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SOLENNITA’
DEL NATALE DEL SIGNORE
La celebrazione del tempo del Natale del Signore
Il Tempo di Natale, che inizia con la Messa vespertina
della vigilia e/o con i primi Vespri di quel giorno e
termina con la domenica che cade dopo il 6 gennaio,
continua la tematica dell’Avvento ed è diviso in due
parti: la prima comprende il periodo di tempo che si
estende tra il Natale del Signore e la solennità
dell’Epifania, mentre la seconda parte inizia con
l’Epifania e termina con la festa del Battesimo del
Signore. All’interno della prima parte del Tempo di
Natale sono poste l’ottava, che culmina nella solennità
di Maria Santissima Madre di Dio, la celebrazione del
corteo del Signore, la festa della Santa Famiglia e la
solennità dell’Epifania.
Il tempo natalizio è il prologo della grande festa di
Pasqua, ma allo stesso tempo diventa una preparazione verso la celebrazione più completa del
Mistero Pasquale.
Uno degli argomenti che caratterizzano il Natale è il tema dell’ammirevole scambio divino tra l’uomo
e Cristo. Da un lato vi è il richiamo all’Eucaristia, dove il pane e il vino diventano il Corpo e il Sangue
di Cristo. Per altro verso, invece, il riferimento è allo scambio, tradotto come mistero, che si riferisce
a Gesù Cristo, il quale nell’incarnazione prende la nostra carne mortale e quindi diventa vero uomo
portandoci la sua divinità, perché per mezzo di essa noi troviamo l’espressione della nostra. Cristo,
prendendo la nostra natura umana, ci innalza verso la sua divinità. L’eucologia di questo tempo mette
particolarmente in risalto questo doppio aspetto di divina grandezza e di umile umanità che
costituisce l’essenza stessa del mistero del Natale. La divinità e l’umanità del Figlio di Dio sono la
tematica centrale del tempo di Natale.
Le tre Messe del giorno del Natale
Le tre messe del giorno di Natale, quella della notte (in nocte), quella dell’alba (in aurora) e quella
del giorno (in die), sono di origine romana.
Dal secolo IV al secolo VIII la Messa della notte veniva celebrata dal Papa nella Basilica di Santa Maria.
Nel pomeriggio della vigilia il Pontefice lasciava la sua residenza in Laterano per dirigersi alla Basilica
di Santa Maria con tutto il corteo papale e i fedeli e veniva celebrata la Messa in nocte. Terminata la
Messa della notte il corteo papale partiva nuovamente dalla Basilica di Santa Maria per dirigersi verso
il Vaticano ove, all’interno della Basilica di San Pietro, il Papa celebrava la Messa in die. Lungo il
tragitto il Pontefice sostava presso il Palatino dove, presso la chiesa stazionale di Santa Anastasia,
celebrava la Messa in aurora. Terminata la Messa in aurora il Papa si dirigeva presso San Pietro ove
celebrava la Messa in die. La tradizione di queste tre messe è stata successivamente acquisita nei
sacramentari e, attraverso la Liturgia di Rito Romano, si è diffusa in tutto l’Occidente. Da questa
tradizione deriva la possibilità per tutti i sacerdoti di poter celebrare o concelebrare nel giorno di
Natale tre Messe, purché distanziate secondo l’orario corrispondente ai tre formulari: nella notte, di
primo mattino, durante il giorno.
MESSA DEL GIORNO (in die) Gv 1,1-18; Is 52, 7-10; Sal 97; Eb 1, 1-6
Antifona
È nato per noi un bambino, un figlio ci è stato donato: egli avrà sulle spalle il dominio,
consigliere ammirabile sarà il suo nome. (Cfr Is 9,5)
Colletta O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine,
e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti, fa' che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana.
Egli è Dio, e vive e regna con te...
