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ECONOMIA LE BASI DELL’ECONOMIA L’economia è lo studio del modo in cui le società utilizzano risorse scarse per produrre beni utili, e di come tali beni vengono distribuiti tra diversi soggetti . Possiamo affermare che l’economia: analizza l’influsso delle istituzioni e della tecnologia di una società sui prezzi e sull’allocazione delle risorse tra usi alternativi; indaga sul comportamento dei mercati finanziari; esamina la distruzione del reddito e di come aiutare i poveri senza compromettere l’efficienza del sistema economico; studia il ciclo economico e le modalità di impiego della politica monetaria per attenuare oscillazioni disoccupazione/inflazione; studia i modelli di commercio; esamina la crescita dei paesi in via di sviluppo. Il nostro è dunque un mondo dominato dalla scarsità e pieno di beni economici. Si ha una situazione di scarsità quando i beni sono limitati rispetto ai desideri (il PIL dovrebbe essere molto superiore per garantire al cittadino medio un tenore di vita pari a quello medio di un esponente dell’alta classe). Dunque è necessario che un sistema economico sia efficiente, per utilizzare nel miglior modo possibile le risorse economiche a disposizione. Si dice che un sistema economico produce in modo efficiente quando non è in grado di migliorare le condizioni economiche di un individuo senza peggiorare quelle di un altro. Per comprendere la vita economica, gli economisti utilizzano il metodo scientifico e osservano fenomeni economici ricorrendo alla statistica (spesso esistono teorie che consentono ampie generalizzazioni). Gli economisti hanno inoltre elaborato la tecnica chiamata econometria, ovvero l’applicazione dei metodi statistici ai problemi economici. Tre errori comuni del ragionamento economico: • Errore del post hoc: errore di inferenza di causalità, ovvero quando supponiamo - dato che un fenomeno è accaduto prima di un altro - che il primo abbia causato il secondo. • Ignorare l’ipotesi di parità delle altre condizioni (tutti i fattori vanno mantenuti uguali e costanti). • Errore di aggregazione: quando si suppone che ciò che vale per una parte sia valido anche per il tutto. L’analisi economica moderna è costituita da due rami, che convergono per formare il nucleo dell’economia politica: Microeconomia: fondata da Adam Smith, si occupa del comportamento di singole entità, quali i mercati, le imprese e le famiglie. Macroeconomia: branca che si occupa dell’andamento complessivo di un sistema economico, che non esisteva fino al 36, quando Keynes pubblicò le sue teorie. 1

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ECONOMIALE BASI DELL’ECONOMIA

L’economia è lo studio del modo in cui le società utilizzano risorse scarse per produrre beni utili, e di come tali beni vengono distribuiti tra diversi soggetti. Possiamo affermare che l’economia: analizza l’influsso delle istituzioni e della tecnologia di una società sui prezzi e sull’allocazione delle risorse tra usi alternativi; indaga sul comportamento dei mercati finanziari; esamina la distruzione del reddito e di come aiutare i poveri senza compromettere l’efficienza del sistema economico; studia il ciclo economico e le modalità di impiego della politica monetaria per attenuare oscillazioni disoccupazione/inflazione; studia i modelli di commercio; esamina la crescita dei paesi in via di sviluppo.

Il nostro è dunque un mondo dominato dalla scarsità e pieno di beni economici. Si ha una situazione di scarsità quando i beni sono limitati rispetto ai desideri (il PIL dovrebbe essere molto superiore per garantire al cittadino medio un tenore di vita pari a quello medio di un esponente dell’alta classe). Dunque è necessario che un sistema economico sia efficiente, per utilizzare nel miglior modo possibile le risorse economiche a disposizione. Si dice che un sistema economico produce in modo efficiente quando non è in grado di migliorare le condizioni economiche di un individuo senza peggiorare quelle di un altro.

Per comprendere la vita economica, gli economisti utilizzano il metodo scientifico e osservano fenomeni economici ricorrendo alla statistica (spesso esistono teorie che consentono ampie generalizzazioni). Gli economisti hanno inoltre elaborato la tecnica chiamata econometria, ovvero l’applicazione dei metodi statistici ai problemi economici. Tre errori comuni del ragionamento economico:

• Errore del post hoc: errore di inferenza di causalità, ovvero quando supponiamo - dato che un fenomeno è accaduto prima di un altro - che il primo abbia causato il secondo.

• Ignorare l’ipotesi di parità delle altre condizioni (tutti i fattori vanno mantenuti uguali e costanti).• Errore di aggregazione: quando si suppone che ciò che vale per una parte sia valido anche per il

tutto.

L’analisi economica moderna è costituita da due rami, che convergono per formare il nucleo dell’economia politica:

• Microeconomia: fondata da Adam Smith, si occupa del comportamento di singole entità, quali i mercati, le imprese e le famiglie.

• Macroeconomia: branca che si occupa dell’andamento complessivo di un sistema economico, che non esisteva fino al 36, quando Keynes pubblicò le sue teorie.

Qualsiasi società umana deve affrontare tre problemi: stabilire cosa, come e per chi produrre. Nel decidere cosa e come produrre, in realtà, il sistema economico stabilisce a chi distribuire le proprie risorse tra i migliaia di servizi possibili. In sostanza: si deve scegliere tra i vari panieri di beni possibili (cosa), selezionare una tecnica di produzione (come) e infine decidere chi saranno i consumatori dei beni prodotti (per chi). Esaminando da vicino:

• Cosa produrre e in quali quantità? Si utilizzeranno le scarse risorse per produrre molti beni di consumo, oppure si limiteranno i beni di consumo e aumenteranno i beni di investimento per incrementare produzione e consumo?

• Come produrre? Una società deve stabilire a chi spetta il compito di produrre e quali tecniche utilizzare per farlo.

• Per chi produrre? Chi gode dei frutti dell’attività economica, qual è la distribuzione, come sono distribuiti poveri e ricchi sul territorio?

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Per rispondere a queste domande ogni società deve effettuare scelte relative agli input (terra, lavoro e capitale) e output del sistema economico. Gli input sono beni o servizi utilizzati dalle imprese nei loro processi produttivi, gli output i diversi beni o servizi utili risultanti dai processi produttivi. Dunque una società deve decidere cosa produrre e che quantità di output, come produrre, ovvero con quali tecniche combinare gli input per produrre gli output desiderati, e per chi produrre gli output e come distribuirli.

Esistono diversi modi con i quali una società può rispondere a queste domande dell’economia. Sono infatti organizzate in sistemi economici alternativi e l’economia studia i diversi meccanismi. In generale si possono distinguere due diversi modi in cui organizzare un sistema economico:

• In un’economia pianificata, lo stato prendere la maggior parte delle decisioni economiche e le decisioni le impartiscono coloro i quali si trovano al vertice della gerarchia.

• In un’economia di mercato, le decisioni vengono prese dai mercati sui quali gli individui o le imprese accettano di scambiare input e output, di solito tramite pagamenti in denaro: in quasi tutti i paesi democratici è così, anche se in nessuna società contemporanea si appartiene totalmente a una delle categorie. Esistono piuttosto categorie miste, che comprendono alcuni elementi di queste due.

La frontiera delle possibilità produttive di un Paese (FPP) indica le quantità massime di produzione ottenibili da un sistema economico, date la conoscenza tecnologica e la quantità di input di cui dispone. Essa rappresenta il menu di scelte a disposizione della società. L’FPP non è altro che la tecnica di calibrazione dei beni (pubblici o privati) a disposizione di uno stato, in base alle diverse esigenze di quest’ultimo. In un mondo dominato dalla scarsità, la scelta di un bene implica la rinuncia a un altro: il costo opportunità è il valore del bene o servizio a cui si rinuncia. L’efficienza produttiva si ha quando la società non può aumentare l’output di un bene senza ridurre quello di un altro bene. Un sistema economico efficiente si trova sulla frontiera delle possibilità produttive.

MERCATI E STATO IN UN’ECONOMIA MODERNA

In paesi come gli USA o l’Europa la maggior parte delle decisioni economiche viene presa in base a considerazioni di mercato. Un mercato è un meccanismo che consente ad acquirenti e venditori di interagire al fine di determinare il prezzo e la quantità di un bene o di un servizio. In un sistema di mercato, dunque, ogni cosa ha un prezzo, determinato dal suo valore in termini di moneta. I prezzi fungono da segnali per i produttori e consumatori: se i consumatori richiedono maggiore quantità di un bene, il prezzo subisce un incremento che segnala ai produttori la necessità di aumentare l’offerta. Dunque nel meccanismo di mercato i prezzi fungono da equilibratori:

• Prezzi più elevati tendono a ridurre gli acquisti dei consumatori e a incoraggiare la produzione;• Prezzi più bassi incoraggiano il consumo e frenano la produzione.

Si verifica un equilibrio di mercato quando la quantità dell’offerta dai venditori è uguale alla quantità di richiesta dai compratori, senza che dunque si verifichino sovrabbondanza o scarsità. I punti essenziali di un equilibrio di mercato:

• Cosa produrre viene stabilito dal “voto con il portafoglio” dei consumatori, nelle loro decisioni di acquisto quotidiane. Il loro denaro serve a pagare i salari, le rendite e i dividendi; a loro volta le imprese vogliono massimizzare il profitto, ovvero la differenza tra il valore totale delle vendite e i costi totali.

• Come produrre dipende dalla concorrenza tra i diversi produttori: il modo migliore di far fronte alla concorrenza è mantenere i costi a livello minimo adottando metodi più efficienti.

• Per chi produrre dipende perlopiù dalla domanda e dall’offerta dei fattori di produzione. I mercati dei fattori di produzione determinano salari, rendite, tassi di interesse e profitti: sono detti prezzi dei fattori.

Esaminando la soluzione ai tre problemi, è chiaro che le due categorie che muovono tutto il sistema economico sono consumatori e tecnologia. Ma la domanda dei consumatori deve

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incontrarsi con l’offerta dei beni delle imprese: pertanto le decisioni sui costi e sull’offerta da parte delle imprese contribuiscono a determinare cosa viene prodotto. Come il contadino che utilizza carota e bastone per far camminare l’asino, il sistema del mercato si serve dei profitti e delle perdite per indurre le imprese a produrre i beni desiderati in modo efficiente.

Adam Smith fu il primo a individuare l’ordine del sistema di mercato e ha ispirato i moderni economisti. Scoprì un’importante proprietà di un’economia di mercato concorrenziale. in una situazione di concorrenza perfetta, e in assenza di fallimenti del mercato, i mercati produrranno la massima quantità di beni e servizi utili. Ma quando prevalgono monopoli, esternalità o altre forme di fallimento del mercato, le caratteristiche di efficienza della mano invisibile possono venir meno. Dai tempi di Smith, le economie si sono sviluppate: quelle capitalistiche avanzate di oggi, come USA, Europa o Giappone, presentano tre caratteristiche distintive:

• Scambi e Specializzazione: economia moderna è caratterizzata da complessa rete di scambi tra individui e stati, basata su un elevato livello di specializzazione e una complessa divisione del lavoro. La specializzazione si ha quando gli individui concentrano i propri sforzi su un particolare insieme di attività affinché ognuno (o ogni paese) possa utilizzare al meglio proprie capacità e risorse. Una delle certezza della vita economica è che è preferibili adottare la divisione del lavoro, che consente ognuno di specializzarsi in base alle proprie qualità. È l’efficienza della specializzazione che consente la fitta rete di scambi tra individui e stati che caratterizza il mondo moderno. In cambio del lavoro specializzato, l’individuo riceve un reddito adeguato.

• Economie moderne fanno ampio uso di moneta, linfa vitale del sistema economico e metro per misurare valore economico dei beni e finanziare gli scambi. La moneta è il mezzo di pagamento che prende la forma di banconote, monete o assegni utilizzati per acquistare beni: è la linfa viale che accompagna gli scambi. Lo stato controlla l’offerta di moneta mediante la Banca Centrale: la moneta può anche deteriorarsi e danneggiare il sistema economico sfuggendo al controllo e provocando l’iperinflazione, situazione in cui i prezzi salgono molto rapidamente.

• Moderne tecnologie industriali si basano sull’utilizzo di ingenti quantità di capitale: i beni capitali aumentano l’efficienza del lavoro umano quale fattore di produzione, consentendo una produttività decisamente superiore al passato. Si tratta di strumenti di produzione a loro volta prodotti, input durevoli che sono allo stesso tempo un output del sistema economico. Il capitale è uno dei tre principali fattori di produzione primari, insieme a lavoro e terra. L’utilizzo di capitale implica metodi di produzione indiretti, che richiedono molto tempo ma hanno efficacia maggiore. Una riserva di capitale maggiore determina una più rapida crescita dell’economia, spingendo la frontiera delle possibilità produttive verso l’esterno. Gran parte dell’attività economica, dunque, consiste nel sacrificare il consumo presente per incrementare il capitale, facendo ogni volta investimenti. Il capitalismo prende il nome dalla capacità degli individui di possedere e sfruttare il capitale.

Non esistono stati che si astengono completamente dall’intervenire nel sistema economico. Lo stato può infatti regolamentare alcune attività (come quella bancaria) e sovvenzionarne altre (come istruzione e assistenza media), così come riscuotere le imposte dai cittadini e ridistribuire parte del ricavato agli anziani e ai bisognosi. In sostanza, in un’economia di mercato lo stato esercita tre funzioni economiche fondamentali:

• Aumenta l’efficienza favorendo la concorrenza, limitando esternalità e fornendo beni pubblici;• Promuove l’equità utilizzando le imposte e i programmi di spesa per redistribuire il reddito;• Favorisce la stabilità e la crescita macroeconomica e riduce disoccupazione e inglazione,

incoraggiando la crescita economica mediante politiche fiscali.

Smith riconosce che le virtù del meccanismo di mercato si realizzano solo quando sono presenti i freni e gli equilibri imposti dalla concorrenza perfetta, che si ha quando tutti i beni e i servizi

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hanno un prezzo e vengono scambiati sul mercato. Tre le situazioni tuttavia in cui questi casi non si verificano:

• Concorrenza imperfetta: compromette l’efficienza di un mercato, in questa situazione è possibile che la società si sposti all’interno della propria frontiera delle possibilità produttive. Gli effetti: i prezzi superano i costi e gli acquisti dei consumatori scendono al di sotto dei livelli di efficienza. In caso estremo è costituito dal monopolio (pochi comunque possono sostenere a lungo gli attacchi dei concorrenti).

• Esternalità: inefficienza che si ha quando imprese o individui impongono costi o benefici ad altri soggetti al di fuori della relazione di mercato. Gli stati hanno imposto regolamentazioni per controllare esternalità come inquinamento atmosferico e idrico, miniere a cielo aperto, rifiuti dannosi etc.

• Beni pubblici: dal punto di vista economico le esternalità positive rivestono spesso un’importanza maggiore. Esempi sono la costruzione di rete di australe, il servizio meteo nazionale, sostegno alla scienza etc. Il caso estremo di esternalità positive è costituito dai beni pubblici: prodotti per i quali il costo sostenuto per estendere il servizio a un individuo supplementare è zero ed è impossibile impedire agli individui di farne uso. Un esempio è la difesa. Dato che generalmente l’offerta privata di beni pubblici è solitamente insufficiente, lo stato deve intervenire per incoraggiarne la produzione. Lo stato deve procurarsi le entrate per acquistare i beni pubblici, entrate che provengono dalle imposte sui redditi personali e delle imprese.

I mercati non producono necessariamente una distribuzione del reddito che si possa considerare socialmente equa. È possibile che un’economia di mercato determini disuguaglianze di reddito e consumo inaccettabili per gli elettori. La distribuzione del reddito in un sistema di mercato è spesso il risultato di eventi fortuiti e una società democratica che non approva una data distribuzione può decidere di intervenire per modificarla (imposizione fiscale progressiva, per esempio, che tassa i redditi più alti; oppure trasferimenti, ossia pagamenti in moneta agli individui da parte delle amministrazioni).

