e, oggi, contribuisce non solo ad avvicinare gli studenti al mondo delle startup, ma anche ad alimentare le pipeline di molti acceleratori del nostro Paese. È necessario introdurre laboratori interdisciplinari di impresa nelle università che servono una startup community. Non deve trattarsi di corsi teorici con lezioni frontali tenute da professori che non hanno alcuna esperienza pratica sull’argomento, ma di veri e propri laboratori pratici di tre o quattro mesi che permettano agli studenti di toccare con mano cosa significa passare da un’idea a un prodotto, testando il mercato e disegnando il modello di business della propria azienda. Allo stesso tempo, dovrebbero essere incoraggiate le iniziative che prevedono uno scambio con analoghe iniziative all’estero. Questo tipo di attività potrebbe essere finanziato tramite contributi pubblici del governo centrale, come sta già facendo oggi il Miur con i Contamination Lab a Napoli, Catania, Reggio Calabria e Cosenza. Il rischio delle attuali iniziative è che nascano completamente scollegate con il resto dell’ecosistema e quindi producano risultati molto al di sotto delle aspettative. !Erasmus per gli aspiranti imprenditori Grazie ai programmi dell’Ue, oltre 2 milioni di studenti hanno avuto la possibilità di trascorrere dei periodi di studio all’estero completando il proprio percorso formativo e creando connessioni con gli studenti degli altri Paesi dell’Unione. Un governo che volesse supportare la nascita di startup community dovrebbe patrocinare la nascita di programmi di internship degli aspiranti imprenditori nelle principali aziende internazionali. Soprattutto nel digitale, in Italia operano molte corporation che sfruttano i differenti regimi fiscali europei per eludere gran parte delle tasse nazionali: non è un segreto che che Apple, Amazon, Google, Facebook e via dicendo pagano una quantità di imposte ridicole rispetto al fatturato che generano in Italia. Sono tutte aziende che si vantano di avere modernissimi programmi di corporate social responsability e di essere estremamente attente verso le comunità in cui operano e che, quindi, dovrebbero essere disponibili ad accogliere un numero significativo di aspiranti imprenditori italiani nei propri quartier generali europei e americani per periodi di tirocinio. Tali tirocini dovrebbero durare sei mesi e avere due obiettivi molto chiari: costruire un numero significativo di connessioni tra le startup community italiane e quelle degli altri hub internazionali; permettere agli aspiranti imprenditori di far crescere il proprio progetto di startup testando prodotti e modelli di business all’estero e presentando le iniziative a finanziatori stranieri. !Conferenze internazionali Personalmente ho partecipato a numerose conferenze internazionali dedicate alle startup in varie parti d’Europa: nessuna di loro si svolgeva in Italia. Una startup

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community dovrebbe essere in grado di ospitare degli eventi di respiro internazionale, con l’obiettivo di diventare il centro di riferimento per un determinato argomento. Il nostro Paese ha centinaia di location strepitose che possono ospitare conferenze del calibro di SXSW, o TechCrunch Disrupt. Ovviamente ci sono degli ostacoli importanti, ma è possibile superarli sia con la collaborazione delle grandi aziende del settore che contribuiscono abitualmente a questo tipo di manifestazioni con sponsorizzazione e speaker di prestigio sia grazie all’intervento degli enti pubblici che potrebbero offrire location e potenziare i servizi locali. Basta fare due conti per rendersi conto che il ritorno in termini di capitale relazionale e di immagine per il territorio giustificherebbe ampiamente l’intervento pubblico, sopratutto se l’evento si inserisse in una più ampia strategia di promozione della startup community. !Padiglione Italia Alcuni Paesi partecipano a eventi con padiglioni nazionali che offrono la possibilità a diverse startup di esporre i propri prodotti. Per esempio, nell’ultima edizione di Techcrunch Disrupt New York erano presenti l’Argentina, il Cile, il Messico e Israele. Non è certo una strategia innovativa: da sempre le aziende di un settore si consorziano per partecipare a fiere e altre manifestazioni internazionali. Considerando l’enorme numero di espositori e la conseguente difficoltà di attirare un’adeguata attenzione, non credo che un padiglione nazionale che si limiti a offrire spazio a un gruppo di startup sia una strategia particolarmente interessante. Diverso sarebbe se un Padiglione Italia promuovesse le startup community del nostro Paese come destinazione per chi vuole avviare una startup digitale in determinati settori, come quelli evidenziati nell’obiettivo 3. !!Obiettivo 2. Attrarre capitale finanziario intelligente !L’Italia è poco attraente per gli investitori esteri: i motivi sono noti e richiedono interventi strutturali di lungo termine. Nel breve periodo, è possibile immaginare degli interventi più circoscritti che abbiano l’obiettivo di coinvolgere investitori esteri early-stage nelle startup italiane. !Invitare i fondi e gli acceleratori delle corporation tecnologiche La maggior parte delle grandi corporation tecnologiche hanno dei fondi di venture capital e degli acceleratori. Nelle pagine precedenti ho citato Microsoft, ma anche Google, Facebook, Ibm e molte altre sono attive sul fronte degli investimenti soprattutto early stage: nessuno di questi corporate fund, però, ha una sede in Italia,

