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12/6/2014 Gaetano Pesce: il mio album - Casa & Design
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«È l’acrobata che cammina sul filo sospeso fra arte e design. Si
chiama Gaetano Pesce ed è tornato molto di moda. Senza fare
nulla per esserlo. Semplicemente restando fedele a se stesso,
come gli orologi rotti che due volte al giorno segnano l’ora
esatta. Alla fine è stata la moda a passare dalle sue parti. Se
volete la prova del nove, basterà aspettare la retrospettiva che
dal 26 giugno gli dedica il Maxxi di Roma e che dice tutto già nel
Gaetano Pesce: il mio albumL'artista e designer si racconta in esclusiva per noi. In occasione della grande
retrospettiva al Maxxi, dal 26 giugno
FOTO 1 DI 11
1964: questa è una bellissima foto, scattata da uno degli architetti dello studio di
Alvar Aalto. Milena ed io andammo, giovanissimi, da Aalto a Helsinki, che allora era
il centro dell'architettura, a chiedergli se era disponibile per realizzare la seconda
ala del museo degli Eremitani a Padova. Lui rispose di sì. Poi furono i politici che
non capirono l'importanza di questa opportunità e non se ne fece niente. Peccato.
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titolo: Il tempo della diversità.»
Che cosa significa?
«Veniamo da epoche di produzione seriale e standardizzazione.
La rivoluzione francese proclamava l’égalité, una bella speranza
ma anche, estremizzando, un pericolo. Pensi all’obbligo di
vestirsi tutti nello stesso modo come nella Cina di Mao. Oggi
vogliamo sentirci tutti diversi l’uno dall’altro, tutti unici. Adesso
anche l’industria vuole produrre pezzi personalizzati, unici. Sarò
felice quando ognuno di noi avrà un’auto fatta su misura e
potremo riconoscere gli amici semplicemente vedendo passare
la loro auto. La diversità è essenziale. Siamo diversi, ci parliamo,
comunichiamo e impariamo l’uno dall’altro».
I suoi lavori sono spesso pezzi unici o comunque diversi in
qualche particolare anche quando sono prodotti in una certa
quantità. Oggetti in cui la funzione non è mai il carattere
dominante; opere dove arte, protesta, provocazione, colore e
gioco si mescolano di continuo. Non sempre facili da capire.
«Forse. Ma ciò che conta è che ciascuno vi trovi qualcosa. Alla
fine degli anni Cinquanta sono stato tra i fondatori del gruppo N,
che faceva arte astratta. Ma poi mi sono accorto che
sbagliavamo. Nell’arte ci deve essere la realtà che conosciamo e
riconosciamo, con cose e persone. Dobbiamo molto al Futurismo
che ha portato la vita e il movimento nell’arte. Pensi che poi uno
come Duchamp ha portato la produzione seriale nelle opere
d’arte, Elsa Schiaparelli, che collaborava con Dalì, scelse la moda,
e Depero si metteva a fare manifesti pubblicitari… Mi piacciono
gli oggetti e i materiali vivi, che si muovono».
E infatti lei lavora molto con materiali che si modificano al
tatto, come la resina o il poliuretano. Con cui ha fatto Up5,
una poltrona che oggi è un’icona del design.
«Ma, soprattutto, resta valido il suo messaggio: guardandola è
facile riconoscere una donna accovacciata, con accanto Up6, un
pouf che le fa da palla al piede. Malgrado tante chiacchiere, le
donne continuano a subire ingiustizie e violenza. Alla fine del
percorso della mostra del Maxxi ci sarà una Up5 gigante, alta 7
metri in cui i visitatori potranno entrare. Ci saranno delle sbarre,
come in una prigione, e al di là della sbarre dei televisori
porranno delle domande sulla condizione femminile».
Questo è un suo argomento ricorrente. In mostra c’è anche la
Chador Lamp per Meritalia, in cui il paralume evoca appunto
un chador. Come mai?
