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1 Se è vero che la bellezza salverà il mondo. Alessandro D’Avenia 1 La cultura non è consumare prodotti di cultura. Consumiamo i quadri delle mostre, leggiamo libri, ascoltiamo musica... è vera cultura consumarne il più possibile? La cultura non è un oggetto, ma uno spazio, che unisce l’uomo a sé stesso e agli altri uomini. Non vorrei fare l’ennesimo tentativo di «consumare» Dostoevskij, anche perché è un amico e gli amici non si consumano, con gli amici si parla. Per molti Dostoevskij è l’autore di cui... «a pagina 10 non si ricordano i personaggi di pagina 3»: appunto un autore difficile da «consumare» e questo già tradisce la sua grandezza. Chiunque abbia provato a leggerne un romanzo è rimasto disorientato: è come muoversi in una foresta. Nel 1846, a 25 anni, finiti gli studi d’ingegneria, ottiene grande successo con un romanzo intitolato Povera gente. Descriveva le persone che aveva conosciuto nelle terre della sua famiglia. Il suo realismo ha qualcosa di nuovo, i socialisti ne fanno una bandiera. Ma la vera novità è ancora di là da venire, il motivo per cui Dostoevskij può essere messo accanto agli inventori dello spirito è solo all’alba. La lotta per la bellezza si combatterà altrove. «E io dichiaro – gridò con voce stridula Stepan Trofimovič al colmo della frenesia – che Shakespeare e Raffaello stanno al di sopra dell’affrancamento dei contadini, al di sopra del nazionalismo, al di sopra del socialismo, al di sopra della giovane generazione, al di sopra della chimica, al di sopra di quasi tutto il genere umano, perché sono già il frutto, il vero frutto di tutto il genere umano e forse il frutto più sublime che mai si possa avere! Sono una forma di bellezza già raggiunta, senza la quale io, forse, non accetterei neanche di vivere. Oh Signore! – e batté le mani in aria – dieci anni fa a Pietroburgo, gridavo da un palco proprio allo stesso modo, proprio le stesse cose con le stesse parole e proprio allo stesso modo quelli non capivano nulla, ridevano e zittivano come ora; gente limitata, che cosa vi manca per poter capire? Ma lo sapete, lo sapete che senza gli inglesi l’umanità può ancora vivere, senza la Germania può vivere, senza i russi può vivere anche troppo bene, senza la scienza può vivere, senza pane può vivere, ma senza la bellezza no, perché allora non avrà assolutamente nulla da fare al mondo! Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui! La scienza stessa non si reggerà neanche un minuto senza la bellezza, lo sapete, questo, voi che ridete? Si convertirà in trivialità, non inventerete nemmeno un chiodo!» (I Demoni). Senza la bellezza non c’è nulla da fare al mondo, perché la bellezza serve a entusiasmare al lavoro e il lavoro a risorgere. Di che bellezza sta parlando Dostoevskij? Se penetriamo questo mistero, avremo giornate meno grigie. Quando suona la sveglia: che cosa abbiamo da fare nel mondo, per il mondo, con il mondo oggi? La fonte di questa bellezza è il dono che ha da farci Dostoevskij. Un dono che per me è cominciato quando avevo quindici anni, era il 1992; era l’estate fra la quinta ginnasio e la prima liceo, 1 Articolo pubblicato in Studi Cattolici n. 649.

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Se è vero che la bellezza salverà il mondo.

Alessandro D’Avenia1

La cultura non è consumare prodotti di cultura. Consumiamo i quadri delle mostre, leggiamo libri,

ascoltiamo musica... è vera cultura consumarne il più possibile? La cultura non è un oggetto, ma uno

spazio, che unisce l’uomo a sé stesso e agli altri uomini. Non vorrei fare l’ennesimo tentativo di

«consumare» Dostoevskij, anche perché è un amico e gli amici non si consumano, con gli amici si parla.

Per molti Dostoevskij è l’autore di cui... «a pagina 10 non si ricordano i personaggi di pagina 3»: appunto

un autore difficile da «consumare» e questo già tradisce la sua grandezza. Chiunque abbia provato a

leggerne un romanzo è rimasto disorientato: è come muoversi in una foresta. Nel 1846, a 25 anni, finiti

gli studi d’ingegneria, ottiene grande successo con un romanzo intitolato Povera gente. Descriveva le

persone che aveva conosciuto nelle terre della sua famiglia. Il suo realismo ha qualcosa di nuovo, i

socialisti ne fanno una bandiera. Ma la vera novità è ancora di là da venire, il motivo per cui Dostoevskij

può essere messo accanto agli inventori dello spirito è solo all’alba. La lotta per la bellezza si combatterà

altrove.