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anche se ci sono diversi motivi per cui dovrebbero farlo, tra cui quelli che ho già evidenziato. Attirare questa tipologia di investitori è strategico almeno per tre motivi: a) è necessario importare in Italia gli standard che guidano la selezione delle startup all’estero e che sono decisamente più impegnativi di quelli applicati dagli acceleratori nostrani; b) è più facile che un investitore riconosciuto a livello internazionale sia in grado di attirare nel nostro Paese imprenditori da qualsiasi parte del mondo; c) questi investitori early stage co-investono abitualmente con i principali venture capitalist del settore e quindi possono aiutare il processo di internazionalizzazione delle startup italiane e l’accesso a capitali che altrimenti sarebbe molto più difficile da raggiungere. Le misure pubbliche per attrarre i corporate VC in Italia non dovrebbero necessariamente implicare la formazione di fondi di investimento di diritto italiano. È assai più importante che le aziende in questione realizzino programmi operativi e che coinvolgano i propri esperti. Le startup possono essere anche costituite e finanziate in mercati più amichevoli per gli investitori: l’importante è che la produzione rimanga in Italia, perché questo significa posti di lavoro qualificati e reddito imponibile. !Agevolare le startup estere con stabili organizzazioni in Italia Business angel, fondi micro-seed e seed sono attori strategici per lo sviluppo di una startup community, ma è difficile che uno straniero decida di investire nel nostro Paese cifre piccole: i costi per gestire l’investimento anche solo legalmente sarebbero di gran lunga superiori ai benefici. In questo contesto, sarebbe opportuno estendere i benefici previsti dal Decreto 2.0 alle startup costituite in un altro Paese dell’Unione europea che abbiano una stabile organizzazione in Italia e che rispondono ai seguenti benefici: • la startup madre abbia le stesse caratteristiche previste per le startup costituite in

Italia (soci in maggioranza persone fisiche, investimenti in ricerca e sviluppo e via di seguito);

• la società figlia sia costituita in forma di Srl semplificata e sia posseduta al 100% dalla società madre;

• la produzione sia svolta per oltre il 75% in Italia dalla società figlia. In questo modo, la startup potrebbe usufruire del diritto societario del Paese in cui è stata costituita avendo automaticamente accesso a un numero significativamente superiore di potenziali investitori rispetto all’Italia. Allo stesso tempo, lo Stato avrebbe il beneficio di mantenere in Italia un’azienda che molto probabilmente andrebbe all’estero per cogliere delle opportunità che il nostro Paese ancora non può offrire. !!!!

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Obiettivo 3. Favorire il focus !Poiché le risorse sono poche e gli imprenditori italiani partono da una situazione di sostanziale svantaggio rispetto ai loro colleghi che partono in contesti più evoluti, è necessario fare delle scelte e focalizzare gli sforzi sia dal punto di vista territoriale che dal punto di vista della specializzazione settoriale. !Evitare la proliferazione di micro-iniziative Non tutti i territori sono adatti a ospitare una community di startup digitali: ci devono essere delle condizioni minime per giustificare un intervento da parte dello Stato. In particolare, tra gli elementi necessari ci sono: • la presenza di una università tecnica di qualità che garantisca la produzione di un

adeguato numero di profili professionali indispensabili per una startup digitale: ingegneri informatici, sviluppatori software e via di seguito;

• un adeguato numero di imprenditori che possano assumere la leadership della community e che facciano da mentor ai giovani imprenditori;

• un aeroporto che fornisca collegamenti diretti e a buon mercato verso altri hub tecnologici (in particolare Londra e Berlino). !

Investire su alcune vocazioni strategiche È difficile che l’Italia possa competere con gli hub internazionali se i nostri imprenditori e i nostri finanziatori si ostiniamo a scommettere su startup in settori così affollati come i media, l’e-commerce, i servizi per il marketing, il turismo o servizi consumer di grande respiro che sono presidiati da aziende fortemente finanziate come Uber e AirBnB. In questi ambiti è certamente possibile creare dei campioni nazionali, ma le soglie all’ingresso in termini di investimenti e di possibilità di reperire le necessarie professionalità per competere anche solo a livello europeo sono talmente alte, che è difficile immaginare che un’azienda italiana possa ritagliarsi un ruolo importante in pochi anni partendo da zero. Piuttosto, ha senso scommettere su alcune grandi sfide che oggi iniziano ad attirare l’attenzione degli imprenditori e degli investitori degli hub tecnologici più avanzati. Nell’ambito delle startup digitali, ne ho individuate quattro: l’healthcare, la distribuzione, la mobilità e il cibo. !L’healthcare è un settore in grande espansione e con un bisogno di innovazione legato innanzitutto alla sostenibilità dei costi di una sanità che deve assistere un numero crescente di persone che invecchiano e sono affette da malattie croniche. Negli Stati Uniti, gli investimenti in startup che si occupano di salute sta crescendo vertiginosamente, soprattutto grazie alla spinta verso all’innovazione del sistema

