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R E C E N S I O N I
Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia ed. (collanaQuaderni del Ponte), Firenze, 1961,pp. 382 + 57 ill. f. t., L . 3000.
A Firenze, le fila del movimento operaio erano già state sconnesse e disperse dalle violenze squadriste fin dal 1922. Nuclei comunisti, sia pur decimati e stroncati dal Tribunale speciale, rimasero tuttavia attivi per quasi tutto il corso del ventennio.
Ma, accanto a quella comunista, un’altra opposizione antifascista rimase sempre viva. Degli intellettuali che avevano dato vita a quel gran crogiolo di esperienze ch’era stata la « Voce », con i circoli di cultura, i dibattiti e le altre riviste che l’avevano accompagnata, alcuni, i più, avevano ben presto dimenticato le ribellioni di un tempo per indossare comode camicie nere. A chi aveva affrontato quelle esperienze culturali più per letteraria vanità che per sincero bisogno dell’animo, a chi era, più che d ’altro, desideroso di retorica, non parve vero che la retorica, all’opposizione sotto Giolitti, giungesse ora al potere, salisse le scale marmoree delle Università, dei Ministeri, delle Accademie. I letterati fiorentini furono in buona parte tra i protagonisti di queste conversioni in massa al regime, a volte illudendosi di poterne guidare i passi tenendolo per mano, sempre lasciandosi da esso, più o meno consapevolmente, trascinare. Comunque, lo accompagnarono fino alla fine, quasi tutti. Ancora nel ’43-’44, come ricorda Francovich, proprio a Firenze si dette vita a una nuova rivista irrazionalista e nazionalista (tra i maggiori redattori Ar- dengo Soffici, Arrigo Serpieri, Primo Conti, Giotto Dainelli e Giovanni Spadolini, quest'ultimo però poco più che un ragazzo): « Italia e Civiltà ».
Ma, per buona fortuna di quella città, Firenze aveva anche un’altra, ben diversa tradizione intellettuale. C ’era stato Salvemini, a lungo: partito lui ne rimase il ricordo, rimasero gli amici e gli allievi ch’egli aveva lasciato, rimase soprattutto, in uomini come Calamandrei, lo spirito di libertà e di giustizia che Salvemini aveva contribuito a diffondere. Da!l’ « Italia libera » al « Non
mollare », da « Giustizia e Libertà » al liberalsocialismo, giù giù fino al Partito d’Azione (qui più che altrove ricco di consensi) è tutta una serie quasi ininterrotta, malgrado rischi e difficoltà d ’o- gni genere, di atti d ’opposizione al regime: propaganda antifascista, specietra i giovani, complotti, diffusione di libri « proibiti », contatti vari con gli oppositori nelle altre città d’ Italia.
Di fronte alla attività dei militanti comunisti e degli intellettuali « salve- ininiani », di minore rilievo appare quella degli esponenti di altre formazioni politiche. Socialisti e popolari si limitavano per lo più a tener desti in ristrette cerehie i rispettivi ideali, raccogliendosi di tanto in tanto attorno a belle figure come quelle di Gaetano Pie- raccini o di Adone Zoli. Più rilevante semmai, in campo cattolico, l’ attività di La Pira, che nella sua rivistina « Principi » e nelle sue conferenze al convento di San Marco faceva un gran parlare, seguendo il suo slancio evangelico, di libertà (e sia pure chiamandola libertas...): al punto che i fascisti fiorentini, accortisene, lo accusarono di essere un « massone » e di voler elevare « altarini giudaici » mimetizzati! Alla fine del ’42 un Comitato interpar- titi prese a riunirsi in casa Pieraccini e a pensare alla successione, che cominciava ad apparire prossima, al governo fascista.
Questa era la situazione al 25 luglio, vale a dire nel momento dal quale Francovich intraprende la sua storia della Resistenza fiorentina. Veramente, come è stato giustamente osservato (Claudio Pavone, in « Movimento Operaio », X V , 1962, n. 4), il libro avrebbe potuto chiamarsi, meglio ancora che La Resistenza a Firenze, Firenze durante la Resistenza, tanta è la messe delle notizie che vi si trovano, interessanti non soltanto le lotte politiche tra fascisti e antifascisti, ma anche i diversi aspetti della vita cittadina per più di un anno, fino ai cibi che i fiorentini potevano permettersi o agli spettacoli che venivano loro ammanniti. Proprio questa larghezza d ’impostazione (assieme al pathos di chi fu tra gli attori del dramma, mal celato dietro le pieghe di un racconto sempre sereno, onesto, apparentemente dimesso) costituisce uno dei
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pregi maggiori dell’opera. C ’è anche, a completare il libro (oltre a un’appendice di documenti e a un ricco indice biografico), un corredo interessantissimo di fotografie, per lo più inedite, particolarmente preziose nella gran scarsità di materiale illustrativo sul periodo della Resistenza.
Come è noto l’opera del Francovich ha vinto recentemente il V Premio V enezia della Resistenza, per un’opera storica su un argomento che riguardi il periodo 1922-45.
Dopo un breve accenno all’ antifascismo fiorentino durante il ventennio, il libro di Francovich prende le mosse appunto dai 45 giorni di Badoglio. Il 25 iuglio fu accolto in città da manifestazioni spontanee e calorose di esultanza, che si svolsero tuttavia in un’atmosfera sostanzialmente tranquilla e non dettero luogo a vendette. Il Comitato interpar- titi vide aumentato il proprio prestigio e allargò la propria attività, sindacati e gruppi studenteschi si riorganizzarono democraticamente. Ma la riconquistata tranquillità fu di breve durata. L ’8 settembre, anche qui, come in altre città, l’esercito si sciolse praticamente come neve al sole. C ’erano generali preoccupati piuttosto di conservare l ’ordine pubblico che di organizzare sia pure una parvenza di difesa, e che opponevano un rifiuto agli azionisti e ai comunisti che chiedevano armi per combattere contro i Tedeschi. Questi ultimi poterono così, l’ n settembre, occupare la città quasi senza alcuna resistenza. Poco dopo, la nascita del C T LN dava inizio alla lotta clandestina, mentre i fascisti avviavano la riorganizzazione repubblichina della città: si apriva così il periodo più triste e, insieme, più glorioso, della storia moderna di Firenze. Alla Repubblica di Salò aderirono squadristi della vigilia delusi dal successivo tralignare del fascismo dalle sue origini, giovani ingenui sinceramente illusi dalle conclamate, tardive aspirazioni repubblichine a una palingenesi democratica, teppisti veri e propri. Nè mancarono gli intellettuali, come s’è detto, proprio mentre si cercava di fare di Firenze il centro di quel poco ch’era rimasto in vita della squallida cultura fascista. Gentile, Soffici, Giotto Dainelli, Guido Manacorda elevavano i loro ultimi sacrifici in quel tempio ormai cadente della cultura irreggimentata ch’era l’Accademia d ’Italia. Sempre Gentile fu al
centro (e ne fu anche la tragica vittima) di un vano invito alla pacificazione al di sopra delle parti, rivolto ai cittadini « buoni e onesti » ma rifiutato con giusta intransigenza dal C LN .
Francovich si dilunga nel descrivere le varie forme di attività dei partiti antifascisti, dalla protezione degii ebrei e degli ex prigionieri alleati alla diffusione della stampa clandestina, dagli attentati agli scontri armati.
In prima linea rimasero fino alla fine i comunisti dei GAP e gli azionisti: soltanto nel ’44 ormai inoltrato socialisti e democristiani presero ad avere propri nuclei d'azione. Il clero, a parte alcune indecisioni del cardinale Dalla Costa e alcuni rari esempi particolarmente vergognosi (come quello del monaco Epaminonda Troia, cappellano di Carità e compagno delle sue efferatezze), si schierò in genere dalla parte degli antifascisti collaborando con essi, a volte, con grande coraggio.
I comunisti si volgevano, essenzialmente, a un’attività terroristica e intimidatoria, spesso assai coraggiosa ed efficace, mentre gli azionisti preferivano operazioni più organizzate e di maggior valore anche strategico e cercavano di potenziare al massimo l’organizzazione militare del CLN (si distinsero, alla testa del Comitato di Liberazione Nazionale fiorentino, Tristano Codignola, Enzo Enriques Agnoletti, Ragghiami, Pie- raccini, Zoli, Traquandi, Medici Torna- quinci e altri). I rapporti tra i vari gruppi antifascisti all’ interno del GLN, come documenta Francovich, non furono sempre idillici, soprattutto per le iniziative autonome dei comunisti, nonché per l’ eco, che anche qui si faceva sentire, di dissensi presenti sul piano nazionale. Francovich, che non è per niente succube della mitologia della Resistenza, non manca neppure di sottolineare come, con il progredire dell’ avanzata alleata, aumentasse di giorno in giorno il numero dei doppiogiochisti, pronti a proclamarsi, a liberazione avvenuta, resistenti della prim'ora. Tra le iniziative più rilevanti della Resistenza fiorentina meritano di esser ricordati l’efficientissima organizzazione di Radio Cora, in contatto con gli Alleati, da parte di un gruppo di azionisti (che finirono poi tutti uccisi o arrestati), lo sciopero organizzato dai comunisti nel marzo ’44 e, infine, la battaglia per la liberazione di Firenze, che durò un mese intero, dal 3
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agosto al 2 settembre e che venne condotta dai partigiani fiorentini in collaborazione con alcune bande scese in città dalle campagne circostanti.
