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Flavio Sorrentino (a cura di) IL SENSO DELLO SPAZIO Lo spatial turn nei metodi e nelle teorie letterarie ARMANDO EDITORE

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IL SENSO DELLO SPAZIO

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Flavio Sorrentino(a cura di)

IL SENSO DELLO SPAZIO

Lo spatial turn nei metodi enelle teorie letterarie

ARMANDOEDITORE

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Sommario

Introduzione 7FLAVIO SORRENTINO

Spazio, descrizione, effetto di realtà 19SANDRA CAVICCHIOLI

Spazi naturali, spazi culturali 39GIANFRANCO RUBINO

Spazio e lettura: la funzione dei luoghi nella costruzionedel senso 53

VINCENT JOUVE

Spazio e stile, geografi e dell’intreccio e storie del Terzo 69FRANCO MORETTI

Dalla geocritica alla geosimbolica 85DANIEL-HENRI PAGEAUX

Paesaggio e architettura, differenza e identità 99MICHAEL JAKOB

La geocritica, un approccio globale agli spazi letterari 115BERTRAND WESTPHAL

Indice dei nomi 126

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Introduzione

Flavio Sorrentino

È chiamata geolocalizzazione, o georeferenziazione, quella connessione che si può creare o stabilire tra un oggetto – in genere un telefono cellulare, uno smartphone, un computer – capace di segnalare la propria posizione in tempo reale, una coordinata ge-ografi ca (individuata con suffi ciente precisione) e un dato. Il dato può essere banale – il nome di una strada, l’orario di un bus – oppure complesso, stratifi cato – la descrizione di un monumento, una foto, un testo –; in questo caso possiamo considerarlo un dato culturale in senso stretto.

Interrelare insiemi di posizioni geografi che con reti di dati cul-turali è un processo che comporterà, probabilmente già in un futu-ro molto vicino, grandi trasformazioni sia nella fruizione che nella produzione di oggetti culturali. Non è che la geolocalizzazione sia stata inventata ora, naturalmente. Per fare un esempio che risale al XIX secolo si può ricordare John Snow, medico britannico, che compie lo stesso tipo di operazione per ricercare cause e modi di diffusione del colera durante l’epidemia di Soho del 1855. Snow localizzò su una mappa di Londra i casi di colera e, osservandone la strana distribuzione a scacchiera, mise in relazione il presentarsi della malattia con la presenza di una pompa che raccoglieva l’ac-qua in una zona particolarmente inquinata del Tamigi trasforman-dola in veicolo di diffusione del vibrione1. Se la geolocalizzazione

1 D.J. Bodenhamer, J. Corrigan, T.M. Harris, The spatial humanities: GIS and the future of humanities scholarship, Bloomington, Indiana University Press, 2010, p. vii.

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non è stata inventata ora, invece le tecnologie che ne permettono un utilizzo veramente di massa e in mobilità sono recenti. Quella che sta cambiando è la quantità dei fruitori.

Possiamo considerare lo sviluppo della geolocalizzazione come un elemento, un sintomo rivelatore ed emblematico, di un genera-le processo di trasformazione dell’esperienza e del pensiero dello spazio: di pratiche di gestione da una parte e di ripensamento della spazialità dall’altra; quella parte del processo che riguarda i saperi ha preso il nome ormai di spatial turn, a indicare un’attenzione rinnovata, particolarmente nelle scienze umane, alla dimensio-ne spaziale affermatasi negli ultimi anni. In realtà bisognerebbe distinguere, all’interno della categoria generale, sia le specifi cità delle varie discipline sia le differenze tra le concezioni degli stu-diosi che se ne sono occupati2. Diversi sono gli interessi e le fi na-lità, diverse sono le metodologie usate dagli storici, dai geografi , dai sociologi, dagli studiosi di politica o di letteratura. Tra coloro che per primi hanno teorizzato la svolta spaziale occorre ricordare il geografo politico Edward Soja, lo studioso del paesaggio Denis Cosgrove e il fi losofo Fredric Jameson cui si è aggiunta, di recen-te, una scuola tedesca di studiosi, soprattutto di kulturwissenschaft, disciplina in parte sovrapponibile ai cultural studies3.

I segni che fanno pensare ad una accresciuta importanza dello spazio – e del pensiero dello spazio – nella contemporaneità (non

2 Cfr. B. Warf, S. Arias (eds.), The spatial turn: interdisciplinary perspec-tives, London, Routledge, 2009.

3 Cfr. E. Soja, Third space, Journeys to Los Angeles and Other Real-and-Imagined Places, Oxford, Basil Blackwell, 1996; D.E. Cosgrove, Social for-mation and Symbolic Landscape, Wisconsin Univ. Press, 1998; F. Jameson, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism, Durham, Duke uni-versity press, 1991, trad. it. Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007; J. Dünne, S. Günzel (Hg.), Raumtheo-rie. Grundlagentexte aus Philosophie und Kulturwissenschaften, Frankfurt/M., Suhrkamp, 2006; J. Döring, T. Thielmann (Hg.), Spatial Turn. Das Raumpara-digma in den Kultur- und Sozialwissenschaften, Bielefeld, Verlag, 2008; infine può aiutare a comprendere meglio i meccanismi di produzione e funzionamento delle “svolte” accademiche il volume di D. Bachmann-Medick, Cultural Turns: Neuorientierungen in den Kulturwissenschaften, Reinbek, Rowohlt, 2009.

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solo scientifi ca) sono vari: i più visibili, ad esempio, sono la crisi dello Stato-nazione e la globalizzazione, due processi eminente-mente spaziali, cui se ne può aggiungere un terzo, elaborato da Agamben; la moltiplicazione di dispositivi, ovvero di spazi (se il termine è inteso in senso più ristretto, foucaldiano) o di oggetti e pratiche (se il termine è inteso in senso più generale, come fa Agamben) che interagiscono con le soggettività tramite gli investi-menti nelle pratiche della consacrazione e della profanazione, ov-vero della sottrazione o della restituzione delle cose (e degli spazi) al libero uso degli uomini4.

La crisi dello Stato-nazione si inserisce in un processo di lun-ga durata che vede progressi e confl itti della storia mondiale ar-ticolarsi, per circa un secolo e mezzo, fi no agli anni Ottanta del Novecento, intorno alla territorialità. Dagli anni Novanta in poi la fi ducia nella territorialità declina e non determina più i luoghi delle fedeltà5, mentre i confi ni mutano (non scompaiono, come sa chi, da fuori, tenta di venire in Occidente).

La globalizzazione, che trae origine o forza, a seconda delle concezioni6, dalla fi ne del mondo bipolare, trasforma (sta trasfor-mando) radicalmente i fl ussi di merci, fi nanze, risorse energeti-che, risorse alimentari e produzioni7. Se fi no a pochi decenni fa lo scontro tra capitale e lavoro verteva soprattutto sul tempo (si possono riassumere le conquiste operaie novecentesche così: gior-nata lavorativa di otto ore, ferie pagate, decisione sugli orari stra-ordinari concertata; tutte conquiste che riguardano il tempo del lavoro) oggi, invece, il processo direttamente implicato dalla glo-balizzazione è: delocalizzazione. Lo scontro tra proprietà e lavoro si sposta sul terreno dello spazio.

4 G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Roma, Nottetempo, 2006, pp. 23-28.

5 Ch. Maier, Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industria-le e le trasformazioni della territorialità, «Parolechiave», 1996, 12, pp. 41-69.

6 G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Tori-no, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 13-15.

