Sfoglialibro 2012 Il primo anno senza di loro

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La Cultura 756

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La Cultura

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Enrico Deaglio Andrea Jacchia

2012Il primo anno senza di loro

Ritratti di illustri e non illustri che se ne sono andati

Con la collaborazione di Frank Viviano

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Le biografie di Cristian Pațurcă, Tullia Zevi Calabi, Maria Schneider e Jean-Do-

minique de La Rochefoucauld, Maria Victoria Altmann Bloch-Bauer, Raymond

D’Addario, Henri Maurel, Annie Girardot, Alenush Terian, Inge Sørensen, Warren

Minor Christopher, Mohammed Nabbous, Kais al-Hilali, Elizabeth Taylor, Greg

Centauro, Albert Bachmann, Walter Breuning, Tul Bahadur Pun, Chris Hondros

e Timothy (Tim) Heterington, Trần Lệ Xuân (Madame Nhu), Gunter Sachs, Gil

Scott-Heron, Lawrence Sidney Eagleburger, Christiane Desroches Noblecourt,

Peter Michael Falk, Sir Roy Redgrave, Ottone (Otto) d’Absburgo-Lorena, Ibra-

him Quashoush, Cy Twombly, Humberto Leal Garcia Jr., Lucian Michael Freud,

Michael Cacoyannis, Ágota Kristóf, Rudolf Brazda, Roman Opałka, Ruth Brinker,

Eve Brent, Salvatore Licitra, Vann Nath, Richard Hamilton, Troy Davis, Edwin

Carlyle Wood, Dennis MacAlistair Ritchie, Manfred Gerlach, James Hillman, Al-

len Mandelbaum, Alfonso Cano, Loulou de La Falaise, Ivan Martin Jirous, Svetlana

Stalina – scritte da Andrea Jacchia – sono state pubblicate sul quotidiano online

Linkiesta.it.

Le biografie scritte da Frank Viviano – alle pp. 15, 21, 26, 28, 35, 76, 112, 158, 192,

240 – sono state tradotte da Davide Bigliani.

Per la poesia Una di Giovanni Giudici © Mondadori 1972, 2000

www.saggiatore.it (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore

© il Saggiatore S.p.A., Milano 2012

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2012. Il primo anno senza di loro

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Sommario

Introduzione 11

Szeto Wah 15

Mohamed Bouazizi 18

Vang Pao 21

Susannah York 24

John Ross 26

Robert Sargent Shriver Jr. 28

Cristian Pațurcă 31

Tullia Zevi Calabi 33

Nora Sun 35

Maria Schneider e Jean-Dominique de La Rochefoucauld 37

Maria Victoria Altmann Bloch-Bauer 40

Raymond D’Addario 44

Henri Maurel 47

Suze Rotolo 49

Jane Russell 52

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Annie Girardot 54

Alenush Terian 57

Inge Sørensen 60

Warren Minor Christopher 63

Mohammed Nabbous 68

Kais al-Hilali 70

Elizabeth Taylor 72

Leonard Weinglass 76

Geraldine Ferraro 78

Greg Centauro 80

Sidney Lumet 82

Albert Bachmann 85

Walter Breuning 89

Tul Bahadur Pun 91

Chris Hondros e Timothy (Tim) Hetherington 93

Trần Lệ Xuân (Madame Nhu) 94

Moshe Landau 99

Osama bin Laden 102

Gunter Sachs 106

Giovanni Giudici 109

Qian Mingqi 112

Gil Scott-Heron 115

Jack Kevorkian 117

Lawrence Sidney Eagleburger 120

Elena Bonner 123

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Christiane Desroches Noblecourt 126

