SIDE Working Papers - ISLE 2017 · Il metodo di analisi consiste in una rassegna della ... Le PMI...

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SIDE Working Papers Second Annual Conference - 2006 Second Annual Conference Rome, October 20th and 21st 2006 LUISS Guido Carli GIANNA CLAUDIA GIANNELLI & ALESSIO MONTICELLI Capitale umano e finanziamento dellimpresa. Considerazioni tra economia e diritto sulla riforma delle S.r.l.

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SIDE Working PapersSecond Annual Conference - 2006

Second Annual ConferenceRome, October 20th and 21st 2006

LUISS Guido Carli

GIANNA CLAUDIA GIANNELLI & ALESSIO MONTICELLI

Capitale umano e finanziamento dell’impresa. Considerazioni tra

economia e diritto sulla riforma delle S.r.l.

1

Capitale umano e finanziamento dell’impresa Considerazioni tra economia e diritto sulla riforma delle S.r.l.

di

GIANNA CLAUDIA GIANNELLI* E ALESSIO MONTICELLI*

ABSTRACT

(*) Dipartimento di Scienze Economiche Università di Firenze Polo delle Scienze Sociali Via delle Pandette 9 50127 Firenze Tel +39 349/5614914 E-mail: [email protected] [email protected]

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SOMMARIO

In questo articolo esaminiamo il ruolo di due fattori fondamentali per la vita delle imprese: il capitale umano e le risorse finanziarie. Il metodo di analisi consiste in una rassegna della letteratura economica che riteniamo rilevante per capire gli obiettivi e prevedere gli esiti della recente riforma societaria italiana. L’analisi economica ha una tradizione consolidata di studi che mostrano che i vincoli di liquidità sono un fattore determinante per la nascita e la sopravvivenza delle imprese. Recentemente, tuttavia, con l’affermarsi dell’importanza strategica del capitale umano si pone un interrogativo nuovo: sono più importanti i vincoli finanziari o la disponibilità di capitale umano per lo sviluppo ed il rafforzamento delle imprese? Il primo problema da risolvere per rispondere a questa domanda è come misurare il capitale umano, visto che i vincoli finanziari sono facilmente misurabili con metodi standard. Il capitale umano di un imprenditore è una combinazione di istruzione, background familiare, esperienze lavorative (generiche e specifiche) e “capitale sociale”. Per risolvere il problema della misurazione, proponiamo di usare dei metodi econometrici che permettono di stimare tutte le componenti del capitale umano. Nella prima parte del paper passiamo in rassegna questi metodi, che rappresentano una pratica standard in alcuni campi dell’economia. Nella seconda parte valutiamo l’importanza dei vincoli finanziari. Dato che questi vincoli introducono una distorsione nella scelta di diventare imprenditore o dipendente, un’allocazione efficiente del capitale umano necessita di regole che riducano le imperfezioni del mercato finanziario. Analizziamo alcuni metodi per raggiungere questo obiettivo, in particolare esaminando alcuni aspetti del diritto societario italiano. Le PMI sono le imprese maggiormente presenti nell’economia italiana e, tra queste, le S.r.l. (Società a responsabilità limitata) sono prevalenti. Molte PMI sono parte di distretti industriali, ambienti economici dove il capitale umano rappresenta il fattore fondamentale per la loro sopravvivenza. Tuttavia, la loro struttura finanziaria è generalmente debole. Esaminiamo la recente riforma del diritto societario italiano, e le norme che cercano di risolvere questi problemi, con un’attenzione particolare alle S.r.l. In accordo con il ruolo strategico assegnato al capitale umano dalla letteratura economica, possiamo evidenziare che il legislatore italiano ha dato l’opportunità all’imprenditore di conferire il valore del capitale umano negli assets dell’impresa. JEL: G32, J24, L25, L31 Keywords: firm performance, human capital and entrepreneurship, financing policy of firms, company law and theory of the firm Sebbene il saggio sia il risultato di un lavoro comune, la responsabilità delle sezioni 2 (introduzione), 3.1, 3.2, 4.1, 4.3, 4.5 è da attribuirsi a G. C. Giannelli; delle sezioni 2.1, 3.3, 4.2, 4.4 e 5 ad A. Monticelli.

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Abstract

The Role of Human Capital and Financial Resources for the Growth of Firms An analysis of the links between Economics and Law in the Italian reform of company law

In this paper we examine the role of two fundamental factors of the life of a firm: human capital and financial resources. Our method of analysis consists of a recognition of the economic literature that is relevant, in our view, to understand the objectives and to predict the effects of the Italian company law reform. The economic analysis has a consolidated tradition of studies about liquidity constraints as a determining factor of birth and survival of firms. Recently, with the increasing strategic importance of human capital a new question has drawn attention: are financial constraints or is human capital availability more important for firm development? The first problem to solve in order to answer this question is how to measure the human capital of a firm, since financial constraints are easily measurable with standard methods. The human capital of an entrepreneur is a combination of education, family background, working experiences (general and specific) and social capital. To solve the measurement problem, we thus propose to use some econometric methods which allow to estimate all components of human capital. We revise these methods, which are now standard practice in some fields of Economics, in the first part of the paper. In the second part we assess the importance of financial constraints. Since these constraints introduce a distortion in the choice of becoming an entrepreneur or an employee, an efficient allocation of human capital needs regulations that reduce capital market imperfections. We discuss some methods to achieve this goal, with a view to the Italian company law. The SMEs are the most numerous firms in the Italian economy and, among them, the LLCs (Limited Liability Company) dominate. Many SMEs are part of industrial districts, an economic environment where human capital is the fundamental factor for their survival. However, their financial structure is often weak. We discuss the recent reform of the Italian company law, and the norms that try to solve these problems, with a special attention to LLCs. In accordance with the strategic role assigned to human capital by the economic literature, we find that the Italian legislator has given the entrepreneur the opportunity to include the value of the human capital among the assets of the firms, thus relaxing the financial constraint.

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1 Introduzione

La crescita e lo sviluppo di un’economia sono indiscutibilmente legati al buon funzionamento

delle sue imprese. Gli ingredienti essenziali di una qualsiasi struttura produttiva, sia essa a

prevalenza di grandi o di piccole e medie imprese, sono una dotazione di capacità

imprenditoriale in grado di rinnovarsi ed innovare e un mercato dei capitali efficiente, che

svolga la sua funzione di veicolo di risorse finanziarie senza creare barriere in un ambiente

economico-finanziario trasparente.

La realizzazione di tali condizioni ideali trova uno dei suoi presupposti in una

regolamentazione giuridica delle imprese che faciliti, prevenendo eventuali distorsioni del

mercato, l’applicazione dei principi economici che guidano le scelte imprenditoriali, in un

contesto economico in continua trasformazione.

La questione da porsi è quali siano, dunque, le premesse che permettono alle imprese di

nascere e prosperare. L’analisi economica ha una tradizione consolidata di studi che

individuano nei fattori finanziari, nei vincoli di liquidità rappresentati da un insufficiente

rapporto tra dotazione iniziale di risorse finanziarie (ricchezza del futuro imprenditore) e

dotazione necessaria per iniziare l’attività produttiva, i principali responsabili della nascita e

sopravvivenza delle imprese. Secondo questa letteratura, le imprese e gli imprenditori

tenderebbero a concentrarsi in maggior numero dove i costi di start up, principalmente di tipo

finanziario, sono minori, giustificando così gli interventi pubblici a sostegno della fondazione

e gestione di nuove imprese.

Più recentemente, con l’affermarsi dell’importanza strategica del capitale umano rispetto al

capitale fisico, ci si è chiesti se non sia più efficiente preoccuparsi in primo luogo di tutelare

gli agglomerati dove il “talento” imprenditoriale possa crescere e diffondersi, piuttosto che

rischiare di elargire sovvenzioni anche a coloro che di capacità imprenditoriale sono

relativamente meno dotati.

Per compiere scelte di politica industriale, è opportuno stabilire se, nel contesto economico in

cui operano le imprese, siano in misura maggiore i vincoli finanziari o la disponibilità di

capacità imprenditoriale a condizionarne lo sviluppo.

Tale verifica, tuttavia, non è semplice da realizzare. Mentre la posizione finanziaria di

un’impresa è rilevabile con relativa facilità, poiché il capitale umano è intangibile, il problema

della sua valutazione si presenta piuttosto complesso. Recentemente, molti studi hanno

sperimentato varie misure di questo fattore per quantificarne, mediante tecniche

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econometriche, il rendimento atteso per le imprese. Con il termine “capitale umano” si vuole

indicare, sinteticamente, un aggregato complesso, composto di qualità geneticamente date

(alla cui formazione hanno contribuito anche il background familiare e il capitale sociale), di

capacità acquisite con l’istruzione e l’esperienza lavorativa che possono essere usate ovunque

(componente generale) e di capacità acquisite specializzate che possono essere impiegate

solamente nell’attività corrente (componente specifica). La capacità imprenditoriale, inoltre,

ha connotati diversi dalle competenze acquisite nel lavoro dipendente. L’analisi economica si

propone di valutare il peso relativo di tale fattore strategico rispetto alla posizione finanziaria

dell’impresa, e, inoltre, di valutare quanto quest’ultima sia endogena, ossia dipenda a sua

volta dal capitale umano dell’imprenditore.

Il diritto dell’impresa, di pari passo con l’analisi economica, si evolve mostrando

consapevolezza di questi fenomeni e formulando regole che cercano di adattarsi alle

specificità della struttura produttiva. Nel caso dell’economia italiana, della quale le PMI

costituiscono un asse portante, tale consapevolezza emerge chiaramente dalla recente riforma

societaria, volta soprattutto a incentivare il passaggio dalla società di persone alle società di

capitali. La riforma, che si caratterizza per una forte connotazione economica, presenta tra le

novità di maggior rilievo, in una prospettiva di analisi economico-giuridica, il riconoscimento

del valore del capitale umano come parte del valore complessivo del capitale dell’impresa.

Infatti, nella nuova disciplina delle S.r.l., diventa centrale la figura del socio. Ciò si traduce

nell’opportunità di apportare nel capitale d’impresa anche la propria competenza

professionale. Il problema della valutazione economica del capitale umano, che a prima vista

potrebbe sembrare di interesse esclusivamente scientifico, non è, dunque, solo degli analisti,

ma si dimostra soprattutto di natura contabile, perché la norma giuridica possa trovare

effettiva applicazione.

Quanto al secondo ingrediente essenziale, le risorse finanziarie, le norme giuridiche hanno il

compito di regolarne le modalità di approvvigionamento, con l’obiettivo di adeguare gli

strumenti di finanziamento ad un mercato dei capitali che si evolve verso una sempre

maggiore concorrenza e trasparenza. Le scelte riguardo le modalità di finanziamento delle

imprese riflettono il grado di evoluzione del mercato dei capitali: le imprese, normalmente,

ricorrono in primo luogo all’autofinanziamento, poi al debito “sicuro”, magari presso banche

con cui hanno rapporti consolidati, quindi al debito “rischioso” con l’emissione di

obbligazioni da collocare presso i privati e, solo in ultima istanza, vengono i diritti di

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proprietà. Un segnale di evoluzione del mercato dei capitali proviene anche da riforme

giuridiche che lo dotino di norme che rendano conveniente il ricorso al finanziamento esterno

sottoforma di debito obbligazionario e emissione di azioni.

Questo articolo si propone di discutere le innovazioni giuridiche nel diritto societario a partire

dai risultati emersi dall’analisi economica, secondo il metodo di Economics and the Law.

Nelle parti dedicate all’analisi economica si mostra come, con lo sviluppo dei mercati dei

capitali, sia divenuto indispensabile considerare il ruolo del capitale umano e le sue

interconnessioni con l’aspetto puramente finanziario, come predominanti per lo sviluppo delle

imprese.

Nelle parti dedicate all’analisi economica della riforma societaria, si sottopone a verifica la

coerenza della nuova normativa societaria italiana con le indicazioni emerse dall’analisi

economica, si presenta un’evidenza sui cambiamenti in atto e si conclude con alcune

considerazioni sui suoi probabili effetti attesi.