7 S. King, Perdere il controllo, Roma, Armando, in corso di stampa.

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Ce n’è abbastanza perché saperi e discipline sentano la neces-sità di reinterrogarsi sulla spazialità, reintroducendola tra i nuovi centri di interesse. E tra loro anche gli studi letterari. Dopo le gran-di teorizzazioni degli anni Cinquanta e Sessanta – penso alla teoria delle forme spaziali di Joseph Frank, alla poetica dello spazio di Gaston Bachelard, all’analisi dell’immaginario di Gilbert Durand, alle analisi semiotiche dello spazio di Jurij Lotman, all’antesigna-no Michail Bachtin, in quei decenni riscoperto – che mantengono intatto il loro potenziale euristico, anche se soffrono fortemente il doppio cambio di paradigma (strutturalismo, poststrutturalismo) che le ha relegate in posizione periferica rispetto alla produzione critica attuale, lo studio dello spazio è scomparso dagli orizzonti critici per lungo tempo. Ora invece la questione della spazialità nella letteratura ricompare negli orizzonti di studio passando so-prattutto in conseguenza delle rifl essioni sollevate dai “teorici” dello spatial turn, principalmente Jameson, Soja, Cosgrove. Que-sto perché le nuove rifl essioni mettono al centro del panorama que-stioni che gli studi letterari avevano sempre lasciato ai margini o affrontato con diffi coltà: il rapporto con gli altri saperi (spesso gli studi letterari hanno confuso la loro specifi cità con l’autonomia; il rapporto tra reale e fi nzione, diffi cile da pensare quando non si vede quanto ha il “reale” di costruzione culturale; il rapporto tra parte reale dello spazio e parte immaginaria, perché non si può più pensare che geografi a, storia e geopolitica si occupino solo delle parti reali degli spazi e la letteratura solo di quelle immaginarie8. Ad oggi il tentativo più ambizioso di ripensare il tema della spa-zialità in letteratura è quello portato avanti da Bertrand Westphal con la “geocritica”9; Westphal sviluppa teoria, metodo e prassi mi-rando a un ripensamento complessivo di tutti e tre gli aspetti.

8 Un’articolata riflessione al proposito la si può trovare in G. Iacoli, La percezione narrativa dello spazio. Teorie e rappresentazioni contemporanee, Roma, Carocci, 2008, in part. capp. 1, 2, 5, 7. Si veda anche Letteratura e spa-zio, numero monografico di «Moderna», 1, 2007, diretto da Sandro Maxia.

9 B. Westphal, La Géocritique. Réel, fiction, espace, Paris, Editions de Mi-nuit, 2007, trad. it. Geocritica. Reale finzione spazio, Roma, Armando, 2009.

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Questo volume raccoglie i saggi teorici e metodologici più sti-molanti prodotti nell’ultimo quindicennio che si sono concentrati sui nodi teorici e metodologici maggiormente attuali riguardanti le rappresentazioni degli spazi nella letteratura, più o meno in coin-cidenza con la nascita e lo sviluppo dello spatial turn. Chiunque decida di studiare una qualche rappresentazione spaziale letteraria e inizi a compulsare i repertori bibliografi ci cercando riferimenti, si troverà di fronte ad una produzione decisamente cospicua. Un qualsiasi repertorio informatico fornisce facilmente i titoli di non centinaia bensì migliaia di saggi e articoli dedicati alle rappre-sentazioni degli spazi in una qualche letteratura. Ma il compul-satore si accorgerà ben presto che la quasi totalità di questi lavori consiste in studi di casi del tipo: la rappresentazione di un certo tipo di spazio in un determinato testo o autore. Gli studi di casi sono utilissimi, e spesso anche interessanti, tuttavia non sempre riescono ad aiutare coloro che desiderano pensare o ripensare da soli l’organizzazione spaziale di un testo. Che sia per lavoro o che sia per un interesse intellettuale, quando si studia lo spazio in letteratura si affrontano questioni talmente complesse e trasversali tra i metodi, i saperi e le discipline, che gli esempi dati dagli studi dei casi aiutano fi no a un certo punto a reperire schemi generali di analisi. Studiare lo spazio in letteratura vuol dire anche riaf-frontare e ripensare quel nodo fondamentale della critica che è il rapporto tra reale e fi nzione, tra referente e testo, sempre trattato, mai risolto del tutto. Alcuni lavori di critica, però, hanno voluto affrontare la questione del rapporto tra reale, fi nzione e spazio dal lato del metodo, della teoria per arrivare poi ai testi. Sono i più recenti tra (alcuni di) questi lavori che sono stati raccolti qui con l’idea di dare la possibilità a chi lavora sullo spazio di confrontarsi con saggi che rifl ettono in generale con temi, problemi e questio-ni. Inoltre, ognuno di questi saggi si fa portatore anche di sugge-rimenti operativi, di notazioni di “tecnica” di analisi, che possono essere condivisi o meno, naturalmente, ma che si rivelano utili per far emergere dai dati testuali, nuclei di senso, confi gurazioni, soluzioni di punti critici.

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I saggi qui raccolti vengono proposti in ordine cronologico, preferendo un ordine neutro rispetto ad altre sistematizzazioni che avrebbero comportato più forzature che chiarifi cazioni. Apre la raccolta un saggio di Sandra Cavicchioli, studiosa di semiotica prematuramente scomparsa, che ha affrontato in molte occasioni lo studio dello spazio in una serie di articoli e con la cura di un numero monogafi co della rivista «Versus» del 199610.

Cavicchioli, in Spazio, descrizione, effetti di realtà, si interroga su come un testo produca l’effetto di spazio; non basta, infatti, una descrizione, né sintetica né esaustiva (anzi, dice, spesso l’eccesso di visione produce una cecità della scrittura e l’informazione si trasforma in rumore, mentre l’effi cacia di una descrizione dipende dal lavoro di selezione degli elementi), a creare un effetto spaziale, né basta considerare anche l’effetto di realtà. Il concetto, come è noto, dispone di due teorizzazioni: una è quella, celebre, di Roland Barthes11 per cui l’effetto di realtà dipende dalla presenza nel te-sto di dettagli inutili che costituiscono un lusso dal punto di vista narrativo. I dettagli inutili producono un effetto di realtà proprio perché resistono al senso e manifestano la loro inutilità nell’econo-mia del testo (Cavicchioli registra acutamente, seppure en passant, il riconoscibile debito con Lacan). L’altra concezione, elaborata dall’approccio generativo, prevede che per ottenere un effetto di realtà il testo debba predisporre varie operazioni che concorrono alla creazione di reti coese di elementi.

Quindi, per creare un effetto di spazialità in un testo non bastano la descrizione né l’effetto di realtà, ma occorre anche considerare un altro parametro, che Cavicchioli chiama effetto di profondità e che consiste in un effetto di coerenza tra elementi diversi contenuti in uno spazio e il soggetto osservatore; la coerenza – e quindi la leggibilità – dello spazio è assicurata dalla coerenza delle varie “profondità” degli elementi dello spazio rispetto all’osservatore.

10 Gli articoli principali sono stati poi raccolti in S. Cavicchioli, I sensi, lo spazio, gli umori e altri saggi, Milano, Bompiani, 2002.

11 R. Barthes, L’effet de réel, «Communications», 11, 1968.

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L’elemento interessante è che in questo modo lo spazio diventa immediatamente relazionale e sono le tensioni tra gli elementi a renderlo interpretabile come abitabile e percorribile. I due esempi di letture che Cavicchioli propone sono stati scelti per illustrare i due casi estremi di massimo e minimo effetto di profondità e permettono di confermare l’idea che la leggibilità dello spazio non dipende direttamente dalla descrizione.

L’introduzione dell’effetto di profondità introduce due innova-zioni rispetto a precedenti letture semiotiche dello spazio: introdu-ce una soggettività che si fa (più o meno) carico della leggibilità dello spazio e collega le relazioni tra gli elementi dello spazio con quella soggettività, istituendo così un processo bidirezionale. La soggettività si fa garante delle relazioni tra gli elementi dello spa-zio (permettendone la leggibilità) e quelli permettono di indivi-duare e descrivere la soggettività.

Gianfranco Rubino solleva una questione analoga a quella di Cavicchioli (come viene rappresentato lo spazio in un testo?), in Spazi naturali, spazi culturali, concentrandosi sul romanzo. Ru-bino si chiede attraverso quali elementi testuali possiamo indivi-duare una rappresentazione dello spazio o degli spazi. Proponendo l’idea che la letteratura si confronti con le classifi cazioni degli spa-zi reali così come sono state elaborate dalle scienze umane (senza mai dimenticare la differenza radicale che separa segni e cose), Rubino individua quegli elementi del testo che riprendono, ripro-pongono, criticano, mettono in discussione o anche capovolgono quelle concezioni dello spazio, in particolare la suddivisione dello spazio in umanizzato e non umanizzato: anche nel suo caso non bastano la descrizione e/o l’effetto di realtà, che pure vanno presi in considerazione (ovviamente) per disegnare lo spazio, ma occor-re considerare anche altri elementi testuali quali: il coeffi ciente di narratività – quindi osservare la relazione esistente tra le modalità e le funzioni dell’intrigo e gli spazi che le contengono in modo da poter individuare eventuali nessi causali; l’uso (il riuso, l’abuso) di versioni stereotipate degli spazi – quindi vedere in quale modo i testi le utilizzano, le trasformano, le accostano tra loro; le de-

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scrizioni e il loro rapporto con eventuali tipologie del descrittivo – quindi registrare il rapporto tra il testo ed eventuali rappresenta-zioni condivise degli spazi; il sistema di valori e antivalori sugge-rito dalle confi gurazioni diegetiche del testo – quindi pensare gli spazi proposti dal testo come sistema che si articola al suo interno in poli di segni diversi12. L’analisi degli spazi, secondo Rubino, deve forzatamente confrontarsi con due dati diversi: da una parte il richiamo agli spazi reali, sempre presenti sul fondo dell’occhio dello scrittore; dall’altra il testo che, tramite gli elementi suindica-ti, quello spazio rende comprensibile.