In tutto il periodo dell’occupazione, al coraggio e alla risolutezza dei combattenti clandestini fece riscontro la durezza della repressione da parte tedesca e fascista. Firenze conobbe gli orrori della « Villa Triste » di Carità, le cui torture ai prigionieri Francovich ricorda in pagine raccapriccianti pur nella loro lineare sobrietà. Nè meno impressionanti e commoventi sono altre descrizioni, per esempio quella dell’esecuzione di un gruppo di giovani renitenti alla leva. Anche Firenze, come tante altre città italiane, ebbe così i suoi eroi e i suoi martiri : figure nobilissime come quelle di Lanciotto Ballerini, Enrico Bocci, Anna Maria Enriques, Bruno Fanciullac- ci, Italo Piccagli. Fu il prezzo pagato non soltanto per la cacciata dei Tedeschi e per la riconquista della libertà, ma per dimostrare, anche di fronte agli Alleati, che gli Italiani non si identificavano con la dittatura che li aveva dominati per un ventennio. La liberazione non fu quindi per Firenze un dono degli Anglo- americani, ma una conquista ottenuta dalla popolazione a caro prezzo e, insieme, la dimostrazione, data dai capi politici della Resistenza, della loro capacità di assumere e tener saldamente in mano il governo della propria città.
E questo rimane, essenzialmente, il significato fondamentale della Resistenza fiorentina: per la prima volta (a parte il precedente, assai diverso, di Napoli) una città italiana insorse contro fascisti e nazisti guidata dal proprio C LN , e, sia pur approfittando della vittoriosa a- vanzata alleata, dimostrò di saper trovare in se stessa il coraggio e la dignità necessari per combattere in difesa di quegli ideali di libertà e di giustizia che una ventennale oppressione aveva ap- nannato ma non era riuscita a cancellare.
G ianni Sofri
Mario G iovana, La Resistenza in Piemonte. Storia del C LN regionale,Feltrinelli, Milano, 1962.
Questo lavoro di Mario Giovana è lo stesso che ha bene meritato la borsa di studio, tributatagli nel 1957 dall’Istituto per la Storia del movimento di Liberazione in Italia e che questa rasse
gna ha già pubblicato in parte (e non nella maggior parte, come l’Autore desidera che noi precisiamo contro quanto è stato detto in una « scheda » di questa rivista).
Nonostante il ritardo della pubblicazione, l ’interesse del saggio non perde di attualità, anche dopo la comparsa di opere monografiche pur pregevoli come quella del Pansa sull’Alessandrino o del Luraghi sul movimento operaio nello stesso periodo, poiché nessuna sintesi della resistenza piemontese è stata successivamente tentata dal punto di osservazione dell’organo regionale che l’ha diretta, nè le successive ricerche hanno fornito materiale che consentisse una revisione sostanziale dei giudizi qui e- spressi.
Il Piemonte ha rappresentato il tipico. esempio di una regione italiana in cui le tradizioni culturali e popolari dell’antifascismo si sono fedelmente proiettate sul movimento di Resistenza, che esse hanno contribuito in larga misura a suscitare. E Giovana vede benissimo la figliazione dalle energie tradizionali e latenti, vero humus generatore di sforzi anticonformistici ed anche radicalmente eversivi, ma pur sempre volontariamente canalizzati nella armonica collaborazione della lotta e della ricostruzione democratica. Sulla scena confluiscono intellettuali di formazione gobettiana e gramsciana, un movimento operaio illuminato dalle esperienze di fabbrica del primo dopoguerra e, sulle traccie dell’« Ordine nuovo », ricco di fermenti e assetato di chiarificazioni intellettuali, una tradizione monarchica borghese e spesso anche contadina, che si integra al movimento popolare non già per sviarlo ma per affiancarlo efficacemente, condizionandolo con la sua presenza non esigua.
Tutti questi filoni, lungi dal cozzare nel crogiuolo della lotta e reciprocamente paralizzarsi, si sommano armonica- mente così da conferire al Piemonte, dove più accentuate e vivaci apparirebbero le divergenze, le migliori opportunità per collocarsi al primo posto della lotta partigiana al nazi-fascismo.
In un siffatto ambiente le crisi anche più difficili non tendono a degenerare ma a risolversi. Gli esempi non mancano. Le possibilità di un comando retto dal generale Operti vengono abbandonate con la stessa facilità e chiarezza con cui erano state senza falsi pudori
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adottate; le formazioni Giustizia e L ibertà di tendenza repubblicana e liberalsocialista e quelle finitime a direzione monarchica di Mauri e di Cosa, anziché indebolirsi in conflitti ideologici, coesistono in una operante collaborazione sino a considerare da vicino l’opportunità di una fusione, che poi non si realizza; le tendenze supernazionali ed europeistiche del partigianato cunee- se conducono ad una collaborazione di armi con il vicino maquis francese, anche se il bilancio si chiuderà con un grosso attivo, mai ripagato, a favore della generosità piemontese. La valle d’Aosta, con il suo ambiguo separatismo, apertamente e inopportunamente sollecitato da oltralpe, è il banco di prova di quanto le aberrazioni nazionalistiche dell’ ammirato vicino abbiano purtroppo ragione della fraternità democratica e del vivere civile fra i popoli.
Giovana ha occhio sensibile per questa multiforme realtà sociale e politica e con acutezza approfondisce lo sfortunato tentativo Operti, analizza il comportamento dei ceti popolari (anche senza indulgervi per non uscire dal tema, come forse avrebbe potuto sull’esperienza di precedenti ricerche da lui fatte nelle valli cuneesi) e con serena oggettività valuta la portata della crisi valdostana.
(Rileggendo questo suo studio accurato, mi sono posto invece il quesito se non sia già venuto il momento, quasi a vent'anni dalle vicende, di trattare con senso ancor più critico e staccato il fenomeno della Resistenza. Se cioè non sia possibile rivedere taluni giudizi che ci accompagnano sin dai giorni della nostra lontana esperienza che, con la progressiva consacrazione storiografica, conducono inevitabilmente all’agiografia e alla fabbricazione di miti.
Parlando in particolare del CLN mi pare di poter dire che esso dovrebbe venire considerato più sotto il suo aspetto funzionale di organismo creato appositamente a suscitare e dirigere la Resistenza, che non come autonoma espressione di autogoverno popolare. La piramide dei CLN, per quanto venisse dichiarata autonoma ad ogni livello, faceva ricadere dal superiore all’ inferiore le parole d'ordine forgiate dalle direzioni dei singoli partiti, che erano sì le sole forze organizzate vive e operanti, ma pur sempre irradiantesi da un centro e
non condizionate da maggioranze qualificate.
Esigenze di lotta non consentivano di fare altrimenti ed era giusto che le interpretazioni della nascitura democrazia fossero assunte d’autorità; ma il concetto di massa partecipante alla direzione politica (e che non sempre pareva sentirsi rappresentata dagli esponenti degli organismi cosiddetti « di massa » che taluni partiti imponevano ai CLN) era da rimandarsi ad un periodo successivo, quando le strutture democratiche del paese le avessero consentito di darsi un reale contenuto. Le sorprese che in tante plaghe vennero dai primi risultati elettorali post-bellici, rispetto all’ idea che ognuno si era fatto a suo modo degli effettivi orientamenti popolari, confermano, mi sembra, questo giudizio.
E ugualmente si dica circa la valutazione più frequentemente ricorrente sugli Alleati. E ’ vero che mai essi avrebbero desiderato per i loro fini bellici « un esercito di popolo », quale prese forma nella Resistenza italiana con tutte le conseguenze politiche eversive che esso poteva comportare, ma è anche vero che una volta che gli Alleati si trovarono di fronte a tale realtà, essi la accettarono o la subirono senza pensare più a disfarsene, ma al più a controllarla e condizionarla (il sostegno dato in Jugoslavia al più efficiente Tito a sfavore dello stesso Mihailovich insegni).