2 Proprietà del capitale fisico e controllo del capitale umano

Secondo la teoria economica dei contratti, è fondamentale per lo sviluppo delle imprese che la

proprietà dei fattori strategici sia correttamente allocata. Come si traduce in termini economici

in termine “proprietà” e cosa si intende per fattori strategici?

Grossman e Hart (1986) affermano che la proprietà corrisponde “all’acquisto dei diritti residui

di controllo” (p.692), cioè di tutti quei diritti che non sono specificati nel contratto tra le parti

che si accingono ad effettuare uno scambio1. Dalla proprietà derivano benefici che, secondo

Coase (1937), renderebbero l’integrazione verticale delle imprese più conveniente del ricorso

al mercato, riducendo i costi di transazione. Dalla proprietà tuttavia, ancora secondo

Grossman e Hart, derivano anche costi connessi ad una sua inefficiente allocazione, costi che

sarebbero ridotti se, al contrario di quanto asserito da Coase, si ricorresse al mercato

estrenalizzando alcune fasi della produzione. Hart e Moore (1990), seguendo Grossman e

Hart, elaborano il significato di diritto di residuo di controllo, asserendo che “l’unico diritto

posseduto dal proprietario di un’attività è la sua possibilità di escludere gli altri dall’uso di

tale attività” (p.1121). La conseguenza è che, poiché i lavoratori devono poter accedere al

1 Come esempio chiarificatore, considerano il caso di un contratto tra un editore e una tipografia per la stampa di un preciso numero di copie di un libro. Se le vendite vanno bene e si ritiene profittevole una ristampa, nel caso che il contratto non la preveda, sarà l’editore, proprietario del copyright, l’unico che potrà decidere in proposito.

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capitale fisico per essere produttivi, al proprietario conviene assumerli per poterne meglio

controllare le azioni, piuttosto che affidarsi ad un’altra impresa i cui lavoratori, dipendenti di

un altro proprietario, gli forniscano lo stesso servizio. In questo modo, “il controllo sul

capitale fisico può portare indirettamente, al controllo sul capitale umano” (Hart e Moore

1990, p.1121).

Proprio a questo punto il problema si complica, poiché bisogna riconoscere che, a loro volta, i

dipendenti, in quanto proprietari del loro capitale umano, hanno diritto di escludere dal suo

utilizzo il proprietario del capitale fisico. La letteratura che si è sviluppata successivamente ai

lavori citati, ha preso in considerazione il problema dei rapporti tra il proprietario, il

“principale”, e il dipendente con funzioni direttive che ha il potere di decidere sull’allocazione

del suo capitale umano, l’“agente”, i cui obiettivi sono talvolta in conflitto con quelli del

proprietario, se il sistema di incentivi non è correttamente definito.

Cosa avviene, allora, se progressivamente il peso strategico del fattore fisico si riduce

relativamente al fattore intangibile rappresentato dal capitale umano, che è anche più scarso

rispetto ad altri fattori? Il capitale umano diventa parte fondamentale del patrimonio su cui si

fonda l’impresa. La sua natura intangibile pone imprenditori, lavoratori dipendenti, banche,

intermediari finanziari, assicurazioni di fronte alla necessità della sua misurazione e

valutazione economica.

Circa i problemi creati dall’inalienabilità del capitale umano si consideri il caso, studiato

ancora da Hart e Moore (1994), di un imprenditore che voglia realizzare un investimento,

considerato certamente proficuo, ricorrendo al finanziamento bancario. In un mondo ideale la

banca glielo concederebbe in cambio della garanzia di realizzare un guadagno pari a una

quota del flusso di profitti futuri. Tale contratto sarebbe attuabile per la banca solamente se

l’imprenditore potesse essere rimpiazzato senza costi nel caso abbandonasse il progetto (se il

progetto non avesse un contenuto di capitale umano specifico dell’imprenditore che lo

propone); oppure se non potesse minacciare di ripudiare il contratto ritirando il suo capitale

umano. La possibilità che tale minaccia si avveri implica che alcuni progetti che frutterebbero

un profitto con certezza non saranno finanziati, arrecando una perdita all’intera collettività.

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C’è, dunque, una somiglianza con il noto problema di Economia del Lavoro di chi debba

sostenere il costo della formazione specifica2, se l’impresa o il lavoratore da formare (Becker,

1964). La soluzione, che dimostra che i due soggetti hanno incentivo a non separarsi e a

dividere tali spese, suggerisce che se l’imprenditore potesse conferire al patrimonio

dell’impresa il valore del capitale umano, a garanzia dei prestatori, un numero maggiore di

progetti d’investimento potrebbe essere realizzato.

In sostanza, uno dei fattori di maggior importanza per lo sviluppo delle imprese in mercati

sempre più aperti e liberalizzati è di natura umana, un “asset” che entra a far parte del loro

patrimonio. Diventano strategiche, per il conseguimento di un risultato efficiente per l’intera

società, la valutazione e distribuzione della “proprietà” del capitale umano.

2.1 Accesso e proprietà nelle PMI

Poiché la teoria economica si concentra sulla struttura di incentivi che favorisce la

combinazione efficiente tra capitale umano, fisico e finanziario, appare allora del tutto

coerente l’approccio del legislatore italiano che, nella riforma, ha voluto regolare con

particolare attenzione l’accesso alla vita imprenditoriale attraverso norme che regolano la

proprietà dell’impresa. Per accesso si intende il diritto (es. dei soci) di “utilizzare le risorse

intangibili e di condividere il surplus da queste creato rispetto alla mera somma dei

conferimenti di capitale di rischio, ma anche il diritto di ritirare il proprio contributo di

capitale umano recedendo dall’impresa stessa o anche solo astenendosi dal contribuire

pienamente alla sua performance” (Scandizzo, 2003, p. 243).

Le S.r.l. sono state riqualificate con la riforma “sostanzialmente” come società di

persone, tanto che sono anche definite come “società di persone a responsabilità limitata”

(Ariani, Callosa, Ferri, Giannelli, 2006, p. 277) per le quali è cruciale il carattere personale

dell’impresa. Infatti il legislatore non ha solamente diminuito l’ammontare minimo del

capitale di conferimento, ma ha anche valorizzato il fattore capitale umano apportato dai soci

e collaboratori, ridefinendo le imprese come veri e propri “centri di competenza” (Scandizzo,

2003, p. 244).

La connotazione economica della normativa delle S.r.l. emerge ancora a proposito

dell’oggetto sociale. Nella normativa precedente alla riforma si richiedeva di indicare,

2 Il costo del training sostenuto dal datore di lavoro è analogo al costo dell’investimento sostenuto dalla banca

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nell’atto costitutivo societario, unicamente l’oggetto sociale dell’impresa, mentre ora la norma

afferma che si deve indicare “l’attività che costituisce l’oggetto sociale” (art. 2463 c.c.)3.

L’impresa è così identificata con la sua attività economica piuttosto che con la sua forma

giuridica4. In linea con l’ampliamento delle possibili forme di conferimento, si è voluto creare

l’opportunità di trattare l’impresa come “centro di competenze”, prevedendo che siano

conferibili “tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica” (art. 2464 c.c.)

comprese le prestazioni di opere e servizi5. Inoltre, ancora a proposito dell’importanza del

diritto di accesso per le PMI, i soci sono scelti in ragione di quanto possono contribuire

all’attività economica dell’impresa, perché si ritiene che il contributo congiunto dei singoli

all’attività generi un surplus di dimensioni superiori rispetto a quello derivante dal semplice

conferimento di risorse finanziarie. Come sembra confermare anche l’analisi economica, ciò

costituirebbe un incentivo determinante alla partecipazione all’attività dell’impresa

(Scandizzo, 2003).

Questo legame fra le competenze di un socio e il valore aggiunto dall’attività imprenditoriale

fa sì che il criterio del diritto di accesso sia preferibile rispetto a quello della proprietà,

fornendo ai soggetti coinvolti il necessario incentivo ad investire su sé stessi come

componenti indispensabili dell’impresa. L’investimento di natura specifica (cioè non

utilizzabile in altre imprese) dell’imprenditore-manager aumenta il suo costo di uscita

dall’impresa nella quale ha investito il proprio capitale umano. Il concetto di “accesso” è

intrinsecamente legato al valore che risiede nella relazione complementare creata tra

collaboratori e impresa, permettendo di attenuare atteggiamenti di free-riding, poiché gli

obiettivi dei collaboratori sono compatibili con quelli imprenditoriali. Un legame di tale tipo è

riscontrabile tradizionalmente nelle imprese del distretto industriale, dove il problema di free-

riding è superato grazie all’identificazione morale e materiale del collaboratore all’interno di

una realtà aziendale spesso di tipo familiare. Il coinvolgimento diretto dei collaboratori nella

vita d’impresa “lega in modo economico soci, managers e collaboratori agli obiettivi

aziendali, riducendone gli incentivi ad esercitare i diritti di ritiro del proprio capitale umano”

per l’acquisto del progetto. Per una discussione dettagliata di questi problemi si veda Hashimoto (1981). 3 Tale previsione esiste anche per le S.p.a. all’art. 2328 del c.c. 4 Infatti si devono indicare in modo specifico il tipo e le modalità dell’attività economica esercitata, anche se è possibile indicare più attività economiche senza che tale indicazione non comporti l’indeterminatezza dell’oggetto sociale in questione (D’Andrea, 2006, p. 985). 5 Nel conferimento di opere e/o servizi, ad esempio, la garanzia prestata per la prestazione d’opera e servizi può essere data anche da terzi e quindi essere svincolata dalla persona che dota l’impresa di competenze.

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(Scandizzo, 2003, p. 249). Il tale contesto, la S.r.l., forma giuridica tipica delle PMI, assume il

ruolo di una società di capitali molto particolare poiché tale modello societario esalta

l’apporto di human capital da parte dei soci6.

3 Come si forma il capitale umano degli imprenditori e come si misura?

Il capitale umano, inteso come fondo risultante dagli investimenti in acquisizione di

conoscenze e competenze che aumentano la produttività e, di conseguenza, la capacità di

guadagno individuale, è un fattore cruciale per la formazione e lo sviluppo di nuove imprese.

Il capitale umano degli imprenditori è formato da varie componenti: l’istruzione, il

“background familiare”, l’esperienza lavorativa generale e specifica (Becker, 1964). Si

distingue da quello dei lavoratori dipendenti per una componente specifica identificabile come

“capacità imprenditoriale” che vede, tra le sue determinanti, anche gli “spillovers” di

conoscenze che derivano dal livello di concentrazione delle imprese nell’ambiente in cui

opera l’imprenditore.

La valutazione economica del capitale umano è un tema centrale dell’Economia del Lavoro: i

numerosissimi studi esistenti, a partire dal contributo fondamentale di Becker (1964),

sviluppano una vasta gamma di tecniche quantitative che permettono di misurare il valore

delle singole componenti7. Molti di questi studi hanno analizzato specificamente la

valutazione del capitale umano degli imprenditori, mettendo in luce le differenze con il

capitale umano dei lavoratori dipendenti.

3.1 Istruzione, “background familiare” e capitale sociale, esperienza lavorativa

Il livello e il tipo di istruzione hanno, fra le altre, due funzioni importanti per l’imprenditore:

aumentare la sua capacità produttiva e segnalarne le caratteristiche. L’istruzione è dunque un

requisito essenziale per intraprendere l’attività produttiva e acquisire credenziali presso i

potenziali finanziatori.

Se esista una correlazione positiva tra livello di istruzione e probabilità di fondare un’impresa

non è un fatto generalmente accertato. La ricerca empirica ha fornito evidenza contrastante,

con risultati assai variabili da paese a paese. Ciò che sembra valere in generale, è che gli

6 Infatti nella disciplina dei conferimenti delle S.p.a., di cui all’art. 2342 c.c., si fa esplicito riferimento al divieto di conferire nel capitale sociale della costituenda S.p.a. prestazioni di opera o di servizi. Tali prestazioni rientrano invece nella fattispecie richiamata dall’art. 2345 c.c. (“Prestazioni accessorie”).

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imprenditori, dovendo assolvere a molte funzioni diverse, hanno un tipo di istruzione

polivalente.