Risuonano ancora una volta per noi in questo giorno del Natale del Signore le antiche parole del profeta
Isaia (I lettura). Come sono belle sui monti di questa nostra terra, spesso ancora devastata da lotte e
violenze, da guerre e devastazioni, le impronte di chi anche oggi porta la pace, quella vera, anche in
questo Natale 2014. Chi la porta nelle famiglie e nelle case, nei luoghi di sofferenza e di fatica, di violenza
e di guerra. Veramente, come si dice popolarmente, dovremmo baciare quelle orme, quei posti dove si
posano i piedi di chi continua a recare e trasmettere il dono grande e atteso del Natale.
Gesù è colui che è venuto a portarci pace; non quella del mondo, spesso fragile e povera, ma quella di
Dio. Ne sentiamo più che mai l’esigenza anche in questi giorni. Pace: non solo come assenza di guerra, ma
molto di più come costruzione di un mondo migliore. Per realizzare qualcosa di bello e di grande,
insieme, nelle nostre case e nelle comunità, nella società e nel mondo intero. Il Natale ci dice che la
speranza non può andare perduta perché il mondo è ormai e per sempre segnato dall’impronta di
Dio, di un Dio che ha piantato la sua tenda tra di noi, che si è fatto uomo, che si è fatto luce per tutta
l’umanità (Vangelo). Da quella Notte di Natale non solo è risuonato l’annuncio degli angeli «Gloria a Dio
nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà», ma la pace è giunta all’umanità
concretamente e di fatto nella persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo.
Quel Figlio di Dio che, come afferma la Lettera agli Ebrei (II lettura) è appunto «irradiazione della sua gloria
e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente» è venuto nel mondo e nella storia
per segnarla per sempre e indelebilmente con la dimensione trinitaria che è quella della comunione. Il
mondo, espressione della gloria di Dio, perché creato da lui, viene ora ancor più immerso nella verità
salvifica di Dio. La persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, con l’evento dell’incarnazione
riceve ancor più fortemente l’impronta della sostanza stessa di quel Dio che è amore.
Tocca ora a noi continuare quella missione di Cristo Signore; tocca a noi far sperimentare al mondo che i
tempi messianici si sono compiuti nonostante il male, la morte sembrino soffocare e impedire ancora
questa novità di vita.
Il Natale annuncia che il mondo può riconoscere questa presenza e può accoglierla. Il Signore è presente
in mezzo a noi. Siamo anche noi oggi il segno di questa presenza che continua la sua opera di salvezza
sulle vie dell’umanità del nostro tempo, perché, come amava affermare san Giovanni Paolo II: «l’uomo è la
via della Chiesa».
PRIMA LETTURA
Dal libro del profeta Isaìa (52,7-10)
Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio
Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme esultano,
poiché vedono con gli occhi
il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutte le nazioni;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.
Parola di Dio.
Is 52,7-10
La regalità di Dio
Il brano riportato nella liturgia si trova verso la fine del Deuteroisaia (Is 40-55), cioè nella seconda
parte del libro attribuito a Isaia, dove si preannuncia il ritorno a Gerusalemme dei giudei esuli in
Babilonia. In esso questo evento viene preannunciato, come all’inizio della raccolta, con l’immagine
di ignoti messaggeri che annunciano un lieto messaggio a Gerusalemme (cfr. Is 40,2-3.9).
Il brano si apre con l’immagine di un messaggero che, correndo sui monti, porta a Gerusalemme il
lieto messaggio del ritorno degli esuli (v. 7). La bellezza di questo messaggio viene proiettata sui
piedi stessi del messaggero, che gli permettono di raggiungere velocemente la città santa. Il
messaggio che egli porta ha come oggetto la salvezza, che si attua mediante un nuovo esodo non
più dall’Egitto ma da Babilonia. Questa salvezza coincide con la pace, intesa qui come simbolo di
prosperità e di gioia. Infine questa salvezza viene attribuita al fatto che JHWH regna. La regalità di
Dio appare in modo pieno nella sua capacità di riaggregare un popolo disperso in una terra straniera,
unendolo nuovamente a sé e riconducendolo nella sua terra.