L ’affermare quindi, come fa Giovana, che sotto il messaggio Alexander del novembre 1944, per quanto psicologicamente inopportuno e male intonato, stesse « il fine precipuo di sfasciare le formazioni » e cioè di scardinare la resistenza, mi appare nota eccessivamente pessimistica. Se così fosse stato davvero, perchè il Comando Supremo Alleato a- vrebbe nei primi giorni del dicembre decretato l’assegnazione di 160 milioni mensili alla Resistenza Italiana, di cui 60 al solo Piemonte?
Il condizionamento poteva essere sgradito ai resistenti, compromettere i loro obiettivi politici particolari e offendere le loro aspettative e le loro speranze, ma è anche vero che ove esisteva il Comando Supremo del Mediterraneo che controllava insindacabilmente tutte le forze militari del proprio scacchiere, tra le quali giustamente la Resistenza Italiana voleva essere considerata, non era facilmente opinabile la precedenza di una azione insieme concordata e il rispetto,
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tra tante difficoltà organizzative, di quel- le nostre aspettative, che male si accordavano con le pressanti ragioni militari, a parte l’incomprensione che esse potevano incontrare presso i governi dei paesi « liberatori ».
Lo studio dei rapporti con gli Alleati dovrebbe dunque essere quanto meno svolto parallelamente a quello della condotta alleata nel suo complesso, per valutare fino a qual punto il comportamento degli Alleati era dettato da imprescindibili ragioni militari. Bisognerebbe per esempio appurare entro quali limiti l’ insufficiente appoggio aereo alleato a Domodossola sia da attribuire all’urgente necessità di sostenere Varsavia assediata, male aiutata dai Russi, utilizzando le basi aeree dell’Italia liberata.
Sono queste ultime però delle considerazioni di ordine interpretativo generale da non applicarsi in particolare al lavoro del Giovana e che nulla tolgono alla validità ed ai risultati delle sue ricerche; ricerche che auguriamo possano essere da lui felicemente proseguite nel campo della storia piemontese della Resistenza, di cui egli continua appassionatamente ad occuparsi ed in cui ha raggiunto una notevole competenza, meritevole di essere messa ulteriormente a frutto.
G. V accarino
Francesco Saverio N itti, Scritti politici, vol. I V : L'inquiétude du monde - La disgregazione dell’Europa, a cura di Guglielmo Negri, ed. Laterza, Bari, 1962, pp. 627, L . 5.000.
L'edizione nazionale delle opere di Nitti, presso il Laterza di Bari, si arricchisce di un nuovo volume, sesto in ordine di pubblicazione, tredicesimo nel piano generale di edizione (la quale ultima, va notato incidentalmente, ma non marginalmente, anzi con soddisfazione profonda, e direi con gioioso sbigottimento, procede con un’ efficienza, una serietà ed una regolarità del tutto confortanti, e del tutto insolite in iniziative del genere). Questo volume raccoglie due opere del Nitti, l ’una del 1933, riprodotta nel testo originale francese, L ’inquiétude du monde, l’altra di cinque anni più tardi. La disgregazione dell’Europa, presentata nella versione italiana postbellica approvata dall’autore.
Benché separate da un breve periodo di tempo, le due opere si differenziano nettamente nel loro motivo ispiratore e nei loro risultati critici. Mentre la prima, infatti, è, per così dire, un consuntivo, ha l ’occhio volto al passato, rappresenta l’ultimo anello della lunga serie di scritti polemicamente dedicati dal Nitti all’ analisi delle conseguenze del trattato di Versailles, la seconda è robustamente connessa col presente, sta a significare una testimonianza politica militante e ad un tempo l ’atto di fede di un economista legato al liberalismo conservatore prebellico contro lo statalismo e la pianificazione in ogni loro aspetto.
La parola magica che un immaginario Robinson, tornato a percorrere i paesi sconvolti dalla guerra, pronunzierebbe infatti nel 1933 non è altro che « retour au passé ». Poco informato ancora sulle caratteristiche del sistema hitleriano, di cui coglie però acutamente le implicazioni nazionali e Je origini da uno stato di necessità, Nitti è stato viceversa profondamente e vivacemente colpito, in senso negativo, dall’ esperienza roosevel- tiana. Ricordando a grandi linee, si può dire che gli Stati Uniti, sotto un profilo politico, economico ed addirittura sentimentale, abbiano rappresentato per Nitti la più grossa ed amara delle delusioni. Benché personalmente detestasse Wilson, Nitti non aveva cessato di nutrire una fiducia quasi messianica, del tutto inconsueta in lui, nel disinteresse idealistico e nelle capacità sconfinate d ’iniziativa dello spirito nordamericano. Tutte le sue opere, dall’immediato dopoguerra fino al 1924, allorché l’amministrazione repubblicana di Harding e Coolidge aveva ricondotto a gran passi la politica e l'economia statunitensi sulla via dell’ isolamento più chiuso e del più aspro protezionismo, ruotano intorno ad un appello calorosissimo all’ intervento americano in Europa. Orbene, un decennio più tardi, non soltanto questo non si era verificato, ma gli Stati Uniti avevano dato prova di un’ imprevidenza e di una leggerezza non meno catastrofiche per se stessi che per il resto del mondo. Già senza dubbio turbato per questo risultato che accresceva il suo scoramento ed il suo pessimismo, Nitti si avvide con indignazione e quasi con scandalo che l’opera di ricostruzione iniziata da Roosevelt segnava una consapevole e drastica rottura col passato, e ciò principalmente attraverso un sistematico in
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tervento dello Stato ed una fortissima ispirazione sociale nella legislazione.
La polemica ideologica contro il new deal diventa cosi l’ aspetto più significa- tivo dell’opera pubblicistica di Nitti negli anni trenta, e ciò alla stessa guisa, in un certo senso, della polemica contro l’imperialismo francese durante il decennio precedente. In entrambe queste campagne, invero, dotte, serrate, appassionate, la preoccupazione di Nitti risponde eminentemente a postulati liberali ed individualistici. Qui non si tratta infatti di confutare l’autorevolezza e l’attendibilità delle ipotesi economiche e soprattutto delle anticipazioni rivoluzionarie di Marx; nè di stigmatizzare le degenerazioni burocratiche e personalistiche del bolscevismo, e la sua refrattarietà alla mentalità occidentale (ma quanta incomprensione per gli aspetti spirituali e solidaristici della nuova società sovietica!); nè di discernere l’ artificiosa impalcatura mistica, razzista e guerrafondaia del nazismo dall'obiettivo stato di disgregazione economica che aveva liquidato la repubblica di Weimar; nè di documentare la povertà ed il velleitarismo dei disegni cosidetti imperiali e di rinnovamento corporativo del fascismo. In tutte queste polemiche, che egli svolge con competenza e fervore eccezionali, Nitti è animato innanzi tutto da un sentimento politico, da una passione liberale, da un’educazione ottocentesca al gioco dei partiti ed al peso dell’opinione pubblica, che gli fanno valutare con l’ostilità più risentita non solo le degenerazioni plebiscitarie ma un po’ tutti gli aspetti più pesanti e schiaccianti dei moderni movimenti di massa.
Nella polemica anti-americana, viceversa, l’animo di Nitti, quantunque egli rilutti a confessarlo, è ispirato da una preoccupazione squisitamente economica, e schiettamente conservatrice. Lo stesso fenomeno si era verificato ai danni della Francia, allorché Nitti (ma da questo giudizio rinvenne, a mente fredda e con l’esperienza hitleriana) si era sentito di poter giudicare che una vittoria tedesca non avrebbe potuto arrecare all’Europa conseguenze gran che diverse e peggiori di quelle del militarismo francese. Giocava in quegli anni essenzialmente in Nitti il rimpianto del concerto e dell’equilibrio europei. Per resuscitare questo sistema, del cui anacronismo egli non si avvedeva, Nitti non esitava non solo a sviluppare una circostanziata descrizione
dell'insostenibilità della situazione tedesca, ma anche, senza troppe preoccupazioni ideologiche, ad auspicare un inserimento più attivo ed operoso della politica sovietica in Europa.