Questa evidenza è ben teorizzata da Lazear (2003) con un modello in cui confronta le scelte di

istruzione di futuri top managers con quelle di futuri imprenditori e lo sottopone a verifica

empirica usando un campione di laureati a Stanford. I risultati mostrano che ha più probabilità

di fondare un’impresa chi ha un curriculum di studi più “generalista”. L’originalità del

modello di Lazear sta nel mostrare che, anche se in realtà si osserva frequentemente che anche

gli imprenditori compiono scelte di istruzione specialistica, tali scelte potrebbero essere

dettate da obiettivi assai diversi rispetto a quelli dei top managers. Colui che ambisce a

diventare top manager ha l’obiettivo di acquisire il massimo grado possibile di monopolio

della competenza in un settore specifico, per sfruttarne la rendita in termini di guadagni futuri.

Colui che ambisce a diventare imprenditore, invece, ha necessità di raggiungere un livello

minimo di competenza in molti campi, da quello del suo settore di produzione, a quello

finanziario, a quello del marketing. Dati i livelli minimi di conoscenza necessaria a svolgere

le varie funzioni, il futuro imprenditore tenderà a investire in istruzione anche in un campo

solo (se negli altri ha già raggiunto il livello minimo di competenza), ma per raggiungere il

livello minimo necessario a svolgere la funzione in cui è più debole.

Questa visione contrasta con la convinzione generale che gli imprenditori debbano essere

tecnici o specialisti capaci di innovazione tecnologica. Tali competenze, che sono necessarie

nei settori maggiormente innovativi, sono complementari ad altre competenze più generali

delle quali l’imprenditore deve possedere almeno il livello minimo di conoscenza.

Un livello di capitale umano altamente specializzato dell’imprenditore, al limite, non è

nemmeno indispensabile nei settori innovativi: è sufficiente che fra i soci di un’impresa, o nel

consiglio di amministrazione di una società per azioni siano presenti figure che soddisfano tali

requisiti. Audretsch e Lehman (2005), per esempio, mostrano che, specialmente nei settori

industriali ad alto contenuto scientifico e tecnologico (nello studio citato si tratta di imprese

tedesche dei settori biomedico, biotecnologico, delle nanotecnologie, informatico e

telematico) i membri del consiglio di amministrazione svolgono un ruolo distinto dalla

tradizionale funzione di controllo dei direttori e dei managers. In tali settori è sufficiente che

7 Per una rassegna della letteratura fondamentale si vedano, per esempio, Willis (1986) e Card (1994)

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alcuni membri del consiglio di amministrazione, o alcuni managers, abbiano titoli di studio

avanzati (post-laurea) nel settore scientifico-tecnologico.

Circa il background familiare, che i figli di imprenditori abbiano molta più probabilità di altri

di diventarlo essi stessi è una regola empirica generale che vale nel tempo e nello spazio,

provata in molteplici studi empirici (valga per tutti Blanchflower e Oswald 1998). I figli di

imprenditori “imparano” a fare impresa dai genitori, oltre ad essere facilitati dal punto di vista

delle risorse finanziarie necessarie all’attività. Questo capitale è generalmente distinto da

quello umano in quanto derivante dal “capitale sociale”, componente instillata nell’individuo

dalla famiglia, dai parenti, dagli amici, in definitiva dall’ambiente sociale che lo circonda. In

questo contesto, per “capitale sociale” si intende una struttura protetta, una rete di relazioni

che dà ai propri membri accesso a risorse che sarebbero negate agli outsiders (Bourdieu,

1983, Coleman 1988). Secondo Bourdieu (1983, p.249) il capitale sociale è “l’aggregato di

risorse potenziali o effettive che sono legate al possesso di una rete durevole di relazioni più o

meno istituzionalizzate di mutua conoscenza e riconoscimento...una ‘credenziale’ che dà

diritto al credito, nelle sue varie accezioni, ai membri della rete”. Il capitale sociale posseduto

da un individuo è il risultato di una serie di strategie di investimento, della sua famiglia e poi

proprie, che hanno lo scopo di nutrire e riprodurre la rete di relazioni al fine del

raggiungimento di obiettivi specifici. In un contesto economico il capitale sociale è cruciale

anche per la formazione di capacità imprenditoriale e la nascita di nuove imprese poiché,

all’interno della rete, facilita la circolazione delle informazioni, della conoscenza, delle

innovazioni, e la combinazione di capacità imprenditoriali fra loro complementari. La ricerca

sul distretto industriale ha fornito vari esempi di questi processi (per es. Saxenian, 1994).

L’esperienza lavorativa accumulata dall’imprenditore può essere di due tipi: o esclusivamente

imprenditoriale, nel caso che l’imprenditore sia entrato con quel ruolo nel mercato del lavoro

e continui a mantenerlo, o mista a periodi di lavoro dipendente. In questo secondo caso, anche

la dinamica e l’ordine temporale dell’accumulazione rispettivamente di esperienza di lavoro

indipendente e dipendente hanno implicazioni diverse per il futuro dell’impresa.

Si considerino tre casi: 1) l’imprenditore fonda un’impresa come prima esperienza lavorativa

o avendo alle spalle solo altre esperienze imprenditoriali; 2) l’imprenditore ha avuto la sua

prima esperienza lavorativa come dipendente e in seguito ha fondato l’impresa (o più

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imprese); 3) l’imprenditore ha iniziato come tale, poi in seguito a risultati negativi è passato al

lavoro dipendente, per tornare successivamente all’attività imprenditoriale.

I primi due casi in cui lo stock di esperienza lavorativa precedente alla fondazione di

un’impresa è omogeneo (solo imprenditoriale o solo dipendente) sono stati ampiamente

trattati dalla letteratura economica e si ricollegano al problema della scelta se diventare

imprenditori o meno (trattato nella seconda parte del saggio). Il primo è il caso in cui

l’imprenditore abbia scelto in primo luogo tale attività perché più remunerativa del lavoro

dipendente, anche grazie alla presenza di capitale sociale imprenditoriale. Il secondo è il caso

in cui l’imprenditore abbia scelto in primo luogo il lavoro dipendente per mancanza di

condizioni (finanziarie, per esempio) favorevoli che gli permettessero di trarne un rendimento

maggiore della retribuzione; per passare solo successivamente all’attività imprenditoriale

quando si fossero realizzate tali condizioni.

Il terzo caso ha attirato più recentemente l’attenzione degli economisti. Secondo la teoria di

Jovanovic (1982), il neo-imprenditore è incerto circa le sue effettive capacità imprenditoriali,

fenomeno indicato con il termine noisy selection, ad indicare il processo, suscettibile di errori

o “disturbi”, di auto-selezione nell’attività imprenditoriale. Con la fondazione dell’impresa,

però, inizia il periodo di learning, della scoperta, cioè, della propria dotazione di capacità

imprenditoriale. Se la nuova impresa avrà buoni risultati, l’imprenditore capirà di essere ben

dotato per tale attività e persisterà come tale. Se, invece, i risultati saranno negativi,

l’imprenditore capirà di non essere dotato, sceglierà il lavoro dipendente e l’impresa cesserà.

In questo modo, l’errore iniziale verrà in seguito corretto con un’allocazione più efficiente del

capitale umano. Se questa teoria avesse riscontro empirico, non si osserverebbero mai

situazioni in cui lavoratori dipendenti ex-imprenditori decidessero, ad un certo punto, di

ritornare all’attività imprenditoriale. Tale eventualità, corrispondente al terzo caso di

esperienza lavorativa, è invece riscontrabile con una certa frequenza. Partendo dal modello di

Jovanovic, Audretsch et al. (2005) aggiungono che con la prima esperienza imprenditoriale,

conclusasi con l’abbandono del ruolo di imprenditore e il passaggio al lavoro dipendente,

l’ex-imprenditore ha comunque avuto modo non solo di conoscere la sua effettiva capacità

(come ipotizza Jovanovic), ma anche di accumulare nuove conoscenze che potrebbero

colmare la scarsità della dotazione iniziale inducendolo a rientrare, in un secondo momento,

dopo l’esperienza nel lavoro dipendente, nel ruolo di imprenditore fondando una nuova

impresa. Gli autori conducono un’analisi empirica su un campione di ex-imprenditori ai quali

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è stato chiesto se avessero fondato una nuova impresa o avessero intenzione farlo. I risultati

mostrano che coloro che sono propensi a farlo hanno caratteristiche significativamente diverse

da coloro che hanno deciso di rimanere dipendenti. In particolare, emerge che coloro che

hanno accumulato più esperienza imprenditoriale fondando più imprese hanno maggior

probabilità di ritornare a fondarne una nuova. Tale evidenza confermerebbe la tesi secondo la

quale la propensione a ritornare imprenditori è correlata in modo significativo alla capacità di

assorbire conoscenze e imparare dalle esperienze precedenti.

3.2 Si può “imparare” a diventare imprenditori? “Knowledge spill-over” e “absorptive

capacity”

Descrivendo la dotazione di capitale umano individuale è emersa l’importanza, per la sua

determinazione, dell’ambiente in cui l’imprenditore opera. Se l’ambiente circostante è

“denso” di imprese e di investimenti in conoscenza, si produrranno delle esternalità positive

per i potenziali imprenditori e coloro che lo sono già. Naturalmente, il grado di sfruttamento

degli spill-over di conoscenza dipenderà dalla capacità di assorbirli degli imprenditori stessi (

la “absorptive capacity” introdotta da Cohen e Levinthal, 1998), dalla capacità di imparare

dall’ambiente circostante, in altre parole, dalla struttura del loro capitale umano iniziale. La

formazione di capacità imprenditoriale è spiegata come un processo endogeno, perché

dipende dallo stock di conoscenze diffuso nell’ambiente che a sua volta dipende dalla capacità

imprenditoriale stessa.

I modelli economici partono dalla spiegazione della relazione positiva tra profitto e capacità

imprenditoriale, per poi spiegare il processo di accumulazione di quest’ultima. Nel modello di

Lucas (1978) della distribuzione della dimensione delle imprese, per esempio, il talento

imprenditoriale si distribuisce in maniera casuale ed è la principale determinante del livello

dei profitti per l‘effetto positivo dell’abilità imprenditoriale sulla produttività totale dei

fattori9. Lucas non spiega, però, il processo di formazione di capacità imprenditoriale. Guiso e

8 Cohen e Levinthal la definiscono come: “…l’abilità di un’impresa di riconoscere il valore di una informazione nuova proventiente dall’esterno, assimilarla e applicarla a fini commerciali” (1990, nel sommario) 9 Lucas sviluppa il modello per spiegare la “naturale” crescita nel tempo della dimensione delle imprese. I “manager-imprenditori” con maggior talento realizzano profitti maggiori, la ricchezza nazionale aumenta e insieme ad essa i salari reali rendendo più vantaggioso per molti lavoratori relativamente meno dotati di capacità imprenditoriale il lavoro dipendente. Di conseguenza, il suo modello predice che in un’economia che si sviluppa si osserverà un tendenziale aumento della dimensione delle imprese, insieme alla diminuzione del numero delle imprese che si adeguerà al numero degli imprenditori con maggior talento.

15

Schivardi (2005) prendono spunto dal modello di Lucas e propongono un modello di

accumulazione di capacità imprenditoriale che si basa sull’ipotesi di una maggior facilità di

“assorbire” conoscenze in un ambiente in cui il numero delle imprese è relativamente

maggiore. Tale ipotesi è sottoposta a test in modo indiretto, verificando il segno della

correlazione tra densità territoriale delle imprese e produttività totale dei fattori. Se la verifica

empirica rivelasse una correlazione positiva, ciò potrebbe significare che dove ci sono più

imprese, gli spill-over di conoscenze sono maggiori e pure la capacità di assorbirli attraverso

un processo di “learning” più dinamico. Mentre la correlazione positiva emerge con solidità

dai risultati ottenuti su dati italiani, il secondo passo è di più difficile dimostrazione. Gli

autori, tuttavia, propongono una serie di tests che permettono di misurare l’effetto del numero

delle imprese sulla capacità imprenditoriale (sempre misurata in termini di produttività totale

dei fattori) controllando le altre possibili fonti di esternalità positive.