Sin dalle sue origini il capitalismo è stato turbato da periodi di inflazione (aumento prezzi) e recessione (tasso disoccupazione elevato): fluttuazioni note come ciclo economico (con Keynes si è iniziato a studiarli). L’attento impiego di politiche fiscali e monetarie consente allo stato di influenzare produzione, occupazione e inflazione: le politiche fiscali rappresentano il potere di far pagare le imposte e di spendere, mentre le politiche economiche consistono nella determinazione dell’offerta di moneta e dei tassi di interesse. Grazie allo studio della macroeconomia, dunque, dagli anni 30 gli stati sono riusciti ad attenuare gli eccessi di inflazione e disoccupazione.

ELEMENTI FONDAMENTALI DI DOMANDA E OFFERTA

Per comprendere i prezzi e gli output di singoli mercati è necessario padroneggiare l’analisi della domanda e dell’offerta. Per ogni prodotto (per il petrolio, per esempio, è più marcato) si hanno dei mutamenti nel corso della storia, spiegati appunto dalla teoria della domanda e dell’offerta. Il principio base è che preferenze dei consumatori determinano la domanda di consumo dei beni, mentre i costi sostenuti dalle imprese sono alla base dell’offerta dei beni. Esempio: se il prezzo del petrolio scende significa che la domanda è diminuita oppure che l’offerta di quel bene è aumentata. Variazioni di domanda e offerta determinano variazioni di produzione e prezzi.

• Domanda: il principio fondamentale è che la quantità acquistata di un bene dipende dal suo prezzo. A parità di ogni altra condizione, dunque, maggiore è il prezzo del bene minore sarà la quantità che i consumatori desidereranno acquistare di quel bene. Esiste una relazione tra prezzo di mercato di un bene e quantità richiesta: è detta scheda di domanda o curva di domanda. Si nota nel grafico che quantità e prezzo sono in relazione inversa: allo scendere del prezzo aumenta la domanda. Questa proprietà è detta legge della domanda con pendenza

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negativa. Le componenti fondamentali della domanda sono i gusti e i bisogni individuali, anche se si può parlare anche di domanda di mercato: la curva di domanda del mercato si ottiene sommando le quantità domandate da tutti gli individui a ogni livello di prezzo. E obbedisce alla legge della domanda con pendenza negativa. Una serie di elementi determinano quale sarà la quantità domandata a un dato prezzo:

- Reddito medio dei consumatori, fattore determinante per la domanda;- Dimensioni del mercato, che dipendono dal numero di abitanti;- Prezzi e disponibilità di beni correlati influenzano la domanda, soprattutto i beni sostitutivi;- Insieme di elementi soggettivi, come gusti o preferenze (naturali o creati artificialmente);- Domanda di alcuni beni dipende messo da influenze particolari.

L’evoluzione della vita economica determina continue variazioni della domanda, perchè cambiano le influenze diverse dal prezzo del bene considerato.

• Offerta: spiega le condizioni alle quali le imprese producono e vendono i propri prodotti; più precisamente, la scheda di offerta (la sua rappresentazione grafica è la curva di offerta) mette in relazione la quantità offerta di un bene e il suo prezzo di mercato. I produttori offrono beni per trarne un profitto e non per divertimento o beneficienza. Uno dei principali elementi che influenzano la curva di offerta è il costo della produzione: se è basso conviene produrre in grandi quantità, se è alto rispetto al prezzo si riduce la produzione. I costi di produzione sono determinati soprattutto dai prezzi dei fattori produttivi (lavoro, energia o macchinari) e dal progresso tecnologico (cambiamenti nelle tecniche produttive che riducono la quantità dei fattori necessari a produrre una determinata quantità di output). L’offerta è poi influenzata anche dai beni correlati: se il prezzo di un bene aumenta, l’offerta di un suo bene sostitutivo diminuisce. Così come è influenzata anche dalle politiche governative. Le variazioni dei fattori diversi dal prezzo di un bene che influiscono sulla quantità offerta sono definite dalla variazione dell’offerta, che aumenta (o diminuisce) quando aumenta (o diminuisce) la quantità offerta a ciascun livello di prezzo di mercato.

Domanda e offerta interagiscono per produrre un prezzo e una quantità di equilibrio, ossia un equilibrio di mercato. L’equilibrio è dato dal prezzo e dalla quantità in corrispondenza dei quali le forze dell’offerta e della domanda si bilanciano. Quando domanda e offerta si eguagliano non sussistono motivi per un rialzo o un ribasso dei prezzi, a condizione che gli altri elementi rimangano invariati. Il prezzo di equilibrio di mercato indica che sia i produttori sia i consumatori sono soddisfatti. L’equilibrio di mercato si individua ricercando il prezzo al quale la quantità domandata è pari alla quantità offerta: in un mercato concorrenziale l’equilibrio è dato dall’intersezione delle curve di domanda e offerta.

La variazione degli elementi che influenzano la domanda o l’offerta comporta spostamenti delle curve di domanda o di offerta, e dunque cambiamenti dell’equilibrio di mercato relativamente a prezzo e quantità.

Per trasformare le curve di domanda e offerta in strumenti utili, è necessario sapere in che misura la domanda e l’offerta rispondono alle variazioni di prezzo. Per analizzare il rapporto quantitativo tra prezzo e quantità acquista ci si rifà al concetto di elasticità: l’elasticità della domanda rispetto al prezzo è la variazione percentuale della quantità domandata divisa per la variazione percentuale del prezzo. Quando l’elasticità rispetto al prezzo di un bene è elevata, si dice la domanda di quel bene è elastica. Al contrario, che è anaelastica. Per i beni di prima necessità tende a essere anaelastica, quella di beni facilmente sostituibili con altri tende a essere invece più elastica. Dunque: l’elasticità rispetto al prezzo dei singoli bene dipende da fattori economici e tende a essere più elevata per i beni di lusso, quando sono disponibili beni sostitutivi oppure quando i consumatori hanno più tempo per adattare il loro comportamento alla nuova situazione. Si possono analizzare le diverse categorie di elasticità rispetto al prezzo:

• Quando una variazione di prezzo dell’1% genera una variazione della quantità domandata superiore all’1% si ha una domanda elastica rispetto al prezzo.

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• Quando una variazione di prezzo all’1% produce una variazione della quantità domandata inferiore all’1% si ha una domanda anaelastica rispetto al prezzo.

• Caso speciale: la domanda a elasticità unitaria. Si ha quando la variazione percentuale della quantità è uguale alla variazione percentuale del prezzo. In questo caso: un aumento del prezzo dell’1% produce una diminuzione della domanda pari all’1%.

Nel calcolo dell’elasticità è necessario prestare attenzione a tre aspetti essenziali: l’elasticità è sempre positiva; una variazione delle unità di misura non influenza l’elasticità; per evitare ambiguità si utilizza sempre il prezzo medio come prezzo base per il calcolo della variazioni di prezzo.

Un aumento del prezzo aumenta o diminuisce i ricavi? Per definizione, il ricavo totale è uguale al prezzo per la quantità. Se i consumatori acquistato 5 unità a 3 euro ciascuna, il ricavo sarà di 15€. Se una domanda è anaelastica rispetto al prezzo, una diminuzione del prezzo riduce il ricavo totale; se la domanda è elastica, una diminuzione aumenta il ricavo totale; nel caso limite della domanda a elasticità unitaria, una diminuzione del prezzo non modifica il ricavo totale.

LE SCELTE DEL CONSUMATORE

Come i consumatori scelgono tra le diverse possibilità di consumo? Gli economisti un secolo fa svilupparono a tal proposito la nozione di utilità, da cui sono state derivate le proprietà della curva di domanda. Utilità indica soddisfacimento, più precisamente si riferisce all’intensità con la quale determinati beni e servizi vengono preferiti dai consumatori. Definiamo un insieme di beni s servizi come un paniere. Nella teoria della domanda si dice che gli individui massimizzano la propria utilità, ovvero scelgono i beni di consumo che preferiscono. Se si consuma un’unità aggiuntiva di un bene, si ottiene soddisfacimento maggiore, o utilità aggiuntiva. L’incremento dell’utilità per il consumatore si definisce utilità marginale: in economia, dunque, l’espressione marginale viene sempre usata con il significato di “aggiuntivo”.

L’osservazione del comportamento economico ha portato alla formulazione della legge dell’utilità marginale decrescente. Afferma che l’utilità marginale diminuisce se un individuo consuma quantità sempre maggiori di un determinato bene. In poche parole: se si consumano quanti sempre maggiori di un bene, l’utilità totale cresce sempre più lentamente, perchè l’utilità marginale diminuisce all’aumentare del consumo del bene. La condizione essenziale per ottenere la massima soddisfazione o utilità è che di fronte ai prezzi di mercato dei beni, un consumatore con un dato reddito ottenga il massimo soddisfacimento quando l’utilità marginale dell’ultimo euro speso per un bene è esattamente uguale all’utilità marginale dell’ultimo euro per qualsiasi altro bene. L’utilità marginale per euro di tutti i beni nell’equilibrio del consumatore è definita utilità marginale del reddito.

La regola fondamentale del comportamento del consumatore consente di spiegare il motivo per cui le curve di domanda hanno pendenza negativa. Poiché l’aumento di prezzo di un bene riduce il consumo desiderato di quel bene, le curve di domanda hanno pendenza negativa. Quanto più un bene è scarso, tanto maggiore è il suo valore relativo di sostituzione; la sua utilità marginale cresce rispetto all’utilità marginale del bene che è diventato abbondante.

Una curva di indifferenza rappresenta combinazioni di consumo ugualmente desiderabili. In genere è convessa rispetto all’origine in base alla legge dell’utilità marginale relativa decrescente. Se un consumatore dispone di un dato reddito monetario che utilizza interamente per acquistare due beni dai prezzi di mercato dati, le sue scelte possibili sono rappresentate da una linea retta di bilancio o vincolo di bilancio. Il consumatore si sposta sulla retta di bilancio fino a raggiungere la curva d’indifferenza più elevata possibile (la sfiora soltanto). L’equilibrio si trova dunque in questo punto di tangenza: questo fatto costituisce un’ulteriore dimostrazione che in condizione di equilibrio l’utilità marginale è proporzionale al prezzo. Per capire meglio i fattori che determinano la pendenza negativa delle curve di domanda, occorre separare l’effetto provocato da un aumento di prezzo in:

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• Effetto di sostituzione: si ha quando un incremento del prezzo di un bene fa si che gli individui lo sostituiscano con altri beni per soddisfare i propri bisogni;

• Effetto reddito: significa che un aumento di prezzo riduce il reddito reale dei consumatori e di conseguenza anche il consumo desiderato della maggior parte dei beni.

Per quasi tutti i beni l’effetto reddito e sostituzione di un aumento di prezzo si rafforzano a vicenda e portano alla legge della domanda con pendenza negativa. La sensibilità della domanda rispetto a variazioni del reddito si misura mediante l’elasticità rispetto al reddito, vale a dire la variazione percentuale della quantità domandata divisa per la variazione percentuale del reddito. Il concetto di rendita del consumatore evidenzia il fatto che è l’utilità dell’ultima unità acquistata (unità marginale) a influenzare i prezzi e le quantità di mercato. Il consumatore, per esempio, paga lo stesso prezzo per ciascun litro di latte che acquista sul mercato, e tale prezzo corrisponde all’utilità marginale dell’ultima unità acquistata. Questo significa che lo stesso consumatore riceve un eccesso di utilità sul prezzo di tutte le unità precedenti in quanto, per la legge dell’utilità marginale decrescente, l’utilità marginale delle prime unità acquistate è maggiore di quella dell’ultima. L’eccesso di utilità totale sul prezzo di mercato è la rendita del consumatore; essa riflette il vantaggio derivante dal fatto di poter acquistare tutte le unità al medesimo prezzo.

PRODUZIONE E TECNOLOGIA

Prima di poter consumare una cosa, qualcuno deve produrla. La capacità produttiva si misura in base alla dimensione e alla qualità della forza lavoro, alla quantità e alla qualità dello stock di capotale, alla conoscenza della tecnologia e alla capacità di utilizzarla e in base al genere di istituzioni pubbliche e private. Un’economia moderna prevede una vasta gamma di attività produttive: la trattazione presuppone che l’azienda agricola, la fabbrica o altro si sforzino di produrre in modo efficiente, ossia al minor costo possibile. La funzione di produzione è la relazione tra la quantità massima di output ottenibile e la quantità di input necessaria per ottenerla, ed è definita per un determinato livello di conoscenze tecnologiche. Il concetto di funzione di produzione costituisce un utile strumento per descrivere le capacità produttive di un’impresa. A partire dalla funzione di produzione di un’impresa è possibile calcolare tre importanti concetti: prodotto totale, prodotto medio e prodotto marginale.

Il prodotto totale fisico: indica la quantità totale di output prodotto in unità fisiche (quintali, tubetti etc). Se il prodotto totale è noto, è facile ricavare un altro concetto altrettanto importante, quello di prodotto marginale (che significa “aggiuntivo”): il prodotto marginale di input è il prodotto aggiuntivo, o output aggiunto da una 1 addizionale di quel tipo tipo di input, mentre tutti gli altri input sono mantenuti costanti. Ipotizzando di manette costanti terra, macchinari e tutti gli altri input: il prodotto marginale del lavoro sarà dato dal prodotto aggiuntivo che si ottiene aggiungendo 1 unità di lavoro.

Le funzioni di produzione sono utili per capire una delle leggi economiche più note: la legge dei rendimenti decrescenti. Afferma che aggiungendo quantità addizionali di un input, e mantenendo costanti tutti gli altri, si otterranno quantità aggiuntive di output sempre minori. Dunque: se si aggiungono quantità di un fattore come il lavoro a una quantità fissa come la terra (o altri input), il lavoro potrà contare su quantità sempre minori degli altri fattori; e di conseguenza la terra diventerà più affollata, i macchinari sovrautilizzati e il prodotto marginale del lavoro diminuirà. I rendimenti decrescenti sono un fattore chiave per spiegare la povertà di molti paesi asiatici: il tenore di vita è basso in luoghi ad alta densità perchè ci sono troppi lavoratori per ettaro di terra.

Tuttavia, in alcuni casi ci può essere interesse nell’aumentare tutti gli input. Esempio: quali sarebbero gli effetti sulla produzione di grano se terra, lavoro acqua etc aumentassero proporzionalmente? Questa domanda fa riferimento ai rendimenti di scala, ossia agli effetti degli incrementi in scala degli input sulla quantità prodotta. Dunque: i rendimenti di scala riflettono la reazione del prodotto totale quanto tutti i fattori aumentano proporzionalmente. Occorre distinguere tre casi:

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• I rendimenti di scala costanti si hanno quando una variazione di tutti gli input determina una variazione proporzionale dell’output. Es: aziende artigianali: al raddoppiare dei fattori produttivi raddoppierebbe anche il prodotto.

• I rendimenti di scala crescenti (detti anche economie di scala) si hanno quando un aumento di tutti gli input produce un incremento più che proporzionale del livello di output.

• I rendimenti di scala decrescenti si verificano quando un aumento proporzionale di tutti gli input produce un incremento meno che proporzionale dell’output totale. In molti processi, dunque, l’aumento proporzionale di tutti gli input può far raggiungere un punto oltre il quale si verificano inefficienze (es: produttori energia elettrica: se impianto diventa troppo grandi i rischi di guasto sono eccessivi).

Per tener conto del ruolo del tempo della produzione e nei costi, si distinguono due diversi periodi di tempo:

• Breve periodo: quello in cui le imprese possono variare la produzione modificando i fattori variabili, come materiali e lavoro, ma non i fattori fissi, come il capitale.