Nel versetto successivo viene ripreso il tema del messaggero. Questa volta non si tratta però di un
messaggero che giunge correndo, ma delle sentinelle, poste a custodia della città, che prorompono
di gioia e lanciano forti grida perché vedono l’arrivo degli esuli. Il profeta però non parla direttamente
delle carovane che giungono a Gerusalemme, ma del ritorno di JHWH in Sion. Secondo Ez 10,18-22
prima della caduta di Gerusalemme egli aveva lasciato il tempio e la città e si era diretto verso il
luogo in cui si trovavano gli esiliati; ora è lui che ritorna portando con sé coloro che ritornano
dall’esilio.
Alla gioia delle sentinelle fa eco quella della città santa, di cui sono rimaste solo delle rovine (v. 9). Il
profeta immagina che queste rovine cantino di gioia perché JHWH ha consolato il suo popolo, cioè
gli ha fatto mettere da parte l’afflizione determinata dall’esilio; così facendo ha riscattato
Gerusalemme, cioè le ha dato nuovamente il privilegio di essere il luogo in cui Dio abita in mezzo al
suo popolo. Il verbo «riscattare» è ricavato dal sostantivo go'el, che indica il parente prossimo che
interviene quando uno si trova in qualsiasi necessità. Liberando gli esuli JHWH ha dimostrato di
essere veramente il go'el del suo popolo. In questa svolta epocale JHWH viene immaginato come un
prode guerriero che ha snudato non la sua spada, ma il suo braccio, cioè ha teso il suo braccio,
sconfiggendo i suoi nemici e portando la salvezza al suo popolo. Con questa immagine guerresca
viene proclamata la superiorità di JHWH nei confronti di ogni altra potenza.
L’intervento salvifico di JHWH in favore di Israele viene descritto su uno sfondo internazionale: fino
ai più estremi confini della terra, tutti vedranno la sua opera. Chiaramente si tratta di un’immagine
mediante la quale si vuole mettere in luce la portata internazionale di un evento che di per sé riguarda
soltanto Israele. Salvando gli israeliti Dio dimostra la sua regalità universale.
L’idea centrale di questo brano è la regalità di JHWH. Questa si manifesta non tanto nel fatto di aver
reso possibile il ritorno dei giudei in Palestina, quanto piuttosto nell’aver riaggregato un popolo
ormai disperso, incapace di ritrovare la sua identità. La sua forza, rappresentata nel braccio snudato
che si alza contro i nemici, non si riferisce come altrove a eventi di guerra, ma riguarda
essenzialmente la rinascita religiosa e civile del popolo. In questo senso l’hanno intesa Gesù e i primi
cristiani i quali hanno visto nella venuta del regno di Dio un evento che si gioca soprattutto nel cuore
dei destinatari dell’annuncio.
In questo brano è importante anche il riferimento all’annuncio di una «lieta notizia». Il verbo ebraco
lebasser, tradotto in greco euangelizomai, dà origine al termine «vangelo», utilizzato dai primi
cristiani, che era facilmente comprensibile anche nel mondo greco, dove indicava il lieto annuncio
della venuta di un sovrano.
SALMO RESPONSORIALE (Sal 97,1-6) (98)
Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!
Cantate inni al Signore con la cetra,
con la cetra e al suono di strumenti a corde;
con le trombe e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore.
Salmo 97 (98)
Esultanza davanti al Signore che viene
Questo salmo ha il potere di indirizzare la coscienza cristiana alla visione dell’avvenire, colmandola
della viva attesa che la creazione sia liberata della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei
figli di Dio (cfr. Rm 8,21).
Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo
invito a un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi
di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele:
“Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà
tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della
terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente
a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della
salvezza del Signore.