Peter Michael Falk 130

Sir Roy Redgrave 132

Ottone (Otto) d’Absburgo-Lorena 135

Ibrahim Quashoush 139

Cy Twombly 141

Humberto Leal Garcia Jr. 143

Aldo Togliatti 146

Lucian Michael Freud 149

69 ragazzi membri della gioventù laburista norvegese 153

Amy Winehouse 156

Nguyễn Cao Kỳ 158

Michael Cacoyannis 160

Ágota Kristóf 164

Rudolf Brazda 167

Roman Opałka 169

Rosa Calzecchi Onesti 172

Ruth Brinker 175

Eve Brent 178

Mino Martinazzoli 180

Salvatore Licitra 182

Vann Nath 184

Ghiath Matar 186

Walter Bonatti 188

Carl Oglesby 192

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Richard Hamilton 195

Troy Davis 197

Edwin Carlyle Wood 200

Cinque donne di Barletta 201

Dennis MacAlistair Ritchie 203

Steve Jobs 205

Manfred Gerlach 209

Andrea Zanzotto 211

Muammar Gheddafi 214

Antonio Cassese 218

Marco Simoncelli 221

James Hillman 224

Allen Mandelbaum 227

Alfonso Cano 229

Loulou de La Falaise 231

Joe Frazier 233

Ivan Martin Jirous 237

Danielle Mitterrand 240

Svetlana Stalina 243

Lucio Magri 245

Sócrates 248

Václav Havel 252

Ringraziamenti 255

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Introduzione

Verso la fine del secolo scorso, il piccolo settimanale Diario eb-be l’idea di pubblicare una rubrica particolare: il ricordo di due o tre vite appena terminate. Si chiamava «Se ne sono andati». Ci dissero che non avrebbe funzionato, in un paese maschili-sta, cattolico e superstizioso come l’Italia (qui da noi, se si par-la di morte, il maschio si sfiora elegantemente i coglioni; qui da noi, se uno chiede un pacchetto di sigarette al tabaccaio e gli danno quello con scritto «fumare rende impotenti», domanda cortesemente: «mi può dare quello che dice che fumare fa ve-nire il cancro?»). Qui da noi c’è la Chiesa. Qui da noi il gover-no si è mosso per impedire che Eluana Englaro potesse morire. L’allora presidente del Consiglio arrivò persino a sostenere che, benché in vita vegetativa da 17 anni, quella donna – volendo – avrebbe potuto essere ingravidata e avere figli.

«Se ne sono andati» diventò la rubrica più letta del settimanale, per tredici anni di fila. C’erano storie, in breve, di sherpa himalaya-ni, diplomatici sconosciuti, poeti, musicisti, attori, sportivi, sopra-no, agitatori politici, perseguitati. Cominciarono ad arrivare molte segnalazioni, così come proteste: perché avete dimenticato questo o questa? Che, in realtà ponevano una folgorante idea giornalisti-ca: costruire un giornale, con la prima pagina, il commento, la cul-tura, gli spettacoli, lo sport, utilizzando solo persone che se ne sono appena andate, e il loro lascito nel mondo di noi vivi.

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Buona idea, non vi pare? Sarebbe come essere in un villag-gio isolato nella selva e ricevere ogni giorno da strani messag-geri le notizie di vite illustri, idee, avventure, sfide, amori che sono avvenuti lontano da noi, e però comprensibili, vicine. Vi-ve, in sostanza.

In realtà è quello che nel passato si è sempre fatto, con le memorie, le foto con il vestito buono dei nonni, con l’Iliade, i Sepolcri di Foscolo, Il postino, Cent’anni di solitudine, Édith Piaf, le genealogie della Bibbia, gli eminent victorians, le vite brevi di uomini degni, quelle altrettanto brevi degli idioti, sen-za contare quelle dei criminali o dei pazzi.

In Italia abbiamo talmente il culto dei morti, che le nostre origini ci inseguono nella famosa, imperitura, invettiva: «li mor-tacci tua».

In questo libretto trovate il passaggio sulla terra di oltre cen-to persone, note o sconosciute che ci hanno abbandonato nel 2011.

Se ne volete sapere di più, tutti sono su YouTube, che è la vera immortalità. E dire che all’inizio del Novecento, agli al-bori della cinematografia, l’invenzione dei Lumière aveva reso possibile imprimere sulla celluloide una sfilata di militari russi, tra cui un centenario sopravvissuto della battaglia di Borodino; ovvero, si vedeva sullo schermo – vivo – un uomo che era na-to cento anni prima! Sembrava una cosa impossibile: un uomo morto che camminava!

La nostra scelta – ci ha aiutato su tutto il versante asiatico e americano il nostro amico Frank Viviano – vede accomunati di-vi del cinema, idealisti, artisti maledetti, musicisti, generali, co-mandanti e consiglieri di guerre ormai dimenticate, insieme alle loro vittime; quasi tutti appartengono alla categoria dei «buo-ni», due, Gheddafi e Osama bin Laden, sono stati «cattivis-simi», accomunati dal fatto che la loro morte violenta è stata trasmessa in diretta. È la prima volta che succede per uomi-

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ni importanti; ma prima era successo (e continua a succedere) per impiccati, ghigliottinati, linciati, decapitati. Gli affamati, poi, ormai da mezzo secolo muoiono davanti a una macchina fotografica.