• Lungo periodo: quello in cui le imprese hanno la possibilità di variare tutti i fattori, incluso il capitale.

La storia dell’economia rileva che nel lungo periodo il prodotto totale si accresce più rapidamente dell’aumento dei fatti, come lavoro e macchinari. Questa tendenza è dovuta soprattutto al progresso tecnologico (riferito a miglioramenti dei processi produttivi di beni e servizi), che incrementa la produttività e innalza il tenore di vita. In generale, si ha innovazione di processo quando migliorano o vengono introdotte tecniche produttive, si ha invece innovazione di prodotto quando sul mercato vengono introdotti prodotti nuovi o migliori. Se l’economia di mercato lavora in modo adeguato è impossibile che vi sia regresso tecnologico in una situazione di innovazione, e questo è uno dei vantaggi dell’economia di mercato: le tecnologie obsolete tendono a essere accantonate a favore di quelle più avanzate (e maggiormente produttive) che consentono di aumentare i profitti. La produttività è una delle più importanti misure della prestazione economica e si esprime come il rapporto tra l’output totale e una media ponderata degli input. Si può avere la produttività del fattore lavoro che misura la quantità di output per unità di lavoro, oppure la produttività totale dei fattori che misura l’output per unità di input totali (capitale e lavoro). La produttività aumenta grazie alle economie di scala e al progresso tecnologico, che hanno contribuito alla crescita economica degli ultimi anni.

Quasi la totalità della produzione è dovuta a organizzazioni specializzate: le piccole, medie e grandi imprese che dominano lo scenario dei moderni stati economici. Le imprese esistono per diverse ragioni, la più importante è che essere sono organizzazioni specializzate che si dedicano alla gestione del processo produttivo. Il fattore primario alla base dell’organizzazione della produzione nelle imprese è costituito dalle economie della produzione in serie. La produzione è organizzata nelle imprese perchè di solito l’efficienza richiede una produzione su vasta scala, il reperimento di notevoli risorse finanziari, nonché l’attenta gestione e il controllo delle attività in corso.

In un’economia di mercato la produzione avviene all’interno di una vasta gamma di organizzazioni aziendali, dalla più piccole alle più grandi. Le piccole imprese predominano in quando a numero, anche se dal punto di vista del potere economico e politico poche centinaia di grandi società per azioni dominano il sistema economico. Diversi i modelli di impresa:

• L’impresa individuale: sono le classiche piccole imprese a conduzione familiare (negozi), con entrate che possono ammontare a poche centinaia di euro al giorno e garantiscono salario minimo ai proprietari. Sono molto diffuse, anche se sono attività che richiedono enorme impegno da parte di chi le possiede.

• La società di persone: spesso un’impresa necessita della collaborazione di diversi specialisti. Due o più persone possono dunque riunirsi per formare una società di persone; tutti i soci

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accettano di fornire una parte del lavoro e del capitale, di suddividere i profitti e di ripartirsi le eventuali perdite. Oggi rappresentano una piccola parte dell’attività economica complessiva. Il principale svantaggio è costituito dalla responsabilità illimitata: i soci sono infatti responsabili senza limitazioni di tutti i debiti contratti dalla società (se possiedo 1% delle quote pagherò 1% dei debiti e così via), e nel caso alcuni non siano in grado di pagarli l’individuo dovrà rispondere di tutti i debiti, anche se sarà costretto a vendere i propri averi personali. Per questi rischi le società di persone tendono a essere di modeste dimensioni.

• La società per azioni: costituiscono gran parte dell’attività economica in un’economia di mercato avanzata. Dal 1900 sono state emanate leggi che consentono quasi a tutti di creare una SPA con le finalità più disparate. Una moderna SPA è una forma di organizzazione aziendale istituita mediante statuto o appartenente a numerosi azionisti; dispone di identità giuridica ben definita e può essere considerata come una persona giuridica con la facoltà di acquistare, vendere, contrarre prestiti, produrre beni o stipulare contratti. Tale società gode inoltre di responsabilità limitata: gli investimenti nella società di ciascun proprietario sono strettamente limitati a una determinata somma. Caratteristiche principali di una moderna SPA:

- La proprietà di una SPA è determinata dal possesso dei titoli ordinari della società: se un individuo possiede il 10% delle azioni è proprietario per il 10%. Le più grandi SPA sono spesso quotate nelle Borse Valori: su tali mercati azionari vengono scambiati i titoli delle principali società e viene investita la gran parte del capitale di rischio dello stato.

- In linea di principio gli azionisti controllano la società di cui sono proprietari, ricevendo i dividendi in proporzione alla quota di azioni che posseggono, eleggono amministratori e decidono su questioni importanti. In pratica, però, azionisti di grandissime aziende non esercitano alcun controllo perchè troppo dispersi per ingiurie sulle decisioni degli amministratori.

- I dirigenti e gli amministratori della SPA hanno la facoltà di prendere decisioni per conto dell’impresa. Stabiliscono come produrre, trattano con i sindacati e decidono se vendere o meno la società a eventuali imprese interessate o anche se licenziare. Gli azionisti sono i proprietari, i dirigenti gestiscono il resto.

Le SPA predominano nelle economie perchè costituiscono un modo estremamente efficiente di entrare in affari. Vantaggi: una SPA è una persona giuridica in grado di operare sul mercato e può avere un’esistenza illimitata. Le decisioni dell’impresa sono prese rapidamente dai dirigenti, a differenza di quando per esempio avviene nel caso delle decisioni economiche di pertinenza statale. In più gli azionisti non possono incorrere in debiti o subire perdite al di là del loro investimento iniziale: se un individuo infatti investe 100 euro in azioni, le eventuali perdite non potranno superare tale cifra. Le SPA presentano tuttavia un grosso svantaggio: l’imposta sui profitti della società. Per le imprese diverse dalle SPA, il reddito al netto delle spese viene tassato come normale reddito personale, mentre una parte del reddito delle SPA subisce una doppia tassazione, in primo luogo come profitto della società e poi come reddito personale sui dividendi.

ANALISI DEI COSTI

In un mondo caratterizzato dalla scarsità, le imprese devono pagare per procurarsi gli input necessari, consapevoli che ogni euro speso in costi superflui riduce i profitti del medesimo ammontare. Un’impresa orientata ai profitti tiene sotto controllo i propri costi affinché l’attività sia redditizia, per cui i contabili calcolano i costi totali sostenuti per ogni livello di output. È chiaro che più la produzione di un bene viene incrementata, maggiori saranno le quantità di lavoro necessarie

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e di altri fattori produttivi. Il costo totale (CT), dunque, aumenterà all’aumentare della produzione. I costi si suddividono in fissi e variabili (CF + CV = CT):

• Costo fisso (CF): anche chiamati costi generali o costi non recuperabili (anche se, a dire il vero, presentano diversi gradi di irrecuperabilità), sono costituiti da elementi quali i canoni d’affitto, gli oneri contrattuali, i pagamenti degli interessi sui debiti etc. Il grado di irrecuperabilità aumenta se i costi fissi sono associati a investimenti altamente specifici. Il CF è la somma, quindi, che deve essere pagata indipendentemente dal livello di output di un’impresa, e rimangono costanti.

• Costo variabile (CV): mutano al variare degli output. Includono materiali necessari per produzione, operai, energia richiesta etc. Per definizione, il CV costituisce la componente del costo totale che cresce all’aumentare della produzione; la differenza di CT tra un livello di output e il suo successivo è uguale alla variazione di CV.

Il costo marginale è un concetto fondamentale dell’economia e indica il costo aggiuntivo sostenuto per produrre 1 unità addizionale di output. In alcuni casi il costo marginale per produrre un’unità sola aggiuntiva è piuttosto limitato; in altri casi, invece, può essere elevato. Per calcolare il CM è sufficiente sottrarre il costo totale per 2 unità al costo totale per 1 unità, e così via. Il costo totale medio (o unitario) è invece dato dal costo totale diviso per il numero delle unità prodotte (output). Così come è possibile suddividere costo totale in fisso e variabile, il CU può essere ripartito nelle due componenti, fissa e variabile:

• Costo fisso unitario (CFU): viene definito come CF/q (q = quantità = output). Poiché il CF è una costante, dividendo tale costo per una quantità di output crescente si ottiene una curva del CFU in costante discesa.

• Costo variabile unitario (CVU): è dato dal costo variabile diviso per l’output, ovvero CV/q. Inizialmente presenta un andamento decrescente e successivamente crescente.

Regole fondamentali:

- Quando il costo marginale è inferiore al costo totale unitario , il primo spinge il secondo verso il basso;

- Quando il costo marginale è uguale al costo totale unitario, quest’ultimo non sale ne scende e si trova al livello minimo;

- Quando invece il costo marginale è superiore al costo totale unitario, il primo spinge il secondo verso l’altro.

Questa relazione significa che in un’impresa il costo totale unitario minimo deve produrre la quantità di output che consenta di eguagliare i costi marginali e il costo totale unitario.

Ma quali sono i fattori che influenzano la curva dei costi di un’impresa? È chiaro che i prezzi di fattori produttivi quali il lavoro e la terra sono elementi determinanti per i costi: salari e affitti più elevanti infatti traducono immancabilmente in costi maggiori. La curva dei costi dipende però direttamente anche dalla sua funzione di produzione. La relazione tra costo e produzione serve a spiegare il motivo per cui le curve dei costi tendono a essere a forma di U. Motivo semplice: nel breve periodo, quando i fattori come il capitale sono fissi, i fattori variabili tendono a presentare una fase iniziale di rendimenti crescenti, seguita da rendimenti decrescenti.

Anche i costi stessi possono essere dunque distinti tra breve e lungo periodo:

• Nel breve periodo è possibile modificare solo gli input variabili, quale materie prime e lavoro, dato che i fattori fissi (impianti o attrezzature) non possono essere modificati. Nel breve periodo, dunque, i costi del lavoro e dei materiali sono tipicamente variabili, mentre i costi del capitale fissi.

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• Nel lungo periodo è possibile modifica tutti gli input, compresi attrezzature e capitale, conseguentemente, tutti i costi sono variabili.

Ma come può decidere un’impresa come produrre il proprio output? Per capire il modo in cui le imprese selezionano le combinazioni di fattori produttivi che comportano i costi minori a determinati prezzi degli input, serve utilizzare il concetto di prodotto marginale. Generalmente le combinazioni di input possibili sono più di due, ma non è necessario calcolare il costo di ciascuna al fine di determinare quella meno costosa. Per stabili quale sarà la combinazione più conveniente basta calcolare dunque il prodotto marginale di ciascun input, dividendo quindi il prodotto marginale di ogni input per il prezzo dei fattori, per ottenere il prodotto marginale per euro di input. La combinazione che consente di minimizzare i costi si ha quando il prodotto marginale per euro di input è uguale per tutti gli input.

Tale legge viene definita regola del costo minimo: per produrre un dato livello di output al costo minimo, un’impresa deve acquistare i diversi input fino a quando il prodotto marginale per euro speso per ciascun input è uguale. Regola conseguente a questa è la regola della sostituzione: se il prezzo di un fattore diminuisce e quelli di tutti gli altri fattori rimangono costanti, alle imprese converrà sostituire il fattore divenuto meno caro agli altri fattori.

Tutte le imprese utilizzano sistemi più o meno complessi per registrare i propri costi. Per capire se un’impresa sta realizzando un utile, è necessario analizzare il conto economico (o conto profitti e perdite). Esso contiene: i ricavi di un dato per le vendite, i costi sostenuti da detrarre alle vendite, e l’utile netto, o profitti rimasti dopo la detrazione di costi. Dunque: utile netto = ricavo totale - costi totali. Nel calcolo dei conti e profitti vanno dunque sottratti: ______________________________________________________________________________

CONTO ECONOMICO: VENDITE NETTE - SPESE D’ESERCIZIO = UTILE D’ESERCIZIO a sua volta - IMPOSTE E DIVIDENDI = UTILI

Vendite nette (al netto di sconti)

MENO costo merci vendute (materiali, costo lavoro, costi d’esercizio vari) MENO costi fissi (costi amministrativi, affitti, ammortamento: costo annuale dei beni capitali, ovvero il valore della parte consumata che si spalma nel tempo)

UGUALE spese d’esercizio

MENO interessi su debiti attrezzature e imposte locali

UGUALE Utile netto al lordo delle imposte sul reddito

MENO imposte sul reddito SPA

UGUALE Utile netto al netto delle imposte

MENO dividendi pagati per azioni ordinarie

UGUALE: UTILI NON DISTRIBUITI (THE END)______________________________________________________________________________La contabilità aziendale non si occupa solo di profitti e perdite, ma comprende anche lo stato patrimoniale (o bilancio), ovvero un resoconto della situazione finanziaria dell’impresa in una certa data. Questo documento registra il valore di un’impresa in un determinato momento. Da una parte del bilancio sono riportate le attività (proprietà dotate di valore economico o diritti posseduti dall’azienda), dall’altra due elementi: passività (debiti o obbligazioni impresa) e patrimonio netto. Un’importante distinzione tra stato patrimoniale e conto economico è quella che c’è tra fondi e flussi: il fondo esprime il livello di una variabile in un dato momento, la variabile di flusso ha una dimensione temporale, ossia fluisce nel tempo.

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Dunque: nel conto economico compaiono i flussi monetari in entrata e in uscita, mentre nello stato patrimoniale compaiono le quantità di attività e passività alla fine dell’esercizio. Quindi: il conto economico mostra l’andamento delle vendite e dei ricavi nel corso del periodo contabile, mentre lo stato patrimoniale fornisce un’immagine sula situazione finanziaria e patrimoniale. La relazione di equilibrio del bilancio aziendale dovrebbe essere: totale della attività = totale passività + patrimonio netto. O meglio: patrimonio netto = attività -passività. Concetto chiave: uno stato patrimoniale deve sempre essere in pareggio in quanto il patrimonio netto è un residuo definito come attività meno passività.

Come già ampiamente detto, uno dei principi fondamentali della scienza economica è che le risorse sono scarse, quindi ogni volta che si decide di impiegare una risorsa in un certo modo, si esclude possibilità di utilizzarla in modo diverso. Dunque fare una scelta significa rinunciare a qualcosa, e l’alternativa esclusa rappresenta il costo-opportunità, ovvero il valore del bene o servizio a cui si rinuncia. I costi-opportunità gravano sulle decisioni aziendali: non tutti compaiono però necessariamente nel conto economico poiché, in generale, la contabilità aziendale comprende solo transazioni in cui si verifica un effettivo trasferimento di denaro. L’economista, al contrario del contabile, deve però tenerne conto.

Nei mercati che operano correttamente il prezzo è uguale al costo-opportunità. Man mano che il mercato si avvicina alla concorrenza perfetta, la differenza tra le varie offerte diminuisce sempre di più, fino a quando la seconda in ordine di grandezza (che rappresenta nel nostro caso il costo-opportunità) eguaglia esattamente l’offerta più elevata (cioè il prezzo).

EQUILIBRIO NEI MERCATI CONCORRENZIALI

Cominciamo ad analizzare le imprese che operano in un mercato perfettamente concorrenziale. Due prese: l’impresa concorrenziale massimizza i profitti (1) e la concorrenza perfetta è un mondo fatto di imprese atomistiche che accettano prezzi, cioè imprese che hanno dimensione così piccola da non poter influenzare il prezzo di vendita del prodotto (pricetaker). Perchè massimizzare i profitti? I profitti corrispondono all’utile netto e rappresentano la somma che un’impresa può pagare sotto forma di dividendi ai proprietari, oppure reinvestire per nuovi impianti/attrezzature. Queste sono le attività che incrementano il valore dell’impresa. Dato che i profitti sono legati a costi e ricavi, dunque, è necessario che l’impresa conosca la struttura dei propri costi.