«Da bambino ero un ribelle, mio padre, un ufficiale di marina, è
morto che ero molto piccolo, ma ho avuto la fortuna di crescere
circondato da donne, da cui ho avuto tantissimo. E mi chiedo
perché vogliamo continuare a farci del male impedendo alla
metà del genere umano di esprimersi e di offrire al mondo tutto
quello che potrebbe. E poi da tempo vado dicendo che questa
crisi non è solo economica, ma anche di idee. Forse il pensiero
maschile è ormai stanco e, monolitico come è, inadatto a
un’epoca complessa e “multitasking” con cui le donne mi
sembrano molto più in sintonia. Comunque opere di denuncia ne
ho fatte molte, non solo sulla questione femminile. un’altra
lampada, la Verbal Abuse, l’ho fatta pensando agli abusi che
alcuni insegnanti commettono con le parole nei confronti dei
loro studenti. Li opprimono, li scoraggiano, impediscono che
diano il meglio che hanno dentro. Anche perché capire le
potenzialità di un ragazzo non è facile. Lo sa che in via della
Spiga c’è una scuola dove è andato anche Albert Einstein? Un
giorno il padre è stato convocato da un insegnante che gli ha
detto: “Suo figlio per le scienze è proprio negato”».
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Porta due fedi, come mai?
«Per ricordare due donne che non si sono più. Una è la madre dei
miei figli più gandi, Francesca. L’altra è Milena Vettore, che ho
conosciuto ragazzo, e che è morta in un modo un po’ assurdo».
Vuole ricordarlo?
«Avevamo accettato l’invito di Cesare Cassina di andare a
trovarlo in fabbrica, dove aveva dei macchinari modernissimi,
per fare degli esperimenti creativi. Durante una di queste prove
di produzione, un ultrasuono prodotto da uno dei macchinari la
colpì al cervello procurandole un embolo. Morì dopo undici giorni
di coma».
A Venezia ha avuto insegnanti importanti e illustri.
«Sì, Ernesto Nathan Rogers, Carlo Scarpa, Franco Albini, Bruno
Zevi fino a un giovanissimo Mario Bellini che oggi è un grande
amico. Ma non tutti ugualmente bravi come docenti. Scarpa, per
esempio, forse perchè aveva girato poco, era un po’ provinciale,
viveva nel mito di Frank Lloyd Wright».
Lei invece ha girato molto, e vive a New York.
«La spinta ad andare all’estero me l’hanno data la morte di
Milena e le difficoltà a farsi strada nell’università italiana. Così
sono stato nel nord Europa, soprattutto a Helsinki, dove c’era
molto da imparare, poi a Parigi e alla fine a New York. Nei primi
anni Ottanta ho insegnato ad Harvard. Ma ho trovato che
l’università era affetta da troppo specialismo, invece
interdisciplinarietà ed eclettismo sono fondamentali, Come
mutevolezza e imprevedibilità».
Si spieghi meglio.
«Finita l’università mi sono reso conto che conoscevo il legno, la
pietra, il vetro, materiali del passato, ma nessuno mi aveva
parlato dei materiali del presente. Così ho scritto ad alcune
aziende chimiche, la Dunlop, la Rhone Poulen, la Bayer,
chiedendo di poter visitare i loro stabilimenti per imparare. Così
ho conosciuto schiume che si sviluppavano e crescevano in
pochi secondi, materiali dalle prestazioni e dai comportamenti
sorprendenti. Produrre con i materiali del proprio tempo è una
forma di sincerità verso se stessi e verso la società. magari con
uno sguardo sul futuro. Adesso, per dire, sto lavorando su
oggetti che nascono morbidi ma diventano duri quando vengono
riscaldati oltre una certa temperatura».
Nel 1969 con il poliuretano ha fatto Up5.
«Sì, perchè ho avuto la fortuna di incontrare uno come Cesare
Cassina, fondatore con Piero Busnelli della C&B (oggi B&B, ndr),
che mi ha dato la possibilità di provare senza l’assillo del
risultato. Mi aveva detto: io le do tre milioni al mese, lei deve
solo sperimentare, provare cose nuove. Un vero mecenate che
mi ha fatto anche un po’ da padre. I mecenati sono sempre
esistiti, anche Caravaggio ne aveva uno, che però era così tirchio
che lui lo aveva soprannominato Monsignor Insalata, perché con
il poco che gli passava non si poteva permettere di cibi costosi.
Cassina invece era un uomo straordinariamente generoso.
L’idea della Up5 mi era venuta sotto la doccia, con una spugna.
Mi ha ispirato per una poltrona che, come una spugna potesse
essere schiacciata e diventare piccolissima, per poi riprendere le
normali dimensioni. La Up5 all’inizio veniva imballata
sottovuoto e questo consentiva di risparmiare molto spazio. E
gonfiarla per farla tornare alle normali dimensioni era un po’ un
gioco».
