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RELAZIONI INFORMALI E ATTITUDINE ALLA COLLABORAZIONE NELLE ORGANIZZAZIONI PROFESSIONALI: I RISULTATI DI UNO STUDIO EMPIRICO * Americo Cicchetti Università Cattolica del Sacro Cuore Istituto di Igiene Largo F. Vito, 1 00168 Roma Tel. +39 06 30154396 Fax +39 06 35019535 Email: [email protected] Silvia Profili Luiss Guido Carli Istituto di Studi Aziendali Via O. Tommasini, 1 - 00162 Roma Tel. +39 06 86506780 Fax +39 06 86506513 E-mail: [email protected] 1. INTRODUZIONE La crescente complessità delle organizzazioni e il maggior livello di professionalizzazione dei suoi membri hanno * Pur essendo questo contributo frutto di lavoro e riflessioni comuni, i paragrafi 3, 4, 5.3 e 6 possono essere prevalentemente attribuiti ad Americo Cicchetti e i paragrafi 1, 2, 5.1 e 5.2 a Silvia Profili.

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RELAZIONI INFORMALI E ATTITUDINE ALLA COLLABORAZIONE NELLE

ORGANIZZAZIONI PROFESSIONALI:

I RISULTATI DI UNO STUDIO EMPIRICO *

Americo CicchettiUniversità Cattolica del Sacro Cuore

Istituto di IgieneLargo F. Vito, 1

00168 RomaTel. +39 06 30154396Fax +39 06 35019535

Email: [email protected]

Silvia ProfiliLuiss Guido Carli

Istituto di Studi AziendaliVia O. Tommasini, 1 - 00162 Roma

Tel. +39 06 86506780 Fax +39 06 86506513

E-mail: [email protected]

1. INTRODUZIONE

La crescente complessità delle organizzazioni e il maggior livello di

professionalizzazione dei suoi membri hanno suggerito di porre una attenzione sempre

maggiore sui fenomeni non progettati ma emergenti dall’azione organizzativa e sul loro

impatto sui fenomeni “reali” di strutturazione, coerentemente con quanti, nell'ambito

degli studi organizzativi, hanno sottolineato l'importanza del rapporto tra aspetti formali

ed informali nella progettazione e nel funzionamento delle organizzazioni (Barnard,

* Pur essendo questo contributo frutto di lavoro e riflessioni comuni, i paragrafi 3, 4, 5.3 e 6 possono essere prevalentemente attribuiti ad Americo Cicchetti e i paragrafi 1, 2, 5.1 e 5.2 a Silvia Profili.

1970).

Molti autori hanno per questo analizzato l’impatto dei fattori informali sui fenomeni di

strutturazione organizzativa e sui risultati prodotti nell’ambito del sistema. Altri, più in

particolare, hanno prediletto l’analisi delle relazioni informali e di socializzazione che si

instaurano all'interno dell’organizzazione tra i singoli attori (relazioni interpersonali) e

le singole unità operative (relazioni intra-organizzative) per dare spiegazione sia della

strutturazione organizzativa sia di fenomeni quali l’attitudine al lavoro, la motivazione,

la diffusione della conoscenza, le performance organizzativa.

Questi studi muovono dalla convinzione che l'organizzazione sia spiegata, oltre che

dalle modalità di divisione del lavoro e dall'insieme delle linee di autorità che

consentono il coordinamento e il governo delle attività, da quel "complesso schema di

comunicazioni e di altre relazioni che viene a stabilirsi in un gruppo di esseri umani"

(Simon, 1956: p. 14). La caratteristica di queste relazioni è quella di instaurarsi e

ripetersi "senza nessuno specifico fine comune consapevole" (Barnard, 1970: p. 108).

L'organizzazione informale differisce quasi sempre da quella formale; in primo luogo

perché è caratterizzata da una serie di relazioni che l'organizzazione formale trascura e

non rappresenta (come sottolinea Barnard, ovunque c'è un'organizzazione formale,

esistono organizzazioni informali correlate ad essa); in secondo luogo, in quanto queste

relazioni possono porsi in contraddizione con le specificazioni dettate dal sistema

formale (Simon, 1956).

Alla comprensione dei fenomeni organizzativi è possibile giungere solo considerando

"formale" ed "informale" congiuntamente e nelle loro reciproche interazioni. Nessuna

organizzazione formale, infatti, può operare in modo efficiente senza essere

accompagnata da una serie di rapporti informali che consentono di soddisfare quel

2

bisogno di "integrazione di fatto" che è proprio dei membri di un sistema organizzativo

(Simon, 1956: 232) e, al tempo stesso, di garantire il coordinamento delle attività. Le

relazioni sociali che si instaurano tra i membri di un'organizzazione favoriscono, infatti,

un flusso di comunicazione informale che garantisce il trasferimento di informazioni,

conoscenze, consigli, ordini (Benassi e Gargiulo, 1997; Krackhard e Hanson, 1993).

Allo stesso tempo, ogni organizzazione informale "esige un certo ammontare di

organizzazione formale" che garantisca la concentrazione su e il perseguimento di

precisi fini di azione (Barnard, 1970: p. 109).

Questo contributo affronta dunque un problema metodologico prima che contenutistico.

Nel tentativo di fornire una spiegazione ai differenziali di performance che si

manifestano tra le diverse unità operative di una medesima struttura, ci si chiede in che

misura questi differenziali siano spiegati da aspetti di natura formale (individuali e

organizzativi) piuttosto che da relazioni e processi informali che si instaurano tra i

membri e le unità di una organizzazione complessa.

In particolare, l’attenzione è posta sui risultati operativi prodotti da alcune unità di

degenza di un grande ospedale universitario: utilizzando gli strumenti di analisi

relazionale, indaghiamo intorno ai fattori organizzativi, formali e informali, che possono

contribuire alla migliore comprensione di sostanziali differenze in specifici indicatori di

performance delle UO considerate.

L’indagine si restringe all’osservazione di due unità operative appartenenti allo stesso

Istituto universitario (oggi stesso Dipartimento assistenziale) che mostrano differenziali

di performance particolarmente evidenti, non spiegabili basandoci sulla semplice

valutazione di fattori attributivi e sistemici. Lo svolgimento di una indagine di natura

etnografica fornisce ulteriori e preziose indicazioni per la spiegazione di questo

3

differenziale, mettendo in evidenza il ruolo preponderante dei fattori di natura sociale e

relazionale che contribuiscono a far emergere specifiche comunità procedurali

dall’interazione giornaliera tra le diverse professioni sanitarie (Wenger e Luce, 1990).

2. IL CONTESTO DELLA RICERCA: L'ORGANIZZAZIONE OSPEDALIERA

L'ospedale rappresenta un contesto ricco di spunti per sovrapporre "formale" ed

"informale" nella spiegazione dei processi di cambiamento e della performance

organizzativa.