Punti essenziali: in concorrenza perfetta operano numerose piccole imprese che offrono prodotti identici e le cui dimensioni sono troppo limitate per influenzare il prezzo di mercato (1); per l’impresa concorrenziale la curva di domanda è perfettamente orizzontale (2); il ricavo aggiuntivo derivante dalla vendita di ciascuna uniti supplementare è pertanto pari al prezzo di mercato (3).

Ma fin dove si può spingere negli investimenti un’azienda? L’output che consente il massimo profitto si ha quando il costo marginale è uguale al prezzo. Dunque: l’azienda può incrementare i profitti fino a quando il prezzo supera il costo marginale dell’ultima unità. Il profitto totale raggiunge il punto massimo quando, vendendo quantità aggiuntive di output, non si ottengono profitti aggiuntivi. Regola dell’offerta di un’impresa concorrenziale: un’impresa che mira a massimizzare i profitti stabilisce un livello di produzione al quale il costo marginale è uguale al prezzo.

La regola generale dell’offerta di un’impresa lascia aperta una possibilità: che il prezzo sia talmente basso da indurre l’impresa stessa a chiudere. In generale, nel breve periodo l’impresa decide di chiudere quando non riesce più a coprire i costi variabili. Per assurdo, per minimizzare le perdite, è possibile che all’impresa convenga continuare a produrre, almeno fino a quando il ricavo meno i costi variabili copre parzialmente i costi fissi. Il livello critico del prezzo di mercato al quale i ricavi corrispondono esattamente al costo variabile viene definito punto di chiusura. Se i prezzi sono superiori al punto di chiusura, il livello di produzione verrà mantenuto sulla curva del costo marginale. Se i prezzi sono inferiori al punto di chiusura, invece, l’impresa cesserà di produrre poiché in tal modo perderebbe soltanto i costi fissi. Questo permette di ricavare la regola di

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chiusura: quando il prezzo diminuisce a tal punto che i ricavi totali sono inferiori al costo variabile e il prezzo è inferiore al costo variabile unitario, l’impresa minimizza le perdite cessando l’attività . L’analisi delle condizioni di chiusura porta alla sorprendente conclusione che, nel breve periodo, le imprese che massimizzano i profitti possono continuare a produrre anche se sono in perdita.

L’offerta di mercato: in un mercato concorrenziale, la quantità offerta dipende dai costi marginali delle singole imprese. La quantità totale offerta sul mercato a un dato prezzo è dunque data dalla somma delle singole quantità che le diverse imprese forniscono a quel livello di prezzo. Marshall a inizio 2000 notò che nel breve periodo le variazioni della domanda producono variazioni dei prezzi maggiori rispetto al lungo periodo. Nel lungo periodo tutti i costi sono variabili, questo significa che un’impresa in perdita può pagare le proprie obbligazioni, licenziare amministratori e lasciar scadere contratti di affitto: esiste quindi un punto di pareggio critico al di sotto del quale il prezzo nel lungo periodo non può perdurare senza che le imprese siano costrette a interrompere l’attività.

In conclusione: nel lungo periodo il prezzo di un’industria tende a raggiungere il punto critico in cui le imprese identiche coprono appena i loro costi concorrenziali. Se il prezzo scende al di sotto di tale punto, le imprese abbandonano l’industria fino a quando il prezzo non torna a eguagliare il costo totale unitario nel lungo periodo; se tale prezzo sale ulteriormente, l’ingresso nell’industria di nuove imprese spinge il prezzo di mercato verso il basso, fino al raggiungimento del prezzo di equilibrio nel lungo periodo, che consente appena di coprire tutti i costi concorrenziali. Questo è il caso di equilibrio di lungo periodo a profitto zero. Questa è una delle conclusioni più sorprendenti del modello di mercato in concorrenza perfetta: ogni impresa vuole massimizzare profitti (volendo profitti positivi), ma le forze della concorrenza nel lungo periodo tendono a spingere le imprese verso uno stato di profitto pari a zero.

Esaminiamo l’impatto delle variazioni di domanda e offerta sul prezzo e sulla quantità acquistata e venduta:

• Regola della domanda: in generale, se la domanda di un bene aumenta e la curva di offerta rimane invariata, il prezzo del bene subisce un incremento. Per gran parte dei beni, un aumento della domanda comporta un incremento della quantità domandata, mentre una diminuzione della domanda avrà effetto opposto.

• Regola dell’offerta: se l’offerta di un bene aumenta e la curva di domanda rimane costante, in genere il prezzo diminuisce e la quantità acquistata e venduta aumenta. Una diminuzione dell’offerta avrà prezzo contrario.

IL MONOPOLIO

È una tipologia di concorrenza imperfetta, così come l’oligopolio e la concorrenza monopolistica. Sono tutti casi in cui l’impresa riesce a controllare il prezzo di vendita del prodotto sul mercato. Con un comune risultato: dato un certo livello di tecnologia, in concorrenza imperfetta i prezzi sono superiori e l’output è inferiore rispetto alla concorrenza perfetta. Accanto agli svantaggi, la concorrenza imperfetta presenta anche vantaggi: le grandi imprese si avvolgono della produzione su vasta scala e a loro si devono gran parte delle innovazioni che stimolano la crescita economica nel lungo periodo. Per quanto riguarda la determinazione del prezzo del prodotto, l’impresa dispone di una certa discrezione, ma non della totale libertà. La differenza tra concorrenza perfetta e imperfetta può essere analizzata anche in termini di elasticità rispetto al prezzo: per un’impresa in concorrenza perfetta la domanda è perfettamente elastica, mentre per un’impresa in concorrenza imperfetta essa presenta un’elasticità limitata.

Il caso estremo di concorrenza imperfetta è costituito dal monopolio, dove un unico venditore ha il totale controllo dell’industria; è l’unico produttore della sua industria e non esiste altra industria che possa produrre un bene sostitutivo. Oggi i monopolisti sono rari e la loro esistenza è in qualche modo sempre legata a qualche forma di protezione statale (azienda farmaceutica che scopre farmaco miracoloso, per esempio. Ma che poi si troverà sicuramente a far fronte a nuova concorrenza: oggi succede così). Uno dei rari esempi di monopolio senza concessione statale (come industria dell’acqua) è Microsoft Windows, che ha mantenuto il proprio monopolio tramite

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economie di rete e tattiche estreme anticoncorrenziali. Due sono le ragioni per cui si forma la concorrenza imperfetta:

• Le industrie tendono a essere caratterizzate da pochi venditori in presenza di importanti economie di produzione su vasta scala e di costi decrescenti: in queste condizioni si hanno le economie di scala, talchè le grandi imprese possono produrre a costi inferiori e quindi applicare prezzi più bassi di quelli delle piccole, impedendone così la sopravvivenza;

• I mercati tendono alla concorrenza imperfetta quando l’ingresso di nuovi concorrenti nell’industria è ostacolato. Le cosiddette barriere all’ingresso possono derivare da leggi o regolamentazioni che limitano il numero di concorrenti, o in altri casi l’ingresso è troppo costoso per un concorrente.

Analizziamo i due aspetti:

• Economie di scala: la tecnologia e la struttura dei costi determinano quali aziende possono sopravvivere in un’industria e quali devono essere le loro dimensioni. Il punto chiave è verificare se in un’industria esistono o meno economie di scala: se sono presenti, l’industria può diminuire i propri costi medi unitari incrementando la produzione, almeno fino a un certo livello. Ciò significa che per quanto riguarda i costi le imprese più grandi sono avvantaggiate. Quando prevalgono le economie di scala, quindi, è più facile che un unico monopolista domini l’industria o, più spesso, che poche imprese controllino gran parte della produzione.

• Barriere di ingresso: contribuiscono a creare la concentrazione. Sono fattori che ostacolano l’ingresso di nuove imprese nell’industria: le economie di scala stesse sono un tipo comune di barriera all’ingresso, ma ne esistono altre come le restrizioni legali, gli elevati costi, la pubblicità e la differenziazione dei prodotti.

- Le restrizioni legali comprendono i brevetti, le restrizioni all’ingresso, i dazi doganali e i contingenti d’importazione. Un brevetto viene concesso a un inventore al fine di garantirgli un temporaneo utilizzo esclusivo (o monopolio) del prodotto o del processo protetto da brevetto. I brevetti sono una delle poche forme di monopolio concesso dal governo che gli economisti condividono. I governi impongono anche restrizioni all’ingresso in numerose industrie: in questi casi l’impresa riceve il diritto esclusivo di fornire un servizio (gas, tv etc) e in cambio si impegna a limitare i profitti e a rifornire tutti i clienti della zona. Un governo può imporre anche restrizioni alle importazioni per mantenere i concorrenti stranieri fuori dal mercato.

- Costi d’ingresso elevati: oltre a barriere imposte dalla legge, esistono anche barriere economiche. In alcune industrie infatti il prezzo di ingresso può essere molto elevato.

- Pubblicità e differenziazione dei prodotti: talvolta le imprese creano barriere all’ingresso per ostacolare i potenziali rivali tramite pubblicità e differenziazione dei beni. La pubblicità fornisce ai consumatori maggiori informazioni sui prodotti e fa sì che rimangano federe alle marche più note. Il fatto di fornire poi una vasta gamma di marche e modelli di un prodotto (differenziazione) costituisce un incremento del potere di mercato dei produttori.

Per comprendere il comportamento monopolista, è necessario definire il concetto di ricavo marginale, che ruota intorno a quale sia il prezzo e quale il livello di input che consentono al monopolista di massimizzare i profitti. il ricavo marginale (RM) è l’incremento del ricavo totale derivante dalla vendita di un’unità aggiuntiva, e può essere sia positivo che negativo. Se il ricavo marginale è negativo, significa che, per vendere unità aggiuntive, l’impresa deve diminuire il prezzo delle unità precedenti di un ammontare tale che i ricavi totali diminuiscano. Il ricavo marginale è positivo quando la domanda è elastica, zero quando la domanda è a elasticità unitaria, negativo quando la domanda è anaelastica.

Le imprese che detengono il potere di mercato possono aumentare i loro profitti attuando la discriminazione del prezzo, cioè vendendo a clienti diversi lo stesso prodotto a prezzi differenti.

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Da alcune ricerca risulta che la domande dei vecchi clienti è meno elastica rispetto al prezzo di quanto lo sia quella dei clienti potenziali, questo perchè i nuovi clienti devono sostenere costi notevoli per il passaggio da un programma all’altro. Si avrà il massimo profitto nel punto in cui il ricavo marginale ottenuto dalla vendita al cliente marginale vecchio deve eguagliare il ricavo marginale ottenuto dalla vendita al cliente marginale nuovo. La discriminazione del prezzo oggi è ampiamente utilizzata soprattutto per quanto riguarda i beni che non possono essere facilmente trasferiti da un mercato caratterizzato da prezzi bassi a uno caratterizzato da prezzi alti. Esempio: il prezzo dei libri di testo è più basso in Europa che in USA. I distributori potrebbero acquistare grandi quantità dall’estero e proporre prezzi inferiori nel mercato locare, ma il contingente di importazioni impedisce questa prassi. Tuttavia, come individui, si potrebbe ridurre il costo dei libri acquistandoli all’estero via internet. Quella della discriminazione è una pratica diffusa.

Le perdite di efficienza causate dalla concorrenza imperfetta posso essere illustrate con una versione semplificata del diagramma di monopolio. Gli economisti misurano il danno economico dell’inefficienza in termini di perdita secca, vale a dire la perdita del reddito reale (ovvero quelli che si definiscono “benefici prodotti dagli scambi”) provocata dal monopolio, dai dazi e dai contingenti d’importazione, da imposte o da altre distorsioni. Nel discutere il problema della concorrenza imperfetta, Friedman scrisse: “La scelta è limitata a tre mali: monopolio privano non regolamentato, monopolio privato regolamentato dallo Stato e monopolio statale”. Ecco i sei principali metodi che gli stati delle economie di mercato possono adottare per affrontare la concorrenza imperfetta:

• Il metodo principale per combattere il potere di mercato è l’utilizzo di politiche antitrust, ovvero leggi che vietano alcuni comportamenti (come coalizione di imprese per fissare i prezzi) o limitano certe strutture di mercato (monopoli puri o oligopoli altamente concentrati).

• Più in generale, gli abusi anticoncorrenziali si possono evitare favorendo la concorrenza in tutti i casi in cui ciò è possibile. Importante è tenere basse le barriere all’ingresso al fine di incoraggiare le piccole imprese e non chiudere i mercati nazionali alla concorrenza straniera.

• Negli ultimi anni i poteri pubblici hanno sviluppato un nuovo strumento per controllare l’industria: la regolamentazione, che consente a enti specializzati di controllare i prezzi, il prodotto, l’ingresso e l’uscita delle imprese nelle industrie regolamentate. A differenza delle politiche antitrust, che ordinano alle imprese cosa non fare, la regolamentazione indica alle imprese cosa fare e come fissare i prezzi dei prodotti.

• La proprietà statale dei monopoli è stato un approccio ampiamente seguito al di fuori degli USA. Nel caso di alcuni monopoli naturali (distribuzione acqua, gas, energia etc), si ritiene che per produrre in modo efficiente sia necessaria la presenza di un solo fornitore; in quesi casi il dubbio consiste nello stabilire se tali imprese debbano essere di proprietà statale o solo regolamentate. Gran parte delle economie di mercato hanno scelto la regolamentazione.

• I controlli dei prezzi di beni e servizi sono stati adottati in parte per contenere l’inflazione e in parte per tenere bassi i prezzi nelle industrie concentrate. Gli studi effettuati indicano che tali controlli non sono strumenti efficaci, in quanto provocano frequenti distorsioni e sotterfugi che mettono a dura prova l’efficienza del sistema economico.

• Per mitigare gli effetti della distribuzione del reddito, in certi casi sono state utilizzate le imposte. Tassando i monopoli, è possibile ridurne i profitti e quindi attenuarne alcuni degli effetti socialmente inaccettabili.

OLIGOPOLIO E LA TEORIA DEI GIOCHI

L’analisi dell’oligopolio pone particolare attenzione al ruolo della concentrazione delle imprese nel mercato e dell’interazione strategica. In certe situazione, soprattutto quando bisogna stabilire se lo stato debba intervenire o meno su un mercato, gli economisti hanno bisogno di misurare il grado di estinzione del potere di mercato. Questo indica il grado di controllo esercitato da una singola impresa o da un numero limitato di imprese sul prezzo e sulle decisioni relative alla produzione di un’industria. Chiaro: se il controllo è assoluto siamo in presenza di monopolio, se è assente in concorrenza perfetta. La misura più comune del potere di mercato è il rapporto di concentrazione di un’industria, che viene definito come la percentuale del prodotto totale dell’industria dovuta alle quattro (facendo un esempio) maggiori imprese e, analogamente, il

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rapporto di concentrazione su otto imprese è la percentuale di prodotto fornita dalle otto imprese principali.

Molti economisti credono che i rapporti di concentrazione tradizionali non misurino adeguatamente il potere di mercato e propongono come alternativa l’indice di concentrazione Herfingdahl-Hirschmann. L’indice è dato dalla somma del quadrato delle quote di mercato di tutte le imprese operanti sul mercato e in situazione di concorrenza perfetta sarebbe fino a zero, mentre monopolio assoluto 10.000. L’indice di H-H pone maggiore rilievo sulla grande dimensione delle singole imprese.

Comunque gli economisti hanno individuato tre fattori principali che influenzano i mercati imperfettamente concorrenziali:

• Economie di scala: quando in un settore le imprese operano a un’efficienza minima solo con una porzione elevata di output, quelle che possono sopravvivere vantaggiosamente sono poche ed è probabile che si crei oligopolio.

• Barriere all’ingresso: la concorrenza, in un settore, è limitata dall’esistenza di importanti economie di scala o da restrizioni all’ingresso sul mercato imposte dallo stato.