Quindici anni dopo, la situazione è profondamente mutata. Di una qualsiasi preponderanza in Europa non pare che si possa parlare senza lo scatenamento di un immane conflitto. La Russia è da tempo isolata in un raccoglimento più
meno forzato e Nitti non può che intuire la grandiosità delle sue trasformazioni interne in mezzo alla ben. più vistosa ridda di processi e di stragi le cui notizie dilagano in occidente. Il nemico da combattere è perciò per Nitti essenzialmente quello che si è annidato nel seno stesso della democrazia industriale, il sistema sociale, economico e civile che, nel pieno rigoglio della sua fase imperialistica, aveva suscitato i giovanili- entusiasmi del Nitti. Il pericolo è lo statalismo, il piano, la programmazione. De Man e Cripps sono trascinati sul banco degli accusati accanto a Roosevelt. Si tratta di uno sforzo dottrinario ed intellettuale veramente ammirevole da parte di Nitti (La disgregazione dell’Europa è forse l’opera sua più documentata e penetrante dell’ entre deux guerres), uno sforzo che non manca di drammatica pateticità nel richiamo alla libertà, alla dignità umana, da parte di un uomo a cui la preparazione soprattutto libresca e la mentalità eminentemente conservatrice impedivano di comprendere che proprio in nome della libertà conculcata dei cittadini e dell’offesa dignità dei lavoratori potevano affermarsi e trionfare quei grandi movimenti di rivendicazione sociale in cui egli vedeva la catastrofe e che la storia avrebbe giudicato, se non altro, come il più illuminato tentativo riformistico nel seno della società borghese tradizionale.
Raffaele Colapietra
Manfred M erkes, Die deutsche Politik gegeniiber dein spanischen Bürger- krieg 1936-1939, Ludwig Ròhrscheid Verlag, Bonn, 1961, pp. 194.
La sostanza della guerra di Spagna come primo scontro armato tra fascismo e antifascismo sul piano internazionale e come preludio della seconda guerra mondiale è un fatto ormai così scontato, che non varrebbe neppure la pena di sottoli
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nearla una volta ancora se essa non fosse destinata a rimanere del tutto in ombra in un libro come questo del Merkes, che ripete ]e caratteristiche deteriori della storiografia diplomatica tradizionale. Si tratta cioè di una cronaca degli eventi nei limiti in cui è possibile ricucirla sulla base dei documenti diplomatici, con il minimo sforzo interpretativo e analitico da parte dell’A .; la diligenza scolastica non salva perciò neppure questo lavoro da quell’ambiguo obiettivismo così frequente ormai negli studi di storia contemporanea che ci giungono dalla Germania occidentale. In effetti, è veramente difficile riuscire a capire come ci si possa accostare oggi a un argomento così importante quale è l ’intervento delle potenze dell’Asse nella guerra di Spagna senza prendere mai posizione, in omaggio a una concezione storiografica degna più di un compilatore di cataloghi o di calendari che di uno storico, a qualsiasi tendenza egli possa appartenere. Ma tant’è, questa è Ja caratteristica generale del libro del Merkes, che qui si segnala tuttavia per l ’interesse dell’argomento che affronta.
Infatti, sull'intervento fascista in Spagna non esistono ancora studi specifici approfonditi; non sono disponibili ancora neppure i documenti diplomatici italiani relativi alla guerra di Spagna.
In certa misura il Merkes ha cercato di colmare la lacuna degli studi per la parte tedesca attingendo, oltre che alle raccolte di documenti già pubblicate, agli atti originali dell’archivio del Ministero degli esteri tedesco. Ma da questo tipo di fonti l ’A . è rimasto completamente condizionato; si ha anzi l’impressione che egli abbia intrapreso la ricerca principalmente allo scopo di assolvere il Ministero degli esteri tedesco da ogni corresponsabilità nella vicenda spagnola, portando in primo piano un conflitto di orientamento tra il Ministero degli esteri e il vertice delle gerarchie naziste che sfortunatamente non trova alcun riscontro nè nei documenti nè nello sviluppo degli avvenimenti. L ’A . afferma bensì ripetutamente che il Ministero degli esteri era contrario ad appoggiare Franco o avversò più volte determinate decisioni politiche (così alle pp. 19, 2 1 , 22, 47, 68, 71), ma non si preoccupa minimamente di fornire la prova del comportamento « correttamente neutrale » che attribuisce almeno agli inizi alla diplomazia nazista
o quanto meno a von Neurath in base ad elementi assolutamente sconosciuti;
E ’ questa forse la prima conseguenza del metodo di ricerca fatto proprio dal- l ’A ., il quale si serve dei documenti ufficiali senza sufficiente avvertenza critica, prendendoli in pratica alla lettera senza sottoporli al vaglio di un’analisi interpretativa di più vasto respiro. Potrebbe sembrare un abbaglio alquanto strano in uno studioso, ma esso in realtà è perfettamente spiegabile alla luce della assoluta mancanza di una visione generale che inquadri il conflitto di Spagna nel duello tra il fascismo e l’ antifascismo al livello internazionale, sul quale una nuova bellissima testimonianza ci viene dalla recente riscoperta del Diario del giornalista sovietico Koltsov. Si potrebbero citare diversi casi ad esemplificazione del singolare modo di interpretare la storia cui si ispira il Merkes. Valga in proposito un solo esempio: poco dopo la rivolta franchista arrivano in Germania emissari dei ribelli per provvedere all’ acquisto di armi; il fatto che essi non dovessero entrare in contatto ufficiale con le autorità tedesche non dimostra affatto, come ritiene l’A ., che la Germania si tenesse « neutrale » di fronte al conflitto (p. 19), bensì che il governo tedesco aveva le sue buone ragioni per non scoprirsi prematuramente dando l’impressione di essere aperto fautore della causa franchista.
11 Merkes ha bensì intravisto alcuni dei problemi politici strettamente legati all’intervento delle potenze dell’Asse -— principalmente l’obiettivo di Hitler di impedire comunque la saldatura della solidarietà tra il fronte popolare in Spagna e il fronte popolare in Francia e di rovesciare lo schieramento antitedesco isolando e accerchiando ]a Francia dalla testa di ponte spagnola — ma si direbbe che tutto ciò rimanga ai margini del suo studio. Più accurata è la ricostruzione dei rapporti diretti tedesco-spagnoli, a cominciare dalle vicende dei cosiddetti « volontari » e della legione Condor; ma anche qui sarebbe stata desiderabile una minore reticenza a proposito dell’ autentica truffa inscenata dal governo nazista intorno alla questione dei « volontari » : è curioso fra l ’altro che il Merkes non menzioni neppure la legge del 18 febbraio 1937 con la quale il governo tedesco, recitando la commedia degli inganni, proibiva ai cittadini tedeschi di partecipare alla guerra di Spagna, mentre con
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temporaneamente allestiva uomini e mez- zi per l’intervento organizzato! Sono altresì ricostruite le fasi del riconoscimento diplomatico di Franco da parte nazista (che ebbe luogo il 18 novembre 1936 a quattro mesi dall’inizio dell’ intervento armato), le vicende della rappresentanza diplomatica tedesca negli anni della guerra civile e infine la politica tedesca nel Comitato per il non intervento, del quale risulta confermata la tattica dilatoria, che mentre bloccò gli aiuti a favore della Spagna repubblicana non impedì invece l’ intervento dell’Asse a favore dei nazionalisti, senza il quale Franco non avrebbe potuto vincere la partita.
Proprio per questa fondamentale considerazione è inaccettabile, oltre tutto, la conclusione del Merkes secondo cui la politica di non intervento non ebbe influenza decisiva sulle sorti del conflitto « in quanto i sostenitori delle due parti spagnole ebbero abbondanti occasioni per aggirarla » (p. 168) : affermazione, questa, che capovolge il pur reticente riconoscimento dell'ostruzionismo italo - tedesco nel Comitato del non intervento (p. 125) e che comunque non risponde ad una valutazione realistica del peso degli aiuti che ricevettero le due parti in lotta. E d ’altra parte non afferma lo stesso M. che l’ aiuto italo-tedesco fu per Franco decisivo, sia militarmente che politica- mente, anche se non per questo egli si trasformò in passivo strumento dell’A sse (p. 170)?
La parte relativamente più nuova della ricerca del Merkes è senza dubbio quella dedicata ai rapporti economici ispano-tedeschi, che consentono di fare ulteriore luce sui moventi dell’intervento dell’Asse e specificamente di quello tedesco, al quale non furono probabilmente estranee preoccupazioni concorrenziali nei confronti dello stesso fascismo italiano. La storia delle società HlSMA (con sede a Siviglia) e Rowak (con sede a Berlino), investite del monopolio rispettivamente delle importazioni del Reich dalla Spagna e delle esportazioni tedesche in Spagna, è estremamente eloquente nel definire l’ importanza che la economia spagnola (soprattutto il rifornimento di materie prime) aveva per il riarmo tedesco e nel sottolineare quindi uno dei principali motivi d ’ interesse politico dell'intervento tedesco. In definitiva, proprio alle concessioni economiche accordate dalla Spagna fu subordinata la garanzia e la continuità
dell’aiuto tecnico e militare tedesco: « La H isma ricevette da Franco, che all’inizio del 1937 aveva posto a disposizione del governo l’intera produzione mineraria del territorio nazionale e i proventi in divise da essa derivanti, la garanzia scritta che le sarebbe stato concesso lo sfruttamento del 60 per cento del territorio del Rio-Tinto » (p. 84). Le concessioni economiche in cambio dell’aiuto militare del Reich, meno ingente quantitativamente di quello italiano ma più importante qualitativamente per l’addestramento delle forze nazionaliste, culminarono nella creazione di cinque società con partecipazione di capitali tedeschi superiore al 40 per cento, laddove le leggi spagnole prevedevano in origine una quota di partecipazioni straniere ai diritti minerari non superiore al 25 per cento, e di una società interamente tedesca per lo sfruttamento minerario. del Marocco spagnolo (si v. soprattutto alle pp. 13 1 e 149). In tal modo la Germania mirava a garantirsi anche contro i pericoli della concorrenza inglese nell’ economia spagnola.