La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di
Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al
Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo
dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
SECONDA LETTURA
Dalla lettera agli Ebrei (1,1-6)
Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio
Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri
per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo
del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto
anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto
sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei
peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto
superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho
generato»? E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando
invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di
Dio».
Parola di Dio.
CANTO AL VANGELO
Alleluia, alleluia.
Un giorno santo è spuntato per noi:
venite tutti ad adorare il Signore;
oggi una splendida luce è discesa sulla terra.
Alleluia.
Eb 1,1-6
Dio parla per mezzo del Figlio
Il brano riportato dalla liturgia contiene l’esordio dello scritto agli Ebrei (1,1-4) e il primo versetto
della prima parte, nella quale si delinea il ruolo di Cristo nel piano di Dio. Lo scritto è un’ampia omelia
cristiana, in cui la persona di Cristo viene delineata alla luce delle categorie giudaiche del sacerdozio
e del sacrificio. Gesù è presentato non solo come il Messia predetto dai profeti ma anche, proprio in
quanto tale, come il sommo sacerdote della nuova alleanza. Nell’esordio l’autore mette in luce
l’origine trascendente di Gesù, servendosi a questo scopo delle categorie sapienziali riguardanti la
sapienza di Dio, identificata con la parola (cfr. Gv 1,1-14). Il brano liturgico si divide in tre parti: il
Figlio, come parola di Dio (vv. 1-2a), la sua dignità trascendente (v. 2b-3a), la sua glorificazione (vv.
3b-6).
Il brano inizia in modo brusco chiamando in causa, senza troppe premesse, il Dio di Israele il quale
ha parlato molte volte e in modi diversi ai padri per mezzo dei profeti (v. 1). Il profeta è per eccellenza
l’uomo della parola, cioè l’uomo sulla cui bocca Dio ha messo la sua parola affinché la rivolga al suo
popolo. I due avverbi «molte volte» e «in diversi modi» indicano in modo sintetico la varietà e la
pluralità delle voci profetiche che si sono avvicendate in Israele.
Dopo essersi servito dei profeti, Dio ha deciso di parlare per mezzo del Figlio suo (v. 2a). Ciò è
avvenuto negli «ultimi tempi». Con questa espressione si indicano i tempi finali della salvezza
promessa dei profeti. Questo Figlio, per mezzo del quale Dio ha parlato, non è ancora identificato,
ma il lettore sa che si tratta di Gesù di Nazaret, il quale ha annunciato e inaugurato il regno di Dio.
L’evento di cui si parla è situato alla fine, per significare che in esso trova adempimento il progetto
salvifico di Dio.
L’autore passa poi a descrivere la dignità del Figlio (vv. 2b-3a). Egli è stato posto come «erede» di
tutte le cose. Di per sé il figlio è di diritto l’erede delle proprietà paterne. Per Israele la terra promessa
è un eredità che gli compete in quanto figlio di Dio. Anche per Gesù l’eredità è un privilegio che, in
quanto figlio, gli spetta di diritto. Ma essa gli viene conferita in un certo momento, ossia ne entra in
possesso in forza della sua risurrezione dai morti. L’eredità non si limita più alla terra di Israele, ma
abbraccia ormai tutte le cose. Tutte le cose infatti gli appartengono perché per mezzo suo Dio ha
fatto il «mondo». Questo termine indica non solo l’universo, ma anche ciascuna delle due entità
temporali, quella presente e quella futura, in cui si divide la storia dell’umanità: questa distinzione
qui non è esplicitata ma si può cogliere sullo sfondo. Il concetto di una creazione fatta da Dio per
mezzo del Figlio richiama l’idea sapienziale in forza della quale Dio ha creato il mondo per mezzo
della Sapienza. Proprio quella sapienza, con cui veniva indicata la presenza e l’azione di Dio in questo
mondo, ora prende forma umana nella figura del Figlio e giustifica il fatto che egli sia l’erede di tutte
le cose.