Questi due interventi per analizzare gli spazi rappresentati partono da elementi e dati testuali individuando quei fattori che contribuiscono a produrre la spazialità. Diversa è la prospettiva di Jouve che, nel suo Spazio e lettura: la funzione dei luoghi nella costruzione del senso, analizza le rappresentazioni degli spazi a partire dalla pratica della lettura. Egli nota come, infatti, lo spazio condizioni tutti i tipi di lettura che vengono attivati di fronte a un testo. Pensare lo spazio a partire dalle operazioni di lettura – Jouve ne individua quattro differenti: lettura cognitiva, affettiva, argo-mentativa, simbolica – permette di chiarire meglio in che modo gli spazi rappresentati funzionino e condizionino ognuno dei quattro tipi di lettura; l’elemento fondamentale che usa Jouve per mette-re in relazione di lettura è lo “script”. Lo script potrebbe essere defi nito usando un’analogia come una modalità di riempimento automatico che la mente utilizza per completare le parti mancanti di discorsi o racconti. Lo script serve a collegare scene e azioni do-tandole di un fondo comune che diventa l’elemento che permette di accomunarle, e questo fondo comune è per lo più uno spazio più o meno noto, più o meno descritto; se è più convenzionale lo spa-zio piega verso lo stereotipo; se invece introduce un gran numero di elementi nuovi richiama l’attenzione sui suoi costituenti. Ma lo script serve anche a favorire le identifi cazioni che sono sempre identifi cazioni con personaggi in situazione, quindi anche in uno

12 Cfr., su questo nodo, V. Jouve, Poétique des valeurs, Paris, Puf, 2001.

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spazio; anche in questo caso a seconda della maggiore o minore tendenza alla stereotipia varia il tipo di lettura che il testo propone. Questo strumento quindi, lo script, permette a Jouve di ripensare il rapporto che c’è tra la rappresentazione di uno spazio e gli elemen-ti testuali che la determinano a partire da un’angolazione diversa, quella del lettore; e così quell’elemento – lo spazio stereotipato – che non è facilmente descrivibile se si parte dal testo, diviene meglio individuabile se lo si analizza a partire dal processo della lettura.

Finora sono intervenuti descrizione, effetto di reale, effetto di profondità, coeffi ciente di narratività, script. Franco Moretti, nel suo fondamentale saggio Atlante del romanzo europeo. 1800-1900 introduce le carte geografi che. Le carte geografi che, per Moretti, non sono soltanto l’elemento su cui riscontrare la minore o mag-giore adesione di elementi testuali al dato reale ma, al contrario, sono il supporto sul quale collocare una serie di fenomeni letterari per poterci poi ragionare su «cercando di capire in che modo una specifi ca disposizione spaziale […] possa trasformarsi in una sto-ria avvincente»13. La carta geografi ca rende osservabili e pensabili dei fenomeni letterari che, se analizzati o considerati in altro modo, risultano meno visibili e quanto sia produttivo questo approccio, quante scoperte permetta, appare chiaramente alla lettura del sag-gio. L’Atlante del romanzo europeo contiene anche degli interludi teorici, che sono quelli qui raccolti, nei quali la rifl essione si fa più generale e attraverso i quali Moretti introduce due elementi rilevanti per lo studio dello spazio: il primo è che si può stabilire una interrelazione tra scelte stilistiche (di alcuni romanzi) e posi-zioni geografi che; Moretti dimostra che lo spazio agisce sullo stile e mostra come agisce. In particolare nota come le metafore siano destinate ad esprimere l’ignoto e che, per questo motivo, si con-centrano intorno ai passaggi di frontiere. Il secondo elemento che Moretti introduce, partendo dalla registrazione delle sedi e dei mo-

13 F. Moretti, Atlante del romanzo europeo. 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, pp. 9-10.

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vimenti dei personaggi di Balzac e Dickens sulle carte di Parigi e di Londra, è l’osservazione che i movimenti nella città dimostrano che la struttura dei romanzi balzachiani si trasforma da binaria a ternaria, introducendo un “Terzo”, un elemento che rende possibi-le raccontare storie più complesse e più adatte a rendere conto del-la complessità prodotta dalla nuova metropoli moderna. Le carte geografi che di Moretti diventano quindi uno strumento capace di mettere in correlazione spazi reali, quali la città o lo Stato-nazione, con le forme letterarie, riuscendo a spiegare la necessità di alcune scelte morfologiche, strettamente dipendenti dal tipo di spazio nel quale si svolge l’azione.

Pageaux, invece, partendo dalla geografi a, compie un altro tipo di operazione. Allo studioso di imagologia interessa vedere come il dato geografi co si trasformi, in letteratura, in elemento dell’im-maginario per esaminare poi in che modo questo diventi un veico-lo dell’immagine. Insegnamento fondamentale, secondo Pageaux, da tenere presente quando si esamina uno spazio letterario, è che questo vada confrontato certo con il dato reale, ma soprattutto con le altre rappresentazioni di quello stesso dato sia linguistiche che iconiche, sia contemporanee che precedenti. Inoltre, per afferrare validamente uno spazio rappresentato in letteratura è importante anche confrontarsi con altre discipline affi ni che in qualche modo su quel tipo di spazio hanno lavorato.

Jakob apre poi con Paesaggio e architettura, differenza e iden-tità la questione del paesaggio. Non si può non tenere conto ormai del fatto che gli studi sul paesaggio, dei quali Jakob è uno dei maggiori esponenti14, si sono costituiti come un nucleo autonomo, anche se non indipendente, rispetto a tutte le altre discipline che in qualche modo lo hanno compreso tra i propri oggetti di stu-dio: il paesaggio si trova all’incrocio tra geografi a, fi losofi a, storia dell’arte ma anche letteratura, sociologia, urbanistica e archeolo-gia. Il paesaggio diviene allora in se stesso un elemento di sintesi

14 Cfr. M. Jakob, Il paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2009; Id., Paesaggio e letteratura, Firenze, Olschki, 2005.

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di parola scritta, immagine, storia, traccia, costruzione culturale e cesura. Jakob ci invita a fare attenzione a non legare il paesaggio all’identità. La volontà di mantenere un paesaggio permanente-mente identico a se stesso lo condanna a diventare altro da sé, lo trasforma in un oggetto morto ed è una volontà fi glia di un’idea darwinistica che ritiene solo alcuni paesaggi degni di conserva-zione, mentre tutti gli altri possono diventare luoghi di degrado. Per uno studio degli spazi letterari, quindi, occorre tenere presenti le rifl essioni e i risultati ottenuti negli ultimi anni dagli studi sul paesaggio; Jakob richiama soprattutto la rilevanza che ha avuto la consapevolezza, tanto negli scrittori quanto nei pittori, del fatto che il linguaggio in generale è destinato sia a fallire nella rappre-sentazione del paesaggio, sia ad essere l’unica forma appropriata che ne permette una traduzione e una trasmissione.