• Interazione strategica: Quando in un mercato operano poche imprese, esse immediatamente diventano interdipendenti. L’interazione strategica si verifica quando l’attività di ciascuna impresa dipende strettamente dal comportamento dei concorrenti. Questa peculiarità dell’oligopolio ha permesso di sviluppare la teoria dei giochi.

La concorrenza imperfetta spesso conduce a prezzi che superano i costi marginali e, talvolta, l’assenza dello stimolo della concorrenza produce una qualità dei servizi scadente, esiti entrambi poco accettabili. Le industrie oligopoliste hanno profitti al di sopra della norma (non sempre); in varie occasioni i livelli di redditività sono anche oggetto di attacchi politici. Benché la concentrazione sia un aspetto importante, occorre considerare anche altri fattori, studiati dalla organizzazione industriale, scienza economica creata dagli economisti.

L’oligopolio significa pochi venditori, numero che comunque può variare: le industre oligopolistiche sono abbastanza numerose nei settori manifatturiero, trasporti e comunicazioni. Il livello di concorrenza imperfetta in un mercato non è influenzato solo dal numero e dalle dimensioni delle imprese, ma anche dal modo in cui agiscono. Quando un mercato è formato da poche imprese, queste osservano il comportamento delle rivali e reagiscono di conseguenza: questa è l’interazione strategica. Le imprese sul mercato oligopolistico possono decidere di cooperare o meno: quelle che non cooperano adottano un comportamento che si traduce in guerra dei prezzi. Quando le imprese cooperano (per ridurre al minimo la concorrenza), invece, si dice che siano in collusione, ovvero in una situazione in cui due o più imprese fissano di comune accordo i livelli di prezzo e di produzione, si suddividono il mercato e prendono congiuntamente altre decisioni.

L’oligopolio collusivo è molto simile al monopolio. Prima delle leggi antitrust efficaci, spesso gli oligopolisti si fondevano per formare cartelli (o trust): organizzazioni di imprese indipendenti che producono beni simili e operano per aumentare i prezzi e ridurre l’output. A parte in alcune rare eccezioni, questo comportamento è oggi vietato nelle maggiori economie di mercato. Spesso però si dà vita a collusioni tacite, evitando quindi di adottare comportamenti concorrenziali anche in assenza di accordi espliciti. Quando riesce, la collusione può presentare grandi vantaggi perle imprese: quando gli oligopolisti possono colludere per massimizzare i profitti comuni, tenendo presente la loro interdipendenza, generano prezzi, quantità e profitti di monopolio. Nella realtà comunque l’oligopolio collusivo incontra numerosi ostacoli: in primo luogo perchè la collusione è illegale. Le imprese possono poi barare sugli accordi, riducendo prezzi a determinati clienti e ampliando la rispettiva quota di mercato. L’esperienza mostra che è difficile oggi formare un cartello che duri a lungo, indipendentemente dal fatto che sia esplicito o tacito.

La concorrenza tra pochi introduce un aspetto del tutto nuovo nella vita economica: costringe le imprese a tener conto della reazioni dei concorrenti in seguito a variazioni dei prezzi e dell’output,

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e introduce nei mercati la considerazione dell’interazione strategica. Il mondo degli affari ne è ricco delle interazioni strategiche e per analizzarne i risultati gli economisti si basano sulla teoria dei giochi (Neumann, 1903-57), che consiste nell’analisi di situazioni riguardanti due o più “giocatori” che devono prendere decisioni e hanno obiettivi contrastanti. Alcune affermazioni a proposito della teoria e della concorrenza imperfetta:

• All’aumentare del numero di oligopolisti non cooperativi, il prezzo e la quantità dell’industria tendono ad avvicinarsi alla situazione del mercato perfettamente concorrenziale.

• Se le imprese decidono di colluder piuttosto che competere, il prezzo e la quantità del mercato saranno simili a quelli del monopolio. Gli esperimenti suggeriscono tuttavia che all’aumentare del numero di imprese gli accordi collusivi diventano più difficili da controllare e cresce la frequenza di comportamenti scorretti e non cooperativi.

• Spesso l’equilibrio nell’oligopolio non è stabile. L’interazione strategica può condurre a risultati instabili quando le imprese minacciano, bluffano, scatenano guerre dei prezzi, si arrendono di fronte alle imprese più forti, puniscono i rivali più deboli, palesano le loro intenzioni o semplicemente escono dal mercato.

Lo studio delle interazioni strategiche tra individui, imprese e stati è noto dunque come teoria dei giochi. La vita economica è ricca di situazioni in cui gli individui o gli stati si ingegnano per conquistare posizioni dominanti. La teoria dei giochi analizza appunto il modo in cui due o più giocatori scelgono determinate azioni, strategie che poi si ripercuotono su tutti i partecipanti. Supponiamo che ogni impresa presenti medesima struttura dei costi e della domanda, e che possa stabilire di mantenere prezzo normale oppure abbassarlo al di sotto dei corsi marginali nel tentativo di condurre il rivale al fallimento. L’elemento nuovo del gioco duopolistico è che i profitti di ciascuna impresa dipendono sia dalla propria strategia che da quella rivale.

Strumento per rappresentare l’interazione di due imprese o individui è la tabella delle decisioni a doppia entrata, che serve a mostrare le strategie e le vincite di un gioco condotto da due giocatori. Combinando le decisioni di ciascun duopolista si ottengono quattro possibili risultati, indicati nelle quattro celle della tabella: in alto a sx quando scelgono entrambi il prezzo normale (+10, strategia dominante), in basso a dx quando scelgono di iniziare una guerra dei prezzi (-50), gli altri due casi quando decidono cose diverse (-100). PAG 183. Le linee guida della filosofia della teoria dei giochi è la seguente: scegliete la vostra strategia chiedendovi quale possa essere il comportamento più sensato, tenendo presente che anche il rivale agisce strategicamente nel proprio interesse.

CONCORRENZA MONOPOLISTICA, RISCHIO E INCERTEZZA

Nello studio degli oligopoli si ricordi che concorrenza imperfetta non significa nessuna concorrenza. Anzi, spesso è molto vivace e molte delle rivalità più accese si verificano proprio in regime di imperfezione. La concorrenza perfetta e la rivalità sono due concetti diversi: la rivalità nasce da un’ampia serie di azioni tede a incrementare i profitti e le quote di mercato, concorrenza perfetta significa che nessuna impresa di un dato settore può influire sul prezzo di mercato.

Definiamo concorrenza monopolistica una situazione in cui si trovano molti venditori che offrono prodotti differenziati. Una struttura che dunque somiglia alla concorrenza perfetta, in quanto i venditori sono numerosi e nessuno possiede una grande quota di mercato, ma se ne differenzia per il fatto che i prodotti venduti dalle varie imprese non sono identici: prodotti differenziati presentano solo piccole differenze, costituite solo dalle qualità intrinseche e dalla loro posizione (un negozio più vicino sarà preferibile rispetto a uno più lontano, per esempio: costo-opportunità). Concetto che spiega anche la popolarità dei centri commerciali, che consentono di acquistare vasta gamma di prodotti economizzando sul tempo dedicato alla spesa; oppure l’importanza crescere dell’e-commerce, che garantisce un tempo ancora minore. Nella concorrenza monopolistica, come in quella perfetta, il mercato è formato da numerosi acquirenti e venditori, l’ingresso e l’uscita sono molto agevoli e le imprese accettano come dati i prezzi delle altre. La differenza sta nel fatto che in concorrenza perfetta i prodotti sono identici, in quella monopolistica sono invece differenziati. In concorrenza monopolistica l’equilibrio di lungo periodo è caratterizzato

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da prezzi superiori ai costi marginali, ma anche da profitti economici ridotti a zero. Secondo alcuni critici la concorrenza monopolistica è intrinsecamente inefficiente, anche se nel lungo periodo i profitti sono pari a zero, e sostengono che genera un eccesso di nuovi prodotti.

MERCATI DEI FATTORI DELLA PRODUZIONE

I sistemi economici del mondo occidentale sono detti capitalisti. Questo significa che gran parte dei fattori necessari per la produzione, quali i capitali, terra e attività patrimoniali è di proprietà privata. In un sistema capitalistico la maggior parte dei risparmi e della ricchezza provengono da individui e imprese private, che ottengono gran parte dei profitti grazie a questi investimenti. Ma gli individui che risparmiano sono anche i lavoratori, persone che aspirano al buon lavoro ben retribuito, affinché possano acquistare i beni che desiderano. Come vengono fissati i salari dei lavoratori stessi?

La misura utilizzata per indicare il “prezzo” del lavoro dagli economisti è il salario medio reale, che rappresenta il potere d’acquisto di un’ora di lavoro, ossia il salario monetario diviso per il costo della vita. Il punto di partenza dell’analisi è il fatto che la domanda di un fattore di produzione riflette la produttività marginale di quel tipo di input. In un certo momento e a un determinato livello di tecnologia esiste una relazione tra la quantità di input di lavoro e la quantità di output. Per la legge dei rendimenti decrescenti ogni unità aggiuntiva di input di lavoro apporta una quantità output via via minore. Si nota che la produttività marginale aumenta se i lavoratori interagiscono con maggiori quantità o migliori qualità di beni capitali. In secondo luogo, la produttività marginale di lavoratori più esperti o istruiti è generalmente maggiore di quella di lavoratori con minori quantità di capitale umano. Negli ultimi anni il salario medio è aumentato perchè gli stati occidentali hanno accumulato considerevoli capitali, così come sono progrediti tecnologicamente.

Ma perchè i salari sono diversi da paese a paese? La teoria economica spiega questa differenza: è a causa dell’interazione della domanda e dell’offerta di lavoro. L’offerta di lavoro si riferisce al numero di ore che la popolazione desidera dedicare a un’attività remunerativa. I tre elementi chiave dell’offerta di lavoro sono: ore lavorative, la partecipazione della forza lavoro e l’immigrazione.

• Ore lavorative: alcuni individui svolgono attività con orari flessibili, ma in genere l’orario di lavoro va da 35 a 40 ore settimanali. Il numero di ore che il lavoratore dedica nel corso della vita può essere ridotto decidendo di frequentare l’università, di andare in pensione presto o di fare part-time. Supponendo che a un lavoratore sia stato offerto un salario orario più elevato e che sia libero di scegliere il numero di ore lavorative, sarà attratto in due direzioni opposte:l’effetto di sostituzione lo induce a lavorare più ore in quanto il salario orario aumenta; dall’altra l’effetto di sostituzione è bilanciato dall’effetto reddito. Un salario più elevato si traduce in un aumento di reddito, per cui l’individuo richiede maggiori quantità di beni e servizi nonché di ore di svago aggiuntive. Quale dei due effetti prevale? Cambia da individuo a individuo.

• Partecipazione alla forza lavoro: uno degli sviluppi più notevoli degli ultimi decenni è stato il massiccio ingresso delle donne nella forza lavoro. Questo fenomeno può essere spiegato in parte con l’aumento dei salari reali, che hanno attratto le donne nel mondo lavorativo, ma anche in funzione di un cambiamento culturale.

• Immigrazione: il ruolo degli immigranti nell’offerta di forza lavoro non può essere ignorato. Gli immigrati tendono a concentrarsi in occupazioni faticose e poco pagate, ma l’esperienza di altri paesi con una lunga storia di immigrazione (vedi USA) indica che con il tempo tendono a integrarsi meglio con la forza lavoro domestica.

Nel mercato del lavoro ci sono altre due caratteristiche da analizzare: l’esistenza dei sindacati e il problema della discriminazione (meno rilevante). I sindacati italiani possono essere organizzati per categoria e a loro volta raggruppati in un sindacato nazionale. I salari e le indennità accessorie dei lavoratori riuniti in un sindacato sono determinati dalla contrattazione collettiva, vale a dire dalle

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negoziazioni tra rappresentati delle imprese e dei lavoratori aventi lo scopo di fissare condizioni di lavoro accettabili da entrambe le parti. Una seconda questione, spesso motivo di controversie, è costituita dalle regole lavorative, che riguardano le assegnazioni e i compiti delle varie attività, la sicurezza del lavoro e le quantità di lavoro assegnato. L’accordo sindacale contiene infine le caratteristiche procedurali, che includono regole di anzianità nonché una procedura per discutere le vertenze sindacali. In genere un contratto rimane valido tre anni.

Ma in che modo i sindacati incrementano i salari? I sindacati mirano ad aumentare i salari e a migliorare le condizioni lavorative dei loro membri, in che modo? I sindacati si guadagnano il potere di mercato ottenendo un monopolio legale della fornitura di servizi lavorativi a una particolare impresa o industria, monopolio che consente loro di costringere le imprese a offrire salati, indennità e condizioni di lavoro superiori al livello concorrenziale. In Italia gli accordi retribuitivi sono validi per tutti i lavoratori, in tal modo si evita che le imprese siano indotte ad assumere personale non sindacalizzati (e meno pagato). Nel modello sindacale USA l’effetto dell’attività sindacale si esplica principalmente sui salari relativi. Questo significa che nelle industrie organizzate in sindacati i salari aumentano rispetto a quelli delle industri non organizzate e l’occupazione tende a diminuire nelle prime e ad aumentare nelle seconde.

Il lavoro non è una quantità fissa che può essere suddivisa tra potenziali lavoratori. Glia giustamente del mercato del lavoro possono adattarsi agli spostamenti della domanda e dell’offerta, grazie alla variazione del salario reale e alla migrazione del lavoro e del capitale. Inoltre, nel breve periodo, quando i salari e i prezzi non sono rigidi, il processo di aggiustamento può essere favorito da appropriate politiche macroeconomiche.

La discriminazione razziale, etnica e sessuale caratterizza la storia delle società umane fin dalla sua nascita. Oggi è illegale, eppure continuano a esistere forme sottili informali, statistiche. Fenomeni che sfociano in opportunità molto diverse per gli uomini o donne in particolare per diversi gruppi razziali o etnici. La differenza salariale, lo sappiamo, è una caratteristica delle economie di mercato, ma quando una differenza di questo tipo si verifica a causa di caratteristiche personali irrilevanti (razza, sesso, religione), viene definitiva discriminazione. Che si esprime in due aspetti: diverso trattamento delle persone o prassi (test) che hanno ripercussioni diverse su gruppi diversi.

La forma di discriminazione più diffusa è l’esclusione da determinate occupazioni e determinate zone residenziali. La domanda e l’offerta mostrano in che modo l’esclusione abbassa i redditi dei gruppi discriminati. L’esclusione ha determinato una discriminazione nei confronti delle minoranze, diminuendone la capacità di guadagno: in seguito all’esclusione delle minoranze dalle occupazioni migliori, le forze di mercato hanno fissato i loro salari a livelli molto già bassi di quelli dei lavoratori privilegiati. Il gruppo più vasto che soffre della discriminazione economica è quello delle donne: anche le lavoratrici assunte a tempo pieno per tutto l’anno guadagnano mediamente l’80% rispetto ai colleghi uomini. Le ragioni sono complesse e affondano le radici nelle abitudini quali e nelle aspettative sociali, nonché nei fattori economici quali l’istruzione, esperienze lavorative etc. L’analisi economica affianca all’analisi del fattore lavoro, l’analisi di un fattore che risulta dall’attività produttiva stessa: il capitale. È costituito da quei beni durevoli che risultano da un processo produttivo e che a loro volta vengono utilizzati come input per la produzione successiva. Alcuni beni capitali durano pochi anni, altri anche un secondo o più; ma la caratteristica fondamentale di un bene capitale è di costruire sia un input sia un output. Esistono tre categorie di beni capitali: le strutture, le attrezzature e le scorte di input e output. I beni capitali vengono acquistati e venduti in appositi mercati: in caso di vendita si osservano i prezzi dei beni capitali. Gran parte dei beni capitali sono di proprietà delle imprese che utilizzano, ma in alcuni casi sono dati in affitto ai proprietari. I pagamenti per l’uso temporaneo dei beni capitali sono detti affitti.