Il rapporto con la Sapienza prosegue anche nel versetto successivo, dove il Figlio viene definito come
«irradiazione della sua gloria», «impronta della sua sostanza» e «colui che tutto sostiene con la sua
parola potente» (v. 3a). Anche queste tre espressioni si rifanno alla concezione sapienziale giudaica.
La Sapienza infatti veniva considerata come «esalazione della potenza di Dio» e «effluvio della gloria»
dell’Onnipotente, «irradiazione della luce eterna», «specchio» tersissimo della sua potenza e
«immagine» della sua bontà (cfr. Sap 7,25-26). In Ebrei queste caratteristiche della Sapienza vengono
proiettate sul Figlio in modo tale da giustificare il suo ruolo nella creazione e nella salvezza
dell’umanità. Inoltre si aggiunge che egli «tutto sostiene con la sua parola». È proprio in quanto
portatore della parola definitiva di Dio che il Figlio diventa quel principio di ordine e di coesione di
tutto l’universo che, nel conteso culturale giudaico, era attribuito alla Sapienza. In forza di queste
categorie sapienziali il Figlio viene visto come il principio in forza del quale il mondo è stato creato
e sussiste.
Dopo aver delineato le caratteristiche del Figlio, l’autore passa a descriverne il ruolo, anticipando così
quello che sarà il tema di tutto lo scritto. Anzitutto egli accenna al tema della purificazione dei peccati
da lui compiuta, in forza della quale egli si è seduto alla destra della maestà nell’alto dei cieli. Si fa
riferimento qui a un’immagine diffusa nelle comunità primitive, in forza della quale Gesù si è seduto
alla destra di Dio. Questa immagine indica la glorificazione del Figlio, che avviene non tanto di diritto
ma perché ha portato a termine, con la sua morte e risurrezione, l’opera che Dio gli aveva assegnato.
Questa consiste appunto nella purificazione dei peccati, che sarà un tema centrale dello scritto. Infine
il Figlio, proprio per queste sue caratteristiche superiori, viene dichiarato superiore agli angeli. Per
dimostrarlo senza timore di smentita, l’autore porta un piccolo florilegio di testi biblici. Da essi risulta
che egli, a differenza degli angeli, è stato generato da Dio (cfr. Sal 2,7), è suo Figlio (cfr. 2Sam 7,14)
ed è adorato dagli angeli (Sal 97,7). Naturalmente si tratta di testi che sono considerati come
messianici e in quanto tali sono applicati a Gesù in forza della sua messianicità.
Nel prologo della lettera agli Ebrei viene riportata una rilettura sapienziale della persona di Gesù,
analoga a quella che si trova nel prologo giovanneo (Gv 1,1-14) o nell’inno cristologico della lettera
ai Colossesi (Col 1,15-20). In essa il rapporto che Gesù ha con Dio viene visto alla luce di quello che
ha con lui la Sapienza, la quale è una degli intermediari di Dio nell’opera della creazione e della
redenzione dell’umanità. Nel giudaismo la sapienza era una figura di Dio stesso in quanto opera nel
mondo, quindi espressione di un ruolo cosmico analogo a quello dello Spirito o della Parola. La
qualifica di Sapienza di Dio, attribuita a Gesù, si pone dunque sulla linea degli altri che, sullo sfondo
della sua morte e risurrezione, gli sono stati riconosciuti, come profeta, Messia, Figlio di Dio. Ma
diversamente dagli altri, questo attributo pone automaticamente la persona di Gesù sullo stesso
piano di Dio e apre la strada alla sua presentazione come una realtà divina.