In ultimo chiude il saggio di Westphal, La geocritica, un ap-proccio globale agli spazi letterari, che contiene un percorso generale attraverso le più recenti teorie che si sono occupate di spazio, specialmente in ambito anglosassone, e riassume i tratti principali della sua “geocritica”, proposta teorica e metodologica ancora in divenire; la proposta di Westphal è interessante soprat-tutto perché non si sottrae alle diffi coltà causate dal dover ripen-sare la nozione di spazio in un quadro postmoderno; il concetto di spazialità emerge in tutta la sua complessità e l’interesse della geocritica risiede anche nel fatto che riesce a collegare rifl essioni teoriche molto astratte o sistemiche a questioni concrete e specifi -che dei testi. La geocritica ripensa gli spazi a partire, per esempio, dai confi ni, dal rapporto tra spazio reale e spazio rappresentato o dalla profondità storica acquisita da alcuni luoghi nella letteratura e permette di indagare gli spazi ponendo nuove ipotesi di leggibi-lità dei luoghi.

L’effetto di profondità, il coeffi ciente di narratività, lo script, le carte geografi che, la profondità culturale di un’immagine, il pae-saggio e la geocritica non esauriscono certo gli strumenti possibili attraverso i quali possiamo esplorare, indagare, scoprire nei testi quei percorsi di spazi che sono anche percorsi di senso. Si spera

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che però si dimostrino abbastanza stimolanti da permettere di in-ventarne di sempre nuovi.

Alcuni dei saggi contenuti nel volume hanno avuto una pre-cedente pubblicazione qui indicata: Sandra Cavicchioli, Spazio, descrizione, effetto di realtà [1995], in I sensi, lo spazio, gli umo-ri, Milano, Bompiani, 2002, pp. 231-246; Gianfranco Rubino, Espaces naturels/espaces culturels dans le roman français du XXe siècle, in J. Poirier, J.-J. Wunenburger (dir.), Lire l’espace, Bruxel-les, Editions Ousia, 1996, pp. 177-190; Vincent Jouve, Espace et lecture: la fonction des lieux dans la construction du sens, in G. Lavergne (dir.), Création de l’espace et narration littéraire, Nice, Université de Nice Sophia-Antipolis, 1997, pp. 177-191; Franco Moretti, Interludio teorico: I., II., III., in Atlante del romanzo eu-ropeo. 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, pp. 43 e 46-51; 74-77; 109-114; Daniel-Henri Pageaux, De la géocritique à la géosymbo-lique. Regards sur un champ interdisciplinaire: littérature généra-le et comparée et géographie, in J.-M. Grassin (a cura di), La Ge-ocritique. Mode d’emploi, Limoges, Pulim, 2000.

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Spazio, descrizione, effetto di realtà

Sandra Cavicchioli

1. Introduzione

L’effetto di realtà1 contribuisce sicuramente all’effetto di spa-zio, tuttavia non è suffi ciente a spiegare l’impressione che uno spazio si dispieghi davanti a noi, nelle sue distanze e nelle sue sinuosità, nei suoi punti di articolazione e nel suo volume.

Inoltre, se colleghiamo la problematica dell’impressione refe-renziale e quella della resa della spazialità nel linguaggio verbale, emergono due problemi:

1) La spazialità è tridimensionale, pluridirezionale e percepi-bile sincronicamente; la scrittura è lineare e sequenziale. Si tratta del vecchio problema posto da Lessing nel Laocoonte, più di due secoli fa, e che è penetrato, quale opposizione inconciliabile – tra spazialità e temporalità, simultaneità e sequenzialità – nelle falde profonde della nostra cultura.

2) La “sensazione” di spazio deriva da un intreccio di dati (vi-sivi anzitutto, ma anche propriocettivi, tattili, acustici, motori). Sul piano della resa testuale, questa mole di dati pone il problema del far vedere, del farsi vedere, di una resa fi gurativa e iconizzante. Tuttavia questa traduzione dal mondo al testo, che possiamo pen-sare operante, ad esempio, nella descrizione, è stretta tra due limiti apparentemente inconciliabili e contraddittori.

1 Per il momento parlo di effetto di realtà in maniera generica; si rimanda oltre per una sua più precisa definizione.

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Da un lato il linguaggio sarà sempre afasico2 e povero rispetto alla ricchezza, molteplicità e multisensorialità di una spazialità in diretta; dall’altro una descrizione che sia animata dall’esaustività, dall’obiettivo di saturare il più possibile il reale, diventa ipertrofi ca e annulla l’impressione referenziale di spazialità. È risaputo che, spesso, più si descrive e meno si vede. L’informazione, in questi casi, tende a trasformarsi in rumore. L’effi cacia nella resa dello spazio non si risolve, allora, con un eccesso di visione – che, anzi, produce di frequente un effetto di cecità della scrittura3.

L’effi cacia della descrizione sembra infatti connessa a un ac-curato lavoro di selezione. Il testo intensifi ca il proprio potere al-lucinatorio non tanto quando mette in scena una pletora di dati, ma, piuttosto, quando esibisce pochi tratti ben scelti e, soprattutto, omologabili a profi li cognitivi e passionali, stati d’animo e atmo-sfere psicologiche. In altre parole, quando i tratti descrittivi entra-no pienamente in un regime di signifi cazione. Questa affermazio-ne, tuttavia, non è necessariamente condivisa da tutti coloro che si sono occupati di effetto di realtà. Barthes, ad esempio, come vedremo tra poco, ne propone una ben diversa formulazione.

2.

In semiotica disponiamo di due teorizzazioni dell’effetto di realtà, quella di Barthes – che usa proprio questa espressione – e quella elaborata nell’ambito della semiotica generativa, in cui si preferi-sce parlare di illusione, o ancora meglio di impressione referen-ziale. Le ricordo brevemente poiché serviranno da sfondo a quello che chiamo l’effetto di spazio. Credo che l’effetto di realtà possa costituire una precondizione al costituirsi di un effetto di spazio, ma che non ne spieghi la specifi cità e soprattutto sue discorsiviz-zazioni particolarmente effi caci.

2 Cfr. P. Ouellet, Signification et sensation, Limoges, PULIM, 1992.3 Cfr. S. Cavicchioli, I sensi, lo spazio, gli umori e altri saggi, Milano,

Bompiani, 2002, pp. 95-98.

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Per Barthes4 l’effetto di realtà dipende dalla presenza, nel te-sto, di dettagli inutili: lusso dal punto di vista narrativo, scandalo dal punto di vista dell’analisi strutturale che tenta eventualmente di recuperarli come indici dal valore funzionale indiretto. Questi dettagli inutili ci interessano poiché Barthes li apparenta alla de-scrizione che, contrariamente alla narrazione, che è dotata di strut-tura predittiva e si confi gura quindi come luogo di costrizioni, si presenterebbe invece come luogo gratuito del testo. La descrizione potrebbe quindi essere pensata come una sorta di grande conteni-tore di dettagli inutili. Dettagli inutili e descrizioni gratuite: qual è quindi il signifi cato di questa insignifi canza?

Per quanto riguarda il dettaglio, la risposta di Barthes – lo sappiamo – è che il suo senso sta proprio nel resistere al senso, nell’eccedere la struttura, nel non trovare posto nell’economia globale del testo. In ciò si costituisce come reale confermando la grande opposizione mitica fra vissuto e intelligibile5.

In termini semiotici si può parlare di una collusione diretta tra signifi cante e referente, con connessa espulsione del signifi cato6.

4 Ovviamente si fa qui riferimento al famoso saggio di Barthes del 1968, L’effet de réel.

5 R. Barthes, Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988, p. 156.6 Se si dovesse suggerire una “traduzione” letteraria di questa teoria dell’ef-

fetto di realtà, proporremmo sicuramente Tentative d’épuisement d’un lieu pa-risien di Georges Perec: descrizione pletorica, ripetuta, priva di eventi salienti, di Place Saint-Sulpice in diverse ore del giorno di due giornate successive. Scrive Perec a proposito delle “cose” che si vedono nella piazza: «Un grand nombre, sinon la plupart de ces choses ont été décrites, inventoriées, photo-graphiées, racontées ou recensées. Mon propos dans les pages qui suivent a plutót été de decrire le reste: ce que l’on ne note généralement pas, ce qui ne se remarque pas, ce qui n’a pas d’importance: ce qui se passe quand il ne se passe rien, sinon du temps, des gens, des voitures et des nuages», [«Molte, se non la maggior parte, di quelle cose sono state descritte, inventariate, fotografate, raccontate o recensite. Il mio obiettivo, nelle pagine seguenti, è stato piuttosto quello di descrivere il resto: ciò che generalmente non viene notato, cui non si presta attenzione, che non ha rilevanza: ciò che succede quando non succede niente a parte il trascorrere del tempo, delle persone, delle automobili, delle nuvole»], G. Perec, Tentative d’épuisement d’un lieu parisien, «Cause commu-

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La polemica con lo strutturalismo è aperta, il debito con Lacan, per cui il reale è ciò che manca incessantemente la propria rappresen-tazione, chiaro.