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sanitario nazionale impressa dall’amministrazione Obama con l’Affordable Care Act, che ha introdotto nuovi standard federali per l’health IT e una normativa ad hoc per il trattamento dei dati che riguardano la salute delle persone. La digitalizzazione della sanità (obiettivo ancora lontano), la possibilità di curare le persone a casa grazie alla diminuzione dei costi delle tecnologie e alla loro portabilità, l’impiego degli smartphone per migliorare la prevenzione e diffondere l’educazione verso stili di vita che minimizzano il rischio di ammalarsi e via di seguito sono ambiti ancora tutti da inventare e sviluppare. !La crescente diffusione dell’e-commerce sta cambiando progressivamente la distribuzione. Oggi, acquistiamo abitualmente libri, vestiti e apparecchiature elettroniche online. Presto andremo oltre i supermercati e passeremo all’e-ecommerce anche per fare la spesa alimentare e questo comporterà la necessità di reinventare la logistica di prossimità, ideando sistemi economicamente e ambientalmente sostenibili, magari che facciano uso di droni per le consegne a domicilio. !In un futuro non troppo lontano, ci muoveremo sempre di più condividendo mezzi di trasporto elettrici e abbandonando progressivamente la proprietà di un’automobile. I vantaggi di questa nuova mobilità sono evidenti: un numero minore di mezzi in circolazione, minore inquinamento e traffico, minori costi per muoversi. Chiunque abbia usato un car sharing di ultima generazione si è certamente accorto che questa transizione è possibile grazie agli smartphone, che permettono di far circolare in modo efficiente le informazioni sulle disponibilità di trasporto (ossia, quali sono le vetture disponibili in un determinato momento in una specifica zona). Car2go, Enjoy e altri servizi commerciali sono solo l’inizio. Immaginate cosa si potrebbe fare integrando diverse modalità di trasporto: dalle biciclette alle metropolitane, passando per segway, motorini, macchine di varie dimensioni, elicotteri personali e via di seguito. La gestione delle informazioni avrà un ruolo fondamentale per abilitare questi ecosistemi della mobilità. !Infine, il futuro del cibo. L’industria del food processing sta producendo danni per la salute superiori a quelli provocati dall’industria del tabacco. Non possiamo rassegnarci al paradigma imposto dalle multinazionali del cibo, anche perché gli effetti sulla salute delle persone sono drammatici: basti pensare all’obesità e all’epidemia di diabete di tipo 2, che è causata dall’uso dissennato di alimenti che contengono una quantità di zuccheri esorbitante rispetto ai nostri fabbisogni. «Food is broken», direbbero gli americani. E noi italiani abbiamo certamente molte credenziali per ripararlo. La sfida è epocale perché occorre agire dal lato della domanda, “riprogrammando” le nostre abitudini alimentari e orientando la filiera del cibo verso le produzioni sostenibili e che non hanno un impatto negativo sulla nostra salute. Questo significa

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lavorare innanzitutto su come le persone preparano i propri pasti. Non possiamo pretendere che tutti diventino all’improvviso raffinati gourmet e abili cuochi, perché è un’attività richiede tempo e passione. Però, possiamo digitalizzare le cucine rendendole intelligenti, semplificare l’acquisto di ingredienti coltivati e allevati in modo sostenibile accorciando le filiere ed eliminando gli intermediari della grande distribuzione organizzata. Le startup digitali giocheranno un ruolo fondamentale in questo settore, che più di altri ha veramente bisogno di essere disrupted. !Le zone franche dell’innovazione Alcuni degli interventi proposti nelle pagine precedenti richiedono nuove leggi che potrebbe essere anche difficile far approvare o per le quali avrebbe senso un periodo di sperimentazione. In questo contesto, avrebbe senso che alcune startup community ottenessero uno status speciale divenendo delle vere e proprie zone franche dell’innovazione. Tradizionalmente le zone franche godono di benefici tributari, come l’esenzione dai dazi doganali sulle merci, che vengono concessi per agevolare lo sviluppo dell’industria e del commercio. Le zone franche dell’innovazione, invece, dovrebbero servire per incubare e testare nuovi quadri regolamentari rendendo più semplice introdurre determinate innovazioni nel nostro ordinamento. In questo senso, potrebbero essere molto utili per superare le tante resistente che incontrano normalmente le modifiche al diritto societario, fiscale o del lavoro nel nostro Paese. Oppure, potrebbero prevedere norme speciali per consentire la sperimentazione su larga scala di particolari tecnologie: autovetture a guida automatica, droni per le consegne a domicilio di prodotti in zone non densamente popolate. E via di seguito. Le zone franche dell’innovazione dovrebbero includere dei benefici fiscali, non tanto nella forma di esenzione da determinate tasse, quanto in quella della semplificazione e dell'adozione di modelli alternativi a quelli correnti. Penso, per esempio, alle norme folli che vanificano i benefici fiscali concessi per chi assume degli apprendisti. Oppure, all’innumerevole quantità di piccoli adempimenti burocratici che ancora gravano sulla testa degli imprenditori e che, sommati l’uno all’altro, finisco per rappresentare un costo ingente per ogni piccola impresa, non solo per le startup.

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