Questo passo compiuto dall’autore della lettera agli Ebrei non ha però come scopo diretto
l’esaltazione del Cristo, ma la giustificazione del suo ruolo salvifico: egli è la Sapienza in quanto è
stato capace di attuare la purificazione di coloro che credono in lui. Era questo probabilmente il
problema che angustiava i destinatari dello scritto, che non trovavano nella comunità cristiana quegli
strumenti di purificazione che erano usuali nel mondo giudaico. In questo contesto Gesù viene
presentato come la Sapienza di Dio in senso funzionale, in quanto ha svolto un ruolo analogo a
quello che era attribuito alla sapienza. Tutta la lettera avrà quindi lo scopo di far vedere come in
Cristo, considerato come sommo sacerdote della nuova alleanza, si sia attuata in modo pieno quella
purificazione a cui tendevano, senza raggiungerla, i riti giudaici.
VANGELO
Dal Vangelo secondo Giovanni (1,1-18)
Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi
In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
[Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.]
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
[Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.]
Parola del Signore.
Gv 1,1-18
Il prologo del vangelo
Nel prologo di Giovanni sono già presenti molti temi che verranno approfonditi in seguito. Esso però
si distacca dal corpo del vangelo non solo per la sua prosa ritmata, ma soprattutto perché sviluppa
il concetto di «Verbo» (parola) di Dio, che non apparirà più in seguito. Per spiegare queste anomalie
si è pensato che il prologo fosse originariamente un inno a sé stante, il quale solo in un secondo
tempo sarebbe stato inserito nel vangelo con la semplice aggiunta di due brani in prosa (vv. 6-8 e
15). Le analogie con il seguito del vangelo fanno però supporre che non si tratti di un brano del tutto
autonomo, ma di un inno sorto nell’ambito della “scuola giovannea”.
Un problema che complica lo studio del prologo è quello di sapere in che punto preciso termini il
discorso sul Verbo eterno e inizi quello sul Verbo incarnato.
Questa incertezza fa pensare che il problema non sia stato posto in modo corretto: l’autore infatti
fin dall’inizio ha in mente non un’entità trascendente, ma una persona concreta, Gesù di Nazareth, la
cui vicenda storica viene riletta alla luce del concetto di sapienza/parola. In questa prospettiva il
prologo può essere diviso in due parti simmetriche, nelle quali sono delineate rispettivamente la
discesa del Verbo (vv. 1-11) e la sua mediazione salvifica (vv. 12-18).
La discesa del Verbo (v. 1-11)
Il prologo si apre con tre brevi frasi parallele seguite da una conclusione (vv. 1-2), nelle quali è
descritta la condizione originaria del Verbo. L’autore si riporta al «principio», cioè al momento in cui
Dio ha creato tutte le cose (Gen 1,1) e afferma che allora il Verbo «esisteva»: chiaramente egli pensa
alla sapienza/parola di Dio, generata all’inizio dalla bocca di Dio, la cui esistenza si prolunga
indefinitamente nel passato. Viene poi specificato che il verbo era «presso Dio», cioè era in un
rapporto vivo e dinamico con lui. Infine si dice che «il Verbo era Dio», cioè era pienamente partecipe
della realtà divina. Al termine delle tre frasi l’autore riassume quanto ha detto affermando che «egli
(il Verbo) era in principio presso Dio».
Il discorso procede con la descrizione del ruolo svolto dal Verbo nella creazione: «Tutto è stato fatto
per mezzo di lui, e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (v. 3). In queste due frasi, poste in
parallelismo antitetico, all’esistenza senza limiti di tempo del Verbo si contrappone il divenire delle
cose, che trovano in lui il loro artefice. Emerge qui il tema della sapienza/parola che collabora con
Dio nella creazione.
Nel passo successivo vengono indicati i due beni, la vita e la luce, che il Verbo possiede e offre
all’umanità (vv. 4-5). Ambedue designano nell’AT la salvezza che Dio conferisce al suo popolo e sono
spesso presentati come doni della sapienza di Dio. Per la prima volta appare qui il tema della
resistenza opposta alla luce da parte delle tenebre; l’evangelista afferma che queste, come i sapienti
di questo mondo, non l’hanno «accolta» (compresa). Il tema dello scontro tra luce e tenebre ha le
sue radici nell’AT.