Omettendo di insistere su altri dettagli, preferiamo soffermarci su alcune delle conclusioni che l’A . trae al termine del suo studio, in quanto esse confermano singolarmente le osservazioni già in precedenza anticipate sullo spirito con il quale è stata condotta la ricerca.
1) Anzitutto non ci sembra accettabile la proposta di assumere come termine decisivo dell’ intervento tedesco la data del riconoscimento diplomatico piuttosto che quella del 25 luglio 1936, giorno in cui furono effettuati i primi trasporti aerei per conto di Franco (p. 169). Perchè mai? D ’accordo che il riconoscimento diplomatico rese irrevocabile la politica di solidarietà con Franco, ma oggi possiamo affermare con sufficiente tranquillità che il riconoscimento diplomatico non fu che un secondo momento dell’intervento tedesco, la cui prima fase fu di carattere militare perchè di natura militare erano i problemi che doveva risolvere Franco per consolidare la testa di ponte nella penisola iberica.
2) Si può convenire con il M. che per la Germania i vantaggi economici e politici dell’intervento furono di gran lunga più rilevanti di quelli militari, anche se non bisogna trascurare l'importanza dell’ impresa ai fini dell’addestramento militare e del collaudo di alcuni reparti
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scelti della Wehrmacht. Ma è veramente grottesco scrivere che « i documenti dimostrano che il governo tedesco non fece alcun tentativo di ingerirsi nella situazione interna spagnola o di imporre agli spagnoli il nazionalsocialismo » (p. 171). Come se a smentire tutto ciò non bastasse il fatto che l'intervento dell’Asse sia stato decisivo per imporre al popolo spgnolo la dittatura franchista e per precludergli quindi una diversa alternativa di regime! Certo, c’è da supporre che il M. non abbia trovato scritte queste cose negli atti del Ministero degli esteri tedesco, ma chiunque si applichi a studiare la storia con un minimo di intelligenza e di sensibilità politica dovrebbe essere in grado di evitare di scrivere banalità del genere, a meno che non sia indotto a farlo da altre meno disinteressate ragioni.
3) 11 terzo e ultimo punto che ci interessa sottolineare è l’affermazione che « come l’occupazione della Renania neppure l ’intervento nella guerra civile spagnola incontrò il plauso del Ministero degli esteri e della Wehrmacht » (p. 176). Sulla tendenziosità di questa affermazione non è certo il caso di insistere: la riferiamo tuttavia perchè è estremamente sintomatica dello spirito mistificatorio del libro.
Enzo Collotti
Charles F. D elzell, Mussolini’ s Enemies : the Italian Anti-Fascist Resistance, Princeton University Press,Princeton, New ersey, 1961, pp.XIX - 620, dollari 12,50.
Questa prima analisi completa dell'antifascismo è opera di uno storico americano, Charles F. Delzell, il quale, dopo essere stato in Italia durante la guerra con l’esercito del suo paese, vi ritornò in seguito in veste di studioso, tra l'altro frequentando l’Istituto per gli Studi Storici di Napoli. 11 risultato di quelle indagini, proseguite poi in America e condotte su una grande quantità di materiale, è appunto questo impegnativo volume in cui il Delzell, convinto del profondo legame tra la Resistenza e l’opera iniziata oltre vent’anni prima dagli oppositori del fascismo, ha voluto abbracciare per Ja prima volta in un unico sguardo l’attività degli antifascisti italiani dall’avvento del regime alla sua dissoluzione ed alla Liberazione.
Un’opera d’ insieme come è questa
non si propone evidentemente di risolvere i molti problemi non ancora chiariti
neppure di svolgere analisi particolareggiate su questo o quell’episodio. Il Delzell infatti, utilizzando un gran numero di opere storiche e documentarie, cerca di offrire al lettore una sintesi efficace, il più possibile informata, che metta a disposizione del pubblico i risultati comunemente accettati dalla storiografia. Egli indica così dapprima le principali forze che animarono l’opposizione al fascismo all’ interno ed all’estero durante gli anni del regime, mostrandone il carattere, spiegandone gli atteggiamenti, illustrandone i legami e le differenze: e analizza quindi in modo più particolareggiato come quelle forze siano confluite nella Resistenza, chiarendo il diverso carattere dei vari gruppi e partiti che la animarono, nel più vasto quadro della situazione militare ed internazionale del tempo.
Pur distinguendo assai opportunamente tra i vari gruppi antifascisti durante il regime, il Delzell dimostra di considerare l ’attività delle opposizioni in modo sostanzialmente unitario, come risulta ad esempio dalla sua valutazione dell’opera dei fuorusciti, dato che al giudizio limitativo di Croce egli contrappone la posizione assunta dal Garosci, riconoscendo con lui l’ impossibilità di operare una netta distinzione tra antifascismo all’estero ed antifascismo all’ interno, v isto anche il confluire di entrambi, a partire dal 1943, nella Resistenza (pp. 44-45). Il Delzell riesce così a collegare l’attività degli antifascisti rimasti in Italia a quella dei fuorusciti, di cui mette in risalto l’opera così importante, seppur lenta e difficile, volta a far conoscere il vero carattere del regime agli stranieri, spesso ammiratori del modo con cui il fascismo aveva saputo riportare l’ordine in Italia; mentre anche all’interno la loro attività contribuì, nota il Delzell, quanto meno a creare un particolare clima i cui risultati non mancarono di farsi sentire nel ’42 - ’43 (p. 45).
La necessità di riassumere un numero notevolissimo di episodi, ricordando i nomi ed i fatti più significativi, ha probabilmente costretto il Delzell a dare a questa prima parte del suo studio — l'esame dell’opera degli antifascisti dal 1924 al 1943 — un carattere alquanto sommario riscontrabile particolarmente nel primo capitolo, dedicato alle vicende delle opposizioni dall’avvento di Musso
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lini alle leggi speciali del ’26, ma presente anche nelle pagine successive, tendenti a fissare in modo forse un po’ troppo schematico le caratteristiche e le attività dei vari gruppi, senza riuscire ad animare del tutto quel quadro che pure è delineato con sicurezza. Una critica, questa, che non infirma la sostanziale validità dell’opera, soprattutto qualora si tenga presente il carattere del libro, definito dall'autore stesso una ” cronistoria ” (p. XII), utile cioè come punto di partenza per indagini ulteriori, ovvero per fornire una prima informazione su un periodo così complesso.
Anche nella seconda parte del volume, dedicata allo studio delle vicende tra il 1943 ed il 1945, in cui pure l’esame di fatti ed episodi è svolto con notevole minuzia, prevale questo medesimo tono espositivo sicché il Delzell preferisce talvolta sorvolare su problemi che forse avrebbero meritato una indagine più attenta, limitandosi a pochi cenni e rimandando per una più approfondita analisi a ricerche italiane e straniere più specializzate.
Malgrado questi limiti, bisogna però riconoscere al Delzell il merito di aver saputo esporre la sua materia con notevole chiarezza, particolarmente in questa seconda parte del libro, cui ha indubbiamente giovato Ja volontà dell’autore di allargare il suo esame alla considerazione più generale delle vicende italiane, insistendo in modo speciale sulla complessa questione dei rapporti tra gli Alleati e la Resistenza.
Appunto l’esame dell'atteggiamento alleato nei confronti del movimento di liberazione, condotto sulla base delle opere storiche e documentarie di lingua inglese, è tra le parti più riuscite del volume, non tanto come contributo nuovo ed originale per una più completa chiarificazione della questione, quanto come utile compendio dei più attendibili risultati sinora raggiunti, per indicare, al di là delle polemiche contingenti, spesso comprensibili, ma tuttavia troppo parziali, le cause effettive che determinarono l’atteggiamento degli Alleati nei confronti non soltanto del movimento partigiano, ma della più complessa situazione italiana.