Di Steve Jobs, la morte più mediatica, la sorellastra ha detto che se ne è andato mormorando «Oh wow! Oh wow!»; Goe-the invece se ne era andato con la famosa «Mehr Licht». Era un illuminista. Ma forse era stato capito male, voleva dire «Mehr Nicht», insomma, basta. Spegnete la luce.

In questo libro abbiamo, ovviamente, privilegiato le vite. E ab-biamo cercato di raccontarle, come se fossero persone di fami-glia, in intimità rispettosa.

Tenetele presente, come tante stelle cadenti, in una lun-ghissima serie di tracciati (mostrano un disegno? Sono casuali? «Ah! Dov’era? Mannaggia, non ho fatto in tempo a vederla!») del firmamento umano in una prolungata notte di San Loren-zo dell’anno 2011.

enrico deaglio e andrea jacchia

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Szeto WahIl tenace pioniere della democrazia a Hong Kong

Nato da genitori cinesi nell’allora colonia britannica di Hong Kong, Szeto studiò da maestro elementare e si segnalò alla gui-da di scioperi negli anni ’70. Nel giro di pochi anni divenne il principale portavoce della lotta per la democrazia rappresenta-tiva della colonia, un critico feroce tanto dell’imperialismo bri-tannico quanto delle politiche autoritarie di Pechino. È morto di cancro ai polmoni il 2 gennaio 2011, a 79 anni, all’ospedale Principe di Galles di Hong Kong.

Prima di Szeto Wah, «protesta» era una parola sconosciuta a Hong Kong, e l’unica libertà tenuta in considerazione era quel-la di commerciare. Sindacati e diritti dei lavoratori erano prati-camente inesistenti. Democrazia ed elezioni, date per scontate dai padroni britannici che trattavano Hong Kong come una mucca da mungere, erano negate ai residenti asiatici.

Nessuno lottò tanto a lungo, e con altrettanto successo, con-tro queste disparità quanto l’uomo colto e dalla determinazione feroce soprannominato con affetto Zio Wah. Puro «hongkongia-no», nato, cresciuto ed educato sull’isola, fu anche un appassio-nato studioso delle antiche tradizioni cinesi, diventando famoso come calligrafo. Nel mentre, come membro dell’associazione di ballo Hok Yau (in realtà una cellula comunista clandestina) lavo-rava in segreto per abbattere l’egemonia imperiale inglese.

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Nella sfera pubblica, Szeto fu una vera arma letale contro le pretese imperialiste. Il sindacato degli insegnanti di Hong Kong, da lui fondato nel 1974, divenne il più potente movimen-to a base popolare del Sud-est asiatico, forte di 80 000 membri. Fondò inoltre i Democratici uniti di Hong Kong, per molti anni l’unico partito di opposizione in Cina. In qualità di membro del Consiglio legislativo, il primo passo istituzionale di Hong Kong nel cammino verso l’autogoverno, organizzò le più grandi mani-festazioni politiche nella storia del paese, dapprima contro Lon-dra, dopo Tienanmen (4 luglio 1989) contro Pechino.

Il Partito comunista vide in ciò il tradimento di colui che era stato il suo principale sostenitore clandestino, molto prima che nel 1984 la Thatcher fissasse per il 1997 il ritiro inglese da Hong Kong. Ma per Szeto un’ingiustizia era un’ingiustizia, fos-se essa compiuta da un inglese o da un cinese. Diceva di esse-re un patriota, e che tutto ciò che faceva era per il suo popolo. E il popolo era con lui, con grande disappunto dei governan-ti conservatori della Thatcher e dell’amministrazione cinese di Deng Xiaoping.

Zio Wah fu eletto al Consiglio per cinque volte di fila, tra il 1985 e il 1998. Intanto la Cina si era sostituita alla Gran Breta-gna nel controllo dell’isola, e stabilì che il vecchio combinaguai andava messo in pensione. In luglio il Consiglio legislativo ven-ne abolito e sostituito da un parlamento di nomina cinese. Sze-to mancava clamorosamente dalla lista dei nominati.