Uno dei compiti più importanti di un sistema economico è quello di distribuire capitale disponibile tra diversi investimenti possibili. Per scegliere l’investimento più conveniente è necessario disporre di una misura del rendimento del capitale; una di queste è il tasso di rendimento capitale, che indica il rendimento monetario netto annuo di ogni euro di capitale investito. Si noti che il tasso di rendimento è un semplice numero per unità di tempo: è dato da euro per periodo/euro e di solito

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viene calcolato come percentuale annua. Un individuo può considerare la possibilità di effettuare investimenti diversi. Il tasso di rendimento del capitale è dunque il rendimento netto annuo (ricavi monetari meno spese) per euro di capitale investito, ed è una semplice percentuale annua. Esempio: un individuo acquista succo d’uva per 10 euro e lo rivende un anno dopo come vino per 11 euro. Se non vi sono altre spese, il tasso di rendimento di questo investimento sarà di 1/10, ovvero del 10% annuo.

Osservando il bilancio di un’impresa o la dichiarazione dei redditi noteremo la presenza di un insieme di attività finanziarie materiali. Le attività materiali comprendono la terra e i beni capitali (come i pc), e si distinguono dalle attività finanziarie, costituite da pezzi di carta: più precisamente obbligazioni di natura monetaria da parte di un soffitto nei confronti di un altro. Gli individui risparmiano perchè si aspettano di avere un rendimento: questo è il tasso di interesse, ossia il rendimento finanziario dei fondi prestati (a una banca per esempio). Le famiglie e altri risparmiatori forniscono le risorse finanziari a coloro che desiderano acquistare beni capitali fisici. Il tasso di interesse rappresenta il prezzo che una banca o altri intermediari finanziari pagano a che presta denaro per l’utilizzo di una determinato somma per un certo periodo di tempo. I tassi di interesse sono misurati in euro o in termini nominali. Il rendimento dei fondi viene definito tasso di interesse reale in contrapposizione al tasso di interesse nominale, cioè il rendimento monetario degli euro investiti. Nel caso di bassi tassi di interesse e di inflazione, il tasso di interesse reale è molto simile a quello nominale meno il tasso di inflazione.

Oltre ai salari, a interessi e rendite, esiste una quarta categoria di reddito di cui si occupano gli economisti: i profitti. I contabili definiscono profitti come la differenza tra ricavi totali e costi totali. Le determinanti dei profitti derivano da una combinazione di diversi elementi:

• Profitti come rendimenti impliciti: per l’economista i profitti delle imprese possono rappresentare il rendimento del lavoro svolto direttamente dai proprietari dell’impresa. Nelle grandi società spesso i profitti rappresentano i costi-opportunità del capitale investito: questi rendimenti sono detti impliciti, poiché questa è la denominazione attribuita ai costi opportunità dei fattori di proprietà delle imprese.

• Profitti come compenso per l’assunzione di rischi: i profitti contengono anche un premio per la rischiosità dell’investimento. Esiste un rischio di inadempienza quando un prestito o un investimento non può essere ripagato, magari perchè debitore è fallito. Esistono inoltre molti rischi assicurabili, come per esempio contro calamità naturali. Il terzo tipo di rischio è il rischio non assicurabile degli investimenti. È possibile che una società sia particolarmente sensibile ai cicli economici e che quindi i suoi guadagni fluttuino notevolmente quando l’output totale aumenta o diminuisce. Una quarta categoria è poi quella del rischio di governo, che si ha quando uno stato viene meno ai suoi impegni e (essendo “sovrano”) non è previsto ricorso al sistema giudiziario. Contenendo questi elementi, i profitti aziendali sono la componente più instabile del reddito nazionale. La possibilità di sfruttare i profitti aziendali deve quindi offrire un premio significativo al fine di attrarre investitori ad avvalersi del rischio. Questo rendimento supplementare dell’azione rispetto agli investimenti privi di rischio è detto equity premium (mediamente intorno al 6% annuo).

• Profitti come premio per l’innovazione: Un terzo tipo di profitti consiste nei compensi per l’innovazione e l’invenzione. I nuovi prodotti di un’economia in crescita sono risultati di ricerca, sviluppo e marketing. L’innovatore o imprenditore è la persona che immette un nuovo prodotto o processo sul mercato. Ogni innovazione di successo crea una situazione di temporaneo monopolio. Possiamo definire i profitti per l’innovazione (chiamati a volte profitti di Schumpeter) come il premio supplementare temporaneo agli innovatori e imprenditori.

INTRODUZIONE ALLA MACROECONOMIA E CONTABILITÀ NAZIONALE

Nel presentare il quadro della macroeconomia, saranno due i temi ricorrenti: le fluttuazioni di breve periodo di output, occupazione e prezzi definite ciclo economico, e le tendenze di lungo periodo dell’output e del tenore di vita, denominate crescita economica. Le questioni macroeconomiche hanno dominato le scelte politiche ed economiche per buona parte del secolo scorso,

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ripresentandosi in modo dirompente ai giorni nostri. A fondare la scienza della macroeconomia Keynes nel 1930. Tre gli obiettivi che caratterizzano le principali questioni macroeconomiche:

• Perchè a volte la produzione e l’occupazione diminuiscono e come si può ridurre la disoccupazione? Tutte le economie di mercato presentano fasi di espansione e contrazione dette cicli economici. Durante le fasi di contrazione del ciclo, la produzione dei beni e dei servizi diminuisce e milioni di persone perdono il lavoro.

• Qual è l’origine dell’inflazione e come si può tenerla sotto controllo? In un’economia di mercato si utilizzano i prezzi come misuratori dei valori economici e come criterio per condurre gli affari. Quando i prezzi aumentano rapidamente, ossia in presenza di inflazione di prezzi, tale criterio perde il proprio valore. La macroeconomia ha posto sempre più l’accento sulla stabilità dei prezzi come obiettivo prioritario. Sotto la Banca Centrale Europea il tasso globale di inflazione è sceso vicino al 0%, contro il 15% annuo degli anni 70.

• Come può uno stato aumentare il proprio tassi di crescita economica? La macroeconomia si interessa in particolare della crescita economica, che riguarda l’aumento del potenziale produttivo in un sistema economico, l’elemento fondamentale per determinare l’incremento dei salari reali e dei tenori di vita.

Tutti i sistemi economici attuano inevitabili compromessi tra i diversi obiettivi. Ma come valutano gli economisti le prestazioni globali di un’economia? I principali obiettivi macroeconomici sono un livello elevato e una crescita rapida della produzione. Ecco i termini principali della macroeconomia:

• Produzione: può essere di beni o servizi ed è l’obiettivo ultimo dell’attività economica. La misura più completa della produzione totale di un’economia è il PIL (prodotto interno lordo), che stima il valore di mercato di tutti i prodotti finiti e dei servizi realizzati in un paese nel corso di un anno. Esistono due modi per misurarlo: il PIL nominale, valutato secondo gli effettivi prezzi di mercato, e il PIL reale, calcolato in base a prezzi costanti o invariati (ottenuto moltiplicando prezzo di un bene per il numero prodotto di quel bene in un anno). Il PIL real è la misura della produzione che viene seguita più da vicino, perchè serve a controllare accuratamente l’andamento dell’economia di un paese. Nonostante le fluttuazioni di premere periodo del PIL individuate nei cicli economici, le economie avanzate presentano generalmente una crescita costante a lungo termine del PIL reale e miglioramento del tenore di vita. Tale processo è definito crescita economica. Il PIL potenziale è il livello massimo sostenibile di output di lungo periodo e rappresenta la capacità produttiva a lungo termine dell’economia o la quantità massima che l’economia può produrre, quando la forza lavoro e lo stock di capitale presentano condizioni di elevato impiego. La produzione potenziale è determinata dalla capacità produttiva del sistema economico, che a sua volta dipende dagli input disponibili e della sua efficienza tecnologica. Il PIL potenziale tende a crescere progressivamente perchè i fattori come lavoro, capitale e tecnologia variano con notevole lentezza nel tempo. Al contrario, il PIL real è soggetto ad ampie oscillazioni. Durante fasi discendenti del ciclo economico il PIL real è al di sotto del livello potenziale e disoccupazione sale. Un periodo di calo dell’output, reddito e occupazione che va dai 6 ai 12 mesi e caratterizzato da diffuse contrazione si chiama recessione. Se la situazione si protrae parleremo di depressione.

• Alta occupazione, bassa disoccupazione: tra tutti gli indicatori macroeconomici, l’occupazione e la disoccupazione sono i più sentiti dai cittadini. Il tasso di disoccupazione si ottiene calcolando la percentuale dei disoccupati sulla forza lavoro, la quale comprende tutte le persone occupate e quelle disoccupate in cerca di impiego, mentre esclude i disoccupati che non cercano lavoro. Il tasso di disoccupazione tende a riflettere l’andamento del ciclo economico: la produzione scende, la domanda di manodopera diminuisce e il tasso di disoccupazione aumenta.

• Stabilità dei prezzi: il terzo obiettivo macroeconomico è mantenere prezzi stabili. Per monitorare i prezzi, i responsabili pubblici incaricati del rilevamento dei dati costruiscono indici dei prezzi, ossia misure del livello generale dei prezzi. Un esempio è rappresentato dall’Indice dei Prezzi al Consumo (IPC). Questo indice rileva il prezzo medio dei beni e dei servizi acquistati dai consumatori. Gli economisti rilevano la stabilità dei prezzi osservando il tasso di inflazione, ovvero la variazione del livello generale dei prezzi da un anno all’altro. Si parla di deflazione quando i prezzi diminuiscono (ovvero tasso di inflazione è negativo), si parla di iperinflazione quando c’è un aumento del livello dei prezzi estremamente rapido (Germania di Weimar anni

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20). L’elevata inflazione impone all’economia diversi costi: le imposte diventano altamente variabili, il valore reale delle pensioni eroso, gli individui utilizzano risorse reali per evitare il deprezzamento della moneta. Costi previsti anche in caso di deflazione.

Ma quali sono le politiche che potrebbero contribuire a ridurre inflazione o disoccupazione, accelerare crescita o correggere squilibri? I governi dispongono di diversi strumenti. Uno strumento della politica economica è una variabile sotto il controllo del governo che può influire su uno o più obiettivi macroeconomici. I governi possono dunque scongiurare le fasi peggiori dei cicli economici o aumentare il tasso di crescita della produzione potenziale. Ecco i due strumenti principali:

• Politica fiscale (o di bilancio): indica le modalità d’impiego delle imposte e della spesa pubblica. Quest’ultima assume due forme diverse: innanzitutto ci sono gli acquisti effettuati dalla Pubblica Amministrazione (spese per beni e servizi, armamenti, ospedali etc), poi i trasferimenti pubblici, che aumentano i redditi di gruppi mirati come anziani o disoccupati. La spesa pubblica stabilisce le dimensioni dei settori pubblico e privato, dal punto di vista macroeconomico influisce sul livello globale della spesa in un’economia e quindi sul livello del PIL. L’altra parte della politica fiscale, la tassazione, influisce sull’economia nel suo complesso in due modi: per prima cosa le imposte riducono i redditi della popolazione; lasciando le famiglie con redditi minori a disposizione, le imposte tendono a ridurre l’entità della spesa per beni e servizi, oltre a quella del risparmio privato. Le imposte incidono inoltre sul prezzo dei beni e dei fattori della produzione, quindi influiscono sugli incentivi e condizionano i comportamenti relativi al consumo e agli investimenti.

• Politica monetaria: è il secondo grande strumento della politica macroeconomica. La politica monetaria è attuata attraverso la gestione della massa monetaria, il credito e il sistema bancario dello stato. Ma che cosa è esattamente la moneta? Oggi si usano assegni e contanti come mezzi di pagamento: svolgendo funzioni di Banca Centrale, la BCE può regolare il quantitativo di denaro disponibile in un’economia. Modificando la massa monetaria, la BCE può influire su molte variabili, quali i tassi d’interesse, i corsi azionari, i prezzi delle abitazioni e i tassi di cambio. La restrizione della massa monetaria determina tassi di interesse più alti e investimenti ridotti, che a loro volta contribuiscono alla diminuzione del PIL e inflazione più bassa.

Nessuno stato è un universo a sé: tutti gli stati partecipano all’economia globale e sono collegati tra loro attraverso commercio e finanza. Gli stati controllano attentamente i flussi di scambio con l’estero. Un indice particolarmente importante è rappresentato dalle esportazioni nette, la differenza numerica tra il valore delle esportazioni e quello delle importazioni. Con la diminuzione dei costi di trasporto e comunicazione, i rapporti con l’estero sono diventati più stretti di quelli di una generazione fa; il commercio internazionale ha sostituito la costruzione di imperi e la conquista militare quale strada più sicura verso la ricchezza nazionale e l’influenza politica. In alcune economie oggi si scambia con l’estero oltre la metà della produzione. Mentre i legami tra le economie diventano sempre più stretti, i responsabili politici dedicano una crescente attenzione alla politica economica internazionale. Le politiche commerciali consistono nei dazi doganali, nei contingentamenti e in altre normative che limitano o favoriscono le importazioni ed esportazioni. Un’altra categoria di politiche è la gestione della finanza internazionale: il commercio internazionale di uno stato è infatti influenzato dal tasso di cambio, che costituisce il prezzo della sua valuta rispetto a quelle di altri paesi. Nell’ambito della politica monetaria gli stati adottano sistemi diversi per regolare i mercati dei cambi esperi; soprattutto nelle piccole economie aperte, la gestione del cambio rappresenta la politica macroeconomica più importante.

Tra tutti i concetti della macroeconomia il più importante come misura è il Prodotto Interno Lordo (PIL), che fa parte delle grandi invenzioni del XX secolo. Con il PIL si può infatti fornire un quadro globale dello stato dell’economia di un paese. Ma cos’è il PIL? È la misura più completa della produzione totale di beni e servizi di uno stato; è la somma dei valori monetari del consumo (C), dell’investimento lordo (I), della spesa pubblica (G) per beni e servizi e delle importazioni nette (X) realizzati all’interno di uno stato in un dato anno. Dunque. PIL = C + I + G + X.

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Il PIL si usa per molti scopi, il più importante è quello di misurare i risultati globali di un’economia. Come si misura il PIL? In due modi: in base al flusso dei beni o alla somma dei redditi recepiti:

• Metodo del flusso dei prodotti: ogni anno i cittadini utilizzato grande varietà di beni e servizi finali. Consideriamo solo i prodotti finali, beni che alla fine vengono acquistati o usati dai consumatori. Le famiglie spendono per questi i loro redditi e se sommiamo tutto il denaro speso per i beni finali otteniamo il PIL totale di quest’economia semplificata. Il PIL si definisce dunque come il valore monetario totale del flusso di beni finali prodotti dallo stato.

• Metodo dei costi o dei redditi: metodo del tutto equivalente al primo, che consiste nel trovare il totale dei redditi percepiti dai fattori (salari, interessi, rendite e profitti), cioè i costi di produzione dei beni finali prodotti da un sistema economico.

Nel calcolo del PIL (i dati sono presi dai conti economici delle aziende) si escludono i prodotti intermedi, ovvero i beni utilizzati per produrre altri beni (si tiene conto del pane, ma non del frumento): questo si chiama in gergo problema dei doppi conteggi. Nell’effettuare misure in base ai redditi, gli statistici pongono grande attenzione a includere nel PIL solo il valore aggiunto di un’impresa, che è la differenza tra le vendite effettuate e gli acquisti di materiali e servizi da altre imprese. In altre parole nel calcolo del PIL in fase ai redditi vengono inclusi tutti i costi per fattori di produzione che non importano pagamenti ad altre imprese, mentre esclusi tutti i costi relativi ad acquisti di beni o servizi da altre imprese. Per evitare i doppi conteggi è dunque opportuno includere nel PIL solo i beni finali ed escludere quelli intermedi.