L ’esame delle posizioni assunte dai governi alleati serve al Delzell per mettere in risalto le differenze tra gli atteggiamenti inglesi, più decisamente conservatori ed ostili a qualsiasi mutamento
nell’ordinamento italiano, e quelli meno rigidi degli americani, ricordando a questo proposito come Roosevelt fosse portato a sostenere tesi più favorevoli nei nostri confronti anche dalla preoccupazione di assicurarsi i voti degli italo-ame- ricani nelle imminenti elezioni (p. 396).
Muovendo da alcune osservazioni di Parri, il Delzell riconosce giustamente l ’estrema varietà della politica alleata verso la Resistenza (p. 451), mostrando l’ ispirazione conservatrice, specie inglese, che l’animava, ad esempio coll’appoggio prestato alla monarchia (pp. 322- 323), impedendo la formazione del corpo di volontari del generale Pavone (p. 310), ostacolando poi il primo governo Bonomi, appoggiato invece dagli americani (pp. 391-392), spalleggiando in seguito Bonomi, contro la proposta, sostenuta dai socialisti e dai rappresentanti del Partito d ’Azione, di un ministero presieduto da Sforza, aspramente osteggiato da Churchill (p. 461).
Siffatte preoccupazioni, nota il Del- zeli, si manifestarono nell’ atteggiamento diffidente e spesso negativo assunto nei confronti della resistenza partigiana, data la volontà iniziale alleata di limitarne l’attività a compiti marginali di spionaggio e sabotaggio, escludendone dapprima la costituzione in armata, e rivendicando poi l’assoluto controllo della iniziativa militare, anche quando i rapporti tra gli Alleati e la Resistenza si erano fatti più stretti e quando era ormai avvenuta la unificazione di tutti i combattenti.
D ’altro canto, la mancanza di una chiara valutazione della situazione italiana, i cui termini sfuggivano alla maggior parte degli inglesi e degli americani, se rendeva impossibile l'attuazione di una politica unitaria nei confronti della Resistenza, faceva sì che quei rapporti fossero spesso determinati dalle idee politiche degli ufficiali alleati incaricati dei collegamenti, magari disposti a favorire i gruppi più vicini alle loro posizioni, ovvero a sostenere gli interessi delle formazioni che essi conoscevano meglio, senza una visione più generale dei problemi (p. 365).
In ogni caso a tale mancanza di comprensione del significato e del carattere della Resistenza, nonché alle preoccupazioni conservatrici ed anticomuniste, che l'insurrezione greca dell’E LA S dell'autunno del ’44 rese più forti, specie tra gli inglesi, ed alla incapacità di inserire il movimento partigiano italiano
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in un più vasto disegno delle operazioni militari in Italia, il D. aggiunge le obiettive difficoltà, d ’ordine militare e strategico, che pure devono essere tenute presenti e che spesso, di fatto, determinarono l’azione alleata in Italia, più ancora delle indubbie preoccupazioni di conservazione politica.
Ad un’analisi così attenta dei rapporti tra gli Alleati ed il movimento di liberazione italiano fa riscontro una analoga cura nella esposizione delle principali vicende della Resistenza, ricordando nomi ed episodi di maggior rilievo, precisando, nei limiti del possibile, il carattere delle varie formazioni, indicando le forze politiche, in modo particolare PCI e P d’A che le dirigevano, collegando le iniziative del primo, quali l’appoggio dato al governo Badoglio (p. 338) e l ’adesione al secondo ministero Bonomi (p. 461), alla situazione internazionale ed alle esigenze sovietiche.
Per quel che riguarda una valutazione più propriamente politica della Resistenza, il Delzell, dopo averne riconosciuto gli indubbi successi militari, ammessi anche dagli Alleati, e dopo aver ricordato quanto l’opera della Resistenza fosse servita da un lato a ridare dignità alla nazione e dall’altro ad ottenere dagli Alleati un trattamento più favorevole di quello che ci si poteva aspettare nel settembre del ’43 (p. 551), mostra come a tali risultati non abbia corrisposto quel rinnovamento completo della vita pubblica italiana auspicato dalle sinistre, visto il prevalere delle forze moderate, demo- cristiane e liberali, che consentì ai gruppi già compromessi col fascismo di conser' vare le loro posizioni di privilegio economico e politico (p. 555), determinando la successiva involuzione della vita politica italiana.
Enrico D ecleva
A. J. P. T aylor, Le origini della secondaguerra mondiale, Laterza, Bari, 1961,pp. 418, L . 2.500.
L ’affermazione più brillante del T ., e in fondo la vera giustificazione di questo volume, si trova nelle parole che lo concludono: « Nel 1941 (Hitler) attaccò la Russia sovietica e dichiarò guerra agli Stati Uniti, due potenze mondiali che chiedevano solo d ’essere lasciate in pace. In tal modo cominciò una vera guerra mondiale, nella cui ombra noi ancora viviamo. La guerra che scoppiò nel 1939
è diventata invece materia di curiosità storica ».
La scoperta essenziale del T ., insomma, è di aver distinto, in quel complesso di fenomeni abitualmente indicato col nome di seconda guerra mondiale, due filoni, dei quali uno, storicamente ricco di conseguenze, consiste nell’ entrata in gioco dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti, mentre l’altro si riduce ad una serie di mosse e contromosse diplomatiche, tutto sommato abbastanza ridicole, aventi come protagoniste la Francia e la Gran Bretagna, come scena l’Europa (in un senso piuttosto ristretto) e come posta il mantenimento o l’annullamento del « sistema di Versailles ». Avvertiamo subito che del primo filone (cioè quello importante) il T . non parla: solo nell’ultima pagina apprendiamo che Hitler fece la guerra anche all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti, e, incidentalmente, lo storico ci comunica che non fu una cosa trascurabile. La sua attenzione, invece, è tutta concentrata sul secondo filone, quello che è materia di « curiosità » storica. L ’originalità del lavoro, a sua volta, consiste nell’ aver inserito il fenomeno Hitler non nel primo, ma nel secondo filone: lungi dall’esser stato un demonio accarezzante un folle sogno di dominazione mondiale, il dittatore del Terzo Reich non sarebbe stato che un piccolo Bismarck, con obbiettivi limitati e, solo, una certa abilità nel gioco rischioso di condurre tutte le trattative sempre sul limite della guerra, finché l’ostinazione (il T . dice apertamente la malaccortezza) di uno dei suoi avversari (nella fattispecie i polacchi) lo costrinse a « vedere » (nel senso che si dà a questo termine nel gioco del poker). In sostanza, la superiorità di Hitler sui suoi avversari (austriaci, cechi e polacchi, in primo piano, ma, dietro ad essi, inglesi e francesi) sarebbe consistita nel dichiararsi sempre disposto ad andare fino in fondo, cioè alla guerra, mentre i suoi avversari sapevano di doversi fermare prima. Chi ha visto il film Gioventù bruciata (Rebel without a cause) ricorderà probabilmente il « gioco del coniglio » : due giovani salivano su due vecchie macchine e le lanciavano a tutta velocità verso un precipizio: chi abbandonava la macchina per primo aveva perso. Hitler avrebbe fatto qualcosa di simile: solo che i polacchi, per orgoglio, per insipienza politica, per errore di calcolo, preferirono gettarsi nel precipizio, e Hitler, che non poteva but-
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tarsi dalla macchina prima di loro, dovette seguirveli. Hitler sarebbe dunque stato un bluffista? Attenzione, questo il T . non lo dice : Hitler era sicuro di vincere sempre a questo gioco perchè, a differenza degli altri, non escludeva la guerra dall’ambito delle possibilità. Però non è vero che volesse provocarla; anzi, per ]ui, il vertice dell’arte sarebbe consistito nell’ottenere sempre ciò che desiderava senza dovervi ricorrere. Il problema, ovviamente, è di sapere che cosa Hitler desiderasse, poiché, se fosse vera la tesi che egli si sarebbe arrestato solo dopo che l’ intero mondo fosse stato incorporato nel Terzo Reich, cadrebbe ogni ipotesi particolare sulle cause della guerra: è evidente, infatti, che egliavrebbe prima o poi trovato qualcuno disposto a resistergli; questo non avrebbe escluso a priori la possibilità che Hitler vincesse anche la competizione finale, ma avrebbe comunque escluso quella che la vincesse senza colpo ferire, come sarebbe stato nelle sue intenzioni. Bisogna dire che il T . supera brillantemente anche questa seconda obiezione, escludendo che Hitler non avesse un termine, raggiunto il quale si sarebbe fermato: secondo lui, Hitler non avrebbe avuto altro obbiettivo che la distruzione del « sistema di V ersailles»: quando fosse riuscito ad ottenere la « revisione » completa di tutte le clausole che avevano fatto della Germania una nazione « umiliata e offesa », si sarebbe probabilmente fermato. Ora, Danzica e il corridoio polacco erano praticamente le sole cose che ancora nel ’ 39 restassero da « revisionare » : perciò non è vero che ogni soluzione tipo Monaco non facesse che rimandare di sei mesi un problema intrinsecamente insolubile, e cioè quello dell’insaziabile appetito germanico: al contrario, è probabile che Hitler, se avesse avuto soddisfazione anche su Danzica, sarebbe poi rimasto tranquillo per un bel po’ . T ., dunque, non giunge a dire che la guerra scoppiò per caso (formula nella quale è stata polemicamente riassunta la sua tesi, in seguito alla controversia scoppiata in Inghilterra fra lui e altri insigni storici, primo fra tutti il Trevor-Roper), ma, più precisamente, che, per un disgraziato complesso di circostanze, essa scoppiò proprio quando potevano esserci ragionevoli probabilità di scongiurarla definitivamente. La prova del nove di questa affermazione sarebbe data dalla relativa impreparazione dell'esercito germanico: l’ esercito germanico era preparato in e-
stensione, non in profondità, ossia era pronto ad essere brillantemente impiegato per dei blitz, ma non a sostenere una guerra mondiale, necessariamente lunga. Effettivamente, si può dire che i tedeschi, nella seconda guerra mondiale, passarono di vittoria in vittoria dovunque poterono attuare la strategia del blitz, e alla fine furono sconfitti proprio perchè la guerra diventò una guerra di logoramento. Ma la guerra diventò una guerra di logoramento anche perchè H itler vi coinvolse gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, « due potenze mondiali che chiedevano solo di essere lasciate in pace », dice il Taylor. Ma anche due potenze mondiali che si erano escluse dal « sistema di Versailles » : perchè,allora, Hitler le attaccò? Questo il T . non lo dice, e, secondo noi, questo è il difetto principale della sua opera: perchè, se Hitler, alla fin fine, se la prese anche con due paesi che non facevano parte del sistema di Versailles, questo, ci sembra, avvalora l’ ipotesi che gli scopi del piccolo Bismark andassero forse un po’ al di là della semplice revisione di Versailles.