Per quanto riguarda la descrizione, invece, la risposta di Barthes alla sua gratuità e insignifi canza anzitutto insiste sulla sua funzione estetica. In secondo luogo, dal romanzo realista in poi, almeno, le descrizioni sono sottoposte anche a un principio di verosimiglian-za referenziale. Non si danno, quindi, incongruenze fi gurativo-referenziali quali la descrizione di un paesaggio nordico con leoni o piante di olivo come invece accadeva, ricorda sempre Barthes, nel Medioevo. Con queste osservazioni, le sue rifl essioni si avvici-nano a quelle sull’impressione referenziale elaborate nell’ambito della semiotica francese, da Greimas7 fi no a Bertrand8.

Per questi autori, infatti, l’illusione di realtà non si dà a partire da un dettaglio che non riesce a confi gurarsi nella sintesi di una qualche Gestalt ma, al contrario, a partire dal fatto che la Gestalt non è percepibile: il prodursi dell’effetto deriva proprio dell’averla smarrita.

Nel caso dell’approccio generativo al problema, le operazioni che conducono alla costruzione di un simulacro del reale sono varie e non si riducono alla mancata funzionalità narrativa o psicologica del dettaglio. Anzitutto, la cosiddetta operazione di referenziazio-ne, consistente nell’utilizzo di sememi fi gurativi che traducono nel discorso equivalenti fi gure del piano dell’espressione del mondo naturale, secondo l’assestato paradigma fenomenologico per cui il mondo è già dotato di senso. In secondo luogo, le cosiddette operazioni di referenzializzazione o iconizzazione relative alla di-mensione sintagmatica (transfrastica) dei discorsi: dalla creazione

ne», 1, Paris, 10/18, 1975, p. 12. Ove non diversamente indicato le traduzioni sono mie.

7 Si vedano ad esempio le voci “Figurativisation”, “Iconicité” e “Réferent” in A.-G. Greimas, J. Courtés, Sémiotique: dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris, Hachette, 1979.

8 Cfr. D. Bertrand, L’Espace et le sens: Germinal d’Émile Zola, Paris-Amsterdam, Benjamins, 1985.

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di reti isotopiche, dunque di coesione fi gurativa, alla creazione di reti anaforiche, dunque di coesione sintattica, fi no alla costituzio-ne, grazie al meccanismo dei débrayages e degli embrayages, di luoghi testuali contraddistinti da diverse distanze tra enunciazione ed enunciato che producono, tramite sapienti meccanismi di incas-samenti, diversifi cati effetti di realtà9.

Assistiamo a un paradosso. L’effetto di realtà alla Barthes è le-gato a un effetto di discontinuità – il reale come resto, come asim-bolismo – che si rende percepibile, tuttavia, solo dopo una strut-turazione globale del testo o quanto meno dopo la sua rilettura; è, quindi, un effetto di struttura10. Non è, dunque, dell’ordine della percezione e tutto sommato non è neppure dell’ordine dell’effetto. Si tratta di un risultato che si ottiene retroattivamente e che sembra in parte contraddire l’idea di effetto, che parrebbe implicitare mar-che come quelle di immediatezza e intensità.

Al contrario, l’impressione referenziale della semiotica ge-nerativa è legata a un effetto di continuità che presuppone, visto l’insieme di procedure che la determinano, una strutturazione del testo su più livelli, nella sua generazione, ma che non prevede, di questa strutturazione, la percezione e consapevolezza all’atto della ricezione del testo.

3.

Questo per quanto concerne l’effetto referenziale. Ma tornia-mo per un momento a Lessing, che, come si ricorderà, aveva il

9 A questo proposito si veda ibidem, che mostra, analizzando alcuni pas-si di Germinal di Zola, come l’alternarsi di discorso diretto, indiretto e stile indiretto libero, quindi l’incrocio di diverse istanze enunciative, instauri un sistema di equivalenza attanziale tra narratore e attori che referenzializza en-trambi.

10 A questo proposito si veda ad esempio Ph. Hamon, Texte et idéologie: valeurs, hiérarchies et évaluations dans l’œuvre littéraire, Paris, PUF, 1984.

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problema di accordare effetto di spazialità e testo verbale. Scrive, a proposito del vestito di Agamennone e della sua presentazio-ne nell’Iliade: «Noi gli abiti li vediamo, mentre il poeta dipinge la scena della vestizione; un altro avrebbe dipinto gli abiti sino alla più minuscola frangia, e noi della scena non avremmo visto nulla»11.

Qui Lessing non si sofferma tanto sull’effi cacia nella resa degli abiti quanto su quella dell’intera scena, che dipende dalla messa in narrazione della descrizione. È questo che mi interessa – la scena – poiché l’effetto di spazialità, se sicuramente include l’effetto di realtà che riguarda gli oggetti che popolano lo spazio, le forme e i colori che defi niscono quegli oggetti – questioni, quindi, di coe-renza fi gurativa e di densità semica – è però anche altro: un effetto di volume, un effetto di località globale.

Per arrivare a ciò che mi interessa partirò da alcune osserva-zioni di Merleau-Ponty. Ne L’occhio e lo spirito egli scrive che il corpo «è un intreccio di visione e di movimento» e che «il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti totali del me-desimo Essere»12.

Il nesso tra visione e movimento rimanda in realtà a un altro binomio inscindibile e ancor più fondamentale: il chiasmo tra ve-dente e visibile. Io che vedo sono al tempo stesso, anche se solo parzialmente, parte di ciò che vedo. Il mio vedere non si esercita indipendentemente dal fatto che il mio corpo è parte del mondo che guardo. È in questo senso che va interpretato il concetto di profondità – che in Merleau-Ponty viene a coincidere con la spa-zialità stessa.

Di qui la critica che Merleau-Ponty muove a Cartesio, per il quale la profondità è estensione delle cose, in quanto queste sono l’una fuori dall’altra, l’una dietro l’altra, e quindi reticolo delle po-sizioni degli oggetti che la occupano; oppure estensione in quanto spazio oggettivo che le contiene. Si tratta dello spazio come lo

11 G.E. Lessing, Laocoonte, Palermo, Aesthetica, 1991, p. 72.12 M. Merlau-Ponty, L’occhio e lo spirito, Milano, SE, 1989, p. 17.

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potrebbe percepire Dio o comunque un osservatore che ne sta al di fuori, che non vi è implicato.

Per Merleau-Ponty, invece, noi siamo inglobati nella profondi-tà; essa ci circonda. Ogni azione che metta insieme occhio e mano presuppone la profondità come sfondo in cui i nostri progetti han-no luogo. Ma prima ancora dell’azione, prima ancora dell’evento motorio, la semplice visione contiene un sapere sul movimento, e quindi sulla relazione e sulla distanza tra me e gli oggetti.

Tradotto in termini testuali, è come dire che, per ottimizzare l’effi cacia dello spazio, ottenere un effetto di profondità è centrale. Profondità intesa sia come co-appartenenza del soggetto al mondo, in cui il primo direzionandosi e orientandosi rispetto al secondo li-bera appunto degli effetti di spazialità – può trattarsi di movimenti veri e propri, ma anche della semplice dinamica dello sguardo, di focalizzazioni – sia come spazio relazionale in cui le cose sono disposte in reciproco posizionamento, agganciate tra loro da mo-vimenti interni a un medesimo campo visivo, o semplicemente in tensione. Quello spazio che sempre Merleau-Ponty suggeriva di intendere come il mezzo universale di connessione delle cose.

Da un lato, si tratterà di mettere in scena dei processi avviati da un soggetto che tramite le sue azioni e i suoi movimenti evidenzia lo spazio come luogo della profondità; dall’altro, la stessa convi-venza, all’interno di un medesimo campo visivo, di più oggetti, ci restituirà quello spazio come luogo articolato di connessioni, che liberano appunto un effetto di abitabilità e percorribilità e, ancora una volta, di profondità. In un articolo dedicato a quello che chia-ma lo “Spatial Depictor in Literary Art”, Hulanicki individua un pattern che permette, appunto, di evocare relazioni spaziali all’in-terno dei testi letterari. Egli elenca almeno quattro punti fonda-mentali alla creazione di questo effetto13:

13 L.S. Hulanicki, Spatial Depictor in Literary Art, «Language and style», 1983, vol. 16, 4, p. 397, [a) partecipano almeno due oggetti; b) gli oggetti sono separati e indipendenti uno dall’altro; c) sono osservabili simultaneamente; d) sono integrati dal movimento in uno stesso spazio].