Szeto seppellì gli auspici di un suo discreto ritiro dalle sce-ne, ponendosi alla testa di enormi fiaccolate annuali in nome della democrazia.

Nel 2009, per il decimo anniversario del massacro di Tie-nanmen, la marcia radunò 150 000 partecipanti. Sei mesi do-po, Szeto rivelò di avere un cancro ai polmoni in fase avanzata. I suoi compagni dei Democratici uniti si appellarono a Pechino per permettergli un pellegrinaggio alla casa dei genitori, senza successo. Szeto disse che se mai gli fosse stato consentito l’in-

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gresso in Cina, avrebbe lasciato perdere il suo viaggio e avreb-be invece fatto visita a prigionieri politici.

Le campane delle chiese e dei templi buddhisti di Hong Kong suonarono all’unisono durante il suo funerale, 6 rintoc-chi lunghi e 4 corti, a simboleggiare il quarto giorno di luglio: il giorno in cui lo Zio Wah capì che il vero nemico non era la Londra imperialista, ma l’autoritarismo di Pechino.

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Mohamed BouaziziAmbulante tunisino, suicida per protesta

Bouazizi era nato a Sidi Bouzid il 29 marzo 1984. Era morto nel centro grandi ustionati dell’ospedale di Ben Arous il 4 genna-io 2011, dopo essersi dato fuoco nella sua città natale il 17 di-cembre 2010.

Tra i sei figli di un muratore morto giovane per infarto, in-terrompe le scuole medie superiori per mantenere la madre e i fratelli minori. Venditore ambulante di frutta e verdura, il 17 dicembre 2010 si rifiuta di pagare il pizzo alla squadra di poli-zia della città. Questi, in risposta, gli sequestrano il carretto e la merce. Una donna poliziotto lo schiaffeggia davanti a tutti. Di-sperato e umiliato, Mohamed si reca a protestare alla Prefettu-ra, ma non ottiene udienza. Allora si cosparge di benzina e si dà fuoco gridando i motivi del suo gesto.

Benché avvenuto in una cittadina poco frequentata all’in-terno del paese (280 km da Tunisi, 140 da Sfax, 39 000 abitan-ti), il suo gesto diventa subito noto attraverso i social network Facebook e Twitter. La televisione Al Jazeera gli dà ampia ri-sonanza, mettendo l’accento sulle ingiustizie sociali e sulla cor-ruzione. In suo nome giovani si scontrano con la polizia a Sidi Bouzid e poi a Tunisi. Si calcola che una dozzina di altri giova-ni seguano l’esempio di Bouazizi morendo nel fuoco in Egitto, Algeria e Mauritania.

Le proteste popolari portano alle dimissioni e alla fuga del

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presidente Ben Ali il 14 gennaio 2011, dopo 23 anni di potere. Il cambiamento ha preso il nome di «rivoluzione dei gelsomi-ni» e Mohamed Bouazizi ne è il suo eroe e martire.

L’esempio tunisino – la protesta popolare contro le au-tocrazie dominanti – è stato seguito in Egitto, Libia, Yemen, Barhein, Siria ed è noto come «primavera araba», processo sto-rico di enorme portata, in via di svolgimento.

Chi fosse passato per Sidi Bouzid appena il giorno prima del suicidio di Mohamed, non avrebbe potuto pensare che quel borgo povero, polveroso e sottoposto alla solitudine sarebbe stato l’epicentro di un terremoto sociale destinato a cambiare il mondo arabo.

Strade in terra battuta, uliveti secchi su un terreno troppo arido, molte case di fango senza acqua né luce elettrica, croc-chi di gioventù ciondolante nei caffè o nei saloni da barbiere. In compenso, polizia dappertutto.

Eppure c’erano dei telefonini che hanno fotografato Moha-med mentre prendeva fuoco; e l’immagine postata su internet è stata vista in tempo reale in tutto il mondo arabo.