Nell'ambito del settore sanitario, lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha fornito

significative potenzialità di sviluppo al sistema nel suo complesso, facilitando il

coordinamento tra i diversi attori (ospedali, strutture sociali, ambulatori, medici di base,

etc.), migliorando gli interventi e le procedure cliniche, facilitando lo scambio di

informazioni in tempi brevi e l'ottenimento di trials clinici. Se ci spostiamo all'interno di

una struttura ospedaliera, ci accorgiamo però che le relazioni che garantiscono lo

scambio di innovazioni e i processi di apprendimento si basano spesso su forme di

interazione diretta, che si svolgono al di fuori della struttura formale

dell'organizzazione. Questa considerazione è vera in tutte le organizzazioni, ma lo è

ancora di più in quelle organizzazioni che basano la propria attività su una conoscenza

molto complessa in quanto scarsamente codificabile e fortemente legata al contesto in

cui si produce (knowledge-intensive). In una struttura ospedaliera, le relazioni sociali

intrattenute da un professionista rappresentano spesso la sua principale fonte di

apprendimento; la modalità stessa con cui si svolgono i processi clinici, coinvolgendo di

sovente diverse competenze e quindi differenti unità operative sul trattamento di un

4

determinato paziente, stimolano in trasferimento di competenze tra diversi reparti.

Queste caratteristiche hanno portato alcuni autori ad annoverare gli ospedali tra quelle

organizzazioni nelle quali la conoscenza risiederebbe sotto forma di “comunità

procedurale”, ovvero in equipe di professionisti che si costituiscono intorno a obiettivi

condivisi, valori comuni e relazioni informali più che per l’applicazione di procedure

formali di lavoro (Brown e Duguid, 1991; Luce e Wenger, 1990; Wenger, 1999).

Oltre alle relazioni che si basano sul naturale flusso di lavoro, vi sono relazioni

all'interno di un'organizzazione che non si spiegano sulla base dei processi di lavoro ma

che si basano su l'instaurarsi di rapporti fiduciari o affettivi. La letteratura che si è

occupata dell'analisi delle relazioni sociali ha dedicato molta attenzione allo studio delle

relazioni informali, nella convinzione che queste relazioni abbiano un ruolo importante

nei processi di apprendimento (Hansen, 1999), soprattutto in una struttura, come quella

ospedaliera, tradizionalmente dominata da una cultura professionale e da conoscenze di

tipo clinico, nella convinzione che il contributo che i professionisti apportano

all'organizzazione vada ben al di là delle competenze e capacità accumulate nel

percorso di studi e con l'esperienza, per comprendere anche il loro "capitale sociale"

(Coleman, 1988), ovvero quel capitale rappresentato dalle relazioni, di natura sia

professionale e scientifica sia informale, intrattenute con altri professionisti all'interno e

all'esterno della struttura.

Nel contesto di un'azienda ospedaliera le relazioni laterali tra i professionisti vanno a

sostituire spesso le relazioni formali basate sulla gerarchia che caratterizzano le strutture

burocratiche (Minzberg, 1979). Queste relazioni sono in larga parte di natura informale

e garantiscono un coordinamento per mutuo adattamento che si rende necessario in quei

contesti altamente complessi nei quali è inattuabile una rigida programmazione delle

5

attività (Thompson, 1967).

In questo contesto, la progettazione di un sistema di coordinamento efficace è

particolarmente critica dato che la difficoltà di misurare e valutare l’output del lavoro

professionale non consente di fare affidamento unicamente su strumenti di

incentivazione e, d’altra parte, l’elevata discrezionalità ed autonomia dei professionisti

(Friedson, 1970) e la complessità delle attività cliniche impedisce di ricorrere in

maniera stringente a strumenti di standardizzazione e programmazione (Profili,

Sammarra, 1999; Cicchetti e Lomi, 2000). I principali incentivi che guidano le azioni

dei professionisti sono non solo di natura economica, ma legati al rispetto e

all'approvazione dei propri colleghi. L'embeddedness del medico in un sistema sociale

di natura professionale predomina sugli strumenti di coordinamento formali. Il «capitale

sociale» dei professionisti, ovvero l'insieme di relazioni di natura sociale che lega gli

attori che svolgono una determinata attività economica (Coleman, 1988), assume un

ruolo preponderante nella spiegazione del comportamento professionale.

La ricostruzione della rete di relazioni laterali che legano tra loro i medici di una

struttura ospedaliera è dunque fondamentale per spiegare le modalità informali di

coordinamento e la performance organizzativa e ricostruire i processi di formazione e di

funzionamento delle comunità di pratica. Questa rete si basa su relazioni di carattere

personale che esistono indipendentemente dalle responsabilità formali e dalla posizione

occupata nell'organigramma e consente il superamento dei limiti propri dei canali

formali di comunicazione.

6

3. IL CASO: LA SPIEGAZIONE DEI DIFFERENZIALI DI PERFORMANCE DI UNITÀ

ORGANIZZATIVE COMPLESSE

Questo studio prende spunto da una indagine che il management di un grande ospedale

universitario ha svolto nell’ambito di un più ampio programma di benchmarking

interno.

L’ospedale in questione è il Policlinico “A. Gemelli” una struttura di 1.615 posti letto

che afferisce come gestione speciale separata all’Università Cattolica del Sacro Cuore

(UCSC). Il Policlinico è entrato in funzione nel 1961 e, in questi ultimi 40 anni, ha

accresciuto la propria posizione di prestigio nel panorama medico-scientifico nazionale

e internazionale. E’ sede di una Facoltà di Medicina e Chirurgia con 16 corsi di laurea

di area sanitaria tra cui uno in Medicina e Chirurgia.

Il Policlinico “A. Gemelli” nel 1999 ha assistito 52.180 pazienti in ricovero ordinario e

oltre 15.000 in day hospital, erogando oltre tre milioni di prestazioni ambulatoriali.

Negli ultimi anni, alla ricerca di maggiore stabilità operativa e di una crescita delle

opportunità di sfruttamento delle competenze scientifiche accumulate, il Policlinico “A.

Gemelli” ha concluso accordi di collaborazione per l’attività professionale privata dei

propri medici (la cd. intramoenia) con circa 80 studi medici privati e 3 cliniche medico-

chirurgiche, realizzando una serie di accordi con assicurazioni private e società di

mutuo soccorso. L’opportunità di sfruttare competenze di eccellenza e un’ottima

reputazione istituzionale, ha guidato anche una evoluzione “di rete” che ha portato il

Gemelli ad acquisire strutture assistenziali e di ricerca extra-regionali.

Il Policlinico “A. Gemelli”, nell’ambito della rete assistenziale, svolge il suo ruolo di

centro scientifico di eccellenza e di fonte delle strategie di crescita. Con le sue oltre 100

7

unità operative cliniche, dispone di tutte le specialità assistenziali, compreso un centro

trapianti.

Da un punto di vista organizzativo e gestionale, il management pone continua

attenzione al miglioramento continuo della qualità e dell’efficienza. Da quando nel 1995

è stato introdotto il sistema di pagamento a prestazione, l’incremento della produttività e

la conseguente riduzione della durata media della degenza, sono stati costantemente

oggetto di attenzione da parte del management.

Tabella 1. Policlinico Universitario “A. Gemelli”: Fact Sheet

1994 1995 1996 1997 1998 1999

Posti letto ordinari 1.320 1.438 1.473 1.483 1.615 1.615Posti letto day-hospital

14 62 95 123 153 153

Pazienti dimessi 28.295 36.640 45.523 47.337 51.283 52.180Degenza media 14,3 11,8 10,4 9,6 9,0 9,3Tasso di occupazione

94% 91% 90% 89,2% 91,2% 91,1%

A questo scopo l’ospedale, tra il 1996 e il 1999, è stato sottoposto ad un vasto ed

impegnativo processo di reingegnerizzazione dei processi orientato a riportare il

paziente al centro del sistema adottando un modello di gestione per processi.