«E io dichiaro – gridò con voce stridula Stepan Trofimovič al colmo della frenesia – che Shakespeare e

Raffaello stanno al di sopra dell’affrancamento dei contadini, al di sopra del nazionalismo, al di sopra del

socialismo, al di sopra della giovane generazione, al di sopra della chimica, al di sopra di quasi tutto il genere

umano, perché sono già il frutto, il vero frutto di tutto il genere umano e forse il frutto più sublime che mai si

possa avere! Sono una forma di bellezza già raggiunta, senza la quale io, forse, non accetterei neanche di vivere.

Oh Signore! – e batté le mani in aria – dieci anni fa a Pietroburgo, gridavo da un palco proprio allo stesso modo,

proprio le stesse cose con le stesse parole e proprio allo stesso modo quelli non capivano nulla, ridevano e

zittivano come ora; gente limitata, che cosa vi manca per poter capire? Ma lo sapete, lo sapete che senza gli

inglesi l’umanità può ancora vivere, senza la Germania può vivere, senza i russi può vivere anche troppo bene,

senza la scienza può vivere, senza pane può vivere, ma senza la bellezza no, perché allora non avrà

assolutamente nulla da fare al mondo! Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui! La scienza stessa non si reggerà

neanche un minuto senza la bellezza, lo sapete, questo, voi che ridete? Si convertirà in trivialità, non inventerete

nemmeno un chiodo!» (I Demoni).

Senza la bellezza non c’è nulla da fare al mondo, perché la bellezza serve a entusiasmare al lavoro e il

lavoro a risorgere. Di che bellezza sta parlando Dostoevskij? Se penetriamo questo mistero, avremo

giornate meno grigie. Quando suona la sveglia: che cosa abbiamo da fare nel mondo, per il mondo, con

il mondo oggi? La fonte di questa bellezza è il dono che ha da farci Dostoevskij. Un dono che per me è

cominciato quando avevo quindici anni, era il 1992; era l’estate fra la quinta ginnasio e la prima liceo,

1 Articolo pubblicato in Studi Cattolici n. 649.

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pomeriggio caldissimo nella mia città, Palermo. Ore tre del pomeriggio. Canicola. Tutto è affondato nel

silenzio. Coprifuoco. Un tempo sospeso. Giravo per casa, mi stavo annoiando a morte. Ho cominciato a

scorrere con gli occhi e con l’indice il dorso dei libri del nostro soggiorno. Ce n’era uno di mia madre, lo

avevo visto tante volte: pagine ingiallite di un vecchio Oscar Mondadori. S’intitolava Delitto e castigo. Ho

cominciato a leggere:

«All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che

aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K.» (Ivi, p. 3).

Somigliava alla mia situazione. Continuai a leggere.

«Sulle scale riuscì a evitare l’incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il

tetto di un’alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio. La padrona

dell’appartamento, invece, della quale egli aveva preso in affitto quello stambugio, vitto e servizi compresi,

viveva al piano inferiore, in un appartamento separato, e ogni volta che egli scendeva in strada gli toccava

immancabilmente di passare accanto alla cucina della padrona, che quasi sempre teneva la porta spalancata sulle

scale. E ogni volta, passandole accanto, il giovane provava una sensazione dolorosa e vile, della quale si

vergognava e che lo portava a storcere il viso in una smorfia» (Ibidem).

Anche a me accadeva. Quando incontravo i condomini in ascensore e improvvisamente le punte

delle scarpe diventavano interessantissime: ci si volta dall’altro lato, come colpevoli di qualcosa.

«Doveva dei soldi alla padrona, e temeva d’incontrarla. Non che fosse un tipo vile e pauroso, tutt’altro;

ma da un po’ di tempo si trovava in uno stato irritabile e teso, assai prossimo all’ipocondria. S’era a tal punto

sprofondato in sé stesso, isolandosi da tutti gli altri, da arrivare persino a sfuggire qualsiasi incontro, e non

soltanto quelli con la padrona».

Anche a me capitava di avercela con il mondo intero. Quella pagina parlava di me e iniziai a leggere

Delitto e castigo. Poche pagine dopo scoprii che questo ragazzo stava andando a prendere a colpi di accetta

un’usuraia per derubarla. Non riuscii più a liberarmi di quel libro. Da quel momento in poi accadde

quello che accade a chiunque legga Dostoevskij: un rapporto che pagina dopo pagina si trasforma in

amore e odio. Quando leggete Dostoevskij, non dovete temere questa reazione: siete ben sintonizzati,

perché è quello che succede tutte le volte che si entra, grazie all’arte, nello spazio del sacro. Il sacro ha

due manifestazioni: è mistero fascinans: abbaglia, meraviglia, lascia a bocca aperta; ma allo stesso tempo è

anche tremens: fa tremare, paralizza, impaurisce, non ci si sente al sicuro stando lì, perché si entra nel

territorio che appartiene all’Altro. E questo è quello che fa Dostoevskij, in ogni sua pagina crea uno

spazio sacro, ci colloca lì e, mentre ci affascina e ci seduce con la sua storia, allo stesso tempo ci

terrorizza con la verità di cui è manifestazione la storia.