3.3 “Human capital” e capitale d’impresa: aspetti economico-aziendali e giuridici

La riforma (D.Lgs. n. 6/2003) porta con se la possibilità di valorizzare il capitale umano, in

particolare facendo leva su due obiettivi più generali che fanno da cornice allo stesso impianto

normativo:

a) un obiettivo è di carattere economico-industriale, volto a valorizzare il carattere

imprenditoriale delle società;

b) un obiettivo di carattere liberale, al fine di aumentare il potere dell’autonomia privata.

Una novità importante è la possibilità di poter conferire al momento della nascita del soggetto

giuridico “tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica” (art. 2464

c.c.)10: si possono adesso conferire prestazioni di servizi e lavorative, si pensi al socio

artigiano che può “entrare” nella società conferendo una prestazione professionale, cosa che

poteva fare prima con altra forme d’impresa, ma che non gli garantivano la responsabilità

limitata11. All’interno di questa categoria di conferimenti sono compresi anche il know-how

oppure quelli dove prevale il “fare”. Inoltre c’è la possibilità, valorizzando opere e servizi, di

10 Il comma 6 dell’art. 2464 c.c. così recita: “Il conferimento può anche avvenire mediante la prestazione di una polizza di assicurazione o di una fideiussione bancaria con cui vengono garantiti, per l’intero valore ad essi assegnato, gli obblighi assunti dal socio aventi per oggetto la prestazione d’opera o di servizi a favore della società. In tal caso, se l’atto costitutivo lo prevede, la polizza o la fideiussione possono essere sostituite dal socio con il versamento a titolo di cauzione del corrispondente importo in danaro presso la società”. 11 Nei principi generali della Riforma rientrano infatti la centralità della figura del socio e dei rapporti contrattuali tra i soci, sullo sfondo di una più ampia autonomia statutaria.

16

far entrare nella compagine sociale - e quindi nell’area più prossima alla funzione strategica

dell’impresa - soggetti esterni alla famiglia-proprietaria, che rappresenta un fenomeno

frequente nel capitalismo italiano fatto soprattutto di PMI. In tale modo si potrebbero

valorizzare risorse strategiche per l’impresa, allargando, in particolare per funzioni a maggior

valore aggiunto, a soggetti terzi rispetto al nucleo familiare di riferimento. Ciò consentirebbe

di allocare in modo più efficiente il controllo dell’impresa fornendo al tempo stesso un

incentivo al soggetto entrante “strategico” (Bianchi, Bianco, Giacomelli, Pacces, Trento,

2005, pp. 31 e 156; Corbetta, 1995, p. 84)12. La norma richiamata all’art. 2464 c.c. appare

impropria, come sottolinea gran parte della dottrina, dato che ciò che si conferisce non è la

polizza assicurativa o la fideiussione (garanzie), bensì la prestazione d’opera e servizi a favore

della società. Il principio di base legislativo prevede che si possano “apportare” nella società

qualunque tipologia di conferimento suscettibile di una valutazione economica, facendo

esplicito riferimento alla II direttiva comunitaria in materia societaria (n.77/91/CEE) (De

Angelis, 2004, p. 294). Si deve intendere tale principio in senso ampio, cioè come apporti

necessari al perseguimento dell’oggetto sociale, il cui valore, nel caso di bene in natura (di

qualsiasi natura, come per esempio la capacità imprenditoriale necessaria ad uno specifico

progetto) o un credito, viene stimato da un esperto. Tale stima, non richiamata esplicitamente

dalla legge, ma ritenuta dovuta dalla giurisprudenza, deve essere basata su criteri non

puramente teorici ed avventati, dato che si devono rispettare criteri di prudenza ed inoltre tale

valutazione non deve fare riferimento all’ottica strategica dell’impresa, la quale può seguire

criteri differenti dalla oggettiva determinazione del valore della prestazione di opera e servizi

in oggetto (Cassottana, Pollio, 2003)13. Tuttavia per i servizi la valutazione sembra essere più

agevole vista la possibilità di quantificare tale prestazione a valore di mercato, per esempio

raffrontando i costi normalmente applicati per il servizio o dal prezzo dei concorrenti, o a

valore di acquisizione.

12 Questo effetto potrebbe essere importante considerando anche il fatto che i contesti dove si sono sviluppate le PMI, cioè le aree dei distretti industriali, stanno subendo profonde trasformazioni. Infatti, spinte di tipo delocalizzativo e riorganizzazioni interne alle stesse aree distrettuali - con l’affermarsi ad esempio di imprese leader - dovrebbero facilitare la crescita di domanda di figure professionali a più alto valore aggiunto all’interno delle imprese. 13 I processi valutativi possono essere quelli frequentemente utilizzati nella dottrina economico-aziendale, anche se è sconsigliabile applicare metodi troppo aleatori, che tendono a valorizzare a capitale in modo eccessivo un’opera (o servizio) (Cassottana, Pollio, 2003, p. 377). Inoltre si potrebbe prendere a riferimento una prestazione lavorativa di un dipendente, che svolga attività analoghe, oppure il reddito del socio negli anni

17

Al momento della sottoscrizione del capitale sociale da parte del socio, nel patrimonio della

società entra solo l’obbligazione del socio ad effettuare una determinata prestazione nei

confronti della società stessa. Per la società si tratta di un credito: il diritto, nei confronti del

socio, a ricevere, nei tempi e modi pattuiti, l’opera e/o i servizi che questo si obbliga a

prestare alla società. Tuttavia dal punto di vista contabile è possibile iscrivere l’importo

garantito dal socio nell’ “Attivo” dello Stato Patrimoniale (SP) del bilancio della società (voce

B.I.7 “altre” immobilizzazioni immateriali), in questo allineandosi con i principi contabili

nazionali (documento OIC14 24), che prevedono la capitalizzazione di costi che espliciteranno

la loro utilità economica nel tempo in un’ottica ultrannuale (Artina, Castellani, 2005; Traballi,

2005; Odetto, 2004). Una tesi minoritaria - ma di sicuro interesse ai nostri fini - è quella che

vede la capitalizzazione non “direttamente” dell’opera o i servizi promessi dal socio ma il

“valore” degli stessi evidenziato nella garanzia (cauzione) da prestare alla società (Menti,

2006). Infatti secondo questa interpretazione dottrinale la garanzia attualizza il valore della

prestazione d’opera/servizi, dato che è appunto la “copertura” del rischio (di mancata

esecuzione della prestazione) che la società consegue immediatamente, alla sottoscrizione del

capitale (Menti, 2006, p. 65). Tale tesi ha quindi implicazioni anche nella rappresentazione in

bilancio che, anche per maggior chiarezza, prevede una soluzione adeguata nel considerare

tale “valore” come ‘immobilizzazione immateriale’ (B.I.7 dello SP). Tale conferimento si

presenta come un’utilità acquisita dalla società ma che manifesterà benefici in più esercizi

sociali, seguendo le regole dell’ammortamento contabile (Menti, 2006, p. 231).

E’ importante sottolineare che, dal punto di vista fiscale, il costo della prestazione, l’unica

voce imputata al conto economico nell’esempio, è deducibile e concorre alla diminuzione del

risultato economico15. Si avrebbe un effetto analogo se la prestazione fosse imputata tra le

immobilizzazioni, con il costo della prestazione da imputare a Stato Patrimoniale e con la

successiva utilizzazione del conto economico attraverso la voce “ammortamenti” (Cassottana,

Pollio, 2003)16. Inoltre, seguendo l’impostazione della “Commissione Gallo”, incaricata di

passati (se dello stesso tipo) o infine il valore dei ricavi degli “studi di settore” validi ai fini fiscali, con eventuali correzioni (Di Pace, 2003). 14 Organismo Italiano di Contabilità. 15 D’altra parte la prestazione di servizi è una componente positiva di reddito per il conferente la prestazione. Con tale orientamento si è anche pronunciata una risoluzione dell’Agenzia delle Entrate italiana (Andriola, 2005). 16 Chiaramente la fideiussione bancaria, ricevuta a garanzia dell’adempimento del conferimento, è iscritta fuori bilancio, nei conti d’ordine, e non incide sui conti annuali.

18

armonizzare riforma civile e disciplina tributaria, che configurava tale conferimento come

‘tipico’, si potrebbe inoltre evidenziare l’ipotesi di una non imponibilità in capo al conferente

(in contrasto con l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate del marzo 200517), stante sempre

la deducibilità dal reddito imponibile per la società18.

Dal punto di vista dell’efficienza, la riforma su questo punto pare recare due vantaggi. Il

primo, di tipo diretto, riguarda l’ampliamento delle possibilità di conferimento anche di

“prestazioni di fare”19. Il conferimento d’opera e servizi può trovare interessanti forme

applicative nella S.r.l. unipersonale (es. artigiana) oppure nelle Società Miste (capitale

pubblico-privato) (Cassottana, Pollio, 2003). Le società a capitale misto potrebbero quindi

valorizzare anticipatamente a capitale di rischio il servizio industriale affidato al partner

privato, con l’indubbio vantaggio di poter assegnare a quest’ultimo, fin dalla costituzione, una

partecipazione rilevante senza che si renda necessaria alcuna partecipazione di tipo

patrimoniale ad immediata copertura del capitale (spesso di entità nominale non trascurabile).

L’apporto di opere e servizi in fase di costituzione permetterebbe all’ente pubblico di

costituire la dotazione iniziale di capitale idonea all’attività da svolgere. Questa può

rappresentare una soluzione interessante, considerata l’oggettiva difficoltà degli enti locali nel

mettere a disposizione ulteriori risorse finanziarie per tali iniziative. In ogni modo, dal punto

di vista operativo, è comunque preferibile che la società non sia costituita esclusivamente da

conferimenti di opere/servizi, ma che tale forma si accompagni alle altre forme “tradizionali”

(denaro oppure “in natura” e crediti) (Di Pace, 2003).

Va sottolineato l’aspetto di efficienza anche dal punto di vista del lavoro, poiché la possibilità

di valorizzare una propria competenza nel capitale societario dell’impresa è in linea con le

politiche attive del lavoro, in particolare per lo sviluppo dell’auto-imprenditorialità, come del

resto raccomandato da vari anni nelle linee guida per l’occupazione a livello europeo.

17 Risoluzione n. 35 del 16 marzo 2005 – Agenzia delle Entrate. 18 Infatti per evitare il salto d’imposta l’Agenzia delle Entrate può sempre far valere l’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973, in merito alle disposizioni antielusive. Inoltre se la società è in perdita costante e cessa l’attività, il conferente denaro (conferimento ‘tipico’) perde il capitale mentre il conferente opere/servizi “perde” anche l’imposta pagata sul corrispettivo a fronte di nessun arricchimento della sua capacità contributiva (Giordano, 2006). Infatti in termini di capital gain si avrebbe una tassazione sulla plusvalenza in caso di conferimento in denaro e una tassazione sull’intero valore nel caso di conferimento di opere/servizi (Traballi, 2005). 19 Anche in Francia - dal 2003 – il nuovo code de commerce prevede che lo statuto societario della SARL (Societé à Responsabilité Limite) possa stabilire le modalità per la sottoscrizione di quote da liberarsi con prestazioni di servizi (Balzarini, 2005).

19

4 L’aspetto finanziario: vincoli di liquidità e sviluppo delle imprese

Si è ritenuto per molto tempo che uno dei principali freni allo sviluppo delle imprese fosse la

mancanza di capitale. Gli economisti hanno analizzato approfonditamente questo problema,

per capirne le cause e studiarne i possibili rimedi. Già Schumpeter e Knight nel ventesimo

secolo nutrivano convinzioni opposte in proposito. Mentre Knight (1921) riconosceva che nei

mercati dei capitali la domanda era razionata a causa dell’insorgere di problemi di moral

hazard e adverse selection, Schumpeter (1939) vedeva gli imprenditori come i soggetti

economici che sono in grado di sfruttare in maniera efficiente le opportunità offerte da un

mercato dei capitali che in genere è in grado di mettere a disposizione il capitale necessario e

sostenere i rischi dell’attività imprenditoriale.

Data la rilevanza del tema per lo sviluppo delle economie capitalistiche, gli studi economici si

sono concentrati sui problemi del finanziamento delle imprese, sviluppando modelli

complessi che tengono conto dei ruoli delle banche e degli intermediari finanziari.