Per il monitoraggio degli effetti del programma di reingegnerizzazione, il management

dell’ospedale ha avviato diversi progetti. Tra questi rientra il programma di confronto

interno sull’efficienza e l’efficacia operativa delle diverse unità di degenza (Progetto

Benchmarking-Disease Staging).

8

4. IL PROGETTO DI BENCHMARKING: METODO E RISULTATI

Il principale obiettivo dell’indagine di benchmarking è quello di individuare le pratiche

assistenziali che, indipendentemente dalle caratteristiche del case-mix1, si sono

dimostrate più efficaci e più efficienti e che, quindi, possono essere analizzate e

discusse nei comitati clinici per una loro eventuale diffusione non solo nel Policlinico

ma anche nelle strutture afferenti. Questo programma si sviluppa sullo sfondo di un più

ampio dibattito che sta investendo il mondo della medicina: l’esigenza di contenere la

variabilità che caratterizza la pratica nell’ambito di un sistema sanitario, ma anche

nell’ambito di una stessa struttura di cura, ha favorito la diffusione della filosofia della

medicina basata sulle prove di efficacia (o evidence based medicine-EBM). L’approccio

EBM richiede al medico di ponderare, nelle sue decisioni, le specificità del singolo

paziente, il razionale fisiopatologico del singolo caso e le migliori evidenze scientifiche

disponibili (Liberati, 1998).

Nel contesto del Gemelli, attraverso l’indagine annuale di benchmarking, si intende

diffondere la rilevanza e la centralità del miglioramento attraverso il metodo del

confronto: l’obiettivo è quello di individuare delle “best practice” cliniche basate su

evidenze scientifiche e organizzative interne alla struttura per ridurre le variabilità nei

risultati tra unità operative per stesse patologie e stessi raggruppamenti di pazienti

(Bellomo, Cicchetti, Gonnella et alii, 2000).

9

Figura 1. Schema concettuale per l’analisi di benchmarking

Nel trattamento della colecistiti, ad esempio, la pratica giornaliera e le evidenze

scientifiche concordano nel suggerire a livello globale l’uso della tecnica della chirurgia

laparoscopica. Nonostante una vasta “evidence” sull’appropriatezza della tecnica clinica

in questione, al Policlinico Gemelli, analogamente a quanto accade in pressoché tutti gli

ospedali del mondo, i pazienti affetti da colecistiti possono essere trattati adottando

procedure cliniche molto diverse a seconda dell’unità operative nella quale il paziente si

viene a trovare.

Mentre non sembra esistere una rilevante variabilità negli indicatori di efficacia (come

la mortalità), i livelli di efficienza delle unità operative, per la medesima categoria di

prestazioni (colecistectomia), sono estremamente differenti tra loro (nel 1999 la degenza

media per il trattamento della colecistiti nelle diverse UO varia tra i 2,8 giorni e i 7,2

10

Spiegazione della variabilità delle performance

Determinanti dellavariabilità delleperformance nelleunità operative

Caratteristiche organizzative e infrastrutturali

Best practices

Capacità professionaliSkills

Profili di cura seguiti(EBM)

Performance differenziate

52.180 casi 106 unità operative

727 medici

P E R C H E’ ?

Gravità del case mix Disease Staging

Processo

Comportamenti e conoscenze

ProdottoCaratteristiche del case mix

(tipologia delle prestazioni e numero)DRG

giorni).

E’ evidente che queste differenze non possono essere direttamente imputate ad una

diversità di “comportamenti” organizzativi o a diverse competenze professionali. Molta

di questa variabilità è spesso spiegata da differenze nella “gravità” dei pazienti ancorché

tutti affetti da quella stessa patologia.

Il progetto di benchmarking è basato sull’utilizzo di un sistema di classificazione dei

pazienti, il Disease Staging (Gonnella, Louis e Hornbrook, 1985), che considerando la

gravità dei casi e la loro eziologia, permette di eliminare l’impatto di tali fattori sui

principali indicatori di efficienza (degenza media, costo medio) e di efficacia (mortalità,

ricoveri ripetuti, complicanze).

Questa previsione permette focalizzare l’attenzione sulla parte di variabilità determinata

da fattori organizzativi e “professionali”. Lo schema concettuale adottato nello

svolgimento di questa indagine è sintetizzato nella figura 1.

Nell’anno 1999 obiettivo dello studio di benchmarking è stato quello di confrontare

l’efficacia e l’efficienza di diverse unità operative di degenza della struttura impegnate

sul trattamento di comuni patologie (4 mediche e 4 chirurgiche).

Lo studio ha messo in evidenza che nonostante l’aggiustamento della casistica per

tenere conto delle differenti condizioni di gravità dei pazienti, la variabilità nei risultati

prodotti (misurati essenzialmente in termini di durata media della degenza), sembrava

permanere soprattutto tra alcune unità operative e per certe patologie. La Tabella 2

mostra le differenze nella durata media della degenza “attesa” rispetto alle

caratteristiche di gravità del mix di pazienti per ogni unità operativa, e il valore

corrispondente della durata della degenza osservata 2.

11

Ogni qualvolta la durata della degenza osservata (Dmo) risulta essere inferiore di quella

attesa (Dma), possiamo concludere che quell’unità operativa, per i casi afferenti a quella

specifica patologia, opera con uno standard di efficienza superiore allo standard di

riferimento.

Focalizzando l’attenzione su una patologia chirurgica, trattata secondo la tecnica

laparoscopica3, ci accorgiamo come l’indicatore di degenza media grezza metta in

evidenza forti variabilità. Di particolare evidenza è il differenziale dell’indicatore Dmo -

Dma nel caso delle unità operative B ed E (Tabella 2).

Tabella 2. Colecistectomia laparoscopica: unità operative a confronto

Numero casi Degenza Media

Osservata (DMo)

Degenza Media Attesa

(DMa)

DMa-DMo

UO. A 25 5.2 4.4 -0,8UO. B 66 7.3 5.1 -2,2UO. D 53 4.8 5.5 0,7UO. E 30 2.8 4.6 1,8UO. G 23 7.1 5.0 -2,1UO. H 49 3.4 4.1 0,7Altre UO 11 5.7 4.8 -0,9Totali 257 5.2 4.8 -0,4

Solo l’unità operative (UO E), mostra valori significativamente positivi rispetto a tutte

le patologie. In alcune unità operative l’indicatore appare sempre negativo. In altre unità

operative esistono delle differenze sostanziali in relazione alla patologia considerata.

Prendendo in considerazione l’UO B, che appare significativa per la numerosità dei

pazienti trattati e per la dimensione strutturale (vedi Tabella 4), per i pazienti affetti da

cancro del colon retto pareggia la performance positiva dell’unità E mentre per le altre

due patologie trattate (tra le quattro complessivamente analizzate) mostra livelli di

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performance scadenti rispetto allo standard oltre che rispetto al benchmark che tende ad

affermarsi (quello dell’UO E).