Leggendo quelle pagine (a quindici anni è stato fonte di «salvezza», perché ha aperto una ricerca)

scoprii che nell’uomo ci sono tutte queste cose, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Se c’è una

cosa da cui Dostoevskij mi ha protetto è ogni tipo di riduzionismo, cioè il poter pensare di definire

(confinare) l’uomo con una pietra angolare inadeguata.

Ci sono tre libri che condividono la stessa struttura profonda: la Divina commedia, le Confessioni di

sant’Agostino e I fratelli Karamazov (l’acme di Dostoevskij, ultimo ed estremo romanzo). Perché sono tre

libri che ci fanno attraversare tutti gli strati della vita umana, dall’inferno al paradiso; ci consolano e ci

schiaffeggiano allo stesso tempo, ci affascinano e ci fanno tremare. Vorremmo scappare: ci sono pagine

di Dostoevskij da cui si vorrebbe scappare, ci si sente soffocare, manca l’aria... Ma quell’aria non manca

in quella pagina, manca dentro di te. Scopriamo che abbiamo dentro degli spazi in cui manca l’aria, e allo

stesso tempo abitano in noi spazi il cui frutto compiuto sono Shakespeare e Raffaello. Grandezza,

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altezza, profondità, bassezza dell’uomo: tutte le dimensioni. Dante struttura la Divina Commedia in

apparente discesa, ma in realtà è in salita: nel momento in cui entra all’inferno gli sembra di scendere ma,

a ben vedere, sta salendo (mirabile il suo scoprirlo proprio aggrappandosi al corpo di Lucifero). Lo

stesso fa Agostino: parte dal suo inferno personale e, mentre e proprio perché lo attraversa, trova Dio.

La struttura che hanno in comune questi tre capolavori è quella della conversione, cioè la struttura della

vita stessa resa trasparente: eteronomia e autonomia dell’uomo, orgoglio e creaturalità.

Dostoevskij comincia questa ricerca dalle Memorie del sottosuolo (1864) e la compie nei romanzi

successivi, in cui la sua originalità trovata non conosce quasi flessioni (Il giocatore, I demoni, I fratelli

Karamazov, L’idiota, Delitto e castigo e L’adolescente). È questa struttura, dall’inferno al paradiso, che abbiamo

tutti dentro, che fa sì che la lettura di Dostoevskij sia distanziante e affascinante allo stesso tempo.

Vorremmo abbandonare quei libri di Dostoevskij, ma non ci riusciamo, perché sappiamo che ci dice

solo la verità: non si è sempre disposti ad ascoltarla, perché gli uomini non sopportano troppa realtà.

Non ci nasconde niente dell’umano, ma ce lo fa abitare, per questo l’arte è la domenica della vita. Noi

possiamo abitare un pezzo di mondo grazie agli artisti, perché quel pezzo di mondo risuona di tutto

l’esistente, nella sua originarietà e quindi originalità. L’originario non si può spiegare, altrimenti non lo

sarebbe: si può solo abitare, una volta che sia stato reso trasparente. E questo fanno gli artisti. E questo

ci salva. Abbiamo imparato ad abitare la luce grazie a Vermeer. Il cielo stellato grazie a Van Gogh.

Dostoevskij ci promette e ci permette di farci abitare tutto l’umano. Come ha fatto? Quale è stata la

svolta che lo ha portato nel «Sottosuolo»?

Trasferiamoci nella piazza principale di San Pietroburgo. 22 dicembre 1849. Il freddo penetra ogni

cosa. Ci sono degli uomini in camicia. Sono i vestiti che portavano indosso ad aprile, quando li hanno

arrestati. Attendono la loro fucilazione, incappucciati. Fra questi uomini in camicia, c’è Dostoevskij.

Cinque minuti lo separano dalla morte. Non si diventa Dostoevskij, se non si è rischiata la vita più volte.

Non si diventa Dostoevskij, se non si sono fatti i lavori forzati per cinque anni in Siberia; non si diventa

Dostoevskij, se non perdi la tua prima moglie; se non ti uccidono il padre; se non ti muore la tua prima

figlia a tre mesi; non si diventa Dostoevskij se non perdi il più amato dei tuoi amici: tuo fratello; se non

soffri di epilessia e di dipendenza dal gioco; se non ti chiudono il giornale su cui scrivi; se non trovi una

seconda moglie che, quando torni a casa avendo dilapidato tutto nel gioco d’azzardo, dice che ti ama lo

stesso. Inferno, purgatorio e paradiso, miseria e altezza, peccato e salvezza. Non si scrive come scrive

Dostoevskij, se non si è Dostoevskij.