Quel corpo che bruciava contro l’ingiustizia subito è diven-tato una leggenda. Si è detto che fosse uno studente universi-tario costretto a lavorare sotto il tallone della corruzione; che avesse una pagina su Facebook in cui aveva annunciato la sua protesta. Non era vero, ma era verosimile, simbolo di una gio-ventù araba in possesso di un’educazione, ma senza possibili-tà di lavoro, abbandonata e repressa da un sistema poliziesco, senza speranze se non quella di entrare proprio in quel circuito; ma nello stesso tempo in grado di maneggiare uno smartpho-ne, di collegarsi con il mondo, di darsi appuntamenti, di scam-biarsi notizie, di aggirare la censura.

Ecco tornare l’antica immagine dell’uomo che si dà fuoco e che si accartoccia tra le fiamme. Thic Quang Duc, monaco bud-dhista, lo fece sulla pubblica strada a Saigon nel 1963. La foto

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fu pubblicata dai giornali americani e installò il primo dubbio sulla giustezza dell’intervento militare. Nel gennaio del 1969, Jan Palach, studente di filosofia di Praga si sistemò sulle scale del palazzo del Museo nazionale in piazza San Venceslao, si co-sparse di benzina e si diede fuoco con un accendino in protesta contro l’occupazione sovietica. Ai suoi funerali parteciparono seicentomila persone; ma ci vollero vent’anni prima che la Ce-coslovacchia fosse di nuovo libera.

Poi venne Mohamed, il suo carrettino, la donna in divisa che lo schiaffeggia in una cittadina in mezzo al niente. Il siste-ma di potere tunisino, però, Google e Facebook non li aveva messi in conto. Tra la morte di Mohamed e la fuga di Ben Ali passarono solo dieci giorni.

E dire che una delle ultime foto del presidente tunisino lo mostra, assorto e preoccupato, circondato da medici, al capez-zale del giovane in agonia, completamente avvolto da bende come una mummia di cinquemila anni fa. E che tale gli de-ve essere sembrata. Una semplice mummia, non la sua nemesi.

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Vang PaoIl generale dell’esodo laotiano

Nato nel Nord-est rurale del Laos, guidò i suoi compagni del-la tribù Hmong nella guerra d’Indocina, spalleggiato dalla Cia. Divenne una leggenda, il Garibaldi del suo popolo, che unificò in una nazione, per poi guidarlo, novello Mosè, in un incredibi-le esodo dal Triangolo d’Oro alla California. È morto d’infarto il 6 gennaio 2011 a Fresno, California. Aveva 81 anni.

A neanche 15 anni, Vang Pao si unì alla resistenza francese del Laos contro gli invasori giapponesi nel 1944. Nel giro di po-chi mesi, divenne lo stratega di assalti letali alle linee di rifor-nimento nemiche, lasciando stupefatti i suoi superiori francesi. Dotato di uno straordinario talento militare, fu promosso sot-totenente prima di compiere 16 anni.

La carriera militare di Vang sarebbe durata più di trent’an-ni. Ma per lui, e per gli Hmong, esisteva ben altro obiettivo. Per cinquecento anni la tribù era stata divisa in 18 clan, spesso osti-li tra loro, sparsi tra le montagne e le vallate del Sud-est asiati-co. Sotto la guida di Vang, per la prima volta gli Hmong furono uniti, una nazione seppur priva di paese.

Seminomadi e dalla natura selvaggia e indipendente – il nome della tribù sta per «uomini liberi» – gli Hmong erano considerati dei barbari primitivi dai Lao e vietnamiti che do-minavano la regione. Non che questo importasse, dato che pri-

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ma della guerra contro i giapponesi, i loro villaggi di montagna erano abbastanza remoti da evitare contatti con gli altri. Ma negli anni ’50 Vang, l’unico Hmong ad aver servito come ge-nerale dell’Esercito reale del Laos, capì che l’isolamento della tribù andava interrotto. Ispirandosi alla Dichiarazione dei Di-ritti dell’uomo della Rivoluzione francese, e alla Dichiarazione d’Indipendenza americana, sognava di creare una nuova nazio-ne Hmong, giusta e unitaria.

Mentre i suoi sforzi iniziavano a pagare, Vang si alleò con Parigi contro il movimento comunista Pathet Lao nella Prima guerra indocinese. Dopo il ritiro della Francia dal sud-est asiati-co, strinse rapporti con Washington. Nel 1962, sostenuto dalla Cia, era di nuovo in azione, guidando un esercito segreto con-tro gli insorti comunisti.