D’ora in avanti, pur fornendo dati di confronto per tutte le unità operative coinvolte

nello studio, focalizzeremo l’attenzione e le considerazioni comparative su due unità

operative: l’UO E, che consideriamo il best performer e l’UO B. La scelta dell’UO B

come termine di confronto deriva da diversi fattori: in primo luogo la variabilità interna

tra le performance delle diverse patologie, in secondo luogo l'appartenenza allo stesso

Istituto universitario dell’UO E, e quindi la condivisione delle stesse risorse umane,

tecnologiche e culturali. Tra l’altro, il responsabile dell’UO B è anche il direttore

dell’Istituto, il professore ordinario che, nell’ambito chirurgico, sembra godere del

maggiore prestigio nel Policlinico “A. Gemelli”.

Tabella 3: Degenza media attesa – Degenza media osservata (DMa – DMo)

Cancro del colon retto

Cancro della

mammella

Ernia inguinale

Colecistectomia

UO. A -2,2 0,9 -0,8UO. B 2,5 -3,8 0,1 -2,2UO. C -2,6 -0,3UO. D -3 -0,3 0,7UO. E 2,8 1 1,8UO. F -0,2UO. G 0,2 -2,1UO. H 2,4 0,7 0,7Altre UO 0,5 -0,9Tutte le unità 0,5 -0,2 0,4 -0,4

I risultati del progetto di bechmarking, che sopra sono stati riportati in modo parziale,

sono stati presentati ai clinici della struttura durante un seminario appositamente

organizzato dal gruppo di lavoro responsabile del progetto che comprendeva medici,

13

economisti e esperti di organizzazione dell’amministrazione dell’ospedale (tra questi

uno degli autori).

L’incontro, che ha suscitato reazioni molto positive da parte dei clinici, ha messo in

evidenza molte opportunità e alcune domande: come utilizzare queste evidenze per

migliorare le performance e ridurre la variabilità nei comportamenti assistenziali e nei

conseguenti risultati?

5. L’ANALISI DEI FATTORI ORGANIZZATIVI

L'utilizzo nell’analisi dei dati di attività clinica di un sistema di classificazione in grado

di tenere conto della gravità della casistica ha consentito di escludere l’eventualità che il

differenziale registrato negli indicatori di performance fosse legato a caratteristiche

inerenti il mix di pazienti (il “prodotto”). Secondo lo schema concettuale rappresentato

nella figura 1, la variabilità residua poteva essere spiegata da due diversi fattori:

dalle differenze nella disponibilità di risorse, nelle modalità strutturali e nei

meccanismi di gestione dei processi (genericamente indicati come aspetti

organizzativi);

differenze nelle capacità tecniche e gestionali dei medici e del personale

infermieristico.

1 Numero e caratteristiche dei pazienti trattati dalle diverse unità operative. In termini qualitativi il case mix varia in relazione al mix delle patologie e alla gravità dei casi per ogni patologia. 2 Per il calcolo della durata media della degenza attesa è stato utilizzato un database di riferimento dei ricoveri ordinari della Regione Emilia Romagna nell’anno 1997. Il valore atteso della degenza tiene conto delle differenti di gravità tra i mix di pazienti trattati in una determinata Uo della struttura e tutti i casi trattati nella regione in un determinato range temporale. 3 Si considerano solo i casi trattati in laparoscopia per rendere il campione di indagine più omogeneo.

14

Quale ipotesi di lavoro è stato inizialmente considerato ininfluente il fattore

“competenza tecnico-professionale”. L’ipotesi implicita è che, trovandosi di fronte a

patologie relativamente poco complesse e per le quali esistono protocolli di trattamento

abbastanza condivisi, e a docenti universitari affermati a livello internazionale, il fattore

competenza tecnico-professionale potesse distribuirsi in modo normale. La stessa

ipotesi non è stata invece estesa alle competenze organizzative e gestionali dei dirigenti

medici delle strutture di riferimento.

Partendo dai risultati di questa indagine, abbiamo riclassificato le possibili fonti di

variabilità e, di conseguenza, i possibili driver della performance, in tre aree:

la prima legata alle caratteristiche dell’organizzazione “formale” con i suoi

meccanismi e i suoi sistemi di regolazione;

la seconda legata alle caratteristiche degli attori sia in senso cognitivo che culturale;

la terza legata alle relazioni tra attori e, di conseguenza, alle caratteristiche strutturali

dell’azione organizzativa.

15

-5

-4

-3

-2

-1

0

1

2

3

4 Patologie della colecisti Ernia inguinale K-colon K-seno

Figura 2. Riepilogo grafico indicatore differenziale DMa – DMo.

Se attraverso il primo approccio cerchiamo la spiegazione del fenomeno attraverso

l’osservazione dei fattori “formali” dell’organizzazione, adottando gli altri due approcci

ci spingiamo ad osservare fattori di carattere informale.

5.1. L’organizzazione formale

L’analisi dell’organizzazione formale ha l’obiettivo di ricostruire in modo quanto più

possibile chiaro e dettagliato le condizioni di contesto che hanno generato determinati

fenomeni organizzativi.

A questo scopo sono stati rilevati alcuni aspetti riconducibili al concetto di

“organizzazione formale” sopra discusso, relativamente alle due unità operative sulle

quali abbiamo ristretto il campo di indagine. Nella Tabella 4 riportiamo, per

completezza, i dati relativi a tutte le unità operative oggetto dello studio iniziale. Questi

dati si riferiscono, da un lato, agli attributi delle unità organizzative in termini di

dimensione e di livelli di performance; dall'altro alle caratteristiche degli attori quali il

livello gerarchico, l'età, l'esperienza clinica.

Nella spiegazione dei comportamenti, sia individuali che di gruppo ed organizzativi, è

stata tradizionalmente privilegiata l'analisi degli aspetti attributivi degli attori quali il

sesso, l'educazione e l'esperienza, la durata del rapporto di lavoro (Krackardt e Kilduff,

1989).

Diversi studi hanno dimostrato l'esistenza di una relazione tra le caratteristiche

demografiche degli attori organizzativi ed alcune variabili quali la frequenza della

comunicazione (Zenger e Lawrence, 1989), il turnover (Wagner e alii, 1984), la

valutazione della performance (Tsui e O'Really, 1989), l'innovazione organizzativa

16

(O'Really e Flatt, 1989) la performance organizzativa (Wagner e alii, 1984).

Focalizzando l’attenzione del nostro confronto sulle unità B ed E, si osservano

interessanti differenze relativamente alla dimensione dei reparti (misurata dal numero di

medici e dal numero di posti letto) e all'intensità infermieristica, mentre il livello di

esperienza professionale del reparto è sostanzialmente analogo nelle due unità

organizzative (figura 3).

La figura 2 mostra la distribuzione dei reparti sul piano fattoriale relativo alle due

variabili analizzate (esperienza e dimensione). Queste variabili sono il risultato di

un'analisi in componenti principali effettuata allo scopo di individuare i fattori latenti

che costituiscono la struttura di fondo delle relazioni osservate, ipotizzando che tali

fattori siano legati linearmente alle variabili originarie e siano in numero minore di

queste ultime, consentendo così una notevole economia nella descrizione del sistema. I

fattori rappresentano una sintesi delle variabili osservate; in particolare, il primo fattore

(ESPERIENZA) è ottenuto dalla sintesi delle variabili relative all'età, agli anni di

esperienza e al livello gerarchico, mentre il secondo fattore (DIMENSIONE) è ottenuto

dalla sintesi delle variabili relative al numero dei posti letto e al numero dei medici4.