Ritorniamo ai nostri «fucilandi». Dostoevskij si gira verso uno dei suoi compagni: un gruppo di

socialisti e utopisti, che si riunivano e discutevano del riscatto della povera gente. Lui, educato nella fede

ortodossa, si è convinto che il cristianesimo è sì una bella idea, però non cambia la vita delle persone; per

cambiare la vita delle persone ci vuole il socialismo: bisogna entrare nella realtà e fare qualcosa. Cristo è

un grande ideale e modello, ma ora bisogna agire e trasformare la realtà. Siamo nella Russia zarista, in cui

ci sono i servi della gleba (la Povera gente del 1846) e inneggiare anche solo con il pensiero alla libertà dei

poveri è morte. Dostoevskij si volta verso il capo di questo gruppo che ammira sconfinatamente, e gli

chiede: «Saremo con Cristo?». L’altro lo guarda, sorride e dice: «Un mucchietto di polvere». Nient’altro

che un mucchietto di polvere, così come Cristo non è nient’altro che un mucchietto di polvere. Un

modello, sì, un grande uomo vissuto duemila anni fa, ma nient’altro che un mucchietto di polvere. Non

c’è redenzione dall’alto. Il plotone punta i fucili, ma risuona un alt. Lo Zar ha deciso di concedere la

grazia e mutare la pena in lavori forzati. In quel momento, la vita passata in rassegna in pochi secondi,

come fa chi sta per morire (l’esperienza è raccontata nell’Idiota), conosce la realtà della grazia e quindi

della Grazia. La sua Damasco.

Diciamo sempre che la vita, quando sta per finire, ci passa davanti agli occhi in un attimo: perché

usiamo questa frase? Perché siamo esseri narrativi, senza le narrazioni non sappiamo che cosa farcene

della vita. Interpretiamo le azioni dell’uomo attraverso le narrazioni. Siamo esseri storici, esseri che

stanno nella storia, che hanno una storia, che sono una storia. Senza una storia non possiamo vivere,

perché solo nella storia possiamo essere salvati: siamo esseri narrativi e senza le narrazioni non sappiamo

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chi siamo. Tutte le interpretazioni che diamo del nostro esistere sono narrative. A differenza degli

animali abbiamo futuro, presente e passato, siamo consapevoli di dover morire.

Alain Finkelkraut lo spiega molto bene: «Il principale ostacolo tra noi e il mondo, anzi tra noi e noi

stessi, è di ordine romanzesco. Il velo stesso sulle cose ha una tessitura narrativa, non diversamente dal

loro disvelamento». Quello che si frappone fra me e la mia autenticità, fra il mio stare al mondo e come

sono io veramente in profondità, tra me e gli altri, è una narrazione. Io interpreto me stesso sempre con

una narrazione. A che punto sono le narrazioni con cui interpretiamo la nostra vita? Sono narrazioni

riduzionistiche? E allora costruiremo una vita ridotta. Sono narrazioni che abbracciano l’umano a

trecentosessanta gradi come fa Dostoevskij? L’immensa biografia sull’autore scritta da Joseph Frank è

infatti tutta tesa a mostrare come lo scrittore rispondesse nei suoi romanzi a tutti i tentativi di riduzione

dell’uomo da parte degli intellettuali del suo tempo, mette in bocca ai suoi personaggi le loro «narrazioni»

e le affronta una a una alla luce dell’uomo nuovo e vero che ha trovato. Leggere Dostoevskij serve ad

avere fra noi e noi stessi meno ostacoli. Per questo si fatica a leggere Dostoevskij. Non ci consola, ci

mette in crisi (cioè a discernere), ci costringe ad andare nella tenebra e nella luce. Per questo Bachtin lo

ha definito l’inventore del romanzo polifonico. Dostoevskij è perfettamente consapevole che l’uomo è

stratificato: una stratificazione che va dall’alto al basso, dall’inferno al paradiso. Egli inventa gli strumenti

narrativi per raccontare contemporaneamente in ogni pagina questi strati: per questo quando leggiamo

Dostoevskij ci sentiamo confusi. Mentre il viaggio di Dante è progressivo, perché la sua teologia

esistenziale ha comunque la struttura architettonica di Tommaso D’Aquino, Dostoevskij infila inferno,

purgatorio e paradiso nella stessa pagina, perché l’uomo è «tutte queste cose nella stessa pagina» della

vita. Ciò che Dante proietta nell’aldilà, Dostoevskij lo racconta nell’aldiquà. Scrive un romanzo

polifonico perché, come avviene nella polifonia, c’è una voce dominante e poi attacca un’altra voce, che

è la stessa solo che è sfalsata. E si crea il contrappunto, e sembra che quelle note fra di loro contrastino e

invece creano un’armonia più grande.