Questa alleanza si rivelò un errore disastroso. Le truppe clandestine Hmong subirono perdite dieci volte superiori a quelle degli americani in Vietnam. Il massacro colpì ancora più duramente i civili. Per nove anni, dal 1966 al 1975, i B52 ame-ricani bombardarono il territorio Hmong del Laos ogni 9 mi-nuti, 24 ore al giorno.

Nell’aprile del 1975, gli americani seguirono l’esempio fran-cese ritirandosi improvvisamente dall’Indocina. Gli agenti della Cia sparirono, il Pathet Lao salì al potere, e gli Hmong venne-ro abbandonati al loro destino. Quello che seguì fu una guerra di sterminio. Nella battaglia finale, prima che Vang ordinas-se il ritiro del 1979 che avrebbe condotto tutti i sopravvissu-ti all’esilio, 3000 guerriglieri Hmong dall’armamento leggero fronteggiarono 75 000 fanti dell’esercito del Laos, spalleggia-ti da pezzi di artiglieria da 105 mm e da piogge di Napalm sot-tratto agli americani.

Se l’ultima disperata battaglia degli Hmong poté ricordare i greci alle Termopili, il loro epico viaggio verso l’esilio fu com-parato all’esodo degli Israeliti dall’Egitto.

Quando tutto fu compiuto, in Laos rimanevano 200 000

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Hmong, prima della guerra erano 750 000: 250 000 moriro-no nella guerra. Meno di 100 000 sopravvissero a centinaia di miglia di marcia attraverso la foresta e le montagne fino al Mekong, che attraversarono a nuoto o aggrappati a tronchi per raggiungere i campi di accoglienza thailandesi.

Nel 1980, tra l’imbarazzo generale, Washington riconobbe controvoglia l’esistenza dell’esercito segreto Hmong, e fece ar-rivare per via aerea i sopravvissuti negli Stati Uniti, dove la tri-bù fu divisa in centinaia di gruppetti familiari e sparsa per il paese. Ma Vang Pao rifiutò di accettare che il suo sogno di un unico popolo fosse morto in Laos.

Dopo circa un anno dall’arrivo della tribù in America, invo-cò un secondo, ancor più improbabile esodo, questa volta verso la San Joaquin Valley, in California, terra coltivabile, circonda-ta di montagne, simile a casa. La voce si sparse. I clan viaggia-rono verso ovest, da Rhode Island, Alabama, South Carolina e Michigan, con macchine di seconda mano e pullman, attraver-sando 3000 miglia di praterie, montagne e deserto. Nel luglio 1982 gli Hmong della San Joaquin Valley erano qualche centi-naio. Un anno dopo, più di 20 000. Nel 1985 erano 50 000.

Per tre decenni Vang Pao guidò la comunità, e i rifugiati Hmong acquisirono terra coltivabile e si resero autosufficienti. Alla sua morte, erano diventati un popolo, unito, con un luogo dove stare, al termine di una strada lunga e terribile. Al suo fu-nerale 10 000 compagni di tribù, vestiti con i tradizionali abiti del lutto, hanno trasportato la sua bara al luogo dell’ultimo ri-poso, sotto il sole della California.

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Susannah YorkAttrice inglese, pulcino di una nidiata importante

Nata Susannah Yolande Fletcher, ha studiato recitazione al-la Royal Academy of Dramatic Art di Londra e ha cominciato la sua carriera di attrice con il nome di Susannah York. Il suo primo ruolo importante la vede fidanzata del figlio di un uffi-ciale scozzese alcolizzato (Alec Guiness) in Whisky e gloria nel 1960. Sono poi seguiti film con Robert Altman, Robert Aldrich, molto teatro shakespeariano, sceneggiati televisivi per Bbc, due libri per bambini. Candidata all’Oscar come attrice non prota-gonista di Non si uccidono così anche i cavalli? (1969), è stata la madre biologica di Christopher Reeve in Superman e Super-man II e Sophie, la fidanzata di Tom Jones (1963) nel film tratto dal romanzo di Henry Fielding; molto spesso ha portato sul-lo schermo figure di donne abbandonate e sole. È stata anche Gertrude nell’Amleto per la Royal Shakespeare Company nel-la sua tournée americana nel 1998.

È morta di cancro il 15 gennaio 2011 a 72 anni.