Tabella 4- Indicatori strutturali e di performance economico-finanziaria

Rep. A Rep. B Rep. C Rep. D Rep. E Rep. F Rep. G

Dimissioni 1,566 1,776 989 777 788 518 1,215Posti letto (PL) 36 51 36 25 15 12 26Tasso occupazione

92.4% 86.5% 85.2% 90.3% 99.5% 67.4% 97.5%

# Medici (FTE) 6.5 13.1 9.0 8.0 3.8 1.8 11.0# Staff inf. (FTE)

23.6 32.7 23.7 19.5 12.3 7.5 20.3

4 Questa semplificazione non si ottiene riducendo il numero delle variabili di partenza bensì eliminando la ridondanza di informazioni che deriva dall'aver osservato variabili tra loro correlate (Gherghi, 1999). Per l'analisi in componenti principali dei dati è stato utilizzato il software SPAD, Version 4 (Cisia, 1999).

17

Staff/PL 0.66 0.64 0.66 0.78 0.82 0.63 0.78Ricavo medio per paziente 5,847 6,627 7,097 7,433 6,450 5,079 7,239Costo medio per paziente 5,884 7,183 8,832 8,689 6,286 5,702 7,669Margine operativo medio

-37 -556 -1,735 -1,256 164 -623 -430

Fonte: Report Progetto Disease Staging, Policlinico “A. Gemelli”, 1999

I reparti che si collocano attorno al baricentro rappresentano i reparti "medi"; quanto più

un punto si allontana dall'origine, tanto più esso si personalizza, evidenziando

caratteristiche diverse dalla tendenza generale (Gherghi, 1999). I reparti B ed E si

differenziano in termini dimensionali ma non rispetto al livello di esperienza

professionale, a conferma dell'ipotesi che i due reparti osservati siano caratterizzati da

un livello di competenze tecnico professionali sostanzialmente analogo.

Diversi autori hanno individuato nella dimensione (misurata dal numero dei membri)

una delle determinanti dell'efficienza (Gladstein, 1984) e della performance di un

gruppo di lavoro (Thomas e Fink, 1963). La dimensione di un gruppo, inoltre, è stata

associata a bassi livelli di coesione e soddisfazione e ad elevati tassi di turnover (Shaw,

1971).

E' difficile ipotizzare l'influenza che la dimensione esercita sulla performance del

gruppo. Da un lato, unità organizzative di dimensioni elevate possono essere

caratterizzate da una maggiore eterogeneità e dalla possibilità di intrattenere un maggior

numero di contatti con il resto dell'organizzazione; questo favorirebbe la variazione del

proprio stock di conoscenze. D'altro lato, la grande dimensione è stata associata ad un

minor grado di coesione, omogeneità e consenso che deriva dalla formazione di sub-

obiettivi e di prospettive differenti all'interno del gruppo (Deaborn e Simon, 1958); lo

18

scarso consenso può ostacolare la comunicazione interpersonale e la diffusione di un

linguaggio condiviso, rendendo più difficile l'assimilazione di conoscenze a livello di

gruppo.

In questo caso, la piccola dimensione sembrerebbe esercitare un'influenza positiva sulla

performance dell'UO, così come l'elevata intensità infermieristica. Per comprendere le

ragioni di questa relazione è necessario però approfondire l'indagine attraverso la

rilevazione degli aspetti meno formalizzati del sistema organizzativo, la cui rilevazione

ha richiesto un'analisi di natura etnografica.

5.2. L’organizzazione informale: il contributo dell'analisi relazionale per la

spiegazione dei fenomeni organizzativi

L'approccio relazionale raccoglie tutti quegli autori che spiegano i fenomeni

organizzativi attraverso l'osservazione del complesso di relazioni diadiche che legano

tra loro gli attori dell'azione organizzativa (Burt, 1982; Granovetter, 1985).

La scelta di questo approccio muove dalla considerazione che gli attori sociali sono tra

loro interdipendenti piuttosto che unità autonome dotate di preferenze esogene ed

immutabili (Lomi, 1997). Di conseguenza, per spiegare le loro scelte ed il loro

comportamento all'interno delle organizzazioni, è necessario ricostruire la struttura

relazionale nella quale sono inseriti. La focalizzazione sul concetto di relazione

consente, di fatto, il superamento della distinzione tra variabili “interne” ed “esterne”

all'organizzazione, distinzione spesso fonte di problemi ed incoerenze nello studio dei

fenomeni organizzativi. Le relazioni tra gli attori, infatti, producono conseguenze sia

sulla sfera individuale sia sul sistema cui appartengono consentendo dunque lo studio di

fenomeni organizzativi partendo dal massimo livello di disaggregazione (individuo).

19

Al tempo stesso, il focus sulle relazioni che si instaurano tra le unità di osservazione

consente di riconciliare aspetti formali ed informali dell'organizzazione: la struttura

organizzativa viene ricavata induttivamente a partire dall'osservazione di relazioni

definibili a diversi livelli di analisi (Lomi, 1997).

Figura 3. Rappresentazione delle diverse U.O. in base alla loro dimensione ed esperienza professionale (piano fattoriale dimensione-esperienza)

Inoltre, la prospettiva relazionale consente l'analisi di fenomeni quali il potere, la

diffusione di innovazione, i processi decisionali, ricongiungendo diversi livelli di

analisi: individuale, di gruppo ed organizzativo.

A livello individuale, gli attori o le unità che occupano posizioni di centralità (Freeman,

1979) nel network relazionale sono considerati come potenzialmente dotati di potere in

quanto hanno un migliore accesso e maggiore possibilità di controllo sulle risorse

rilevanti (Brass, 1992). Inoltre, l'esposizione a canali di comunicazione interpersonali

sembra consentire una maggiore consapevolezza delle innovazioni, incrementandone il

20

U.O.B

U.O.F

tasso di adozione (Rogers, 1983).

A livello intraorganizzativo, diversi studi hanno dimostrato che le relazioni sociali

facilitano la diffusione di innovazioni, sia di prodotto che di processo (Coleman, Katz e

Menzel, 1966). Inoltre, la centralità dell'unità organizzativa nel flusso di lavoro

rappresenta un'importante fonte di potere in quanto consente il controllo delle risorse

presenti all'interno dell'impresa (Hickson e al., 1971).

Allo stesso tempo, le relazioni inter-organizzative consentono lo sviluppo delle

competenze necessarie all'adozione di innovazioni a livello organizzativo (Goes e Park,

1997). Attraverso il trasferimento di informazioni, tecnologie e procedure, le

organizzazioni catturano le esperienze delle altre organizzazioni.

Considerando l'apprendimento come un processo di costruzione sociale, in cui lo

sviluppo di conoscenze è strettamente influenzato dal contesto sociale, dalle

interdipendenze tra gli attori e dalle modalità con cui percepiscono il loro ambiente

rilevante (Weick, 1969), l'utilizzo della prospettiva relazionale appare particolarmente

indicato per analizzare i processi di cambiamento organizzativo.