Perché Dostoevskij ci offre una narrazione vera? Perché siamo esseri polifonici: pensiamo una cosa e

facciamo l’esatto contrario, vogliamo essere buoni e vorremmo eliminare chi sta in coda davanti a noi al

supermercato. E Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo, è questo: un uomo che ha deciso che

un’usuraia non è degna di stare al mondo e lo razionalizza con una narrazione riduzionistica che nel

corso del romanzo, cioè della vita, viene fatta a pezzi. In lui, come in noi, c’è il sottosuolo e la

redenzione. Capite perché è una narrazione salvifica? Perché apre alla salute della vita: non per

consumarla, ma per convertirla.

La parola che i latini usavano per le storie è fabula, che poi da bambini abbiamo usato come «favola».

Viene da una radice latina, che genera il verbo for, faris, il verbo del dire che indica le cose stabilite

dall’alto verso il basso, dagli dèi verso il mondo, la voce autorevole. Una radice che unita al suffisso –tus,

costituisce il «fato», ciò che gli dèi dicono che debba accadere. È una parola carica di significato,

autorevole, la parola che fa accadere le cose perché voluta dall’alto. Che cosa hanno pensato bene di fare

i latini per indicare le storie? Di usare la stessa radice e dirci che quella parola diventa fabula; ora,

l’aggiunta di –bula viene dal suffisso –bulus, –bula, –bulum, che indica i posti in cui si abita; tanto che si

usa solo per le attività di agricoltura e pastorizia (stabula sono le stalle, pabula i pascoli: gli spazi in cui

avviene quello che la radice verbale indica). L’unico termine con lo stesso suffisso, che riguarda cose che

non sappiano di puzza di campo, è proprio fabula: le storie sono il posto dove abita la parola decisiva e ci

raggiunge. Sono il posto dove il destino, che gli dèi hanno deciso per noi, si fa vita nella nostra vita.

Perché si è fatta vita nella vita dei personaggi, e io, leggendo di quei personaggi, mi chiedo: ma io a che

punto sono dell’abitare il mio destino? E con il mio destino intendo tutte quelle cose che mi sono

capitate nella vita e che io non posso modificare, e all’interno delle quali liberamente scelgo il mio

percorso, accettandole e modificandole. I personaggi di Dostoevskij, dice Bachtin, sono i primi che

sembrano talmente liberi da potersi da un momento all’altro ribellare al loro autore. Anche questo è il

romanzo polifonico. Sono contraddittori, perché sono liberi e noi siamo liberi e per questo siamo

contraddittori. E lui ce lo mette sotto gli occhi: ci fa incontrare il destino della nostra condizione umana,

inventando fabulae che dicono tutta la verità sull’uomo, non ci nasconde niente. Chi non si nutre di

fabulae, dato che non nutrirsi non si può, si affida alla terza parola che è costruita su quella radice, che

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guarda caso è una storia, ma non è una storia affidabile: è la fama. Quello che gli altri dicono di me, i

copioni scritti dagli altri. «Cosa devo fare della mia vita? Chissà. Vediamo come mi guardano gli altri,

vediamo quello che gli altri pensano di me». Pascal scriveva che ci prendiamo molta più cura del nostro

essere immaginario che di quello reale, e saremmo disposti a perdere delle qualità che abbiamo realmente

pur di render più bello il nostro io immaginario. Dostoevskij ci aiuta ad abitare il nostro destino, perché

costruisce fabulae che ci liberano da qualsiasi narrazione riduzionistica, per quanto diffusa e potente possa

essere (fama appunto). E dove Dostoevskij trovò il suo metodo narrativo? La sua strada polifonica?

Per grazia ricevuta non viene fucilato. Viene mandato ai lavori forzati in Siberia fino al 1854; gli

vengono tolti tutti i suoi libri, l’unico libro che può leggere sono i Vangeli. Le conseguenze sono due:

diventa epilettico e trova la Bellezza. La trova proprio nelle pagine di Vangelo, perché capisce che Cristo

non è solo un modello archeologico da imitare, un uomo a cui ci possiamo ispirare come a Socrate a

Buddha. Cristo, scopre Dostoevskij, ed è questo che racconta nella seconda metà della sua creazione

artistica (dal Sottosuolo in poi), è la Storia di ogni storia, può impadronirsi della tua vita e trasformarla.