La variazione dei prezzi è uno dei problemi che gli economisti devono risolvere quando usano la moneta come criterio di misura. L’idea di fondo: è possibile misurare il PIL di un dato anno usando i prezzi effettivi di mercato di quello stesso anno, ottenendo così il PIL nominale. Per misurare il PIL reale si moltiplicano le quantità dei beni per un insieme di prezzi fisso o invariato. Pertanto il PIL nominale si calcola in base a prezzi variabili mentre per quello quello reale si usano prezzi costanti. Dividendo il nominale per il reale si ottiene il deflatore di PIL, che serve a misurare il livello globale dei prezzi.

Il consumo, ossia le spese per il consumo personale, è la prima componente importante del PIL. Le spese per il consumo si suddividono in tre categorie: beni durevoli (come auto), beni non durevoli (generi alimentari) e servizi (assistenza sanitaria). Nell’analisi del PIL va però anche incluso il capitale. L’aumento del capitale esige il sacrificio del consumo attuale a favore di quello futuro: nei conti economici l’investimento consiste nelle aggiunte al capitale sociale nazionale di costruzioni, attrezzature, software etc. I conti nazionali comprendono in prevalenza capitale tangibile. Gli investimenti rappresentano aggiunte alle dotazioni di beni capitali durevoli che accrescono le possibilità produttive del futuro.

La definizione riveduta comprende, oltre al consumo, anche gli investimenti lordi. Lordo in questo contesto indica che gli investimenti comprendono tutti i beni capitali prodotti. Gli investimenti lordi non vengono corretti per tenere conto dell’ammortamento, perciò includono macchinari, stabilimenti etc. Se si vuole ricavare l’effettivo incremento di capitale di una società, gli investimenti lordi non sono un criterio di misura sensato, proprio perchè escludono la necessaria quota di ammortamento. Perciò per valutare la formazione del capitale si misurano gli investimenti netti, pari agli investimenti lordi meno l’ammortamento.

La Pubblica Amministrazione è il maggior acquirente del sistema economico. Tende ad acquistare i beni che rientrano nella tipologia di quelli di consumo e beni come quelli di investimento. Nella misurazione del contributo della PA al PIL, vanno aggiunti tutti questi acquisti al flusso di consumo. Le spese della PA per la retribuzione dei dipendenti, più i costi dei beni che acquista dall’industria privata, sono inclusi in questa terza categoria di lusso dei prodotti denominata “spese della PA per consumi e investimenti lordi”. Il PIL comprende solo la spesa pubblica per beni e servici, mentre esclude il costo dei trasferimenti. Trasferimenti pubblici che costituiscono i pagamenti della PA a singoli individui che non forniscono in cambio alcun bene o servizio. Una particolare forma di questi sono gli interessi sul debito pubblico.

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Nell’approccio del flusso di prodotti si deve tenere conto delle imposte. Considerando per esempio i salari, dunque, parte della retribuzione viene devoluta allo stato sotto forma di imposte sul reddito delle persone fisiche. L’approccio al PIL secondo i costi comprende dunque sia le imposte indirette sia quelle dirette. Sebbene il PIL sia il criterio di misura più usato, si citano spesso anche altri due concetti: prodotto interno netto (PIN) e prodotto nazionale lordo (PNL). Sottraendo l’ammortamento al PIL si ottiene il PIN, che non si usa quando il PIL perchè l’ammortamento è alquanto difficile da stimale, mentre gli investimenti lordi si possono valutare in maniera più precisa. Il PNL è il prodotto totale ottenuto con il lavoro e il capitale di proprietà dei residenti di un dato paese, mentre il PIL è il prodotto ottenuto con il lavoro e il capitale situati all’intero del paese.

Gli investimenti netti sono positivi quando uno stato produce più beni capitali di quelli che vengono consumati sotto forma di ammortamento. Dato che quest’ultimo è difficile da stimare con precisione, gli statistici hanno maggior fiducia nelle proprie misure degli investimenti lordi che in quelle degli investimenti netti. Il Reddito Nazionale (RN) e il Reddito Disponibile (RD) sono due ulteriori misure ufficiali di contabilità nazionale. Il RD consiste in ciò che rimane effettivamente ai cittadini da spendere in consumi o da destinare al risparmio (dopo aver effettuato il pagamento di tutte le imposte, considerando il risparmio aziendale dei profitti non distribuiti e aggiustamenti dei trasferimenti). Utilizzando le regole di contabilità nazionale, il risparmio deve essere uguali agli investimenti. In un’economia più realistica, i risparmi personali e il surplus dello stato sono uguali agli investimenti interni più quelli esteri netti. L’identità tra risparmio e investimenti vale indipendentemente dal fatto che un’economia stia attraversando una fase di espansione o recessione: discende direttamente dalle definizioni della contabilità nazionale.

Il PIL e PIN sono misure imperfette del reale benessere economico. Negli ultimi anni gli statistici hanno iniziato a introdurre alcune correzioni per tenere conto di misure “non market” quali il lavoro domestico non retribuito e le esternalità ambientali. L’inflazione si verifica quando aumenta il livello generale dei prezzi, la deflazione quando scende. Il livello generale dei prezzi e il tasso di inflazione si misurano utilizzando indici dei prezzi, medie ponderate dei prezzi di migliaia di singoli prodotti. L’indice dei prezzi più importante è l’indice dei prezzi al consumo (IPC), che di solito misurava il costo di un paniere fisso di beni di consumo e di servizi rispetto al costo di quel paniere in un particolare anno base. Studi recenti indicano che l’IPC tende a essere notevolmente sovrastimato per il problema dei numeri indice e l’omissione di beni nuovi e migliorati. Lo stato ha preso misure per correggere almeno in parte questa distorsione.

DOMANDA E OFFERTA AGGREGATA A FLUTTUAZIONI ECONOMICHE

Nel breve periodo le variazioni della domanda aggregata possono esercitare un notevole influsso sul livello globale del prodotto, dell’occupazione e dei prezzi. L’analisi della domanda e dell’offerta aggregata è stata elaborata dagli economisti per contribuire a spiegare le principali tendenze della produzione e dei prezzi. Ma cosa sono domanda e offerta aggregata? In generale quando i prezzi sono alti le aziende vorrebbero vendere tutto quello che possono per produrre; se invece sono bassi le impresse possono decidere di produrre poco e trovarsi così ad aver un’eccessiva capacità produttiva. È evidente dunque che l’offerta aggregata dipende sia dal livello dei prezzi che le aziende possono chiedere, sia dalla capacità dell’economia, che a suo volta è determinata dalla disponibilità di fattori immessi nel processo produttivo e dell’efficienza tecnica e gestionale con la quale si combinano tali input.

Il Prodotto Nazionale e il livello generale dei prezzi sono determinati dalle due lame della forbice dell’offerta aggregata (OA) e della domanda aggregata (DA).

• La DA si riferisce all’importo totale che i diversi settori dell’economia sono disposti a spendere in un dato periodo: è la somma della spesa dei consumatori, delle aziende e dello stato, e dipende dal livello dei prezzi oltre che dalla politica monetaria e fiscale. Tra le componenti rientrano

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automobili, prodotti alimentari e altri beni di consumo. Gli acquisti totali sono influenzati dai prezzi ai quai sono offerti i beni.

• La OA descrive il prodotto che le aziende sono disposte a vendere e a realizzare dati i prezzi, i costi e le condizioni di mercato.

Questi concetti possono essere utilizzati per vedere come vengono determinati i valori di equilibrio di prezzo e quantità: significa che si vuole trovare il PIL reale e il livello globale dei prezzi in grado di soddisfare sia gli acquirenti che i venditori. Come si raggiunge l’equilibrio macroeconomico? L’equilibrio macroeconomico è una combinazione del livello generale dei prezzi e della quantità globale prodotta in cui ne gli acquirenti ne i venditori desiderano cambiare i propri acquisti, vendite o prezzi. A inizio anni 70 si ebbe la crisi dal lato dell’offerta, con perdita raccolti, cambiamenti improvvisi di condizioni costo e massicce speculazioni su mercati mondiali della materie prime. Conseguenza spiacevole della crisi dell’offerta sono prezzi più elevanti, diminuzione della produzione e aumento della disoccupazione.

La Grande Crisi USA ha evidenziato come il prodotto nazionale possa calare, i profitti e redditi reali scendere e il tasso di disoccupazione salire a livelli elevati. Le oscillazioni del prodotto, dei tassi di interesse dell’inflazione e dell’occupazione caratterizzano tutte le economie di mercato. Un ciclo economico è un’oscillazione del prodotto nazionale , del reddito e dell’occupazione che di solito dura per un periodo variabile dai due ai dieci anni, segnato da una diffusa espansione o contrazione nella maggior parte dei settori dell’economia. Recessione ed espansione sono le due fasi principali dei cicli economici. Nonostante i cicli economici non siano identici tra loro, presentano spesso delle somiglianze. Ecco le caratteristiche tipiche di una recessione:

• Spesso gli acquisti dei consumatori diminuiscono rapidamente, mentre le scorte di beni durevoli delle imprese aumentano inaspettatamente. Le aziende reagiscono limitando produzione e PIL reale cala; poco dopo anche investimenti delle imprese in impianti e attrezzature diminuiscono.

• La domanda di manodopera cala: ciò si nota nella riduzione della settimana lavorativa media, seguita da licenziamenti e da una disoccupazione più elevata.

• Mentre il prodotto diminuisce, l’inflazione rallenta e, mentre la domanda di materie prime scende, i prezzi crollano. È improbabile che i salari e i prezzi dei servizi calino, ma nelle fasi decrescenti tendono ad aumentare meno rapidamente.

• I profitti delle imprese scendono rapidamente e calano i prezzi delle azioni ordinarie. Tuttavia, siccome la domanda di crediti scende, durante le recessioni anche i tassi di interesse in genere diminuiscono.

La macroeconomia è stata animata negli anni da dibattiti sui cicli economici. Le teorie esogene individuano l’origine del ciclo economico nelle fluttuazioni di fattori al di fuori del sistema economico. Le teorie endogene, invece, cercano di individuare all’interno del sistema economico meccanismi che creano i cicli economici. Secondo questo approccio ogni espansione determina recessione e ogni contrazione genera ripresa ed espansione. Esempio rilevante è quello della teoria del moltiplicatore-acceleratore, secondo la quale la rapida crescita del prodotto stimola gli investimenti, che a loro volta favoriscono una maggiore crescita del prodotto; il processo continua fino a quando si raggiunge la capacità produttiva dell’economia e a quel punto il tasso di crescita economica rallenta. A sua volta crescita lenta riduce la spesa per investimenti e le scorte si accumulano tendendo a indurre una recessione dell’economia.

Le fluttuazioni del prodotto, dell’occupazione e dei prezzi durante il ciclo economico sono spesso provocate da variazioni della domanda aggregata che si verifica quando i consumatori, le imprese o i governi modificano la spesa totale rispetto alla capacità produttiva dell’economia. Quando queste variazioni della domanda aggregata determinano brusche contrazioni l’economia attraversa periodi di recessione o anche di depressione. Una brusca espansione dell’attività economica può portare invece all’inflazione. La domanda aggregata è la quantità totale o aggregata di prodotto che viene acquistata volontariamente a un dato livello di prezzi e a parità di altri fattori. Rappresenta la spesa complessiva prevista in tutti i settori economici ed è costituita da quattro componenti principali:

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• Consumo: il consumo (C) è determinato principalmente dal reddito disponibile, cioè dal reddito personale al netto delle imposte. L’analisi della domanda aggregata si incentra sui fattori che determinano il consumo reale, cioè il consumo nominale diviso l’indice dei prezzi al consumo.

• Investimenti: la spesa per investimenti (I) comprende gli acquisti di strutture e attrezzature e l’accumulo di scorta da parte dei privati.

• Spesa pubblica (G): per acquisti di beni (carri armati) e servizi (insegnanti). A differenza di consumo e investimenti, questa componente è determinata direttamente dalle decisioni di spesa pubblica; quando il Ministero della Difesa acquista un nuovo bene, questo va ad aggiungersi subito al PIL.

• Esportazioni nette (X): sono pari al volere delle esportazioni nel quello delle importazioni. Le esportazioni sono l’immagine speculare delle importazioni, determinate dai redditi esteri, dai prezzi relativi e dai tassi di cambio esteri.

La curva DA ha un andamento decrescente, indice del fatto che la spesa reale diminuisce proporzionalmente all’aumento del livello dei prezzi, a parità di altre condizioni. La spesa reale si riduce con un livello dei prezzi superiore a causa dell’effetto dei prezzi più elevati sui redditi reali, sul patrimonio reale e sull’offerta reale di moneta.

Questa distinzione tra offerta aggregata di breve e lungo periodo è fondamentale per la moderna macroeconomia. A breve termine l’offerta aggregata opera insieme alla domanda aggregata per determinare gli altri e i bassi del ciclo economico, ma a lungo termine è la crescita dell’offerta aggregata, anziché della domanda aggregata, a spiegare perché gli italiani godano oggi di un tenore di vita molto più elevato rispetto a cento anni fa. L’OA dipende fondamentalmente da due insiemi distinti di forze. Il Prodotto potenziale (o PIL potenziale) e la dinamica prezzi-salari. Il prodotto potenziale è concetto fondamentale per comprendere l’OA, che rappresenta la quantità massima che l’economia può produrre senza scatenare pressioni inflazionistiche. Il PIL potenziale è il livello più alto sostenibile del prodotto nazionale. Si misura come il prodotto che sarebbe realizzato a un basso livello di riferimento del tasso di disoccupazione, noto come caso naturale di disoccupazione. Il prodotto potenziale è obiettivo variabile: quando l’economia cresce, aumenta anche il prodotto potenziale. Nel breve periodo l’offerta aggregata di un’economia differirà dal prodotto potenziale a causa delle componenti rigide dei costi. A breve termine le imprese reagiranno alla maggiore domanda aumentando sia la produzione sia i prezzi. Nel lungo periodo, quando i costi reagiscono al livello più elevato dei prezzi, la risposta alla crescente domanda si tradurrà completamente o in massima parte in prezzi più elevati e in parte minima o nulla in prodotto più elevato. LA DISOCCUPAZIONE

L’esistenza della disoccupazione involontaria nelle economie di mercato pone quesiti importanti. I dati sul lavoro e sulla disoccupazione sono tra i dati economici più completi e più attentamente elaborati che un paese raccoglie. Vengono redatti ogni mese secondo una procedura nota come campionamento casuale della popolazione. Nel sondaggio la popolazione in età da lavoro viene suddivisa nei seguenti quattro gruppi:

• Occupati: chi svolge un lavoro retribuito e coloro che hanno un lavoro ma sono assenti per motivi di malattia, scioperi o ferie;

• Disoccupati: che non è occupato ma cerca attivamente un impiego o è in attesa di tornare a lavorare;

• Persone non appartenenti alla forza lavoro: parte dalla popolazione adulta che frequenta una squadra, fa lavoro domestici, è in pensione, è malata o semplicemente non cerca lavoro;

• Forza lavoro: tutti coloro che sono occupati e disoccupati.

Il tasso di disoccupazione è dato dal numero di disoccupati diviso la forza lavoro totale. L’elevata disoccupazione è problema sia economico (rappresenta spreco di risorse preziose) sia sociale (fonte di sofferenza per lavoratori che restano con reddito ridotto). Le perdite nei periodi di elevata disoccupazione sono i maggiori sprechi documentati di un’economia moderna. Il costo della disoccupazione è certamente elevato, ma quello sociale è enorme. Studi psicologici indicano che essere licenziato può essere traumatico quanto la perdita di un amico intimo o una bocciatura.