Attraverso la social network analysis è possibile analizzare le relazioni che legano i

diversi attori al di là delle semplici relazioni gerarchiche, e verificare dunque l'impatto

della struttura informale sull'esito dei processi di cambiamento in atto all'interno del

sistema organizzativo. Sono proprio le relazioni che emergono in modo spontaneo,

spesso non rispecchiando i canali formali di comunicazione o autorità, che danno un

maggiore impulso ai processi di innovazione e apprendimento, attraverso la creazione di

un linguaggio comune e condiviso. La diffusione della conoscenza viene così a

svilupparsi all'interno di «comunità di interazione professionale», che vanno al di là dei

21

confini funzionali ed organizzativi (Brown, Duguid, 1991). Gli attori coinvolti

scambiano in maniera informale considerazioni relative alle proprie esperienze,

contribuendo così in misura rilevante alla valorizzazione ed alla diffusione delle

conoscenze. Attraverso i legami informali, essi riescono a condividere conoscenze non

codificate che difficilmente sarebbero trasferite ricorrendo ai meccanismi di scambio di

natura gerarchica.

Queste relazioni sono caratterizzate da un diverso grado di "informalità". Le relazioni di

comunicazione sono quelle che consentono lo scambio di consigli, informazioni e idee

riguardanti l'attività professionale. Il network di comunicazione è generalmente

descritto come una rete di relazioni informali ed emergenti, sebbene molte di queste

relazioni possono rispecchiare il flusso di lavoro o le relazioni di autorità (Krackhardt e

Hanson, 1993).

Diversi studi hanno sottolineato l'importanza della comunicazione nella diffusione di

innovazioni (Rogers, 1983; Goshal e Bartlett, 1990) e nella creazione di conoscenza

(Page, 1997). Le unità organizzative che si trovano al centro dei canali di

comunicazione informali presentano un maggior grado di influenza, di reputazione e di

prestigio, e quindi un accesso facilitato a risorse sia materiali che immateriali.

Le relazioni di amicizia rappresentano, nell’ambito delle relazioni informali, quelle più

forti e complete, generalmente caratterizzate da interazioni più frequenti (Krackhardt e

Porter, 1986).

Diversi autori hanno analizzato l'influenza della posizione occupata nella rete delle

relazioni di amicizia su fattori quali il successo (Strauss, 1973), la formazione di

coalizioni ed alleanze, l'ottenimento di informazioni e ricompense (Kotter, 1982), la

22

percezione delle proprie condizioni di lavoro (Ibarra e Andrews, 1993).

Le relazioni di amicizia sono generalmente caratterizzate da legami forti e profondi in

quanto si instaurano generalmente tra persone che risultano simili su una serie di

caratteristiche personali, quali l'età, la razza, o la religione, (Marsden, 1988). Gli

individui simili, infatti, interagiscono più facilmente (Carley, 1991). Inoltre, i rapporti di

amicizia sono profondamente influenzati dalla vicinanza e tendono dunque a svilupparsi

tra individui che appartengono alla stessa unità organizzativa (Krackhardt e Stern,

1988).

Infine, le relazioni di amicizia sono caratterizzate da interazioni molto frequenti

aumentando in questo modo le opportunità di trasferimento di informazioni e

suggerimenti (Krackhardt e Porter, 1986). Diversi studi hanno evidenziato che gli attori

che interagiscono maggiormente, come ad esempio gli amici, possiedono generalmente

conoscenze condivise e attitudini e valori comuni (Carley, 1986; 1991).

Da queste considerazioni emerge l'importanza che le relazioni di comunicazione e di

amicizia possono assumere nei processi di cambiamento organizzativo.

In questo studio, l’analisi relazionale è stata condotta su due livelli: interpersonale e

intra-organizzativo. A livello interpersonale sono state rilevate le relazioni di amicizia

intercorrenti tra i medici all’interno delle diverse unità operative. Questa indagine è

stata effettuata grazie alla distribuzione di un questionario nel quale ogni medico era

chiamato ad indicare le relazioni intercorrenti con gli altri membri del gruppo secondo

uno schema che permetteva di graduare il livello di formalità della relazione: da

relazione formale “lavorativa” a relazione informale e di “amicizia”.

A livello intra-organizzativo, è stato distribuito un questionario ai responsabili delle 98

23

unità operative del Policlinico con l’obiettivo di rilevare lo scambio di prestazioni (su

medesimi pazienti) e lo scambio di consulenze.

Dai risultati generali di queste due indagini, presentati in altra sede (Cicchetti 1999;

Profili, 2000), sono stati estratti alcuni risultati relativi alle unità operative B ed E.

La situazione relazionale nelle due unità operative, a livello interpersonale, si presenta

molto eterogenea. Mentre nel caso dell’unità operativa E il responsabile descrive le

relazioni intercorse con i suoi collaboratori (altri tre medici) come relazioni di

“amicizia” ed è evidente la reciprocità del rapporto, nell’unità B il responsabile

considera amici solo 3 medici su un totale di 12. Il livello di reciprocità evidenzia come

l’amicizia non sia un “contenuto relazionale” molto diffuso nell’UO B, al contrario di

quanto accada nell’UO E.

Risultati interessanti si ottengono anche dall’analisi relazionale a livello intra-

organizzativo. Abbiamo analizzato due network sintetizzati in due matrici di adiacenza

34x34. Nella prima matrice, l’intensità nelle relazioni di scambio di prestazioni è

descritta con valori tra 1 e 10. Valore 1 implica nessuna relazione; valore 10 implica la

massima intensità di relazioni di scambio tra le unità operative. Nella seconda matrice

l’intensità negli scambi di consulenza è misurata con valori di frequenza variabili tra 1

(due reparti che si scambiano una consulenza al mese) a 7 (due reparti che si scambiano

più consulenze al giorno).

Analizzando gli indicatori di centralità dei due network (Freeman, 1979), le differenze

di “posizione” delle due unità operative nelle due reti di relazioni, appaiono

significativamente diverse (Tabella 5).

Tabella 5. Indicatori di centralità negli scambi di prestazioni e consulenze.

24

UO E UO BDegree assoluto

Degree Normalizzato

Degree assoluto

Degree Normalizzato

Matrice 1(Scambio di prestazioni)

142 430,3 101 306,6

Matrice 2(Scambio di consulenze)

82 248,48 66 200

La numerosità di relazioni che l’UO E intrattiene in entrambi i network è pari quasi al

doppio di quelle intrattenute dell’UO B. L’UO E mostra una maggiore “capacità” di

intrattenere relazioni; è cercata per collaborazioni nell’assistenza ai pazienti e cerca

collaborazioni all’esterno più di quanto faccia l’UO B.

Osservando la “struttura dei legami” si evidenzia come l’UO E ha rapporti forti e

assidui con le unità operative mediche sia “generali” che specialistiche (es. neurologia).

Minore è, invece, l’intensità relazionale con le altre chirurgie rispetto alle quali la sua

attività appare “alternativa”. Anche L’UO B ha scarsi rapporti con le altre chirurgie, e

questo, a parere dei medici, è in qualche modo “fisiologico”5. Mostra, invece, strette

relazioni solo con le unità mediche “generali” e relazioni quasi inesistenti con le

medicine specialistiche.

Le due unità operative, inoltre, dichiarano di non scambiarsi né prestazioni né

consulenze. Questo appare in qualche modo in contrasto con la struttura organizzativa

formale che le vede entrambe parte dello stesso istituto universitario e le pone

gerarchicamente sotto lo stesso “capo”.