In un immaginario curriculum per richiesta di lavoro Susan-nah aveva scritto di sé: «Attrice caratterista capace di lavorare sodo, a suo agio nell’interpretare donne alcolizzate, spigolose, antipatiche. Dicono di lei che sa però anche fare parti brillan-ti in commedie leggere». Ed era stata, in effetti, tutto insieme. La ragazza innamorata e appassionata dai grandi occhi azzur-

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ri e dalla bocca altrettanto grande, definita dai giornali «la rosa sbocciata in Inghilterra», poi sempre più spesso la donna tor-mentata, addolorata, dai capelli biondi tagliati corti ed espres-sioni di tristezza molto profonde. Nel 1968 girò per Robert Aldrich L’assassinio di Sister George, commedia brillante ma vietatissima dalla censura, per essere uno dei primi film «in am-biente lesbico» proposti per la grande distribuzione. Susannah recitava un’esplicita scena d’amore con l’attrice Coral Browne, scena che venne tagliata in diversi stati americani per interven-to della polizia.

Era una donna colta e indipendente, membro di tutto rilie-vo della più importante nidiata di attrici del dopoguerra, quella cresciuta in Inghilterra e che ha visto personalità come Vanessa Redgrave, Glenda Jackson, Maggie Smith, Julie Christie. Avere avuto nella propria terra Shakespeare, Virginia Woolf, un im-pero e degli interminabili weekend ha sicuramente aiutato la lo-ro espressione e il loro fascino.

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John RossUn giornalista eccezionale e molto sovversivo

John Ross è nato e cresciuto a New York. È stato uno dei più innovativi e fantasiosi giornalisti americani, ed è autore di 20 libri di analisi politica, storia, narrativa e poesia. Attivista, oltre che reporter, fu incarcerato per renitenza alla leva, e arrestato come sovversivo tanto in Iraq quanto in Israele. È morto di can-cro al fegato, il 17 gennaio 2011, a Santiago Tzipijo, Messico, poche settimane prima del suo settantatreesimo compleanno.

John Ross crebbe nella cosmopolita Greenwich Village, da genitori ebrei e veri bohémien, la cui cerchia includeva giganti della pittura d’avanguardia e del jazz. Già a 18 anni declamava le sue poesie in un bar di Washington Square, accompagnato dal bassista Charles Mingus. A partire dal 1957, dopo il suo pri-mo viaggio in autostop oltre il confine a sud degli Stati Uniti, il grande amore della sua vita fu il Messico, su cui scrisse centina-ia di articoli e otto libri. Nessuno di questi si potrebbe definire obiettivo. Ross si basava sulle sue strenue convinzioni.

Nei primi anni ’90, quando l’insurrezione zapatista divam-pò nel Sud del Messico, nessun giornalista sembrava in grado di raggiungere gli accampamenti ribelli.

«Ross si avventurò a piedi tra le montagne, con una busta di muesli e due bottiglie d’acqua» ricorda il suo editor di allora, Tim Redmond, «trovò i rivoltosi in un piccolo villaggio, incon-trò il loro leader, il subcomandante Marcos, e raccolse inter-

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viste e informazioni che gli altri media non potevano neanche sognare di avere.»

Insofferente all’offrire il suo lavoro in esclusiva, Ross scrive-va contemporaneamente per cinque giornali statunitensi, uno peruviano e uno messicano, proponendo a ognuno articoli di-versi. Negli anni, perse un occhio a seguito di un pestaggio della polizia californiana, e mise a repentaglio la propria vita quando affrontò il presidente messicano all’aeroporto di Cit-tà del Messico, accusandolo di corruzione. Nel 1973, si trovava all’interno del fragile perimetro di sicurezza attorno all’ormai condannato presidente cileno Salvador Allende, mentre il ge-nerale Augusto Pinochet lanciava l’assalto finale del suo col-po di stato.

Trent’anni dopo, depose il suo computer portatile per farsi scudo umano, difendendo i civili iracheni dal fuoco delle trup-pe Usa.

Questa dedizione incondizionata era per Ross un’espressio-ne di libertà. Quando nel 1967 venne scarcerato dopo due anni di reclusione a Los Angeles, in seguito al rifiuto di combattere in Vietnam (il suo modo di dar notizia del movimento pacifista fu unirsi a esso), una guardia gli disse: «Ross, non hai mai im-parato il mestiere del detenuto».