«Immagine di Dio nell’uomo. Conserva l’immagine di Cristo e se ti è possibile rappresentala in te. Cos’è

la vita? Definire sé stesso il più possibile. Assomigliare al Signore che dice: “Io sono colui che è”». Così

scrive nel suo taccuino alla fine della sua vita, era lo stesso uomo che sul punto di essere fucilato

dubitava di Cristo.

Il primo Dostoevskij è come il primo Van Gogh: ci racconta l’uomo in modo romantico, quasi

melodrammatico, il mondo dei poveri. Lo guarda con la compassione di colui che è già salvo, infatti lo

fa dall’esterno. In Siberia è stato a contatto con i poveri, è stato lui stesso spogliato di tutto. E dopo

esser tornato alla vita, scrive le Memorie del sottosuolo, in cui quello che fa è proprio quello che hanno fatto

Dante con la Divina Commedia e Agostino con le Confessioni. Ha scoperto il principio trasformante della

vita, a partire da sé, la prima compassione l’ha sperimentata su di sé. Leggendo il Vangelo, ha scoperto

che Cristo ha passato trent’anni della sua vita a essere uno qualunque, a lavorare, a fare il falegname.

Scopre che ogni storia umana può diventare quella narrazione divina, perché Dio si è fatto carne e ha

assunto, come Dio, tutta la condizione umana: pianto, sudore, incomprensione, dolore, fatica, sorriso,

gioia, festa. Tutto. Tutto il ventaglio, tutta la polifonia dell’umano, da quando Dio si è fatto uomo, è

dentro Dio. Si è soprattutto fatto carico di una cosa che l’uomo non vede o non vuole vedere, e da cui si

ripara con le sue narrazioni auto-fondanti: il peccato. Questo è fondamentale per capire il Dostoevskij

del Sottosuolo.

Dalle Memorie del sottosuolo in poi, Dostoevskij scrive solo romanzi potentissimi, che hanno come

centro propulsore e chiave di volta una scena del Vangelo, o nella frase in esergo (il brano dei porci nei

Demoni) o mescolata alla narrazione, chiave di lettura di tutto il romanzo (le nozze di Cana nei Karamazov,

Lazzaro in Delitto e Castigo...). Le Memorie del sottosuolo sono lo snodo, la Damasco narrativa di

Dostoevskij: il protagonista è sprofondato nel sottosuolo e cerca di fondare la sua identità senza Dio, e

titanicamente cerca di costruire quest’io, che si deve puntellare da qualche parte, e lo auto-fonda. E lo

auto-fonda a tal punto che ne consegue l’agire: amore per la distruzione, annichilimento, annullamento.

Dante e Agostino la chiamano dannazione infernale. Lui: sottosuolo. Il tipo di lettura del reale è analogo

a quello di Dante e Agostino: c’è senso e sovrasenso, lettera e spirito, storia umana e storia della salvezza

coincidono, a saperne leggere l’intreccio. I personaggi dei romanzi successivi escono tutti dal sottosuolo,

per la loro dannazione definitiva o per la loro salvezza.

Prendiamo Raskol’nikov. Chi è? Un ragazzo che decide (riduzione) di essere al di là del Bene e del

Male: ucciderà senza pentirsene, perché è convinto di poter decidere il Bene e il Male, proprio

mangiando il frutto della conoscenza del bene e del male, per farsi dio a sé stesso. Decide di farsi

creatore di sé stesso e diventa dio: e chiunque diventa dio deve gestire un’esistenza da dio (rifiutare

l’incarnazione produce il movimento contrario): questa è la sua vera condanna. La polifonia di voci che

lo abitano, tra loro in conflitto, come l’uomo nudo di Dio dopo il peccato, esplode. Ragione, volontà e

corpo divorziano e lo spirito è titanicamente sostituito dal fiato corto dell’uomo. Dostoevskij racconta il

peccato originale con altri mezzi, e sa che solo la redenzione porta il divorzio a unità, nella narrativa

come nella vita.

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Dostoevskij nel ghiaccio e nella carne ha scoperto che il Vangelo non è un testo che riguarda il

passato, ma è la Storia di ogni storia, e la narrazione che provoca ogni narrazione. Ogni storia umana è

solo proseguimento del Vangelo e il Vangelo è la chiave di lettura di ogni storia. Dostoevskij scrive i suoi

romanzi come prosecuzione del Vangelo.

