Siddharta- Cap.4

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21 RISVEGLIO Quando Siddharta lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, il Perfetto, e nel quale rimaneva Govinda , allora egli sentì che in questo boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e si separava da lui. Su questa sensazione, che lo riempiva tutto, egli venne riflettendo mentre s’allontanava a lento passo. Profondamente vi pensò, come attraverso un’acqua profonda si lasciò calare fino al fondo di questa sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, poiché conoscere le cause ultime, questo appunto è pensare- cosi gli pareva- e solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno perdute, ma al contrario si fanno essenziali e cominciano a irradiare ciò che in esse è contenuto. Rifletteva Siddharta nel suo lento cammino. Stabilì che non era più un giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l’aveva abbandonato, cosi come il serpente viene abbandonato dalla sua vecchia pelle, che una cosa non era più presente in lui, che l’aveva accompagnato durante tutta la sua giovinezza, e gli era appartenuta:il desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine. L’ultimo maestro che era apparso sulla sua strada, il sommo e sapientissimo maestro, il più santo di tutti, il Buddha, anche questo egli l’aveva abbandonato, aveva dovuto separarsi da lui, non aveva potuto accogliere la sua dottrina. Sempre più lento andava il pensieroso e si chiedeva frattanto: “Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non riusciti a insegnarti?”. Ed egli trovò: “L’Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza. L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non potendo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi davanti a lui. In verità, nessuna cosa al mondo ha tanto occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma ch’io vivo, d’essere uno, distinto e separato da tutti gli altri, d’essere Siddharta! E su nessuna cosa al mondo so tanto poco quanto su di me, Siddharta!”. Colpito da questo pensiero si arrestò improvvisamente nel suo lento cammino meditativo, e tosto da questo pensiero ne balzò fuori un altro, che suonava: “Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, prendevo fuga davanti me stesso! L’Atman cercavo, Brahma cercavo, volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso”. Siddharta schiuse gli occhi e si guardò intorno, un sorriso gli illuminò il volto, e un profondo sentimento, come di risveglio da lunghi sogni, lo

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RISVEGLIO

Quando Siddharta lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, il

Perfetto, e nel quale rimaneva Govinda , allora egli sentì che in questo

boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e si

separava da lui. Su questa sensazione, che lo riempiva tutto, egli venne

riflettendo mentre s’allontanava a lento passo. Profondamente vi pensò,

come attraverso un’acqua profonda si lasciò calare fino al fondo di

questa sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, poiché

conoscere le cause ultime, questo appunto è pensare- cosi gli pareva- e

solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno

perdute, ma al contrario si fanno essenziali e cominciano a irradiare ciò

che in esse è contenuto.

Rifletteva Siddharta nel suo lento cammino. Stabilì che non era più un

giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l’aveva

abbandonato, cosi come il serpente viene abbandonato dalla sua

vecchia pelle, che una cosa non era più presente in lui, che l’aveva

accompagnato durante tutta la sua giovinezza, e gli era appartenuta:il

desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine. L’ultimo maestro che

era apparso sulla sua strada, il sommo e sapientissimo maestro, il più

santo di tutti, il Buddha, anche questo egli l’aveva abbandonato, aveva

dovuto separarsi da lui, non aveva potuto accogliere la sua dottrina.

Sempre più lento andava il pensieroso e si chiedeva frattanto: “Ma che è

dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e

che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non riusciti a insegnarti?”. Ed

egli trovò: “L’Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza.

L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non

potendo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire

o nascondermi davanti a lui. In verità, nessuna cosa al mondo ha tanto

occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma ch’io vivo,

d’essere uno, distinto e separato da tutti gli altri, d’essere Siddharta! E

su nessuna cosa al mondo so tanto poco quanto su di me, Siddharta!”.

Colpito da questo pensiero si arrestò improvvisamente nel suo lento

cammino meditativo, e tosto da questo pensiero ne balzò fuori un altro,

che suonava: “Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia

rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa

fondamentale, una sola: io avevo paura di me, prendevo fuga davanti

me stesso! L’Atman cercavo, Brahma cercavo, volevo smembrare e

scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il

nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma

proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso”.

Siddharta schiuse gli occhi e si guardò intorno, un sorriso gli illuminò il

volto, e un profondo sentimento, come di risveglio da lunghi sogni, lo

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percorse fino alla punta dei piedi. E appena si rimise in cammino,

correva in fretta, come un uomo che sa quel che ha da fare.