11 fatto di aver messo in luce i lati negativi dell’opera del Taylor non ci esime, anzi, ci obbliga a sottolinearne anche quelli positivi. Taylor non è propriamente un fautore de\V appeasement. L ’unica volta che ne dà un giudizio esplicito (pp. 403-404), egli dice: « S i discuterà a lungo se sarebbe stato possibile evitare questa nuova guerra usando maggior fermezza o maggior spirito di conciliazione; e non si troverà mai risposta a queste congetture. Forse sia l’uno che l’altro atteggiamento avrebbe portato allo scopo, se fosse stato seguito con costanza; ma il miscuglio dell’uno e dell’ altro, cui si attenne il governo britannico, era il più adatto a fallire ». Tuttavia, se si considera il punto di partenza, e cioè la sostanziale iniquità di Versailles, è implicito nella sua tesi il giudizio che la posizione morale della Gran Bretagna e della Francia non era tale da consentir loro una guerra per impedire VAnschluss o per difendere la Cecoslovacchia, come, a maggior ragione, non avrebbe consentito neppure una guerra per Danzica. Il sistema di Versailles si fondava, ufficialmente, sul principio delle nazionalità e su quello di autodeterminazione dei popoli: in tutti i casus belli citati questi principi giocavano a favore della Germania. Certo, si può dire che non furono gli abitanti di
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Praga a chiedere l ’intervento tedesco, ma è anche vero che non si può combattere per l’indipendenza di un popolo quando esso, per primo, si rifiuta di combattere. 1 polacchi, almeno, presero le armi contro Hitler: disgraziatamente, Danzica era senza ombra di dubbio una città tedesca, non polacca.
L ’affermazione più giusta che si trovi nel T . è che coloro che volevano la guerra contro Hitler la volevano in odio alla politica interna di Hitler, e non alla sua politica estera: erano le SS, erano i campi di concentramento, erano la Gestapo, e J.e torture, e il razzismo, e il genocidio, e l’ annientamento della persona umana ciò che muoveva contro Hitler la sinistra europea, e non le sue beghe di frontiera coi governi mezzo fascisti d ’Austria e di Cecoslovacchia, o con quello polacco, che lo era del tutto. Si era contro Hitler per ciò che egli era, non per ciò che poteva o non poteva fare in un determinato momento.
La seconda osservazione, che non bisogna dimenticare, è che Hitler basò le sue fortune sull’isolamento dei beneficiari dell’ordine di Versailles. La Francia e la Gran Bretagna avevano prevalso nella prima guerra mondiale non solo per le loro capacità di resistenza, ma anche per l ’appoggio determinante di altri paesi: esse non erano quindi intrinsecamente superiori — nè come numero nè come mezzi —- alla Germania. La loro forza stava nell’ isolamento diplomatico della Germania, mentre esse avevano potuto mobilitare dietro a sè il resto del mondo. Nei vent’anni tra la prima e la seconda guerra mondiale Francia e Gran Bretagna si comportarono in modo da capovolgere la situazione. E ’ vero che gli Stati Uniti si erano auto-esclusi dal gioco, è vero che l'Italia era passata dall ’altra parte per motivi che in parte esulavano dalle possibilità di manovra dei suoi ex-alleati, ma restava un paese, sul piano strategico certo più importante del- l'Italia e, anche in quel momento, non tanto inferiore agli Stati U niti: questo paese era l’Unione Sovietica. E ’ merito del T . l’aver fatto ampia luce sull’ostinazione con la quale la Gran Bretagna e la Francia, ma più ancora la prima che la seconda, respinsero in quel periodo tutte le avances del governo di Mosca, anche se egli esclude che tale comportamento sia stato dettato da cieco anticomunismo. In tal modo la Francia e la Gran Bretagna si attribuirono una parte da cane da
guardia dell’ordine europeo che non erano assolutamente all’altezza di svolgere.
Infine, merito non piccolo del T . è l’ aver individuato nel fallimento dell’ordine di Versailles la fine dell’Europa delle potenze. La Germania avrebbe liquidato qualsiasi altra potenza europea: a sua volta, però, essa fu liquidata da potenze in certo modo extraeuropee: la seconda guerra mondiale mostrò con tutta evidenza che l’Europa aveva cessato di essere il centro del mondo per diventare soltanto il campo di battaglia di potenze che lottavano per una posta di cui l’Europa era solo una parte. Ma la prima guerra mondiale non aveva forse già rivelato la stessa verità? Anche allora, in fondo, i vincitori erano stati tali solo dopo l’ intervento decisivo degli Stati Uniti. In definitiva, non si può non convenire con la conclusione del T . che la causa prima défia seconda guerra mondiale (o meglio, per dirla col suo linguaggio, della guerra che scoppiò il i° settembre 1939 fra Germania, Francia e Gran Bretagna) risiede nel fatto che la classe politica delle potenze interessate non aveva saputo comprendere la lezione della prima. L ’era delle nazionalità era giunta al suo apogeo teorico quando già la nazione era diventata un concetto privo di significato pratico; ancora immatura per una politica veramente «mondiale», l’Europa era già troppo debole per permettersi il lusso di una guerra esclusivamente europea.
A ldo G iobbio
il processone, a cura di Domenico Zu-càro, Editori Riuniti, Roma, 1961,pp. 274, L . 1000.
Continuando nel suo lodevole lavoro di ricerca storica, Domenico Zucàro offre ora all’ attenzione del pubblico italiano la cronistoria del processo intentato dal T ribunale Speciale contro Gramsci ed altri ventuno dirigenti comunisti.
Il libro è praticamente diviso in due parti. La prima parte consiste nella introduzione redatta dallo Zucàro e nella quale è tracciato un quadro generale dell’ azione repressiva svolta dal governo fascista contro il Partito Comunista fino al novembre 1926. La seconda parte raccoglie il maggior numero dei documenti inerenti al processo, intercalati da note opportune che facilitano la comprensione della complessa vicenda giudiziaria. Una breve conclusione, infine, pone in luce la
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direttiva politica che animò i comunisti italiani durante il processo e dopo la sua sentenza finale.
Diremo subito che la parte più interessante del libro è data proprio dalla raccolta dei documenti processuali, attraverso la lettura dei quali è possibile avere un quadro molto chiaro non solo dell’episodio particolare, cioè il processo al gruppo dirigente comunista, ma anche della situazione politica del momento e della eroica battaglia politica condotta daH’estrema sinistra in quel periodo.