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a) At least two objects are participating.b) The objects are separate, indipendent from one another.c) They are simultaneously observable.d) They are integrated by motion into a spatial whole.

La rilevanza del movimento sta, appunto, nel mostrare come gli oggetti appartengano a una medesima porzione di spazio14.

4.

Passiamo ora ai due esempi che ho scelto in virtù della loro profonda differenza, del loro situarsi agli estremi di una possibile ininterrotta catena di effetti di spazialità. Nel brano tratto da Ma-dame Bovary di Flaubert, si registra un evidente effetto di profon-dità; nel racconto Il manichino di Robbe-Grillet, invece, animato da un progetto di visibilità assoluta, non è possibile riscontrare un effetto di profondità ed è ciò che rende diffi cilmente leggibile l’articolarsi dello spazio, che pure vi è ossessivamente descritto. I due testi vanno quindi messi in correlazione come prototipi uti-li alla rifl essione. Anche per questa ragione non se ne presenterà un’analisi testuale esaustiva, quanto piuttosto una lettura mirata alle questioni relative alla rappresentazione della profondità.

4.1. La descrizione di Rouen

Veniamo al primo dei due esempi, su cui mi soffermo a partire dalle considerazioni di Barthes nel già citato articolo sull’effetto

14 Nel suo saggio Hulanicki propone una quantità di esempi. Oltre a ciò, un caso interessante è quello analizzato in S. Cavicchioli, I sensi, lo spazio, cit., pp. 39-59, in cui, indipendentemente dalle osservazioni di Hulanicki, si mostra come nella terza parte del racconto di Virginia Woolf preso in considerazione si generi – a partire da percorsi, movimenti e linee diagonali che attraversano e collegano il campo visivo messo in scena – quello che chiamavamo un effetto di volume.

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di reale: la descrizione di Rouen che si trova nel IV capitolo della III parte di Madame Bovary. Riassumendo la posizione di Barthes, egli sostiene che:

a) questa descrizione non è pertinente rispetto alla struttura nar-rativa del romanzo: non la si può collegare a nessuna sua sequenza funzionale e non ha un peso nella caratterizzazione dei personaggi, delle atmosfere, o un ruolo cognitivo;

b) non è tuttavia scandalosa poiché si attiene alle regole della rappresentazione retorica, alle sue fi nalità estetiche15, così come alle costrizioni referenziali. Scrive infatti Barthes: «il est probable que, si l’on arrivait à Rouen en diligence, la vue que l’on aurait en descendant la côte qui conduit à la ville ne serait pas “objecti-vement” différente du panorama que décrit Flaubert». Si adegue-rebbe in altre parole alle norme del Bello e del Vero, e sarebbe in defi nitiva nella connotazione di questi due valori che la sua non pertinenza eviterebbe di farsi scandalo.

Ciò che intendo mostrare è che la descrizione di Rouen non è affatto impertinente – aspetto tutto sommato marginale – ma so-prattutto che l’effetto di realtà suscitato deriva non dal rispetto del-la verosimiglianza o da una supposta analogia con il referente, e neppure dall’effetto di reale come resistenza al senso, ma da quello che ho chiamato un effetto di spazialità.

Questo brano, inoltre, funzionale ad altre dimensioni testuali, si rivela pertinente perché viene a costituire una sorta di matrice per la modulazione dello spazio interiore di Emma descritto nel paragrafo immediatamente successivo.

Adam ha notato16 che il brano che ci interessa, e che corrispon-de a un unico paragrafo, non è focalizzato – contrariamente a quel-lo che segue e ad alcuni che lo precedono – a partire da Madame Bovary; è messo in scena a partire da una focalizzazione neutra e

15 Barthes fa notare che vi si fa, ad esempio, uso di figure di sostituzione, o ancora che la descrizione della città è proposta come se si trattasse di un qua-dro, e quindi si assiste a una procedura di estetizzazione.

16 J.M. Adam, La description, Paris, Presses Universitaires de France, 1993.

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impersonale. Si tratta di un rilievo che sicuramente Barthes avreb-be condiviso, sostenendo appunto l’illegittimità di questa descri-zione dal punto di vista funzionale.

Vediamo meglio in che senso Emma Bovary costituisce il punto di vista su quanto precede e su quanto segue, prendendo anzitutto in considerazione i tre paragrafi antecedenti il nostro. Narrativa-mente siamo in viaggio da Yonville a Rouen. Nel primo di que-sti paragrafi l’osservatore è situato sulla diligenza e mette in pro-spettiva lo spazio secondo il punto di fuga. Tutto fi gurativamente contribuisce a creare un effetto di linearizzazione prospettica dello spazio: le fi le dei meli, i canali ai lati della strada, quest’ultima che si restringe.

Nel paragrafo successivo la focalizzazione è decisamente su Emma che ha una presa cognitiva totale sul percorso: lo cono-sce secondo la successione in cui si presenta (ordine temporale-sintagmatico, sottolineato da avverbi quali “après”, “ensuite”) e il suo sapere è tale che per riservarsi qualche sorpresa chiude gli occhi – ostacola quindi la conoscenza sensibile – ma nonostante ciò mantiene totalmente il controllo dell’aspetto più cognitivo del-lo spostamento: non perde mai, dice il testo, il senso preciso della distanza.

Figurativamente lo spazio appare come un percorso ordinato di cose in successione, emergenti l’una dopo l’altra; cognitivamente si tratta di una distanza, di uno spazio che si stende tra due punti, modalizzato secondo il sapere.

Tutto il capitolo è caratterizzato da un’aspettualizzazione ite-rativa, ma sovrapposta a questa, temporale, se ne scandisce un’al-tra: siamo infatti all’interno di una grande confi gurazione, quella dell’attesa dell’incontro amoroso. Pochi paragrafi prima Emma Bovary si è alzata e ha compiuto tutti i gesti necessari a dare avvio al suo programma. Ma li ha compiuti tutti in anticipo, marcando ulteriormente, con questa fretta già nella fase incoativa, la sua ten-sione verso il termine.

Il viaggio in diligenza costituisce allora la fase durativa, e la stessa confi gurazione sequenziale dello spazio del tragitto lo con-

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ferma. Qui Emma non può agire come vorrebbe – i tempi sono quelli della diligenza – e l’unico modo che ha per contrastare que-sta durata è appunto quello di farsi delle sorprese. Con il successivo paragrafo, che inizia con “enfi n”, la duratività viene sovradetermi-nata dalla terminatività, fi no a quel «d’un seul coup d’oeil» – con cui si chiude appunto il paragrafo e con cui appare la città – che, introducendo una marca di puntualità, introduce al tempo stesso una discontinuità, una rottura nella durata e nel percorso. Da un regime della successione e della visione in movimento si passa a un regime della simultaneità e della contemplazione.

Ma questo mutamento della confi gurazione aspettuale manife-sta anche altro: è cambiato il rapporto tra soggetto e oggetto; ora è quest’ultimo a farsi avanti e ad avere il sopravvento. Già prima che la città appaia e si dispieghi, è il mondo stesso – l’informatore – che si mette in movimento – le case si avvicinano, la terra risuona – e l’osservatore, divenuto impersonale, si ritrova circondato dallo spazio. Anche a livello modale questa modifi cazione è conferma-ta: dal non potere non vedere di Emma, che anche chiudendo gli occhi sa tutto a memoria, si passa a un più debole potere vedere: «on l’apercevait par une claire-voie». Da un soggetto che control-la il suo oggetto – il mondo circostante – si è passati, attraverso il suo indebolimento che step by step viene a coincidere con la sua trasformazione passionale, a un rafforzamento dell’autonomia dell’oggetto.

Il senso della pausa descrittiva che ci mostra Rouen dall’alto è pienamente compreso solo al paragrafo successivo, che ne costi-tuisce una duplicazione passionale visto che ne segue, anche se a grandi linee, la stessa fi guralità astratta. Si può dire che come il paesaggio è messo in tensione prefi gurando la passione successi-va, questa a sua volta viene messa in spazio.