L’eclettismo è un suo segno distintivo. Ci sono degli esempi in
mostra?
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«Certo. C’è un 33 giri con della musica elettronica, La canzone
dello yeti, prodotto dalla Rca nel 1959. C’è il film che ho fatto per
la nota mostra del 1972 New Domestic Landscape, al Moma: una
specie di ultima cena cannibale con l’ossessivo rumore di una
goccia che cade, o il modellino di una performance del 1967, con
un piano inclinato su cui c’era una persona seduta di spalle. Il
pubblico in sala piombava nel buio, si sentiva uno sparo e
quando si riaccendevano le luci la persona seduta sanguinava
copiosamente al punto che il sangue, cinquecento litri di liquido
rosso e fumante, arrivava fino al pubblico che non poteva uscire
finché gli inservienti non ripulivano; le scarpe personalizzabili
che ho fatto per il marchio brasiliano Melissa, Ci sono poi alcuni
lavori che testimoniano il tentativo di un’arte multisensoriale,
in cui sono coinvolti più sensi contemporaneamente».
Direi che come esempi possono bastare. Per tornare ai
materiali, certi suoi oggetti hanno forme bizzarre,
apparentemente casuali.
«In parte è vero. Intanto, io non sono uno di quelli che arrivano
con il loro disegnino e le idee perfettamente chiare su quello che
vogliono. Per me è fondamentale scambiare idee ed esperienze
sul campo, confrontandosi per esempio con gli artigiani e le
maestranze delle aziende. E poi mi piace il fattore sorpresa.
Inoltre tendo a pensare che sia doveroso usare materiali del
proprio tempo, ne faccio una questione di sincerità e onestà
espressiva. Devo dire che amo lavorare con materiali che si
muovono. Anche il legno si muove, ma lentamente, gli ci
vogliono mesi, anni. Voglio maetirali che reagiscono, e con la loro
reazione contribuiscono al risultato finale, anche in maniera
imprevedibile. Fra le ragioni per cui ritengo il futurismo un
movimento fondamentale, una vera preparazione al design, c’è
anche il fatto che ha portato nell’arte il movimento. Oltre
naturalmente a tutta la realtà la vita vera. L’arte deve partire
dal mondo sensibile, addirittura dalla quotidianità; è un
commento alla realtà».
Ha parlato del fattore sorpresa. Che cosa intende?
«Quando si inietta la schiuma in uno stampo si cerca di fare in
modo che contemporaneamente esca tutta l’aria. Al Pompidou,
per esempio, c’è una libreria che ho fatto partendo al principio
opposto: impedendo all’aria di uscire, si sono formate delle bolle
in maniera imprevedibile che hanno portato a un risultato unico.
Un’altra volta dovevo fare una scala e per un mio errore lo
stampo è esploso. Ne è venuta fuori una scala surreale che è
molto piaciuta anche al committente».
La sorpresa come frutto del caso.
«Il caso e le combinazioni. Che sono sempre in agguato nella
nostra esistenza. Giovanna Melandri, che ha fortemente voluto
questa mostra, mi diceva di essere nata a New York e nominava
la stessa via in cui abito. Poi mi ha mostrato la foto dell’edificio in
cui è nata. Beh, è casa mia».
Anche la sua mostra finisce con qualche piccola, anzi, grande
sorpresa, con le installazioni fatta per l’occasione…
«Alla fine del percorso espositivo avrei voluto uno spazio
mantenuto alla temperatura di un grado dove un blocco di
ghiaccio si scioglie molto lentamente e degli amplificatori
amplificano il rumore delle gocce che cadono con un ritmo
irregolare, opposto allo scorrere dei secondi sull’orologio, per
dare un’altra idea del tempo. Purtroppo ci sarà solo in forma
virtuale, per problemi tecnici e di sicurezza. All’esterno della
mostra invece c’è una Up5 gigante, in cui si entra e ci si trova
come in una prigione. Ci sono delle sbarre e al di là delle sbarre
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dei televisori che pongono domande sulla condizione femminile.
La questione della diseguaglianza dopo tanti anni, purtroppo,
resta ancora molto attuale».
Un articolo di scritto da Aurelio Magistà il 12 giugno 2014