“Oh!” pensava respirando profondamente “ora Siddharta non me lo

voglio più lasciar scappare! Basta! Cominciare il mio pensiero e la mia

vita con l’Atman e col dolore del mondo! Basta! Uccidermi e

smembrarmi, per scoprire un segreto dietro le rovine! Non sarà più il

Yoga-Veda a istruirmi, né l’Atharva-Veda, né gli asceti, né alcuna

dottrina. Dal mio stesso Io voglio andare a scuola, voglio conoscermi,

voglio svelare quel mistero che ha nome Siddharta”.

Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il mondo. Bello era

il mondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là

giallo, più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come il fiumi,

immobili stavano il bosco e la montagna, tutto nello, tutto enigmatico e

magico, e in mezzo v’era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che

conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto questo giallo e azzurro, fiume e

bosco penetrava per la prima volta attraverso la vista in Siddharta. Non

era più l’incantesimo di Mara, il velo di Maja, non era più insensata e

accidentale molteplicità del mondo del mondo delle apparenze,

spregevole agli occhi del Brahmino, che, tutto dedito ai suoi profondi

pensieri, scarta la molteplicità e solo dell’unità va in cerca. L’azzurro era

azzurro, il fiume era fiume, e anche se nell’azzurro e nel fiume vivevan

nascosti come il Siddharta l’uno e il divino, tale era appunto la natura e

il senso del divino, d’esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui

Siddharta. Il senso e l’essenza delle cose erano il qualche cosa oltre e

dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto.

“Come sono stato sordo e ottuso!” e pensava, e camminava intanto

rapidamente. “Quand’uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il

senso, non disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente

e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia, li ama, lettera per

lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del

proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore di un significato

congetturato il precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle

apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni

accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, no

sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta”.

Mentre rivolgeva tali pensieri, si fermò tuttavia improvvisamente, come

un serpente fosse apparso sulla strada davanti i suoi piedi.

Poiché improvvisamente anche questo gli era rivelato: egli, nella realtà

si trovava come un risvegliato o come un nuovo nato, doveva

ricominciare interamente la sua vita. Ancora il quello stesso mattino,

quando aveva lasciato Jetavana, boschetto di quel sublime, e già che era

in atto di ridestarsi, già era sulla strada che riconduce a se stesso, era

stata sua intenzione e gli era apparso perfettamente ovvio e naturale,

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dopo gli anni del suo noviziato ascetico, far ritorno a casa sua, da suo

padre. Ma ora per la prima volta, proprio in quell’istante in cui egli s’era

destato come se un serpente giacesse sulla strada, s’era destata in lui

anche questa idea: “Io non sono più quel che ero, non sono più un

eremita, non sono più un prete, non sono più Brahmino. Che dunque

vado a fare a casa di mio padre? Studiare? Offrire sacrifici? Praticare la

concentrazione? Tutto questo è passato, tutto questo non si trova più

sul mio cammino”.

Immobile restò Siddharta, e per un attimo, la durata d’un respiro, un

gelo gli strinse il cuore, ed egli lo sentì gelare nel petto come una povera

bestiola, un uccello o un leprotto, quando s’accorse quanto fosse solo.

Ora lo sentiva. Sempre, finora, anche nella più profonda concentrazione,

egli era rimasto il figlio di suo padre, era stato Brahmino,d’alto ceto, un

sacerdote, adesso non era più che Siddharta, il risvegliato, e niente altro.

Trasse un profondo sospiro, e per un attimo si sentì gelare. Rabbrividì.

Nessuno era così solo come lui. Non v’era un nobile che non

appartenesse all’ ambiente dei nobili, non v’era un manovale che non

appartenesse all’ambiente dei manovali; e fra i loro pari tutti trovavano

ricetto, ne condividevano la vita, ne parlavano la lingua. Non v’era un

Brahmino che non fosse annoverato tra i suoi colleghi e non vivesse con

loro, non v?era un eremita che non potesse trovar ricetto nella società

dei Samana, e anche io più sperduto solitario della foresta non era uno e

solo, anche lui era circondato da aderenti, anche lui apparteneva a una

categoria che gli faceva da patria. Govinda s’era fatto monaco, e mille

monaci erano suoi fratelli, portavano un abito come il suo,

condividevano la sua fede, parlavano il suo linguaggio. Ma lui,

Siddharta, a quale comunità apparteneva? Di chi condivideva la vita? Di

chi avrebbe parlato il linguaggio?

Da questo momento in cui il mondo circostante parve disciogliersi

intorno a lui, in cui egli rimase abbandonato come in cielo una stella

solitaria, da questo momento di geli e di sgomento Siddharta emerse,

più di prima sicuro del proprio Io, vigorosamente raccolto. Lo sentiva:

questo era stato l’ultimo brivido del risveglio, l’ultimo spasimo del

nascimento. E tosto riprese il suo cammino, mosse il passo rapido ed

impaziente, non più verso casa, non più verso il padre, non più indietro.