Nella rappresentazione dall’alto di Rouen si parla del suo esten-dersi confusamente, come nel paragrafo successivo si parla di «existences ammassées» che gonfi ano il cuore di Emma. Nella de-scrizione paesaggistica la città è immersa nella nebbia, mentre nel paragrafo che segue si legge di un «vapeur des passions» che per

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Madame Bovary si leva dagli abitanti della città. Il parallelismo tra i due paragrafi che stiamo confrontando è evidente; nel passaggio dall’uno all’altro si assiste a un rafforzamento della traduzione tra assetto fi gurativo e assetto passionale. Nel primo il paesaggio è dinamizzato, nel secondo ha già subito una totale trasformazione dal punto di vista di una dinamica delle passioni.

Il parallelismo tra la descrizione paesaggistica e il successivo incontro amoroso è ulteriormente sancito dal modo in cui Leon appare a Madame Bovary dopo un ulteriore viaggio cittadino di quest’ultima per raggiungerlo. Leggiamo – «Elle tournait une rue…» e improvvisamente lo vede: l’incontro possiede quindi quella stessa marca di discontinuità puntuale con cui le era apparsa all’improvviso la città.

Ma veniamo all’effetto di spazio “liberato” dalla descrizione di Rouen, che era poi ciò da cui eravamo partiti. Come ho già detto, per descriverlo si tratta di non dimenticare le trasformazioni spa-ziali che segnano il percorso narrativo di Madame Bovary verso Rouen. Si è visto che dalla pertinenza della categoria di distanza si passa alla pertinenza della categoria di profondità, da uno spa-zio da percorrere a uno spazio in cui si sta. Si tratta di uno spazio dell’arrivo, dell’accoglienza. Da allungato – percorso lineare, stra-da, come si è detto – esso si fa allargato: l’effetto è quello della creazione di una sorta di bolla, luogo dotato di profondità ma al tempo stesso di chiusura, percorribile e abitabile ma limitato. Se-condo una fi guralità astratta ottenuta da una “disiconizzazione” che del mondo discorsivo ci lascia solo lo scheletro e le sue interne tensioni, possiamo parlare del luogo di una dilatazione contenuta. Mondo dotato di una cornice che lo racchiude e al tempo stesso di attori fi gurativi che lo animano dall’interno e in parte agiscono in funzione di un suo sfondamento.

Nel paragrafo successivo, la passione di Emma assumerà la for-ma della dilatazione – «Son amour s’agrandissait devant l’espace, et s’emplissait de tumulte aux bourdonnements vagues qui monta-ient» – ma di una dilatazione che, secondo una relazione a chiasmo rispetto a quella che anima la descrizione, invece di essere conte-

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nuta si riversa verso l’esterno. Leggiamo infatti: «Elle le reversait au-dehors (l’amore), sur les places, sur les promenades, sur les rues…». E se nel primo caso la forza centripeta che scaturisce dal-la messa in tensione del paesaggio è bloccata dalla sua chiusura, da una cornice che lo delimita come un campo chiuso, nel secon-do, invece, la città le appare infi ne come «une capitale démesurée, comme une Babylone où elle entrait».

Come si crea, allora, l’effetto di dilatazione contenuta di cui si diceva? Attraverso la costituzione di un campo visuale chiuso, animato contemporaneamente da una tensione interna: l’insieme crea un effetto di profondità.

La collocazione in alto del luogo d’osservazione costituisce già un primo limite della scena osservata, limite che frontalmente si duplica nella campagna che risale fi no a toccare il cielo, anzi la base del cielo – precisazione che lo “fi gurativizza” come avente uno sviluppo in verticale. E lo stesso dicasi per le nuvole che chiu-dono il paragrafo: defi nite “onde aeree”, esse confermano l’isoto-pia acquatica (le navi, il fi ume, le isole come pesci) che percorre il brano, ma al tempo stesso nel loro infrangersi contro un’imma-ginaria falesia – metafora che verticalizza la metaforizzata collina – rinnovano la chiusura e il dinamismo del paesaggio. Questi due tratti promuovono una tensione interna che conferisce spessore allo spazio. Questo effetto di profondità è quindi ottenuto a par-tire dalla delimitazione di uno spazio e dalla collocazione al suo interno di fi gure che lo articolano e movimentano. La profondità è ottenuta giocando sia sull’asse della prospettività, sia su quello della verticalità.

Sull’asse della prospettività si danno una serie di fi gure che articolano quella che, in termini astratti, possiamo lessicalizzare come una continuità scandita: la discesa ad anfi teatro con i suoi immaginari gradini, i ponti, operatori di connessione spaziale, che delineano una continuità con limiti interni, le anse del fi ume.

[Per quanto l’osservatore non sia esplicitato e non si dia quella tematica della giustifi cazione di cui parlava Hamon nel suo la-voro sulla descrizione, si dà comunque un effetto di soggettività.

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Il dinamismo del paesaggio, il suo effetto di messa in movimento rimanda a un altro movimento, quello di uno sguardo che percor-re lo spazio. La parte sul paragone con un dipinto rimanda a un osservatore che vede diversamente].

4.2.

La poetica del Nouveau Roman e in particolare i testi di Rob-be-Grillet ci mettono di fronte a quello che possiamo variamente chiamare un progetto panottico, un delirio oculare, l’esito di uno sguardo totalizzante. Siamo in presenza di testi che sembrano aver fatto naufragare tutto in nome della pura ed esclusiva visibilità. Come scrivono Greimas e Fontanille17 a proposito de La gelosia, abbiamo a che fare con un narratore lobotomizzato, vale a dire atimico, che mette in campo tutta una serie di indizi che tuttavia non si trasformano mai in una sequenza organizzata, vale a dire aspettualizzata e temporalizzata. Qualcosa di analogo, anche se maggiormente centrato sull’articolazione dello spazio, accade nel racconto Il manichino su cui di seguito proporremo alcune consi-derazioni.

In questo caso ci troviamo di fronte a un effetto di realtà pro-fondamente diverso da quello propostoci da Flaubert. In merito viene in mente quanto scrive Merleau-Ponty a proposito dell’al-lucinazione e che potrebbe servire per pensare a una scala, a una gradazione di effetti di realtà. Scriveva Merleau-Ponty:

Se l’allucinazione non prende posto nel mondo stabile e intersog-gettivo, è perché le manca la pienezza, l’articolazione interna le quali fanno sì che la cosa vera riposi “in sé” agisca ed esista per se stessa. La cosa allucinatoria non è come la cosa vera, densa di pic-cole percezioni che la facciano esistere. È un signifi cato implicito e inarticolato. Di fronte alla cosa vera il nostro comportamento si

17 A.-J. Greimas, J. Fontanille, Semiotica delle passioni: dagli stati di cose agli stati d’animo, Milano, Bompiani, 1996, p. 266.

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sente motivato da stimoli che ne riempiono e ne giustifi cano l’in-tenzione. […] La cosa allucinatoria non è, come la cosa vera, un essere profondo che contrae in se stesso uno spessore di durata, e l’allucinazione non è, come la percezione, la mia presa concreta sul tempo in un presente vivente18.

Vediamo in che senso questa citazione può essere signifi cati-va nel caso del racconto di Robbe-Grillet. Della stanza e dei suoi oggetti ci viene fornita una descrizione ampiamente fi gurativa. Le coerenze isotopiche sono rispettate e lo stesso vale, almeno a pri-ma vista, per il reticolo delle anaforizzazioni. L’entrata in scena degli oggetti della visione è fortemente regolata da una rigida par-titura dei paragrafi . La descrizione è prevalentemente costituita da enunciati di stato brevi, caratterizzati da una struttura predicativa semplice.

Se seguiamo lo scandirsi dei primi paragrafi , quelli in cui og-getto della descrizione sono la caffettiera e la tavola, l’impressione è di forte oggettivazione, di una realtà descritta in sé e per sé, priva quindi di interferenze soggettivanti sia dal punto di vista dell’os-servatore che da quello enunciativo. Domina una visibilità totale ma distaccata, di realtà in sovraimpressione – come diceva sempre Merleau-Ponty a proposito dell’allucinazione – che non dipende, tuttavia, da una carenza degli elementi deputati alla costruzione di un’impressione referenziale19.