L’evangelista prosegue introducendo la figura di Giovanni Battista: di lui si dice che è stato mandato
da Dio per rendere testimonianza alla luce, affinché per mezzo suo tutti potessero credere, sebbene
in realtà egli non fosse la luce (vv. 6-8). Giovanni deve condurre gli uomini alla fede, che consiste in
un atteggiamento di totale fedeltà al Dio dell’alleanza. Se originariamente il prologo era un inno a
sé stante, i vv. 6-8 sono stati aggiunti al momento del suo inserimento nel vangelo.
Nel passo successivo l’autore osserva che «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni
uomo» (v. 9). In contrapposizione a Giovanni, che non era la luce, solo il Verbo è la luce vera, cioè
autentica, che porta a tutti gli uomini la pienezza dei beni salvifici.
Il v. 9 può essere tradotto anche in altri due modi: 1) «Egli era la luce vera che illumina ogni uomo
che viene nel mondo»; 2) «Egli era la luce vera che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo». Tutte
e tre le traduzioni hanno buoni motivi in proprio favore.
Nell’ultimo passo è sottolineata, come già nel v. 5, l’opposizione che il Verbo incontra venendo nel
mondo (vv. 10). Egli era nel «mondo», inteso come l’umanità in genere, ma il «mondo», che è ora
l’umanità ribelle, non lo ha conosciuto, cioè non lo ha ri-conosciuto e accettato. Nel v. 11 coloro che
lo rifiutano vengono identificati con «i suoi», che possono essere tutti gli uomini, in quanto creati da
lui, o i membri del popolo eletto.
Termina così la prima parte dell’inno, in cui è stata descritta l’origine del Verbo, la sua opera nella
creazione e il suo ruolo di portatore della luce, la testimonianza del Battista, e infine la sua venuta
nel mondo per portare agli uomini una luce che essi non vogliono accettare.
L’opera salvifica del Verbo (vv. 12-18)
Nella seconda parte del prologo l’autore riprende in ordine inverso le stesse idee della prima,
illustrando così i frutti della presenza del Verbo in questo mondo. Egli sottolinea anzitutto che al
rifiuto dei molti corrisponde l’accettazione di alcuni (vv. 12-13). Si tratta di coloro che hanno creduto
nel suo nome (cfr. v. 7), i quali ricevono da lui la possibilità di diventare figli di Dio, cioè di essere
nuovamente generati non in forza delle leggi biologiche, ma per una decisione divina.
L’autore riprende poi il tema della presenza del Verbo nel mondo (v. 14). Colui che «era» ora è
«divenuto», si è fatto carne. Questo termine indica la creatura nella sua debolezza e fragilità, spesso
opposta alla potenza divina. Il Verbo è apparso dunque nella debolezza di una creatura mortale. Egli
ha abitato in mezzo a noi: con questa espressione si allude alla dimora di Dio (Es 40,35) e soprattutto
a quella della sapienza in Israele (Sir 24,8): mediante il Verbo si attua dunque la presenza dinamica e
salvifica di Dio in mezzo al suo popolo. Questo fatto viene confermato dall’autore con la sua
testimonianza, unita a quella dei primi discepoli, i quali hanno visto la sua gloria, cioè la
manifestazione in lui di Dio stesso, che lo unisce a sé con un vincolo specialissimo, simile a quello
che un figlio unico ha con suo padre. Perciò egli, come JHWH nell’AT, è pieno di grazia e di verità.
Viene poi presentata di nuovo la testimonianza di Giovanni Battista il quale riconosce nel Verbo fatto
carne l’uomo del quale aveva detto: «colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di
me» (v. 15). L’immagine è quella di uno che cammina dietro un altro (non è esclusa l’idea di discepolo)
e a un certo punto lo sorpassa. Se originariamente il prologo era un inno autonomo, anche questo
versetto potrebbe essere stato aggiunto in un secondo tempo.