4.1 Scelta di diventare imprenditore e vincoli di liquidità

La domanda che gli economisti si sono posti, in primo luogo, è se esistano davvero i vincoli

di liquidità per la creazione di un’impresa. I contributi fondamentali in questo campo

riguardano, lo studio della correlazione tra ricchezza familiare e capacità imprenditoriale,

poiché si osserva che solo chi possiede più ricchezza ha maggiori probabilità di fondare

un’impresa.

In teoria, una spiegazione potrebbe essere che chi è più ricco ha migliori capacità

imprenditoriali. Evans e Jovanovic (1989) indagano questa evidenza empirica per capirne le

cause. In realtà, i dati dei due autori rigettano tale ipotesi, a parità di altre caratteristiche degli

individui. La ragione della correlazione positiva, tra ricchezza e risultati di impresa, risiede

secondo loro nell’esistenza di vincoli all’accesso al credito derivanti dall’imperfezione del

mercato dei capitali.

In sostanza il loro ragionamento è il seguente. Ogni individuo razionale, posto di fronte alla

scelta se intraprendere un’attività imprenditoriale o impiegarsi in un’occupazione dipendente,

sceglierà l’attività che gli garantirà il maggior rendimento. Se le sue capacità innate e il suo

capitale umano acquisito, a parità di altre variabili, determinano un flusso di profitti d’impresa

futuri maggiore in valore attuale del flusso di guadagni futuri derivanti dall’occupazione

dipendente sceglierà di diventare imprenditore. In caso contrario, sceglierà il lavoro

20

subordinato. La scelta di fondare un’impresa dipenderà anche dalla disponibilità di un capitale

iniziale che dovrà essere di una certa entità a seconda del tipo di attività da intraprendere. Se

gli individui potranno disporre del capitale iniziale senza alcun vincolo nel mercato del

credito, nel caso non abbiano una sufficiente dotazione di ricchezza familiare chiederanno un

prestito e allocheranno la propria capacità lavorativa in modo efficiente o come imprenditori o

come salariati.

Ciò implica che, se le condizioni che hanno determinato la scelta non cambiano, non si

dovrebbero osservare transizioni dal lavoro dipendente a quello indipendente. Invece, queste

transizioni si osservano con una certa frequenza. L’interpretazione di questa evidenza è,

allora, che chi sperimenta vincoli di liquidità potrà compiere la scelta ottima solamente

qualora il vincolo sul credito accessibile si dovesse allentare, eventualmente lasciando il

lavoro dipendente per creare un’impresa.

Questa teoria è avvalorata dalla correlazione positiva tra disponibilità di liquidità degli

individui e probabilità di diventare imprenditori20.

Blanchflower e Oswald (1998) criticano questa conclusione, obiettando che tale correlazione

è suscettibile di altre interpretazioni. Una è che gli individui più dotati di capacità

imprenditoriali rinunciano al consumo presente per accumulare ricchezza familiare per

fondare un’impresa. L’altra è che la correlazione positiva tra ricchezza familiare e probabilità

di diventare imprenditori nasce dal fatto che i figli tendono ad ereditare le imprese di famiglia.

Anche questa obiezione, tuttavia, è coerente con la spiegazione di Evans e Jovanovic, perché

dimostra che se non ci fossero vincoli al credito non si diventerebbe imprenditori solamente

perché si è ereditata l’impresa di famiglia e quindi non si osserverebbe la correlazione

positiva tra ricchezza della famiglia e nascita delle imprese. Questa è anche l’evidenza che

emerge dagli studi di Holtz-Eakin, Joulafaian e Rosen (1994a e 1994b), che mostrano che

l’entità dell’eredità21 ha un effetto sostanziale sulla probabilità di diventare imprenditore e

20 In altre parole, il lavoratore dipendente marginale (potenzialmente indifferente tra le due opzioni) se improvvisamente potesse accedere a prestiti superiori, deciderebbe di diventare imprenditore, poiché i profitti attesi diventerebbero maggiori del salario atteso. Proprio per la presenza di una correlazione positiva tra probabilità di transizione all’attività imprenditoriale e disponibilità liquide, l’ipotesi di esistenza di vincoli a credito non può essere rigettata. Al contrario, gli stessi dati rigettano l’ipotesi di correlazione positiva tra capacità imprenditoriale e ricchezza, quando si tenga conto di tutte le altre variabili che possono influenzare entrambe. 21 Questi autori, a differenza di Blanchflower e Oswald, si limitano ad inserire nelle specificazioni econometriche il valore del patrimonio ereditato, senza specificare se si tratti di imprese o altro, poiché i dati non glielo consentono.

21

sull’ammontare del capitale iniziale (1994a). Dopo la fondazione, inoltre, se l’eredità è stata

cospicua l’impresa ha più probabilità di sopravvivere e, se sopravvive, i suoi risultati sono

migliori (1994b).

Questi risultati, tuttavia, potrebbero essere la conseguenza di una correlazione spuria. E’

quanto mostrato da Cressy (1996, 1999) in uno studio condotto su un campione di start ups

inglesi. Lo studio mostra che, tenendo conto del capitale umano dell’imprenditore tramite una

nutrita serie di variabili che ne rappresenti i caratteri descritti nei paragrafi precedenti22, la

correlazione tra probabilità di diventare imprenditore e liquidità diventa non significativa. Per

verificare ulteriormente la presenza di vincoli di liquidità, l’autore stima la probabilità di

avere o meno usato un prestito bancario in funzione di variabili legate al capitale umano e alla

ricchezza. Anche in questo caso emerge che il prestito bancario risulta indipendente dalla

ricchezza, qualora si tenga conto del capitale umano dell’imprenditore che lo richiede. In altre

parole, le banche tendono a finanziare in modo piuttosto elastico le imprese, ma le imprese

che richiedono il prestito sono, in genere, già auto-selezionate sulla base del capitale umano

del proprietario (quelle meno dotate di capitale umano sono relativamente meno orientate a

usare questo strumento).

Queste riflessioni hanno implicazioni cruciali per le scelte di politiche economiche di

sostegno alla creazione di imprese. Se è vero che i vincoli di liquidità non incidono in maniera

decisiva, politiche di sussidio pubblico basate su finanziamenti a fondo perduto alle imprese

che dichiarano di non poter ricorrere al sistema bancario si rivelerebbero inadeguate,

favorendo la nascita di imprese che, per mancanza di capacità imprenditoriale, sarebbero

destinate a scomparire rapidamente. Le politiche pubbliche dovrebbero invece incentivare la

formazione e lo sviluppo di capacità imprenditoriale con sussidi elargiti sulla base di criteri

che comprovino la qualità del progetto imprenditoriale, con maggior attenzione alla loro

prevedibile persistenza.

In questo caso, le riforme del diritto societario dovrebbero privilegiare l’aspetto della

trasparenza delle capacità imprenditoriali dei proprietari delle imprese attraverso

l’introduzione di norme che consentano di valutarne la qualità. Strumenti di questo tipo

contribuirebbero, indirettamente, ad aumentare la trasparenza anche nel mercato dei capitali.

22 L’autore dispone di una banca unica sotto questo aspetto. Infatti l’indagine fornisce il livello di istruzione e le votazioni conseguite, le precedenti esperienze lavorative in qualità di dipendenti o di imprenditori, il relativo settore di occupazione, la posizione professionale, il tipo di contratto a tempo pieno o part-time .

22

4.2 Il finanziamento della S.r.l. nella riforma e l’obiettivo della trasparenza

L’attenuazione dei vincoli di liquidità per le imprese, conseguibile attraverso una maggiore

trasparenza delle informazioni e la riduzione delle barriere all’accesso nel mercato dei

capitali, costituisce l’obiettivo prioritario della disciplina del finanziamento.

Il problema dei vincoli di liquidità fronteggiati dalle imprese italiane ha rappresentato un

importantissimo stimolo per l’avvio della riforma, tanto che l’ordinamento delle modalità di

finanziamento costituisce l’asse portante del nuovo impianto normativo. Ciò appare evidente

fin dall’art. 2 della legge delega n.366/2001, che enuncia il principio generale di “perseguire

l’obiettivo prioritario di favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese, anche

attraverso il loro accesso ai mercati interni e internazionali dei capitali”.

La riforma societaria ha come linea guida l’ampliamento, nella disciplina delle S.r.l., della

libertà statutaria, cioè della libera negoziazione fra i soci e fra la società e i terzi investitori (il

cosiddetto free-barganing) (Scano, 2003).

In questo quadro, la fattispecie del finanziamento da parte dei soci (art.2467 c.c.) assume

particolare rilievo, viste le prassi societarie non certo sempre ortodosse. Prima della riforma

non sembrava equo che i soci godessero del diritto al rimborso del proprio finanziamento, che

in definitiva si configurava come il working capital della società (Vassalli, 2004, p. 263)..

Questo, tra l’altro, è uno degli aspetti più rilevanti nei contesti locali di tipo distrettuale per la

stretta interconnessione tra impresa e proprietà.

Tale materia, fino al 2004, era sostanzialmente rimessa alla volontà dei soci che in questo

ambito potevano decidere anche a danno dei terzi. Ciò poteva avvenire poiché i soci-

finanziatori di una S.r.l. a ristretta base sociale, che conoscono per primi il rischio di

insolvenza della società, potevano anticipare gli altri creditori nel rimborso dei loro prestiti23.

Infatti sussiste il realistico pericolo che con il versamento di somme a titolo di finanziamento

nella società, i soci diventino appunto competitors con gli altri creditori nella fase di riparto

delle risorse nei casi d’insolvenza dell’impresa. Tale fase quindi si prestava ad un rischio

sociale notevole dato che sostanzialmente si trasferiva anche sui terzi il rischio d’impresa. Da

ciò la scelta legislativa di far ricadere il fenomeno della sottocapitalizzazione materiale della

società in via principale sui soci, rafforzando così l’interesse pubblico.

23 Un problema di moral hazard in presenza di informazioni nascoste.

23

I finanziamenti dei soci (art. 2467 c.c.) sono previsti in due casi particolari: 1) una situazione

in cui risulti un eccessivo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto; 2) una situazione

finanziaria nella quale sarebbe ragionevole un conferimento (cioè un apporto nel capitale

sociale). Nell’ipotesi di controversia giudiziaria il giudice può avvalersi della consulenza di

un esperto in finanza d’impresa per acquisire un parere tecnico su tale situazione (Salafia,

2005)24. Inoltre in merito al punto 2) suddetto, bisogna mettere in luce il criterio di

“ragionevolezza”, che è legato al concetto di “leva finanziaria”. Infatti è importante

evidenziare se al momento del finanziamento esistevano i margini per sfruttare le potenzialità

della leva finanziaria stessa25. Tale apprezzamento può essere fatto mettendo a confronto

l’onere figurativo del finanziamento con il rendimento medio atteso del capitale investito26

(Favino, 2005, pp. 18-35).