La diversa capacità relazionale delle due unità, è testimoniata anche dalla differente

attitudine alla collaborazione dei responsabili delle due unità operative. Il responsabile

5 Ci riferiamo ad interviste effettuate nella parte etnografica dell’indagine riportata in modo più sistematico nel paragrafo successivo.

25

dell’UO E è scelto come consulente per l’area chirurgica da ben 16 unità operative; il

responsabile dell’UO B, pur avendo un prestigio scientifico forse superiore, non viene

mai indicato come consulente per l’area chirurgica da nessuna delle altre unità operative

della struttura.

5.3. L’organizzazione informale: gli attori e i processi cognitivi

Le analisi effettuate sugli assetti relazionali e sulle caratteristiche formali

dell’organizzazione, pur fornendo numerosi spunti di riflessione, non permettono di

giungere alla comprensione dei fenomeni organizzativi che hanno portato alle differenze

di performance delle due UO.

Il lavoro degli autori si è a questo punto orientato ad una indagine etnografica

nell’ambito delle due unità operative. Ciascuno degli autori, per un periodo significativo

(circa un mese) ha trascorso parte del proprio tempo nei reparti selezionati per

analizzare alcuni fenomeni che, nella letteratura organizzativa di area sanitaria, sono

spesso chiamati in causa per spiegare l’efficienza e l’efficacia del nucleo operativo di un

ospedale. Tra questi, certamente rientrano:

il livello di collaborazione professionale (medici-medici) e inter-professionale

(medici-infermieri);

l’orientamento manageriale;

lo stile manageriale del responsabile (stile di leadership, stile decisionale, capacità di

negoziazione e di comunicazione).

La collaborazione tra medici nell’ambito dell’unità operativa è osservabile sulla base

del livello di condivisione di procedure e modalità assistenziali (i così detti percorsi

diagnostico terapeutici). Come rilevato nel secondo paragrafo, l’efficienza e l’efficacia

26

delle prestazioni sanitarie è ampiamente legata alla capacità di realizzare

interdipendenze orizzontali tra soggetti dotati di ampia autonomia e forte

discrezionalità. Tale interdipendenza, tipicamente reciproca, difficilmente si realizza

con l’adozione di standard di comportamento generalizzati, ma deriva da una

condivisione di obiettivi, valori e concezioni del lavoro medico tra i diversi

professionisti. Questa collaborazione, nell'UO E, si sostanzia in una condivisione

informale di modi di procedere e di sequenze di diagnosi e terapie per specifici profili-

paziente. La sede principale di questa condivisione è la riunione clinica settimanale,

durante la quale i quattro medici dell’unità condividono esperienze inerenti la casistica.

Questo modo di procedere ricorda, in nuce, quello che nel linguaggio anglosassone è

conosciuto come medical audit. Il medical audit è “un approccio sistematico,

formalizzato e volontario per la valutazione della qualità dell’assistenza, caratterizzato

da una revisione retrospettiva della pratica professionale per il miglioramento della

qualità dell’assistenza” (Bassanini, 2000). Nell’analisi retrospettiva, i medici includono

anche la discussione degli aspetti organizzativi relativi ai percorsi di cura dei diversi

raggruppamenti di pazienti, garantendo, a loro giudizio, un progressivo affinamento

dell’azione assistenziale.

Anche nell’unità operativa B queste modalità collaborative sono utilizzate, ma tendono

a focalizzarsi, forse anche per le dimensioni della struttura e per l’elevato numero di

medici, solo su specifiche patologie. L’interesse, infatti, tende a concentrarsi su quelle

patologie che hanno un impatto sulle attività di ricerca correntemente sviluppate

nell’ambito dell’unità e dell’istituto di riferimento.

Questa situazione è stata riscontrata relativamente al trattamento chirurgico del cancro

del colon retto. L’interesse scientifico del responsabile dell’unità operativa B (nonché

27

direttore dell’Istituto) al trattamento di questa specifica patologia è ben noto. Lui stesso,

personalmente, tratta chirurgicamente la maggior parte dei pazienti affetti da questa

patologia per la quale la degenza media appare allo stesso livello di quella dell’UO E e

con una performance migliore dello standard di riferimento di 2,5 giorni. (vedi Tabella

3).

Un ulteriore aspetto che può contribuire a spiegare la performance delle UO riguarda

l’attitudine alla collaborazione tra medici ed altri professionisti sanitari (infermieri,

tecnici, ausiliari). Numerosi studi hanno messo in evidenza la rilevanza del clima e dello

spirito collaborativo per la qualità del lavoro assistenziale e l’effetto della diversa

attitudine alla collaborazione interprofessionale sulla qualità percepita da parte dei

pazienti e sull’efficienza dell’intero processo assistenziale (Sweet e Normann, 1995).

Nel Servizio sanitario nazionale, tradizionalmente, personale medico ed infermieristico,

a livello di associazioni professionali, hanno sempre combattuto aspre battaglie sul

livello di qualificazione e formazione professionale che gli infermieri dovrebbero

acquisire. L’infermiere oggi crede che il suo ruolo di “gestore” dell’assistenza sia

caratterizzato da una rilevante dimensione organizzativa, anche in seguito all’influenza

dei modelli anglosassoni dominanti, richiedendo per questo una formazione di tipo

“universitario” e una posizione dirigenziale (almeno per i responsabili infermieristici dei

dipartimenti o delle unità operative complesse). A questa prospettiva si contrappone un

retaggio che vede l’infermiere come semplice supporto operativo del medico, privo di

specifiche responsabilità decisionali ed autonomia organizzativa. Pur nelle varie

modulazioni che caratterizzano il panorama sanitario italiano, la realtà mostra situazioni

intermedie che si avvicinano più al secondo modello che al primo.

Nell’ospedale in questione la sensazione che si percepisce nelle unità operative non si

28

discosta dalla situazione media nazionale.

L’unità operativa E sembra rappresentare una delle eccezioni. Il clima di cordialità e di

collaborazione tra medici e infermieri è improntato al reciproco rispetto e al

coinvolgimento reciproco nella definizione delle modalità di gestione del paziente

(escludendo evidentemente il coinvolgimento nella definizione dei profili di

trattamento).

Questa considerazione ci introduce al secondo fattore che gli autori hanno analizzato

durante il periodo trascorso all'interno della struttura: l’orientamento manageriale dei

responsabili di unità operativa e degli altri dirigenti medici. Per orientamento

manageriale intendiamo la predisposizione del medico ad adottare un modello di lavoro

basato sulla programmazione degli obiettivi e dell’utilizzo delle risorse,

sull’organizzazione delle risorse umane e il loro coinvolgimento, sulla direzione e il

monitoraggio dell’azione assistenziale e sul controllo dei risultati e l’analisi degli

scostamenti rispetto agli obiettivi (Meggison, Mosley, Pietri 1992).

L’atteggiamento dei due dirigenti medici non sembra differenziarsi molto sotto questo

profilo. Entrambi i medici hanno colto in maniera lungimirante l’evoluzione “aziendale”

del Ssn e hanno creduto alla necessità di aderire a quelle richieste che provenivano dal

management aziendale. Ciò che invece differenzia i due clinici è il modo di interpretare

il ruolo di “manager” oltre che quello di medico. Ci riferiamo allo stile di “direzione”

che i due medici sembrano manifestare.