Come nella visione classica descritta da Foucault ne Le parole e le cose, il campo dell’esperienza viene volontariamente ristretto: via il gusto e l’odorato, via il tatto (a parte certe categorizzazioni molto generali quali liscio/rugoso), via un sapere pregresso. Si ri-mane con un «privilegio quasi esclusivo della vista, che è il senso

18 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggia-tore, 1965, p. 439.

19 Come si è visto, infatti, nel racconto di Robbe-Grillet dimensione figu-rativa, rete isotopica e rete anaforica – tra gli elementi principali nel costituirsi di un’impressione di referenzialità, almeno per la scuola greimasiana – sono assicurate.

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dell’evidenza e dell’estensione, e conseguentemente di un’analisi partes extra partes ammessa da tutti»20.

Sempre Foucault ci dice che l’oggetto dell’episteme e dello sguardo razionalista viene descritto tenendo conto di quattro va-riabili: 1) forma degli elementi; 2) quantità di tali elementi; 3) loro modo di distribuirsi nello spazio gli uni in rapporto agli altri; 4) grandezza relativa di ognuno di essi21.

Secondo il paradigma razionalista, questa griglia consentireb-be una visibilità dell’oggetto che viene fi ltrata direttamente nel linguaggio. Per Linneo il testo stesso, nella disposizione dei suoi enunciati descrittivi, dovrà seguire la natura: «passare dalla Radi-ce, al Gambo, ai Piccioli, alle Foglie, ai Peduncoli, ai Fiori»22.

Se si prende l’enunciato d’avvio del racconto – «La caffettiera è sulla tavola» – esso viene descrittivamente saturato, negli enunciati che seguono, a partire proprio dall’ultimo dei suoi lessemi, seguen-do un ordine che non a caso va dal basso all’alto: la tavola, l’ince-rata, la piastrella, il disegno, la caffettiera. E si noti l’ordine di ap-parizione delle fi gure nell’enunciato fi nale della prima parte, dotato di una funzione di sintesi rispetto a tutta la descrizione: «Non c’è altro, sulla tavola, oltre l’incerata, il sottopiatto e la caffettiera».

Lo spazio inteso come reciproca distribuzione e collocazione delle parti è del tutto privo di ambiguità. Ci si può infatti rifare a un ordine che non dipende da una presa soggettiva. Per quanto riguar-da la descrizione d’insieme (tavolo + caffettiera) essa viene discor-sivizzata seguendo l’asse della verticalità che tra le tre dimensioni che articolano lo spazio (verticalità, prospettività, lateralità) è la più oggettiva in quanto maggiormente autonoma dall’inscrizione localizzata di un soggetto osservatore. Lo stesso dicasi per la posi-zione di centralità del sottopiatto rispetto alla superfi cie del tavolo: un cerchio ha un unico centro geometrico.

Per quanto riguarda la descrizione della caffettiera valgono le

20 M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, Bur, 1998, p. 149. 21 Ivi, p. 150.22 Ivi, p. 152.

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stesse considerazioni. Viene seguito quello che potremmo defi nire un ordine “naturale”, nel senso che la scomposizione dell’oggetto non dipende da un regime di selezione e focalizzazione quale può essere tipico di un osservatore implicato, ma dall’enumerazione delle parti costituenti dell’oggetto in relazione alla sua struttura-zione globale e non rispetto a un’intenzionalità, un’attenzione, uno sguardo che vi si posi. Non è possibile leggervi alcuna implicazio-ne corporea, timica, propriocettiva, affettiva. E ciò è tanto più co-gente quanto più la caffettiera è evidentemente descritta secondo una griglia antropomorfa, come se l’osservatore avesse debraiato totalmente quel corpo che non vuole avere. Osservazione che vale anche per il successivo intervento del manichino che mette a di-sposizione un altro corpo, mentre la caffettiera rimanda piuttosto a una testa. Si parla infatti di un globo (la testa? il corpo?), di un becco, di un orecchio, di un fi ltro a cilindro che potrebbe riman-dare a un collo, di un coperchio a fungo (la testa?). Un corpo o un volto mostruosi in ogni caso, a marcare comunque la problemati-cità della loro presenza.

La diffi coltà nel cogliere l’articolazione dello spazio si accentua una volta terminata la descrizione del tavolo. Infatti, la terminolo-gia che disloca lo spazio secondo gli assi dello schema corporeo (“più a destra”, “dietro la tavola”, “più a sinistra”) non produce una comprensione e una lettura suffi cienti dello spazio stesso, dato che esso non è costruito a partire da un modello orientato al soggetto.

Si tratta di una realtà in cui il soggetto sembra non essere mosso da alcuna necessità psicologica e dove l’oggetto si presenta in sé e non come qualcosa per qualcuno. Tra i due non c’è tensione. La loro relazione assomiglia a una relazione di contatto tattile in as-senza di altre integrazioni sensoriali o di precedenti dati conosci-tivi – relazione in cui l’oggetto dapprima totalmente sconosciuto viene composto e integrato in un’unica fi gura solo pezzo a pezzo, come se precedentemente a questo contatto esso non esistesse nel-lo spazio di relazione che connette il soggetto e il mondo.

Come diceva Barthes (1968), non c’è mai un termine che co-glie interamente, in sintesi, tutto l’oggetto, esso è lì nel suo esserci

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come superfi cie23, nessuna delle sue qualità è privilegiata. Non è al centro o il centro di un sincretismo sensoriale: «il est seulement une résistance optique»24.

Il punto, infatti, è che non ci viene proposta alcuna disconti-nuità, scarto, guizzo. Tutto è descritto con la stessa maniacale os-sessione, come se né il soggetto della visione né l’oggetto visto presentassero da un lato dei desideri, un certo indirizzo dell’atten-zione, e dall’altro dei luoghi privilegiati, dei punti notevoli, delle discontinuità: improvvise emergenze che chiedono di essere vi-ste, percepite. Questa assenza di “intenzionalità” coincide con uno spazio colto staticamente come luogo di un incrocio di coordinate e non come spazio di un orientamento, di un percorso, di una pro-fondità.

Questa non abitabilità dello spazio, che pure è descritto come tridimensionale, viene accentuata, per non dire allegorizzata, dal gioco di specchi. Il rimbalzo dei rifl essi rende particolarmente complessa la presa sull’organizzazione dello spazio e costringe in ogni caso a una costruzione tutta cognitiva dello stesso. Il gioco dei rifl essi, infatti, è percettivamente straniante e soprattutto tende a schiacciare lo spazio come possibile luogo della profondità e della mobilità del corpo.

Con Merleau-Ponty potremmo dire ciò che egli diceva della profondità per Cartesio: essa è estensione, reticolo delle posizioni degli oggetti che la occupano, diagramma delle distanze che tra

23 Scrive Barthes che Robbe-Grillet uccide l’oggetto classico. «La première démarche de ce meurtre savant, c’est d’isoler les objets, de les retirer de leur fonction et de notre biologie. Robbe-Grillet ne leur laisse que des liens superfi-ciels de situation et d’espace, il leur enlève toute possibilité de metaphore, les coupe de ce réseau de formes ou d’états analogiques qui a toujours passé pour le champ privilégié du poète...», [«Il primo passo di questo sapiente assassinio consiste nell’isolare gli oggetti, nell’allontanarli dalla loro funzione e dalla no-stra biologia. Robbe-Grillet non concede loro se non legami superficiali con la situazione e lo spazio, nega loro ogni possibilità di metafora, li separa da quella rete di forme o di stati analogici che è sempre stata considerata un ambito privi-legiato del poeta»], R. Barthes, Essais critiques, Paris, Seuil, 1968, p. 33.

24 Ivi, p. 30 [è soltanto una resistenza ottica].

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loro intercorrono, e si riduce in defi nitiva a quanto «vedrebbe un testimone della mia visione»25 – un osservatore, quindi, non impli-cato, qualcuno che sarebbe di fronte a quello che è già uno spazio della rappresentazione.

La forsennata spazializzazione di Robbe-Grillet ha, dunque, come scopo e come effetto quello di distruggere l’unità dell’og-getto classico; a forza di posizionarlo lo perdiamo.

In altre parole, non coapparteniamo allo spazio che si dispiega alla nostra lettura.

25 M. Merlau-Ponty, L’occhio e lo spirito, cit., p. 42.