Tale norma ha la finalità di evitare il fenomeno della “sottocapitalizzazione nominale”, che

avviene quando una società è solo formalmente sotto-capitalizzata, ma in realtà dispone di

mezzi per l’esercizio dell’attività. In passato i soci potevano costituirsi un titolo in sede

fallimentare per allinearsi nelle pretese sul capitale residuale con i creditori esterni, ma in tal

modo alteravano una delle regole fondamentali delle società: che il rischio del socio sia

garantito successivamente a quello dei creditori. Inoltre, la dottrina dominante concorda

nell’affermare che l’obbligo di restituzione di cui all’art. 2467 c.c. rappresenta una forma di

revocatoria fallimentare ex lege. Considerando la similitudine con due articoli della legge

24 In merito all’eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto dell’impresa può essere utile fare ricorso alla letteratura economico-aziendale in materia di analisi di bilancio. In particolare facendo riferimento ad alcuni “indici di struttura”: leverage, cioè Fonti (Passivo)/Mezzi propri (Capitale netto), che assume valori critici se maggiore del valore parametrico di 5; “grado di capitalizzazione”, cioè Capitale netto/Debiti finanziari, che assume valori critici per valori inferiori al valore parametrico di 0,6; “Grado di copertura degli oneri finanziari”, cioè EBIT (Earnings Before Interests and Taxes)/Oneri finanziari, che assume valori critici per valori minori del valore parametrico di 2. Certamente l’analisi di questi indicatori non permette né un’analisi esaustiva né quindi una valutazione completa, tuttavia possono essere utili per formulare un giudizio iniziale. 25 Tale apprezzamento può essere fatto, utilizzando la nota formula del ROE (Return on Equity) espressa secondo la formula additivo-moltiplicativa di Modigliani-Miller: ROE = ROI (ROI-ROD) * DBf/CN, con il ROI = MON (Margine Operativo etto)/COIN (Capitale Operativo Investito Netto); ROD = OF (Oneri finanziari)/DBf (Debiti finanziari). Tale relazione mostra che finché il ROI>ROD, si ha l’effetto di “leva finanziaria”, cioè l’impresa incrementa il rendimento dei propri mezzi grazie a questo effetto. Ciò accade fino al raggiungimento di un “punto di rottura”, sotteso da una crescente onerosità del capitale di debito che risulta poi maggiore del rendimento prodotto con ulteriori investimenti (ROI). 26 Per questa finalità è utile anche osservare, secondo la dottrina, un altro indice di bilancio che sintetizza la sostenibilità del debito cioè il rapporto fra EBIT e oneri finanziari (OF). Secondo la società di rating Standard & Poor’s tale indice è considerato tra i migliori per esprimere un giudizio sulla solvibilità di un’impresa. Valori inferiori ad 1 indicano già una situazione d’insolvenza, mentre valori compresi tra 1 e 2 mostrano una situazione di rischio, che deve essere comunque coniugata con altri indici di analisi (Favino, 2005, p. 35).

24

fallimentare, l’art. 65 e il 67, risulta evidente come il legislatore abbia utilizzato un approccio

disincentivante verso i finanziamenti-soci rendendo alto il costo-opportunità di servirsi di tale

strumento in situazioni particolarmente delicate per l’impresa. Così, se da un lato si restringe

il campo di applicazione per la violazione della par condicio creditorum in senso temporale e

qualitativo27, dall’altro si acuisce il dettame dell’art.67 della legge fallimentare che, ai fini

dell’esperibilità dell’azione revocatoria per i pagamenti liquidi ed esigibili, presuppone la

malafede del beneficiario, che conosceva cioè lo stato d’insolvenza del debitore (impresa) al

momento dell’incasso. Infatti, per l’art. 2467 c.c., il curatore fallimentare deve provare

esclusivamente l’intervenuto pagamento a favore del socio nell’anno che precede la sentenza

di fallimento28. Il legislatore presume, quindi, un atteggiamento di tipo free-rider che viene

sanzionato a prescindere. Infatti, nella nuova fattispecie normativa i finanziamenti dei soci

(art. 2467 c.c.) sono “[…] quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un

momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un

eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione

finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”. Quindi,

s’introduce in Italia il principio del corretto finanziamento dell’impresa e i prestiti effettuati

dai soci si connotano negativamente e sono altresì giudicati di tipo “anormale” dal legislatore

(Scano, 2003).

A tali prestiti, che sono effettuati in situazioni di squilibrio patrimoniale della società o di

difficoltà finanziarie, si contrappongono poi i finanziamenti fisiologici, cioè quelli esistenti

senza tali circostanze. E’ chiaro che un prestito a brevissimo termine in cui il socio vuole

risolvere un vincolo di liquidità temporaneo non è qualificabile come finanziamento per

sopperire ad una situazione di thin capitalization29. D’altra parte, nel caso di crisi finanziaria

temporanea, è certamente più ragionevole effettuare un finanziamento piuttosto che un

conferimento dato che siamo di fronte ad un periodo di temporanea mancanza di liquidità

(Vassalli, 2004). Inoltre, a proposito dello squilibrio finanziario, possiamo notare come tale

indicatore sia rinvenibile in una logica normativa piuttosto chiara: i finanziamenti dei soci,

27 Devono infatti essere restituite le somme ricevute a titolo di rimborso del “finanziamento-soci” effettuato nell’anno antecedente la sentenza di fallimento (l’art. 65 rende inefficaci i pagamenti anticipati dalla società nei due anni antecedenti il fallimento). 28 Il socio finanziatore avrà poi il diritto di insinuare nel passivo fallimentare il proprio credito in via postergata rispetto agli altri creditori. 29 Così, uno degli indici di anormalità potrebbe essere configurato nell’elemento temporale, per esempio quando non si prevedono termini per la restituzione o un termine esageratamente lungo.

25

fatti in periodi in cui la società non godeva di merito creditizio da parte degli istituti di

credito, vanno considerati come versamenti in conto capitale e sono così ‘sanzionati’ con la

postergazione del loro rimborso rispetto agli altri crediti (Scano, 2003). Inoltre, i versamenti

informali dei soci non imputati direttamente al capitale nominale (per es. i versamenti in

c/capitale) sono allocabili in bilancio tra le riserve (sono versamenti in larga parte

paragonabili ai conferimenti, se si accerta che sono diretti al perseguimento della causa

societatis). D’altra parte, nel caso si sia di fronte ad una crisi finanziaria di breve periodo, è

certamente meglio un finanziamento da parte dei soci, che funga da finanziamento-ponte, che

non un conferimento. Ciò perché l’obiettivo è di tamponare una situazione contingente,

fornendo liquidità immediata all’impresa. In questo caso non dovrebbe valere il vincolo della

postergazione.

Tale novità si collega con l’introduzione nella normativa fiscale della thin capitalization, uno

strumento anti-elusivo che colpisce le società eccessivamente indebitate e segna un cambio di

atteggiamento del legislatore. La logica è quella di scoraggiare gli apporti in debito da parte

dei soci per favorire i conferimenti in capitale proprio. Si è cercato di limitare il ricorso

all’esposizione debitoria verso i soci della società sanzionando anche a livello tributario tale

situazione. In armonia con il legislatore civile, anche quello fiscale presume l’atteggiamento

free-rider del socio-finanziatore in determinate circostanze. Infatti, prima della riforma

tributaria (D.Lgs. 344/03), si prevedeva un’integrale deducibilità degli interessi passivi dal

reddito imponibile, introducendo così un vantaggio del sistema debt-financing e frapponendo

un ostacolo allo sviluppo del mercato dei capitali in Italia. Il fisco, al fine di sanzionare tali

apporti, considera indeducibili gli interessi passivi se il rapporto tra l’ammontare complessivo

dei finanziamenti concessi e/o garantiti dal socio qualificato (o garantiti dagli stessi) e la

quota di patrimonio netto contabile di pertinenza del socio medesimo supera, in qualsiasi

momento nell’esercizio, il rapporto di quattro a uno. Oltre questa soglia (non trascurabile) si

presume che il socio stia utilizzando il debito in modo non fisiologico.

Le PMI, che caratterizzano il sistema produttivo italiano, si segnalano spesso, come abbiamo

detto, per un modello di controllo familiare. Tale situazione si riflette in uno scarso utilizzo

del mercato dei capitali e la crescita è spesso affidata a strumenti peculiari come il gruppo

piramidale. Il ridotto grado di apertura al mercato condiziona la possibilità di ripartire il

rischio imprenditoriale, di aumentare le fonti di finanziamento e le occasioni di crescita delle

imprese. In tale contesto, le riforme del diritto societario e del diritto tributario si prefiggono

26

di stimolare un’evoluzione efficiente della governance delle imprese italiane. Tale spinta si

scontra con una classe di piccoli imprenditori che, pur essendo l’asse portante dell’economia

distrettuale italiana, sono di fronte ad una scelta fondamentale non solo per per le singole

imprese: il ripensamento della struttura imprenditoriale basata sulle reti d’impresa che hanno

portato al successo dei sistemi economici del made in Italy sui mercati internazionali

(Lorenzini, Petretto, 2004)..Oggi, sotto la forte pressione competitiva, le imprese che si

basavano su produzioni caratterizzate da basso valore aggiunto e specializzate nei settori

tradizionali del made in Italy (per es. il tessile-abbigliamento) hanno bisogno di utilizzare un

diverso approccio alla finanza aziendale. Storicamente nella piccola e media impresa italiana

si accedeva e si accede al credito grazie sia alle attività patrimoniali dell’impresa (asset based

lending) che alle garanzie patrimoniali personali dei soci. Tuttavia, anche grazie ai nuovi

accordi internazionali detti di “Basilea 2”, le politiche del mercato creditizio si muovono

verso un concetto nuovo: il “merito di credito”che sposta l’attenzione sulla profittabilità attesa

(cash-flow based lending) (Onida, 2004, p. 125). Tale approccio è coerente con la ricerca di

trasparenza nella redazione del bilancio delle aziende, rendendo sempre più “conveniente”

utilizzare tale strumento informativo come punto di partenza per analisi più approfondite della

situazione economico-finanziaria dell’impresa. D’altra parte l’utilizzo del credito a breve

termine è una forma di finanziamento più adatto ad imprese statiche ed imitative, mentre il

ricorso al mercato dei capitali meglio si presta ad imprese innovative e con progetti

maggiormente ambiziosi e rischiosi.

4.3 Il sistema finanziario e le banche

Lo sviluppo del sistema finanziario è legato alla crescita del sistema produttivo anche se la

relazione di causalità è difficile da stabilire, visto che mercati finanziari più evoluti potrebbero

essere la conseguenza di sistemi economici più dinamici e viceversa. Ciò che la letteratura

macroeconomica mostra con certezza, infatti, è solamente che c’è una relazione positiva tra la

creazione di imprese, il loro numero sul territorio e il grado di sviluppo del sistema

finanziario, specialmente a livello locale. Lo studio di Rajan e Zingales (1998), per esempio,

mostra, sulla base di evidenza empirica relativa a un grande numero di paesi, che lo sviluppo

dei mercati finanziari, riducendo i costi del ricorso al debito bancario da parte delle imprese,

facilita la crescita economica. Anche se gli autori sostengono di aver dimostrato che non si

tratta di una correlazione spuria e che la causalità va nella direzione mercati finanziari-crescita

27

economica, i dati macroeconomici che usano e il grande numero di paesi messi a confronto

non consentono di sottoporre a verifiche più approfondite tale relazione di causalità.

Usando dati microeconomici italiani, Guiso, Sapienza e Zingales (2004) si propongono di

indagare più a fondo la relazione di causalità. A tal fine, costruiscono un indicatore dello

sviluppo finanziario locale30 e mostrano che un maggiore sviluppo aumenta la probabilità di

start-up, aumenta la concorrenza e promuove la crescita. Anche all’interno di un mercato

fortemente integrato dal punto di vista giuridico e della regolamentazione bancaria, come

quello italiano, il grado di sviluppo finanziario locale si dimostra significativamente variabile

da zona a zona, con una distribuzione che rispecchia il divario fra Nord e Sud. I loro risultati

mostrano che la probabilità di fondare un’impresa aumenta di circa sei punti percentuali dalla

zona con il più basso indice di sviluppo finanziario alla zona con il più alto, dove gli

imprenditori sono, in media, cinque anni più giovani.

Per superare il problema dell’endogeneità, cioè che tale correlazione sia dovuta al fatto che la

domanda di fondi generi la propria offerta, lo studio propone l’uso di una variabile esogena

che spieghi il grado di sviluppo finanziario negli anni ’90 in Italia senza esser influenzata dal

grado di sviluppo economico. Si tratta della struttura finanziaria determinatasi dopo

l’introduzione della legge bancaria del 1936, che gli autori dimostrano non essere correlata al

grado di sviluppo locale31 per una serie di ragioni esogene a meccanismi puramente

economici, fondamentalmente legate all’elevato accentramento statale della regolamentazione

economica durante il regime fascista32. Questi risultati mostrano, ancora una volta, come le

regole giuridiche abbiano conseguenze economiche anche nel lunghissimo periodo.