Il primo (UO B), forse anche in virtù della sua posizione apicale nell’assetto

universitario della struttura, adotta uno stile di leadership autoritario (Likert, 1961), che

deriva in parte dalla sua autorevolezza scientifica. Sono ben noti all'interno

29

dell’ospedale i suoi modi, in qualche caso dispotici ma efficaci, di governo delle

relazioni con gli altri medici dell’Istituto e con il personale infermieristico. Persona

colta ed affabile, pone molta attenzione alle regole, il cui rispetto ritiene sia la prima

condizione per il funzionamento dell’attività. Lo stile di direzione del responsabile

dell’UO E appare più partecipativo (Likert, 1961) e meno autoritario. Pur non

mancando di autorevolezza scientifica e di prestigio nell’ambito della struttura, così

come in ambito nazionale ed internazionale, il dirigente sembra puntare più

sull’autoresponsabilizzazione che sul controllo esterno, pur esigendo un attento rispetto

delle regole; più sulla creatività che sull’efficienza in senso stretto. Personaggio

affascinante oltre che capace, sembra avere sui collaboratori un effetto carismatico, pur

mantenendosi disponibile con tutti i colleghi anche al di fuori dell’unità. Probabilmente

non è un caso che egli risulti, tra i chirurghi, quello più richiesto per consulenze cliniche

su pazienti ricoverati in altre UO (dati della direzione sanitaria).

6. CONCLUSIONI

La spiegazione della performance di un'organizzazione complessa quale quella

ospedaliera richiede la combinazione di diversi livelli di analisi (individuale, di gruppo

ed organizzativo) e la contemporanea rilevazione di variabili di natura sia formale che

informale. Con questo studio, abbiamo voluto analizzare l’impatto dei fattori informali

sui risultati prodotti dalle unità organizzative di una struttura ospedaliera complessa

(policlinico universitario) senza peraltro trascurare la rilevazione delle caratteristiche

del sistema formale di relazioni. Per raggiungere questo obiettivo, sono state utilizzate

diverse metodologie di analisi: l'elaborazione di dati quantitativi (attributi individuali e

delle unità organizzative) ha consentito di ricostruire l'impatto della struttura formale

30

sulla performance; l'analisi relazionale ha consentito la ricostruzione del network di

relazioni sociali che si "nasconde" dietro la struttura gerarchica; l'analisi etnografica,

infine, ha permesso l'identificazione dello stile di leadership e dell'orientamento

manageriale dei dirigenti medici, fattori cruciali nella spiegazione del comportamento

organizzativo.

I risultati descritti nei paragrafi precedenti ci hanno consentito di tracciare il "profilo" di

una unità organizzativa "di successo": di piccola dimensione, caratterizzata da una

elevata intensità di relazioni informali, da una forte collaborazione professionale (ed

inter-professionale), da uno spiccato orientamento manageriale e da uno stile di

management partecipativo del suo leader, basato sulla collaborazione di tutti i membri

alle decisioni e alla gestione del reparto.

L’obiettivo della direzione dell’ospedale nella promozione dell’indagine di

benchmarking che abbiamo descritto nel caso era quello di individuare uno o più best

performer per valutare la possibilità di diffondere pratiche cliniche e metodologie

organizzative adottate.

L’analisi svolta per individuare i driver dei differenziali di performance ha messo in

evidenza l’importanza delle caratteristiche “informali” del best performer (UO E). La

replicazione delle condizioni organizzative formali presenti nell’UO E (es. dimensione

del reparto, intensità dell’assistenza infermieristica, etc.) in altre unità non sembrano

sufficienti ad assicurare l’ottenimento di risultati altrettanto eccellenti. E’ evidente che

la capacità ad intrattenere relazioni di natura sociale e l’attitudine alla collaborazione

professionale e interprofessionale, sembrano contribuire in maniera sostanziale

all’efficienza di quell’unità.

31

L’analisi relazionale e la successiva analisi etnografica hanno messo in evidenza come

l’attività di una unità operativa, o di un ospedale in genere, debba essere analizzata più

come un "fenomeno vivente" che come costrutto formale. Le singole competenze e le

alte tecnologie contribuiscono in maniera sostanziale ai risultati dell'organizzazione, ma

la medicina moderna si configura sempre più come fenomeno d’equipe che come

fenomeno individuale. Indipendentemente dalla presenza di una formalizzazione

organizzativa, i medici e le altre professionalità sanitarie condividono linguaggi,

conoscenze, tecniche e procedure e si auto-organizzano per svolgere un lavoro in

comune. Questi gruppi spontanei, che nascono contingentemente alle esigenze

assistenziali dei singoli pazienti, rappresentano un esempio particolarmente evidente di

“comunità procedurale” o community of practice (Wenger, 1999). Le comunità

procedurali non sono altro che una sintesi spontanea e non formalizzata di conoscenze

individuali perfettamente condivise: sono “conoscenza in azione” (Snyder, 1997).

Crediamo che l’UO E operi con queste caratteristiche e proprio lo sviluppo di

automatismi operativi, senso comune del lavoro e linguaggi condivisi siano alla base del

suo successo .

Se si interpreta il differenziale di performance osservato nell’unità operativa E attraverso

l’adozione di questa prospettiva, l’obiettivo che il management si era preposto di tentare di

codificare e diffondere le best practice eventualmente individuate diviene più complesso. E’

evidente che un fenomeno che ha nell’informalità e nella collegialità le sue principali

caratteristiche appare difficile da codificare, standardizzare e quindi replicare attraverso

un’azione “top down” (Lesser e Prusak, 1999).

Al management non rimane altro che analizzare con attenzione le condizioni che hanno

favorito la nascita e l’evoluzione di tale comunità e replicare, ove possibile, le stesse

32

condizioni; ma con grande discrezione. L’esperienza di molti settori ha dimostrato che

ogni intervento fatto per individuare e sistematizzare una community of practice deve

essere realizzato senza rompere l’informalità, la collegialità, la capacità auto-

organizzativa, le leadership interne e il sistema di valori che accomuna coloro che ne

fanno parte.

Questa azione non può prescindere dall’attitudine e dall’orientamento manageriale del

leader della comunità (quando esiste) e il caso ha messo in evidenza che, aldilà delle

competenze scientifiche e delle capacità gestionali, è lo stile di leadership a

caratterizzare i due responsabili.

In una organizzazione professionale, più che altrove, l’efficacia e l’efficienza non

sembrano essere legate alle modalità formali di strutturazione organizzativa o da fattori

di “scala” economica. Le relazioni informali e l’attitudine alla collaborazione sembrano,

invece, poter creare le condizioni affinché le conoscenze possano diffondersi, divenire

patrimonio comune migliorando continuamente i risultati ottenuti.

Resta inteso che queste conclusioni risentono in maniera decisiva dello specifico

contesto del settore sanitario e delle condizioni esistenti nell’organizzazione nella quale

i fenomeni sono stati osservati. Lungi dal ritenere generalizzabile qualsiasi risultato

ottenuto, crediamo che le conclusioni a cui siamo giunti possano stimolare una futura

ricerca tesa ad analizzare, in maniera più completa e sistematica, il ruolo dei fattori

informali nell’azione organizzativa dei sistemi professionali.

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