Raskol’nikov alla fine si è reso conto che il male e il bene non può «deciderli» l’uomo da solo: ma lo

scopre proprio grazie al suo delitto (felix culpa): l’uomo, per quanto razionalmente e volontaristicamente

(quindi con ogni tipo di narrazione riduzionistica rispetto alla sua creaturalità aperta al Creatore) cerchi

di fondare la propria identità a partire da sé stesso, fallisce. Finisce in prigione, vuole espiare il suo

delitto, grazie alla grazia dell’amore: ha trovato una donna capace di amarlo com’è, questa donna è tra gli

ultimi, è una prostituta. Anche lei a contatto con Raskol’nikov si «converte». Quando il personaggio si

trasforma, in Dostoevskij, c’è sempre un momento cosmico, il mondo partecipa in ogni dettaglio come

in una liturgia del creato, che non è mai neutro, ma sempre in tensione verso Dio («Amando una mela si

può amare l’uomo», scrive nel suo taccuino, «Se amerete ogni cosa, in ogni cosa scorgerete il mistero di

Dio», dice uno dei suoi personaggi principali). In questo caso il ragazzo si affaccia dalla sua prigione

(reale e spirituale), vede la steppa immensa e ricorda Abramo (tipica traccia di polifonia, altrimenti

disorientante: l’uomo di Dostoevskij parla lingue differenti a seconda del livello che sta parlando in lui,

ma è pur sempre un unico Logos che parla):

«Laggiù, nell’immensa steppa bagnata dal sole, nereggiavano appena visibili le tende dei nomadi. Laggiù

era la libertà, e vivevano altri uomini, che in nulla assomigliavano a quelli di qui, laggiù era come se il tempo

stesso si fosse fermato, come se ancora non fosse passata l’era di Abramo, e il suo gregge. Raskol’nikov sedeva,

guardava senza muoversi, senza staccare lo sguardo; il suo pensiero passava dalle fantasticherie alla pura

contemplazione; non pensava a nulla, ma una sorta di angoscia l’agitava e lo tormentava» (Ivi, pp. 674-675).

Poi in quella prigione dialoga con Sonja e ricorda il momento in cui hanno letto insieme, quando lei

ha aperto «a caso» (il Logos parla sempre) il Vangelo (la sua àncora nella vita da prostituta), la pagina della

risurrezione di Lazzaro. Chi è Raskol’nikov? È la ri-scrittura di Lazzaro, è la prosecuzione nella storia

nostra della storia di Lazzaro. Il Lazzaro risorto è Raskol’nikov: storia e sovra-storia coincidono, e l’una

trova compimento nell’altra; quello che accade nella storia di ogni giorno non è altro che la prosecuzione

di una storia che è già stata detta e che si può rinnovare, in modalità nuove rispetto a come è stato

raccontato, perché nuovo è ogni giorno l’incontro della grazia con la storia («Ecco, io faccio nuove tutte

le cose» si legge nell’Apocalisse). Ecco la bellezza di cui parla Dostoevskij! Non è la bellezza estetica come

compiacimento della seduzione delle forme e dell’armonia, la bellezza consumabile. Quando dice ne

L’idiota: «Il mondo lo salverà la bellezza», parla di qualcos’Altro. Quando nei Karamazov, parlando di

bellezza, contrappone l’ideale della Madonna a quello di Sodoma, svela questo: la bellezza trasformante

si accoglie, quella distruttiva si consuma.

«Ma adesso le loro mani non si disgiunsero; egli le lanciò un’occhiata rapida e di sfuggita, non disse nulla e

abbassò gli occhi a terra. Erano soli, nessuno li vedeva. In quel momento la guardia di scorta si era voltata» (Ivi.

p. 675).

Storia e sovra-storia: quello che succede è una cosa che le guardie non vedono, non possono capire.

Dostoevskij crea come Dante e Agostino: c’è un primo senso, che è quello storico e letterale, che è

autosufficiente e catturante. Poi, in base al punto di «vita» in cui sei tu, di profondità in cui ti collochi e

di capacità di abitare quello che racconta, coglierai il disegno di tutta la polifonia. Se colgo tutto il

contrappunto mi godo la polifonia, se colgo una sola voce, mi godrò quella voce.

«Piangeva e le abbracciava le ginocchia. In un primo istante Sonja si spaventò terribilmente, e il suo volto

divenne mortalmente pallido. Balzò in piedi e, tremando, lo guardò. Ma subito, in quello stesso istante,

comprese ogni cosa. Nei suoi occhi risplendette una sconfinata felicità; aveva capito, e per lei ormai non c’era

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più dubbio alcuno, che lui l’amava, l’amava sconfinatamente, e che finalmente era giunto il momento…

Volevano parlare, ma non riuscivano. Avevano le lacrime agli occhi. Entrambi erano pallidi e magri; ma in quei

volti pallidi e malati già splendeva l’alba di una rinnovata, futura e completa risurrezione in una nuova vita. Li

faceva risorgere l’amore, il cuore di ognuno di loro racchiudeva infinite fonti di vita per il cuore dell’altro» (Ivi,

pp. 675-676).

Questa non è una voce soltanto umana! Cioè, è pienamente umana, ma divina allo stesso tempo.