Le imprese, si pongono il problema delle scelte di finanziamento e della struttura

dell’indebitamento. Nel caso italiano, le imprese seguono un ordine gerarchico nelle scelte di

finanziamento (il cosiddetto “pecking order model”33). In primo luogo, per finanziare nuovi

investimenti fanno affidamento sulla ricchezza accumulata nel tempo, in secondo luogo

ricorrono alle banche, in terzo luogo a prestiti obbligazionari a privati e, solo da ultimo,

30 Per locale si intende il livello provinciale. 31 Si veda il paragrafo IIIA 32 La misura dello sviluppo finanziario è ricavata usando le informazioni contenute nell’indagine suo bilanci delle famiglie italiane circa l’accettazione o meno di una richiesta di mutuo. La struttura finanziaria del 1936 è invece approssimata dal numero di filiali presenti in una regione nel 1936, la proprietà nazionale o locale della banca, il numero e il tipo di banche (di risparmio e cooperative) . 33 Myers (1984).

28

all’emissione di azioni. Se questo non è il modello seguito prevalentemente dalle grandi

imprese34, lo è prevalentemente dalle PMI.

Queste considerazioni conducono naturalmente ad estendere l’analisi alle determinanti delle

scelte di finanziamento tra prestiti bancari e debito collocato direttamente presso i privati sia

dal lato delle imprese sia dal lato delle banche. Il famoso modello di Diamond (1991) tiene

conto dei costi di sorveglianza (monitoring) sostenuti dalle banche erogatrici e della

“reputazione” delle imprese. Se le imprese sono ordinate in termini di rating, quelle più alte in

graduatoria avranno maggior probabilità di ricevere prestiti bancari senza essere sorvegliate,

poiché se si comportassero scorrettamente, il diffondersi della notizia della loro insolvenza

danneggerebbe la reputazione acquisita nel tempo generando grosse perdite. Per gli stessi

motivi tali imprese ricorrono anche ai prestiti obbligazionari. In questo caso le banche non

hanno necessità di sorvegliarle per prevenire comportamenti scorretti. Le imprese nel middle

rating ricorreranno più frequentemente al prestito bancario che al quello obbligazionario e

saranno monitorate. Le meno affidabili, low rated, non avranno niente da perdere se si

riveleranno insolventi e quindi il monitoraggio è utile solo al momento di escludere dal

prestito le peggiori, ma non conviene sostenerne il costo per disincentivare i cattivi

comportamenti di coloro che il prestito l’hanno già ricevuto. Tali imprese non ricorreranno

mai al prestito obbligazionario.

4.4 L’ingresso nel sistema finanziario dei titoli di debito per le S.r.l.

La possibilità di poter aumentare, per la S.r.l., le fonti di finanziamento permettendole di

emettere titoli di debito35 (obbligazioni) rientra nel più ampio contesto che vede nello

sviluppo di una finanza d’impresa più strutturata uno dei presupposti della crescita e del

rafforzamento sui mercati delle imprese. La capacità di attingere alle varie fonti di credito è di

norma direttamente correlata all’entità del capitale proprio della società dato che è su questo

che i creditori parametrano la garanzia. Il rapporto tra indebitamento e capitale proprio misura

34 Si vedano in proposito Fama e French, 2005. Il loro modello mostra che le società per azioni non seguono il “pecking order”, ma calcolano il “trade-off” tra costi e benefici di un dollaro addizionale di debito. Tra i benefici va inclusa, per esempio, la deduzione fiscale degli interessi e fra i costi il rischio di fallimento e i potenziali conflitti tra azionisti e possessori di obbligazioni della società. 35 La locuzione ‘titoli di debito’ è estranea al codice civile ma trae spunto dall’art. 1 comma 2 del T.U.F. (D.Lgs. n.58/1998), che menziona tra gli strumenti finanziari “le obbligazioni, i titoli di Stato e gli altri titoli di debito negoziabili sul mercato dei capitali”.

29

quindi il livello d’indebitamento dell’impresa. Tale rapporto, secondo la teoria tradizionale di

finanza aziendale, incide sul valore dell’impresa.

A conclusioni diverse, ma sotto ipotesi differenti, giunge il modello di Modigliani e Miller

(1958). I due economisti mostrano che, in presenza di un mercato perfetto, il valore

dell’impresa non è influenzato dalle scelte di finanziamento. Le ipotesi su cui si basa tale

teoria sono numerose: inesistenza di imposte societarie e personali; possibilità da parte delle

imprese e delle persone di ricorrere all’indebitamento senza limiti e con lo stesso tasso di

interesse; conoscenza da parte degli investitori della redditività futura dell’impresa;

suddivisione delle imprese per classi omogenee di rischio; applicazione agli investitori delle

stesse condizioni delle imprese. Secondo l’approccio Modiglioni-Miller, il valore dell’impresa

è dato dalla redditività e dal rischio insito nell’attività di impresa; in questo caso il passivo

rappresenta solo la ripartizione tra capitale proprio e mezzi di terzi36.

Il significato di tale affermazione è che le imprese possono trarre vantaggio

dall’indebitamento, dal momento che possono dedurre dal pagamento delle imposte sugli utili

i pagamenti di interessi, così che l’indebitamento riduce il livello di tassazione; per contro, i

pagamenti di dividendi agli azionisti, che costituiscono interamente il costo del capitale per

un’impresa che non ha debito, non sono di norma deducibili ai fini fiscali. La conclusione

dell’estensione del teorema originario all’ipotesi di un’economia con tasse è che le imprese

traggono un vantaggio, in termini di imposizione fiscale, dal debito. In assenza di svantaggi a

controbilanciare il guadagno fiscale derivante dal debito, le imprese dovrebbero finanziare i

loro investimenti esclusivamente tramite indebitamento. Naturalmente quest’ultima

conclusione non è realistica, da un punto di vista positivo - in genere, le imprese fanno anche

ricorso al capitale di rischio, o equity - né da un punto di vista normativo - sarebbe rischioso

per le imprese indebitarsi oltre misura. Modigliani-Miller, consci del fatto che il loro modello

prestava il fianco a tali critiche, sottolineano come un aumento del debito possa innescare

inevitabilmente dei costi, derivanti ad esempio da un aumento parallelo della probabilità di

36 Le due proposizioni principali sono: 1) “il valore di mercato di qualsiasi impresa è indipendente dalla sua struttura del capitale e si ottiene capitalizzando il suo rendimento atteso al tasso ρ k appropriato per la sua classe”, in termini matematici quindi avremo Vj (valore dell’impresa ‘j’ della classe ‘k’) ≡ Xj/ρ k, con Xj che rappresenta il profitto atteso; 2) “il tasso di rendimento atteso di una quota azionaria è uguale al tasso di capitalizzazione ρ k appropriato per un puro flusso di rendimenti azionari nella stessa classe, più un premio correlato al rischio finanziario e uguale al rapporto indebitamento/capitale di rischio moltiplicato per il divario /ρ k e ‘r’ (tasso di interesse), in termini matematici avremo così ij (saggio di rendimento atteso, impresa j della classe k) = ρ k + (ρ k - r)*Dj/Sj (Modigliani, Miller, 1958).

30

insolvenza dell’impresa, che andranno a bilanciare i vantaggi fiscali. La soluzione del trade-

off tra vantaggio fiscale e svantaggio derivante dalla probabilità di insolvenza determinerà una

struttura ottimale del capitale. Questo risultato altro non è che la prima espressione di una

serie di teorie della struttura ottimale del capitale che vanno sotto il nome comune di teorie

del trade-off.

Tale approccio teorico è un importante riferimento per l’analisi economica dei cambiamenti

apportati dalla riforma del diritto societario in Italia.

Al fine di fornire alle PMI uno strumento finanziario ulteriore rispetto alle tradizionali forme

di approvvigionamento finanziario, l’art. 2483 c.c. introduce la possibilità, per le S.r.l., di

emettere titoli di debito ove ciò sia previsto dall’atto costitutivo. In tal caso, attribuita la

competenza ai soci o agli amministratori, si dovranno determinare gli eventuali limiti, le

modalità e le maggiorazioni necessarie per la decisione. E’ lasciata all’autonomia statutaria la

regolamentazione dell’emissione di tali strumenti di indebitamento finanziario. Non sono

infatti fissati dei limiti quantitativi ma sarebbero una cautela opportuna, che è prevista inoltre

per le S.p.a. (art. 2412 c.c.). Inoltre parte della dottrina auspica, richiamando l’art. 2411 c.c.

(S.p.a.), che si fissino “parametri oggettivi” così da rendere maggiormente trasparente il

rendimento dei titoli in linea con l’andamento economico della società37 (D’Ambrosio, 2003).

Il bypass con il mercato è rappresentato dall’obbligatoria interposizione di un soggetto capace

di valutare la società emittente e la redditività del prestito emesso ed inoltre di fornire

adeguata garanzia verso il mercato in caso di circolazione dei titoli di debito.

D’altra parte nei modelli di governance tipici delle PMI italiane si ha un ridotto accesso al

mercato dei capitali che, di conseguenza, condiziona la possibilità di ripartire il rischio

imprenditoriale, di aumentare le fonti di finanziamento e le occasioni di crescita dell’impresa.

La possibilità di emettere titoli di debito da parte delle S.r.l. rappresenta un forte elemento di

discontinuità con il vecchio dettame normativo che ne vietavano tassativamente l’utilizzo.

Tale mutamento di atteggiamento avviene in ragione del fatto che si possa trovare un terzo

importante canale di approvvigionamento finanziario alternativo alla banca e

all’autofinanziamento.

37 In tal senso sarebbero utili non solo parametri di tipo reddituale (reddito netto) ma anche di tipo patrimoniale, come l’indebitamento netto (Oneri finanziari/Debiti finanziari) o il rapporto “debt/equity” (Debiti/Capitale netto) (Giannelli, 2006, p. 55).

31

L’impresa può costruire una linea di credito misurata sulle proprie esigenze, utilizzando per

esempio un titolo di debito a medio o lungo termine per gli investimenti aziendali,

eventualmente quelli che sul mercato hanno un costo più elevato come quelli in

immobilizzazioni immateriali. Inoltre tale strumento può risultare utile per le operazioni di

consolidamento dei debiti a breve termine: in tal modo si rende meno “pesante” il canale di

approvvigionamento nel breve periodo, si riducono gli oneri finanziari e si aumenta il livello

di pianificazione interna38.

I titoli di debito possono essere collocati sul mercato solo attraverso un soggetto

qualificato (intermediari autorizzati, società di gestione del risparmio, SICAV, fondi pensione

e le compagnie di assicurazione), che si assume totalmente i rischi d’insolvenza e quindi sarà

particolarmente incentivato a valutare effettivamente l’operazione e l’impresa in generale. Le

premesse di tipo gestionale che devono essere soddisfatte sono nella maggioranza dei casi:

l’utile che deve risultare dai bilanci chiusi nell’ultimo triennio ed inoltre dovrà sussistere una

garanzia del 50% del valore complessivo del titolo emesso. L’effettivo vantaggio economico

di un’operazione di questo tipo risiede nell’interazione tra i tre livelli di tasso d’interesse

presenti sul mercato dei capitali: considerando, ad esempio, un tasso medio sul debito

bancario del 5%, un tasso attivo per un risparmiatore del 2%, e infine un tasso d’interesse per

l’emissione di titoli di debito pari al 3,5% - che figurativamente si posizione in via

equidistante dai due tassi – si rende profittevole ed efficiente l’operazione per i soggetti

interessati dato che si realizza un “guadagno” sia per l’emittente che per il risparmiatore

(D’Agostino, 2006).

Dal punto di vista dell’evidenza empirica, a luglio 2005, tuttavia, su un totale di 1.046.139

S.r.l. solo 81.192 (7,76%) avevano introdotto la previsione statutaria che fa riferimento alla

possibilità di emissione di titoli di debito, che tuttavia rappresenta una cifra non trascurabile

vista ancora l’incertezza normativa verso tali forme di finanziamento. In ogni caso,

l’emissione di prestiti obbligazionari è un evento non molto frequente nel panorama

finanziario italiano. La possibilità concessa alle S.r.l. dal 2004 non appare di facile

praticabilità, dato che si tratta di un’emissione di prestiti di ridotta dimensione e quindi

contraddistinta da una ridotta liquidabilità e onerosità per valutarne il relativo merito di

38 Il “titolo di debito a breve termine” può essere utile per avviare un processo ciclico di emissioni su pagamenti a medio termine, anticipando l’incasso delle fatture, dato che in alcuni settori i pagamenti arrivano anche a 180 gg.