Si è spento come da sue precise istruzioni, sorreggendosi a un albero sulle rive del lago messicano di Páztcuaro, ammiran-do la sponda opposta, lontana.

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Robert Sargent Shriver Jr.Il vero liberal del clan Kennedy

Uomo politico e statista americano, nato nel 1915 a Westmin-ster, Maryland, membro chiave della tendenza «liberal» del partito democratico, ha operato sotto le presidenze di Kenne-dy e di Johnson, durante gli anni ’60, quando fondò i Peace Corps e diede vita ad altri storici progetti di riforma sociale. È stato candidato senza successo alla Casa Bianca come vice pre-sidente di George Mac Govern nel 1972. È morto il 18 gennaio 2011 a Bethesda, nel Maryland, per complicazioni del morbo di Alzheimer.

Robert Sargent Shriver discendeva da un’antica famiglia sta-bilitasi fin dal diciottesimo secolo nel Maryland, l’unico stato cattolico tra le tredici colonie inglesi che dichiararono l’indi-pendenza del 1776. Studiò in una prestigiosa scuola privata e poi alla Yale University, prima di essere chiamato in guer-ra come ufficiale della Marina americana. Tranne che per la sua religione, era la quintessenza della vecchia classe dirigente americana – un esponente di quelle famiglie ricche, soprattut-to protestanti, della East Coast, note semplicemente come «The Establishment» – che dominava la vita pubblica degli Stati Uni-ti. Solo dopo la seconda guerra mondiale, un piccolo numero di cattolici ed ebrei riuscì ad entrare nel club; ma la loro im-portanza fu fondamentale nel segnare i momenti più esaltanti (e

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quelli più bui) dell’era liberal iniziata da John Fitzgerald Ken-nedy, con la conquista della presidenza nel 1960.

Shriver, cognato del giovane presidente Kennedy (aveva sposato la sua sorella Eunice), fu la stella di prima grandez-za in una costellazione di consiglieri e riformatori, in mezzo a veterani dell’esercito e laureati di Yale, Harvard e Princeton. Sotto la bandiera della «Nuova Frontiera», l’amministrazione Kennedy pose le basi per stabilire una democrazia di tipo eu-ropeo in un paese che usciva da un decennio di caccia alle stre-ghe. Probabilmente nella storia americana non ci fu periodo più idealista in politica, e un’eccezionale energia venne sprigio-nata dalle iniziative fondate o dirette da Shriver. La più famosa tra queste è il «Peace Corps», che arruolava giovani americani per prestare servizio come insegnanti o tecnici nei paesi econo-micamente poveri. Dopo cinquant’anni di attività, nel 2011, il bilancio dei Peace Corps è di 200 000 volontari formati e in-viati in 139 paesi.

Dopo l’assassinio di Kennedy, nel novembre del 1963, Shri-ver prese la guida del più importante sforzo riformatore na-zionale, la «guerra alla povertà» del presidente Johnson. Sotto questa etichetta il governo lanciò una campagna di investimenti senza precedenti nel campo dell’istruzione, del lavoro, dell’assi-stenza legale e sanitaria per la parte più povera dell’America.

Poi arrivò l’elezione di Richard Nixon nel 1968, l’inizio di un attacco durato quarant’anni a tutti i progetti sociali che Shriver aveva contribuito a costruire. Ambasciatore a Parigi dal 1968 al 1970, Shriver, nel 1972 divenne il candidato alla vice presidenza, con George Mac Govern candidato alla presiden-za: la coppia più di sinistra che un partito politico americano abbia mai visto. Il risultato fu la vittoria a valanga di Nixon per il suo secondo mandato.

Fino alla metà degli anni ’80, Shriver fu vittima delle atten-zioni e dello spionaggio dell’Fbi, che cercava di provare che le sue iniziative sociali e politiche avessero un lunga mano so-

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vietica alle spalle. Le accuse non vennero mai provate; Shriver terminò la sua carriera nella parte di un tranquillo avvocato di diritto internazionale con uno studio nella capitale. Ricomparve brevemente sui media nel 1986, quando sua figlia Maria sposò l’attore bodybuilder e futuro governatore della California Ar-nold Schwarzenegger.

Nel 2003 venne fatta per lui la diagnosi di Alzeihmer, mor-bo che in otto difficili anni ha costruito la fine della sua vita.