Perché Cristo è stato ogni uomo, è unito in certo modo a ogni uomo. Non c’è niente dell’umano che

non sia stato liberato dalla sua sola umanità, dalla sua sola profanità, e grazie a quell’aggancio può essere

trasfigurato:

«Ma lui era risorto, e lo sapeva, sentiva pienamente con tutto il suo essere rinnovato, e lei viveva soltanto

della vita di lui» (Ivi, p. 676).

Sembrano versetti del Vangelo: un assassino in questa pagina è diventato Cristo e una prostituta è

diventata la Madonna. Non è una lettura confessionale: tutta la struttura di Sonja nel romanzo è

un’identificazione con una famosissima icona che Dostoevskij usava per pregare, in cui c’è la «Madonna

garante dei peccatori», che ha le fattezze e i colori con cui è descritta Sonja.

«Al posto della dialettica si stava facendo avanti la vita» (Ivi).

La dialettica era una delle tante narrazioni riduzionistiche sull’uomo. Raskol’nikov spazza via tutto

quello che ha sostenuto per un romanzo intero: non ci si libera dal proprio assassinio con la testa o con

la volontà. C’è qualcosa di ulteriore, c’è lo spirito, e lo spirito per Dostoevskij è l’abitazione della Trinità

nell’uomo. Puoi provare a scacciarla, non riu­scirai mai: puoi darle spazio o non darle spazio, questo sì,

ed è il mistero della libertà, che si trasforma in strumenti narrativi nella polifonia dostoevskijana.

«E nella coscienza si stava elaborando qualcosa di completamente diverso. Sotto il cuscino era riposto il

Vangelo. Lo prese macchinalmente. Quel libro apparteneva a lei, era lo stesso dal quale gli aveva letto della

risurrezione di Lazzaro» (Ivi, pp. 676-677).

La narrativa di Dostoevskij è affidabile perché ci mette di fronte alla realtà in tutta la sua terribile e

meravigliosa stratificazione. Chiusa nell’uomo che si auto-fonda nel suo orgoglio, riducendosi in uno dei

suoi strati (ragione, volontà, passioni) egli ci fa vedere la tenebra; se questa narrazione è invece aperta

all’uomo che trova Dio nella realtà e si innalza a Lui o scopre che è al centro di uno sguardo divino,

allora si libera. Non ci risparmia nulla della realtà: tutta la nostra miseria e tutta la nostra grandezza; non

ci nasconde (come ci nascondiamo noi dietro facili e riduttive narrazioni) il nostro risentimento, la

nostra paura, la nostra chiusura al Mistero, il nostro egoismo, la nostra incapacità di lasciarci amare, di

fidarci dell’amore gratuito e di amare gli altri. Non ci risparmia niente di tutto il male che abbiamo

dentro. Per questo è una narrazione affidabile. Però, proprio nel momento in cui ci sta raccontando

questo inferno, ci fa scoprire che la possibilità di riscatto di questo inferno stava proprio lì, dietro e

dentro di noi. Dal Sottosuolo si può cercare di risalire auto-fondandosi (costruendo la vita a partire dalle

proprie convinzioni volontaristiche, razionalistiche, istintuali) oppure accogliere la vita come qualcosa

che è posto in noi, da ampliare e non da ridurre, che raggiunge la sua pienezza proprio quando si

consegna alla grazia:

«Ciò che vi sembra cattivo in voi è purificato per il solo fatto che l’avete notato. Nel momento in cui

vedrete con spavento che, malgrado i vostri sforzi, non soltanto non vi siete avvicinati allo scopo, ma che ve ne

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siete addirittura allontanati, in quel momento, ve lo predico, raggiungerete lo scopo e vedrete al di sopra di voi

la forza misteriosa del Signore che a vostra insaputa vi avrà guidato con amore» (I fratelli Karamazov).

Io di uno scrittore che non mi nasconde tutta la mia miseria e mi dice che proprio a partire da quella

miseria posso provare a fondare veramente la bellezza della mia vita, mi fido. La sua è una narrativa che

salva, perché elimina ostacoli tra me e me stesso, tra me e gli altri. E la sua narrativa ha creato parole,

immagini, strumenti per dire al lettore che l’uomo non si costruisce dal basso verso l’alto, cioè

autonomamente, ma dall’alto verso il basso, unendo la sua creaturale autonomia alla sua essenziale

eteronomia. La sua narrativa in fondo mi mette in crisi, cioè mi porta a discernere, perché mi chiede:

«Vuoi tu essere redento?».

Alessandro D’Avenia

Bibliografia

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R. Girard, Dostoevskij dal doppio all’unità, SE, Milano 1987.

G. Ghini, Anime russe, Ares, Milano 2014.

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