32

credito. Vista la garanzia di solvenza per la successiva circolazione del titolo, ciò disincentiva

l’intermediario da accettare tale ruolo. Un approccio alternativo potrebbe essere quello di

tutelare l’investitore non qualificato rendendo obbligatoria la predisposizione di un prospetto

informativo. Ciò faciliterebbe la predisposizione di regole più trasparenti per ciò che riguarda

la remunerazione del titolo per gli investitori (es. obbligazionisti) (D’Ambrosio, 2003).

4.5 Le piccole e medie imprese e il “ relationship lending”

Nel sistema finanziario hanno un peso rilevante per le decisioni di finanziamento delle

PMI i rapporti diretti intercorrenti tra banche e clienti, fenomeno di recente interesse indicato

con i termini di “relationship lending”39. Rapporti continuativi fra debitore (l’impresa) e

creditore (la banca) permettono di accumulare una serie di informazioni sulla performance

dell’impresa che per la banca servono a definire caso per caso l’entità del finanziamento,

l’interesse da applicare, le garanzie da richiedere e altre condizioni del prestito.

La prima domanda che si sono posti gli studi su questo tema è se queste relazioni aumentino

la disponibilità e l’entità del credito erogato, allentando così il vincolo finanziario. L’area di

interesse prevalente è il credito alle piccole imprese, al quale il relationship lending è rivolto

per la maggior parte. Il credito alle piccole imprese, come mostrato da Diamond, implica

elevati costi di monitoraggio che possono essere ridotti solamente dalla vicinanza geografica e

la conoscenza reciproca derivante da rapporti frequenti. Gli studi mostrano che, per motivi

analoghi, sono soprattutto banche piccole ad essere interessate da questo tipo di rapporti

(Berger e Udell, 1995 e 2002). L’evidenza mostra che le relazioni aumentano la disponibilità

di credito in alcuni casi e riducono i tassi sui prestiti in altri. Comunque, i risultati non sono

interpretabili in maniera univoca e, anche se sembra assodato che il “relationship lending”

faciliti il credito alle piccole imprese, non è chiaro se ciò contribuisca positivamente alla

crescita economica.

Il relationship lending non è tipico di sistemi finanziari di piccole economie o dove

prevalgono le PMI o dove i mercati sono meno trasparenti. Uno studio di Scott (2004) mostra

come il fenomeno sia diffuso anche nell’economia statunitense, nelle relazioni tra SME e le

cosiddette community banks e propone un indicatore dell’informazione prodotta in questi

rapporti. Fra le caratteristiche rilevanti per l’analisi, la conoscenza della banca circa le

39 Per una rassegna si veda Elyasiani e Goldberg (2004)

33

caratteristiche dell’impresa, la dimensione della banca, il grado di concorrenza. Interessante il

risultato che mostra che l’entità del credito che si forma attraverso il relationship lending

dipende molto più dal turnover del responsabile del credito all’interno della banca che dalla

lunghezza del rapporto instaurato fra banca e impresa, mettendo in evidenza che questa è la

figura chiave sulla quale si basa l’intero meccanismo. Una domanda alla quale resta da

rispondere è se le imprese siano disponibili a sostenere i costi necessari per produrre la soft

information, quell’informazione di base che comunque sarà sempre più necessaria alla banca

in un sistema finanziario evoluto e che implica il calcolo di indicatori che comunque

permettano di inserire l’impresa in una graduatoria (rating).

Tale considerazione risulta tanto più importante se pensiamo che un ulteriore forma di

approvvigionamento finanziario potrebbe seguire il canale dell’emissione di strumenti di tipo

“collettivo” che ad esempio garantiscano la cartolarizzazione di crediti concessi da una banca

ad un insieme di imprese riconducibili ad una determinata area omogenea40.. Questo anche per

attenuare i profili di rischio del mercato, principalmente le banche ed in generale gli

investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale, che infatti garantiscono la solvenza

del titolo negoziato se chi acquista non è a sua volta investitore professionale. La gravosità di

tale ipotesi potrebbe indirizzare il comportamento degli investitori professionali ad intervenire

solo in casi dove c’è forte interesse alla sopravvivenza dell’impresa41.

40 Ci potrebbe essere una società-veicolo che emette un prestito rilevante e ad elevato merito di credito ed una tranche ridotta e con maggiori rischi da collocarsi presso il Confidi territoriale. 41 In tal senso si possono citare gli esempi di Unicredit e San Paolo IMI che hanno emesso rispettivamente nel 2004 e nel 2006 dei bond di distretto. In particolare, il recentissimo caso di San Paolo IMI è innovativo: con tale accordo si vuole appunto favorire l’accesso al credito a medio/lungo termine alle imprese associate a Neafidi e Unionfidi, per programmi di spesa d’investimento o per allungare la vita media del debito finanziario. Il rischio di credito legato alla garanzia del consorzio potrà poi essere ceduto al mercato dei capitali attraverso un’operazione di cartolarizzazione sintetica, che consentirà l’emissione di nuovi bond di distretto, che Banca San Paolo IMI collocherà agli investitori istituzionali. Diverso è il caso dell’accordo tra Regione Toscana, Gruppo MPS e Fidi Toscana, che vede per la prima volta, tra i players dell’operazione, appunto la Regione. I finanziamenti, di tipo materiale e immateriale, che potranno essere cartolarizzati, ed usufruiranno della garanzia a primo rischio pari all’80% della Regione tramite Fidi Toscana. Quest’ultima valuterà le richieste e presterà garanzia sui finanziamenti (fino all’80%) grazie ad uno specifico fondo pubblico di garanzia istituito dalla Regione dotato di 12,5 milioni di Euro. I finanziamenti hanno la finalità di canalizzare risorse verso investimenti di tipo strategico (crescita dimensionale, internazionalizzazione, ICT, etc.) e prevederanno spread definiti sulla base del merito creditizio attribuite alle singole aziende (ancora ritorna la necessità di colmare adeguatamente i gap informativi). In tal senso si potrebbe sviluppare quindi l’accesso indiretto al mercato dei capitali usufruendo di una nuova forma alternativa di finanziamento. Tale esempio segue operativamente la disposizione della legge finanziaria 2006 che all’art. 368 detta specifiche disposizioni di tipo finanziario per i distretti produttivi italiani, in particolare facendo riferimento ad operazioni

34

5 Evidenza empirica: un quadro di riferimento

Innanzitutto possiamo notare come, nello scenario imprenditoriale italiano a livello di società

di capitali, la forma giuridica della S.r.l. sia predominante. Alla fine del 2005 tale tipologia

societaria si attesta sul 94,6%. Considerando i dati dalla fine del 2003 alla fine dell’anno 2005

si nota l’incremento delle S.r.l. e, in particolare, delle S.r.l. “a socio unico”, aumentate del

65% circa. L’aumento delle società di capitali appare fisiologico e non sistemico, ma è

l’espansione delle S.r.l. unipersonali che colpisce l’attenzione degli analisti.

Tab.1 Distribuzione delle imprese per forma giuridica.

Tipologia 31.12.2003 31.12.2005 Var. % Società di Capitali 1.019.407 1.123.694 +10,23 S.a.p.a. 201 172 -14,43 S.p.A. (unico socio) - 5.487 - S.p.A. 60.613 54.852 -9,50 S.r.l. 913.312 988.557 +8,24 S.r.l. (unico socio) 45.281 74.625 +64,81 Società di persone 1.225.899 1.248.342 +1,83 S.a.s. 491.539 517.160 +5,21 S.s. 67.203 68.754 +2,31 S.n.c. 648.260 644.789 -0,54 Altri tipi 18.897 17.639 -6,6 Imprese individuali 3.459.010 3.504.631 +1,32 Soc.Cooperative 148.117 146.395 -1,16 Altre forme 45.248 49.962 -10,42

Fonte: Il Sole24Ore (2006). Eccetto le forme di impresa dove di fatto non ci sono rischi imprenditoriali e non si sente

l’esigenza di proteggere i patrimoni personali dei soci dalle disavventure societarie, nei casi

restanti la propensione al rischio, all’investimento e la capacità di fare impresa sono stimolate

tanto più quanto l’imprenditore sia assicurato del fatto che, nel peggiore dei casi, perderà al

massimo quanto ha investito, senza la responsabilità patrimoniale personale. La nuova

normativa societaria amplia l’autonomia statutaria dei soci delle S.r.l., le rende più flessibili e

quindi maggiormente appetibili rispetto alle società di persone, dato che allo stesso tempo si

limita la responsabilità dei soci ai conferimenti. Il fatto che il numero di S.r.l. a socio unico

sia aumentato può leggersi anche in combinato alla riforma del diritto tributario, infatti si può

adesso scegliere di tassare direttamente in capo al socio la produzione degli utili (c.d.

“trasparenza fiscale”) che crea un’altra categoria di contribuenti idealmente posti tra le società

di cartolarizzazione di crediti concessi da una pluralità di banche o intermediari finanziari alle imprese facenti

35

di persone e le società di capitali a responsabilità limitata ma con ampia base proprietaria. La

convenienza è data dal fatto che si può applicare la minore aliquota del 23% sul reddito

imponibile societario invece del 33%, se non siamo in regime di trasparenza.

6 Conclusioni

Il ruolo delle riforme che riguardano l’attività imprenditoriale è centrale nel processo di

crescita economica in presenza di fallimenti del mercato. Poiché l’impresa si fonda sul

capitale umano e le risorse finanziarie, ogni riforma ha l’obiettivo di aumentare l’efficienza

del mercato dei beni, del lavoro e dei capitali con misure che facilitino la trasparenza e la

circolazione delle informazioni e l’incontro della domanda e dell’offerta nei vari settori.

Com’è noto, un processo di crescita si fonda anche sulla “distruzione creativa”, che permette

alle nuove idee di propagarsi facendo espandere settori nuovi e non tradizionali di

un’economia. La politica economica, nell’assolvere il compito di regolare e favorire questo

processo, si trova di solito davanti all’alternativa di operare riforme drastiche delle istituzioni

o di aggiustare e migliorare le istituzioni già esistenti. Quale sia l’alternativa da scegliere,

dipende dal contesto economico di partenza. In un’economia in cui i settori nuovi ristagnino,

quando i costi di inserimento sono fronteggiabili, si rende vantaggioso un deciso intervento

regolatore che favorisca l’ingresso di imprese nei settori emergenti, accelerando i necessari

cambiamenti strutturali che altrimenti sarebbero troppo lenti. Dove invece i costi di

inserimento in settori emergenti siano già contenuti o troppo alti, si consiglia un intervento di

aggiustamento delle regole esistenti (policy tinkering), sufficiente a generare nuova

imprenditorialità se i costi sono contenuti, necessario se i costi di ingresso sono troppo alti. La

recente riforma del diritto delle imprese ha seguito l’approccio del policy tinkering,

introducendo una serie di cambiamenti, soprattutto relativi all’aspetto finanziario, in un

contesto istituzionale che è rimasto sostanzialmente immutato. Infatti, a nostro avviso, la

riforma, pur in linea con alcuni spunti di analisi economica, non ha portato, per adesso, ad

applicazioni rilevanti e quindi a cambiamenti apprezzabili nel contesto economico italiano, in

particolare nel panorama di governance delle PMI.

parte del distretto e ceduti ad un’unica società cessionaria.

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L’aspetto più innovativo riguarda la possibilità di conferimento di prestazioni d’opera nel

patrimonio delle imprese. Ciò implica la necessità di una valutazione del rendimento del

capitale umano investito nella prestazione, problema che potrebbe essere risolto con tecniche

econometriche. Un’ulteriore implicazione della norma potrebbe essere la necessità di

introdurre, per il rating delle imprese, oltre ai tradizionali indicatori di bilancio, anche degli

indici di rendimento del capitale umano.

Nonostante il contenuto potenzialmente innovativo di questo cambiamento, l’incremento delle

S.r.l. formate da una sola persona, unico effetto macroscopico della riforma, non è, per il

momento, sufficiente ad affermare che si stia avviando un cambiamento strutturale.

Il problema del ristagno dell’attuale sistema economico italiano, che ancora non decolla verso

settori nuovi che ne consentirebbero una crescita tangibile nel breve periodo, non sembra

possa essere superato senza riforme che derivino da scelte di politica economica coraggiose.

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