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Abbiamo etto che la conseguenza più dolora di una recessione è il tasso di disoccupazione. Quando il prodotto cala, le imprese necessitano di minori input di lavoro, perciò non assumono nuovi lavoratori e licenziano parte della forza lavoro. E l’impatto può essere spaventoso. La disoccupazione di solito procede parallelamente al calo del prodotto: la natura di questa correlazione è detta legge di Okun: afferma che per ogni 2 punti percentuale di diminuzione del PIL rispetto al PIL potenziale, il tasso di disoccupazione sale di 1 punto percentuale. Le conseguenze della legge di Okun sono le seguenti: il PIL effettivo deve crescere con la stessa rapidità di quello potenziale unicamente per impedire che la disoccupazione aumenti (A); se si si vuole far scendere il tasso di disoccupazione, inoltre, il PIL effettivo deve crescere più velocemente di quello potenziale (B). Nel classificare la struttura dei mercati del lavoro, gli economisti individuano tre tipi diversi di disoccupazione:

• Disoccupazione frizionale: si verifica a causa dell’incessante movimento di persone tra regioni e occupazioni o in diverse fasi del ciclo di vita. Anche se in un’economia vigesse la piena occupazione, ci sarebbe sempre una certa rotazione dovuta a studenti che cercano lavoro quando si diplomano o donne che rientrano a far parte della forza lavoro dopo la maternità.

• Disoccupazione ciclica: si verifica quando la domanda globale di lavoro è bassa. Quando la spesa e il prodotto totali diminuiscono, la disoccupazione sale praticamente ovunque. Si verifica durante le recessioni, quando l’occupazione diminuisce in seguito allo squilibrio tra offerta e domanda aggregata.

• Disoccupazione strutturale: indica la mancata coincidenza dell’offerta e della domanda di lavoratori, che si può verificare perchè la domanda di un tipo di occupazione sale mentre quella di un altro scende e le offerte non si adeguano rapidamente.

Esaminiamo le cause della disoccupazione volontaria in un mercato del lavoro tipico. L’esistenza della disoccupazione volontaria fa emergere aspetto importante: un’economia può operare al massimo dell’efficienza pur generando una cerca disoccupazione. Uno dei meriti di Keynes fu di spiegare perchè si assiste a occasionali fiammate di disoccupazione involontaria, periodi nei quali i lavoratori qualificati non riescono a trovare lavoro al tasso salariale corrente. Il punto consisteva nel dire che i salari non si adeguano per bilanciare i mercati del lavoro, ma piuttosto a reagire lentamente alle crisi economiche. Gli stipendi e i salari si adeguano per riflettere le carenze o le eccedenze di un particolare mercato del lavoro solo in un lungo periodo di tempo.

La teoria dei salari vischiosi e della disoccupazione involontaria offerta che il lento adeguamento dei salari determina eccedenze e carenze nei singoli mercati del lavoro, che, quindi, nel breve periodo, assomigliano molto all’esempio di un mercato del lavoro non tendente all’equilibrio. Tuttavia i mercati del lavoro alla fine reagiscono alle condizioni del mercato: i salari delle occupazioni più richieste salgono rispetto a quelli degli impieghi poco richiesti. Nel lungo periodo i salari scendono effettivamente a modificarsi per equilibrare la domanda e l’offerta, perciò le principali sacche di disoccupazione e di posti di lavoro vacanti tendono a scomparire a mano a mano che salari e quantità di lavoro si adeguano alle condizioni di mercato; il lungo periodo può durare anni e quindi i periodi disoccupazione possono protrarsi per molto tempo.

L’INFLAZIONE

L’inflazione si verifica quando aumenta il livello generale dei prezzi. Attualmente viene calcolata utilizzando gli indici dei prezzi, medie ponderare dei prezzi di migliaia di singoli prodotti. Per esempio, l’indice dei prezzi al consumo (IPC) misura il costo di un paniere di beni di consumo e servizi rispetto al costo di quel paniere in un particolare anno baso, mentre il deflatore del PIL è il “prezzo del PIL”. L’inflazione non è necessariamente accompagnata da una diminuzione del reddito reale. L’inflazione presenta diversi livelli d gravità, quindi si può suddividere in tre categorie:

• Inflazione moderata: è contraddistinta da prezzi che aumentano lentamente e in modo prevedibile. Quando i prezzi sono relativamente stabili, i cittadini si fidano della moneta, sono disposti a tenerla prece il mese o l’anno successivo varrò quasi lo stesso.

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• Inflazione galoppante: quando l’inflazione è a due o tre cifre 20, 100 o 200% viene definita galoppante o altissima. È relativamente comune soprattutto in paesi caratterizzati da governi deboli, guerre o rivoluzioni. Quando l’inflazione galoppante si consolida, si verificano gravi distorsioni economiche: la moneta perde valore molto rapidamente e i cittadini ne conservano il minimo indispensabile per le transazioni quotidiane.

• Iperinflazione: mentre le economie sembrano sopravvivere in condizioni di inflazione galoppante, l’iperinflazione è letale. Non si può dire nulla di un mercato in cui i prezzi salgono di un milione o miliardo percento all’anno (Germania di Weimar). Caratteristiche comuni: la domanda di moneta diminuisce drasticamente, i cittadini si danno da fare per liberarsi dei soldi, i prezzi corrispondenti diventano altamente instabili.

Gli economisti ritengono che l’inflazione prevista a tassi modesti avrebbe scarso effetto sull’efficienza economica e sulla distribuzione del reddito e della ricchezza. In realtà però l’inflazione è di solito imprevista.

IL CONSUMO E L’INVESTIMENTO

Analizziamo il comportamento di consumo e di risparmio partendo dai modelli di spesa individuale per considerare poi il consumo aggregato. Il consumo è la spesa delle famiglie per beni finali e servizi, mentre il risparmio è la parte di reddito disponibile non destinata ai consumi. Come variano i modelli di spesa per i consumi nelle diverse famiglie? Le statistiche mostrano che esiste una prevedibile regolarità nel modo in cui i cittadini ripartiscono le proprie spese tra prodotti alimentari, abbigliamento e altri articoli importanti. Solitamente le famiglie povere devono spendere i propri redditi in gran parte per i bisogni primari, quali cibo e casa. All’aumentare del reddito aumenta anche la spesa per molti prodotti alimentari. Vi sono però dei limiti al denaro in più che i cittadini spenderanno per il cibo quando i redditi aumentano. Il risparmio è di per sé il maggior lusso che una famiglia si può permettere.

Il reddito, il consumo e il risparmio sono strettamente collegati. Più precisamente, il risparmio personale è la parte del reddito disponibile che non viene consumata: è pari al reddito meno il consumo. Studi hanno dimostrato che il reddito è il principale fattore che determina il consumo e il risparmio: i ricchi risparmiano più dei poveri. Dato che il redito viene suddiviso tra la parte destinata ai consumi e quella risparmiata, la somma tra risparmi e consumo deve essere sempre pari al totale del reddito stesso. Una delle relazioni più importanti di tutta la macroeconomia è la funzione di consumo, che mostra il rapporto tra il livelli delle spese per i beni di consumo e quello del reddito disponibile delle famiglie. Questo concetto si fonda sull’ipotesi che esista una relazione empirica costante tra consumo e reddito. Il punto di pareggio è quando la spesa per il consumo è uguale al reddito disponibile. Quello che una famiglia non spende si traduce in risparmio.

Parlando di investimenti, prendiamo in considerazione gli investimenti interni lordi privati. Perchè le imprese investono? Fondamentalmente perchè si aspettano che ciò porti loro profitti, cioè che determini per loro entrate superiori. Questa affermazione contiene tre elementi essenziali per la comprensione degli investimenti, ricavi, costi e aspettative:

• Ricavi: l’investimento porterà a un’azienda entrate aggiuntive se la aiuta a vendere di più. Ciò indica che un fattore molto importante nella determinazione degli investimenti è il livello globale della produzione (PIL).

• Costi: fatto importante nella determinazione del livello di investimento. Poiché i beni di investimento durano molti anni, calcolare i relativi costi è più complesso rispetto ad altri prodotti. Per i beni durevoli il costo del capitale non comprende solo il prezzo del bene capitale, ma anche il tasso di interesse che chi contrae il prestito paga per finanziare il capitale oltre alle imposte sul reddito. Il tasso d’interesse è il prezzo pagato per prendere in prestito denaro per un certo periodo di tempo.

• Aspettative: gli investimenti sono soprattutto un azzardo sul futuro, una scommessa che le entrate derivanti dagli investimenti effettuati supereranno i costi. Se le imprese temono instabilità politica in una zona del mondo saranno restie a investire in quella zona. Oppure ritengono che

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sia meglio lasciare all’e-commerce un ruolo importante. Le decisioni di investimento sono legate in parte alle aspettative e alle previsioni sugli eventi futuri ma fare previsioni è rischioso.

IL SISTEMA FINANZIARIO MODERNO

Tra i settori che assumono un’importanza sempre maggiore nell’economia moderna ci sono finanza e sistema finanziario. Per finanza intendiamo il processo attraverso il quale gli agenti economici richiedono e concedono prestiti ad altri agenti per consumo o investimento. Le attività che riguardano la finanza si svolgono all’interno del sistema finanziario, costituito dai mercati, dalle imprese e da altre istituzioni che eseguono le decisioni finanziarie assunte dalle famiglie, dalle imprese e dalle amministrazioni pubbliche. Tra le componenti del sistema finanziario ci sono il mercato monetario, i mercati di attività a tasso fisso (come obbligazione e mutui), i mercati azionari e i mercati valutari.

La richiesta e la concessione di prestiti avvengono sui mercati finanziari e attraversi intermediari finanziari. I mercati finanziari funzionano come gli altri mercato, ma i loro prodotti e servizi consistono in strumenti finanziari quali le azioni e le obbligazioni. Le istituzioni che offrono servizi e prodotti finanziari prendono il nome di intermediari finanziari. Queste istituzioni sono diverse dalle altre imprese perchè si occupano prevalentemente di attività finanziarie. I più importanti sono le banche commerciali, che prendono a deposito i fondi di famiglie e gruppi e li prestano alle imprese e soggetti che ne hanno bisogno. Altri intermediari sono le compagnie assicurative e i fondi pensione, poi ancora i fondi comuni e le società finanziarie. Il sistema finanziario presenta un’importanza tanto fondamentale in un’economia moderna, ecco le sue funzioni principali:

• Il sistema finanziario trasferisce risorse nel tempo, tra i settori e tra regioni. Questa funzione consente agli investimenti di essere impiegati nel modo più produttivo, invece di restare bloccati dove servono meno.

• Il sistema finanziario gestisce i rischi dell’economia. In un certo senso la gestione dei rischi è come il trasferimento di risorse: si fa carico dei rischi delle persone o dei settori che hanno bisogno di ridurre i rischi e li trasferisce o distribuisce ad altri che sono maggiormente in grado di sopportarli.

• Il sistema finanziario raggruppa e ripartisce i fondi a seconda delle necessità del singolo risparmiatore o investitore.

• Il sistema finanziario svolge un’importante funzione di compensazione, che agevola le operazioni tra i soggetti paganti (acquirenti) e i beneficiari (venditori).

I principali tipi di attività patrimoniali sono:

• La moneta;• I conti di risparmio, depositi presso le banche, di soliti garantiti dallo stato, che hanno un valore

monetario fisso del capitale e tassi di interesse determinati dai tassi di interesse di mercato a breve termine;

• I titoli di stato, certificati e obbligazioni di stato che garantiscono il rimborso del capitale alla scadenza e il pagamento di interessi nel tempo. Considerati forma più sicura d’investimento;

• Le azioni, diritti di proprietà sulle imprese, che rendono dividendi, cioè pagamenti derivanti dall’utile netto delle aziende. I titoli scambiati pubblicamente sono quotati in borsa, dove i prezzi sono stabiliti in base alla valutazione di mercato di guadagni e dividendi futuri;

• I derivati finanziari, nuovi strumenti finanziari i cui valori si basano su quelli di altre attività o sono derivati da esse;

• I fondi pensione, titoli di proprietà di attività detenuti dalle imprese o da programmi di pensionamento.

Uno dei componenti più straordinari di un sistema capitalistico è la borsa. Al suo interno si vendono e si acquistano le azioni di società quotate, i titoli delle imprese. Ogni grande mercato finanziario ha una borsa: Tokyo, Londra, Francoforte, Hong Kong, Toronto, Zurigo, Milano e New York. Il tasso di rendimento è il guadagno monetario totale derivante da un titolo. Per i conti di risparmio e le obbligazioni a breve termine il rendimento sarebbe il tasso di interesse. Per la maggior parte delle altre attività il rendimento unisce un reddito con un guadagno o una perdita in conto capitale, che rappresenta un aumento e una diminuzione del valore dell’attività. Il fatto che alcune attività abbiano tassi di rendimento prevedibile mentre altre siano piuttosto rischiose ci porta alla seguente caratteristica importante degli investimenti: il rischio. Si riferisce alla variabilità

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dei rendimenti su un investimento. I cittadini preferiscono generalmente un rendimento più elevato, ma anche un rischio minore per la loro avversità al rischio.

Talvolta gli investitori si possono dividere in due categorie: quelli che ritengono che le attività andrebbero valutate sulla base del loro valore intrinseco e quelli che cercano di indovinare la psicologia del mercato. Quando l’eccitazione assale il mercato possono crearsi bolle speculative e crolli. Le prime si verificano quando i prezzi aumentano perchè i cittadini pensano che in futuro i titoli saliranno: è il contrario di ciò che credeva Keynes.

BANCA CENTRALE E STABILIZZAZIONE

La Banca Centrale Italiana aveva inizialmente una struttura fortemente centralizzata, nella quale le decisioni cruciali in tema di tassi e di politica monetaria venivano prese in modo indipendente dalle quattro persone che compongono il direttorio e in ultima istanza dal Governatore, che ne è capo. La Banca d’Italia opera in modo relativamente indipendente dal potere politico, ma la sua indipendenza è abbastanza recente: prima del 1992, infatti, le possibilità di determinare le condizioni del credito spettavano al Ministero del Tesoro. Il modello di riferimento per il cambiamento è stata la Banca centrale Tedesca (Bundesbank). Spesso, comunque, l’indipendenza della BC porta a conflitti con il potere politico: un aumento dei tassi di interesse può essere benefico per contrastare la pressione inflazionistica, ma può avere effetto indesiderato di accrescere il costo del denaro, non solo per i cittadini ma anche per i conti dello stato.

Come gestisce la BC l’offerta di moneta? Utile partire dallo schema analitico elaborato dalla BC. La BC ha a disposizione un certo numero di strumenti di politica monetaria che possono incidere su alcuni obiettivi intermedi (come le riserve, l’offerta di moneta e i tassi di interesse). I tre principali strumenti sono:

• Le operazioni di mercato aperto: acquisto o vendita di buoni del tesoro in modo permanente o temporaneo;

• La politica del tasso di sconto: la fissazione del tasso di interesse, detto tasso di sconto, al quale le banche possono prendere a prestito riserve dalla banca d’Italia.

• La politica della riserva obbligatoria: la variazione del rapporto tra depositi e riserva obbligatoria di banche e altre istituzioni finanziarie presso la Banca d’Italia.

Nella gestione della moneta, la BC deve sempre sorvegliare l’andamento di un insieme di variabili note come obiettivi intermedi. Il sistema europeo di banche centrali è composto dalla BCE e dalle banche centrali nazionali (BCN) degli stati membri. Il consiglio direttivo della BCE ha adottato il termine di Eurosistema. La BCE è dotata di personalità giuridica ai sensi del diritto pubblico internazionale. La BCN dell’area dell’euro sono parte integrante dell’Eurosistema.

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