Quello che colpisce maggiormente è la tenacia e la coerenza con cui il fascismo cercò con tutti i mezzi che gli erano consentiti di colpire, attraverso i comunisti, la resistenza antifascista dei lavoratori italiani. Lo Zucàro fa giustamente notare che scopo di Mussolini era di avere il ” suo ” Tribunale e quindi la possibilità di mandare in galera i comunisti come e quando avesse voluto. Per la verità, le sentenze del nuovo organismo giuridico non colpirono tanto gli altri partiti quanto il Partito Comunista. Non si può certo dimenticare tale realtà, generalmente nota, quando si leggono i documenti del ” processone ” . C ’è sempre da parte delle Autorità inquirenti, la cura di sottolineare che l’attività dei comunisti si dirige non solo contro il fascismo ma anche contro i partiti e le istituzioni della borghesia, quasi a ricordare che non sono questi partiti e queste istituzioni che il fascismo intende combattere. Nella lettera che il giudice militare Enrico Macis inviò il 12 marzo 1927 a tutte le questure del Regno sono richieste informazioni particolareggiate sulla diffusione, da parte dei comunisti, di « ... manifesti, opuscoli, giornali, stampati alla macchia e incitanti a combattere con le armi i partiti borghesi ed in specie il PN F, all’odio di olasse, alla disobbedienza alle leggi... » (p. 103). Ritroviamo ancora questo elemento nel mandato di cattura emesso il 20 maggio 1927 contro i dirigenti comunisti, che sono imputati di aver svolto « . . . propaganda violenta fra le masse... per indurle a combattere con le armi le classi borghesi e il PN F... » (p. 120).
Al contrario, tutte le informazioni inviate dalle varie Questure al giudice Macis smentiscono il rinvenimento di depositi di armi organizzati dai comunisti. Il Questore di Milano afferma che « quantunque non risulti in modo certo che le organizzazioni comuniste in questa circo
scrizione fossero fornite di armi, per notizie confidenziali, si vuole però che il Partito Comunista ne abbia depositi clandestini » (pag. 149). E il Questore di Torino: «N on è invece risultato, alla stregua dei dati emergenti dagli atti, che sia stata fatta dal PCI opera di spionaggio militare o politico... Non è parimenti stato accertato che il PCI abbia qui costituito depositi clandestini di armi o munizioni » (pp. 152-153). E il Questore di Trieste: «Non consta che in questa provincia il PCI avesse istituito un ufficio di spionaggio militare o politico... Non risulta che detto Partito abbia costituito depositi clandestini di armi e munizioni nella provincia » (pp. 163-166). Dello stesso tenore sono le lettere degli altri Questori.
Analogamente, per altre domande fatte dal Macis le risposte delle Questure sono negative. Eppure questi capi d ’accusa compaiono nel rinvio a giudizio e nella sentenza finale. Il fatto è che, come fece giustamente osservare Terracini al Presidente Saporiti, il processo contro i dirigenti comunisti fu unicamente un processo politico e che pertanto la colpa di Gramsci e dei suoi compagni fu soltanto quella di essere comunisti. E ’ facile comprendere quindi come le figure degli imputati balzino vive al confronto di quelle dei loro accusatori. 11 Questore di Trieste, parlando di due noti dirigenti comunisti triestini, Elio Negri e Bortolo Petronio, non può fare a meno di ammettere che sono di regolare condotta morale e che non hanno mai avuto precedenti penali (pp. 166- 167). Gramsci, nel suo memoriale, scrive invece come egli, nel carcere milanese, passeggiasse « ... in un cortiletto dove stavano insieme detenuti per reati politici e detenuti imputati di reati comuni, questi ultimi tutti membri del partito fascista » (p. 141).
Il memoriale di Gramsci è pieno di affermazioni vivaci e colorite che danno immediatamente l’ idea esatta dei tranelli che gli furono tesi per ottenere prove che la polizia non aveva. La sua prosa è acuta e non priva di ironia, ma a differenza di Terracini, che critica l’operato dell’Autorità inquirente sotto il profilo giuridico, la difesa di Gramsci si svolge sopratutto sul piano politico. Possiamo dire anzi che i memoriali e gli esposti dei singoli imputati si completano reciprocamente, così che dalla loro lettura emerge il quadro delle illegalità commes
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se dai fascisti pur di poter eliminare la opposizione del PCI. E ' degno di nota il fatto che i detenuti, malgrado i maltrattamenti e le privazioni, avessero conservato non solo la fede nelle loro idee, ma anche la prontezza nel cogliere le contraddizioni e i punti deboli dell'accusa loro rivolta. Nel corso del processo, quando gli vengono fatte delle domande a proposito degli scioperi di Modena del 1913 ai quali aveva preso parte, il deputato Ferrari risponde: « In verità, Signor Presidente, per i fatti ricordati mi ebbi allora le più alte lodi del direttore del- 1’ "A van ti!” , attuale capo del governo». E l’ avvocato Riboldi, altro deputato, osservò ironicamente: « Ho difeso più di trecento comunisti che sono stati ritenuti innocenti e assolti dalla magistratura. Non comprendo perchè oggi debba essere condannato io, solo per averli difesi » (p. 184).
Il libro dello Zucàro ha quindi il merito di far conoscere una parte della lotta antifascista che è poco nota. Tuttavia avremmo gradito maggiori notizie sulla battaglia parlamentare dei deputati comunisti durante il periodo dell’ Aven- tino, nella prima parte, e delle note più numerose che permettessero di afferrare subito le contraddizioni di cui abbiamo parlato, nella seconda parte.
C 'è infine una realtà che caratterizza i documenti processuali anche se non appare esplicitamente. Si tratta non solo della ignoranza dei fascisti — e in proposito vale la pena di ricordare l’episodio dei poliziotti che cercavano le ” cellule ” nelle valigie di Germanetto, non sapendo bene essi stessi cosa fossero queste benedette ” cellule " 1 — ma anche della completa mancanza in loro di una ideologia degna di tale nome. Non avendo quindi una vera teoria il fascismo ebbe solo la pratica del manganello e della violenza e questo spiega il carattere puramente strumentale e privo di ogni giustificazione giuridica e costituzionale che hanno i documenti riportati nel libro dello Zucàro. Tale considerazione è di grande importanza, anche se non appare a un esame immediato, perchè, sotto questo punto di vista, il ” processone " rappresentò non soltanto un duro colpo al PCI e quindi alle forze antifasciste, ma anche una prova di debolezza del regime.
In realtà, è solo sulla base di questa premessa critica che è possibile comprendere come la generazione nata sotto il fa
scismo finì col diventare largamente antifascista. Il ” processone ” è la consacrazione del fascismo quale movimento privo di ideali e di ideologia. Da questo elemento partiranno i giovani fascisti per la loro critica al regime, anche se, ovviamente, ignoreranno l'azione e l’opera di Gramsci e dei suoi compagni. La ricerca di nuovi valori ideali, di una maggiore libertà di critica nella cultura, nella politica e nella vita pubblica, la lotta contro la vuota demagogia, contro la corruzione, contro le illegalità, saranno i punti di partenza della loro rivolta morale. Ci sembra utile, per una maggiore comprensione dell’argomento, riportare i passi più salienti di due articoli pubblicati nel 1941 dal periodico del GUF bolognese:
n Eppure, se noi interroghiamo la nostra coscienza, dobbiamo confessare che talvolta abbiamo taciuto, impediti da forze superiori, abbiamo dovuto rinunciare a pubblicare accuse suffragate da precisi fatti. Rinunce dolorose, soprattutto per un giovane che si vede tagliato fuori da qualche eminenza grigia. Abbiamo potuto constatare che oltre un dato limite non si andava, che vi era una vera ” massoneria dell’ interesse ” pronta a stroncare qualsiasi tentativo di evasione da una determinata sfera » (” Il coraggio della verità ” su Architrave, Anno II, n. 9).
« Negli anni successivi al 1930 fu prospettata ai giovani la possibilità di trattare molto liberamente tutti i problemi. I primi Convegni e i primi Littoriali furono caratterizzati da entusiasmo e da positiva critica, da continua ricerca di intuizioni e di valori. Si formò naturalmente una minoranza che fece propri quei problemi. Apertamente, sinceramente credette. Visse pure una specie di adattamento, perchè convinta che molte sfasature e squilibri non sarebbero durati a lungo e anche perchè il buon senso diceva che un palazzo non si costruisce in un giorno. Ma poi lentamente si insinuò il sospetto che di essa e dei giovani ci si volesse servire » (’ ’ Servire e servirsi ” su Architrave, Anno II, n. 11).
Su tale strada questi giovani non tarderanno ad incontrarsi con i vecchi combattenti antifascisti e con i comunisti condannati dal Tribunale Speciale, e la loro conquista alla lotta contro la sostanza del regime sarà allora immediata. Ed è questo un elemento storico di primaria importanza che non è assoluta- mente possibile dimenticare.
G iorgio Caputo