Nel passo successivo l’autore riprende il tema dei beni portati dal Verbo: dalla sua pienezza, analoga
a quella della sapienza, noi tutti, cioè i credenti, abbiamo ricevuto grazia su grazia (v. 16): ciò che egli
è in forza del suo rapporto con Dio viene così comunicato agli uomini. L’espressione «grazia su
grazia» può significare una grazia (il vangelo) in sostituzione di un’altra (la legge), oppure una grazia
dopo l’altra, o infine una grazia che corrisponde a quella del Verbo (pieno di grazia e di verità).
In corrispondenza alla sua opera nella creazione viene presentata ora la mediazione del Verbo nella
salvezza: la legge data da Mosè lascia il posto alla grazia e verità donateci per mezzo di Gesù Cristo
(v. 17). Per la prima volta il Verbo viene qui identificato con la persona storica di Gesù di Nazareth:
in contrasto con la riflessione sapienziale, la sapienza non si identifica dunque con la legge di Mosè,
ma con una persona concreta, nella quale si rendono visibili la grazia e la verità divine.
Al termine del prologo l’autore ritorna al tema della vita eterna del Verbo presso il Padre: a differenza
di ogni altro essere umano, al quale è preclusa la visione di Dio, egli «ha rivelato» Dio perché è il
figlio unigenito che è nel suo seno (v. 18). Quest’ultima espressione indica, come quella del v. 1, un
rapporto dinamico con Dio, che favorisce la comunicazione di segreti e di confidenze.
Il prologo di Giovanni, letto sullo sfondo della storia della salvezza e della riflessione sapienziale,
appare come un tentativo di esprimere in sintesi chi è Gesù di Nazaret così come lo ha compreso
una comunità cristiana al termine di una lunga esperienza di fede. In questa prima parte del vangelo
la persona di Gesù, ripensata alla luce del concetto di parola/sapienza, appare come il luogo per
eccellenza della presenza di Dio in mezzo all’umanità: egli rappresenta il compimento dell’alleanza
che Dio aveva concluso con Israele, diventando così la ‘parola’ che si sostituisce alle tante parole
della legge, e il nuovo tempio che sostituisce l’antico santuario ormai profanato. In lui si realizzano
dunque le attese messianiche del suo popolo; ma ciò viene compreso perché un giorno egli sarà
innalzato sulla croce mostrando, attraverso il suo ritorno al Padre, di essere stato inviato da lui per
manifestare il suo infinito amore per l’umanità.
Nella prospettiva sapienziale Gesù appare così come un essere che esisteva originariamente in Dio
e, dopo aver collaborato alla creazione di tutte le cose, scende in questo mondo per coinvolgere
l’umanità nel progetto salvifico di Dio. Il testo però non contiene una speculazione sulla preesistenza
di un essere divino che a un certo punto della storia prende una carne (“natura”) umana, ma piuttosto
un ardito tentativo di definire il ruolo della persona di Gesù nel piano salvifico di Dio. Mediante l’uso
delle categorie sapienziali l’autore vuole semplicemente dire che egli è il mediatore finale della
salvezza promessa da Dio per mezzo dei profeti e di riflesso il centro di tutto l’universo.
Questa centralità però non deve essere intesa come possesso esclusivo da parte sua della verità di
Dio, come se Dio si fosse rivelato solo in lui e per mezzo di lui. Al contrario egli è presentato come
espressione di una pienezza che raccoglie e valorizza tutte le manifestazioni del divino che si trovano
in questo mondo e nel cuore delle persone. I cristiani giovannei hanno voluto esprimere in questo
prologo la loro fede non tanto nella “divinità” di Cristo, quanto piuttosto nella manifestazione
dinamica del divino in un essere umano in cui essi avevano trovato il riferimento ultimo di tutta la
loro vita e il significato profondo di tutto il cosmo.