Siddharta- Cap.4
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RISVEGLIO
Quando Siddharta lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, il
Perfetto, e nel quale rimaneva Govinda , allora egli sentì che in questo
boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e si
separava da lui. Su questa sensazione, che lo riempiva tutto, egli venne
riflettendo mentre s’allontanava a lento passo. Profondamente vi pensò,
come attraverso un’acqua profonda si lasciò calare fino al fondo di
questa sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, poiché
conoscere le cause ultime, questo appunto è pensare- cosi gli pareva- e
solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno
perdute, ma al contrario si fanno essenziali e cominciano a irradiare ciò
che in esse è contenuto.
Rifletteva Siddharta nel suo lento cammino. Stabilì che non era più un
giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l’aveva
abbandonato, cosi come il serpente viene abbandonato dalla sua
vecchia pelle, che una cosa non era più presente in lui, che l’aveva
accompagnato durante tutta la sua giovinezza, e gli era appartenuta:il
desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine. L’ultimo maestro che
era apparso sulla sua strada, il sommo e sapientissimo maestro, il più
santo di tutti, il Buddha, anche questo egli l’aveva abbandonato, aveva
dovuto separarsi da lui, non aveva potuto accogliere la sua dottrina.
Sempre più lento andava il pensieroso e si chiedeva frattanto: “Ma che è
dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e
che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non riusciti a insegnarti?”. Ed
egli trovò: “L’Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza.
L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non
potendo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire
o nascondermi davanti a lui. In verità, nessuna cosa al mondo ha tanto
occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma ch’io vivo,
d’essere uno, distinto e separato da tutti gli altri, d’essere Siddharta! E
su nessuna cosa al mondo so tanto poco quanto su di me, Siddharta!”.
Colpito da questo pensiero si arrestò improvvisamente nel suo lento
cammino meditativo, e tosto da questo pensiero ne balzò fuori un altro,
che suonava: “Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia
rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa
fondamentale, una sola: io avevo paura di me, prendevo fuga davanti
me stesso! L’Atman cercavo, Brahma cercavo, volevo smembrare e
scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il
nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma
proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso”.
Siddharta schiuse gli occhi e si guardò intorno, un sorriso gli illuminò il
volto, e un profondo sentimento, come di risveglio da lunghi sogni, lo
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percorse fino alla punta dei piedi. E appena si rimise in cammino,
correva in fretta, come un uomo che sa quel che ha da fare.
“Oh!” pensava respirando profondamente “ora Siddharta non me lo
voglio più lasciar scappare! Basta! Cominciare il mio pensiero e la mia
vita con l’Atman e col dolore del mondo! Basta! Uccidermi e
smembrarmi, per scoprire un segreto dietro le rovine! Non sarà più il
Yoga-Veda a istruirmi, né l’Atharva-Veda, né gli asceti, né alcuna
dottrina. Dal mio stesso Io voglio andare a scuola, voglio conoscermi,
voglio svelare quel mistero che ha nome Siddharta”.
Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il mondo. Bello era
il mondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là
giallo, più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come il fiumi,
immobili stavano il bosco e la montagna, tutto nello, tutto enigmatico e
magico, e in mezzo v’era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che
conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto questo giallo e azzurro, fiume e
bosco penetrava per la prima volta attraverso la vista in Siddharta. Non
era più l’incantesimo di Mara, il velo di Maja, non era più insensata e
accidentale molteplicità del mondo del mondo delle apparenze,
spregevole agli occhi del Brahmino, che, tutto dedito ai suoi profondi
pensieri, scarta la molteplicità e solo dell’unità va in cerca. L’azzurro era
azzurro, il fiume era fiume, e anche se nell’azzurro e nel fiume vivevan
nascosti come il Siddharta l’uno e il divino, tale era appunto la natura e
il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui
Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose erano il qualche cosa oltre e
dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto.
“Come sono stato sordo e ottuso!” e pensava, e camminava intanto
rapidamente. “Quand’uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il
senso, non disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente
e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia, li ama, lettera per
lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del
proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore di un significato
congetturato il precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle
apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni
accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, no
sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta”.
Mentre rivolgeva tali pensieri, si fermò tuttavia improvvisamente, come
un serpente fosse apparso sulla strada davanti i suoi piedi.
Poiché improvvisamente anche questo gli era rivelato: egli, nella realtà
si trovava come un risvegliato o come un nuovo nato, doveva
ricominciare interamente la sua vita. Ancora il quello stesso mattino,
quando aveva lasciato Jetavana, boschetto di quel sublime, e già che era
in atto di ridestarsi, già era sulla strada che riconduce a se stesso, era
stata sua intenzione e gli era apparso perfettamente ovvio e naturale,
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dopo gli anni del suo noviziato ascetico, far ritorno a casa sua, da suo
padre. Ma ora per la prima volta, proprio in quell’istante in cui egli s’era
destato come se un serpente giacesse sulla strada, s’era destata in lui
anche questa idea: “Io non sono più quel che ero, non sono più un
eremita, non sono più un prete, non sono più Brahmino. Che dunque
vado a fare a casa di mio padre? Studiare? Offrire sacrifici? Praticare la
concentrazione? Tutto questo è passato, tutto questo non si trova più
sul mio cammino”.
Immobile restò Siddharta, e per un attimo, la durata d’un respiro, un
gelo gli strinse il cuore, ed egli lo sentì gelare nel petto come una povera
bestiola, un uccello o un leprotto, quando s’accorse quanto fosse solo.
Ora lo sentiva. Sempre, finora, anche nella più profonda concentrazione,
egli era rimasto il figlio di suo padre, era stato Brahmino,d’alto ceto, un
sacerdote, adesso non era più che Siddharta, il risvegliato, e niente altro.
Trasse un profondo sospiro, e per un attimo si sentì gelare. Rabbrividì.
Nessuno era così solo come lui. Non v’era un nobile che non
appartenesse all’ ambiente dei nobili, non v’era un manovale che non
appartenesse all’ambiente dei manovali; e fra i loro pari tutti trovavano
ricetto, ne condividevano la vita, ne parlavano la lingua. Non v’era un
Brahmino che non fosse annoverato tra i suoi colleghi e non vivesse con
loro, non v?era un eremita che non potesse trovar ricetto nella società
dei Samana, e anche io più sperduto solitario della foresta non era uno e
solo, anche lui era circondato da aderenti, anche lui apparteneva a una
categoria che gli faceva da patria. Govinda s’era fatto monaco, e mille
monaci erano suoi fratelli, portavano un abito come il suo,
condividevano la sua fede, parlavano il suo linguaggio. Ma lui,
Siddharta, a quale comunità apparteneva? Di chi condivideva la vita? Di
chi avrebbe parlato il linguaggio?
Da questo momento in cui il mondo circostante parve disciogliersi
intorno a lui, in cui egli rimase abbandonato come in cielo una stella
solitaria, da questo momento di geli e di sgomento Siddharta emerse,
più di prima sicuro del proprio Io, vigorosamente raccolto. Lo sentiva:
questo era stato l’ultimo brivido del risveglio, l’ultimo spasimo del
nascimento. E tosto riprese il suo cammino, mosse il passo rapido ed
impaziente, non più verso casa, non più verso il padre, non più indietro.