PROGRAMMA ELETTRONICA - nuovescuole.com · La concentrazione n i dei portatori di carica dipende...

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PROGRAMMA ELETTRONICA INDICE UNITA’ 1 I semiconduttori…………………………………….p.2 UNITA’ 2 Il diodo a giunzione………………………………...p.7 UNITA’ 3 Transitore bipolare………………………………….p.15 UNITA’ 4 Amplificatori………………………………………..p.20 UNITA’ 5 Amplificatori operazionali………………………….p.22 UNITA’ 6 Circuiti lineari con amplificatore operazionale……..p.29 UNITA’ 7 Conversione a/d……………………………………..p.32

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PROGRAMMA ELETTRONICA

INDICE

• UNITA’ 1 I semiconduttori…………………………………….p.2

• UNITA’ 2 Il diodo a giunzione………………………………...p.7

• UNITA’ 3 Transitore bipolare………………………………….p.15

• UNITA’ 4 Amplificatori………………………………………..p.20

• UNITA’ 5 Amplificatori operazionali………………………….p.22

• UNITA’ 6 Circuiti lineari con amplificatore operazionale……..p.29

• UNITA’ 7 Conversione a/d……………………………………..p.32

UNITA’ 1

I SEMICONDUTTORI

I semiconduttori sono materiali che hanno una resistività (o anche unaconducibilità) intermedia tra i conduttori e gli isolanti. Essi sono alla base di tutti i principali dispositivi elettronici e microelettronici a stato solido quali i transistor, idiodi e i diodi ad emissione luminosa (LED). Le proprietà dei semiconduttori diventano interessanti se vengono opportunamente drogati con impurità. Le loro caratteristiche quali resistenza, mobilità, concentrazione dei portatori di carica sono importanti per determinare il campo di utilizzo. La risposta di un semiconduttore a una portante dipende dalle sue caratteristiche intrinseche e da alcune variabili esterne come la temperatura.

Livelli energetici nei solidi

La principale caratteristica dei solidi è la distribuzione di livelli energetici possibili in bande di energia separate da intervalli proibiti.

Nei conduttori di solito l'ultima banda (detta banda di conduzione) non è completamente riempita e quindi esistono livelli non occupati contigui in energia a quelli occupati. Gli elettroni possono accedere a questi livelli vuoti ricevendo energia da un campo elettrico esterno; questo comporta una densità di corrente concorde al campo. Gli elettroni delle bande inferiori, che sono tutte piene, non acquistano energia e non influiscono nel processo di conduzione. L'ultima banda piena si chiama banda di valenza.

Questa configurazione non è l'unica che permetta di avere proprietà di conduzione. Può accadere che l'ultima banda completamente piena si sovrapponga a quella successiva vuota. Questo tipo di struttura a bande si trova, ad esempio, nel magnesio, e spiega perché questo ha una buona conducibilità elettrica pur avendo la banda di conduzione vuota come gli isolanti. Nel magnesio la banda di conduzione (formata dagliorbitali 3p) è vuota ma non c'è una banda proibita con la banda di valenza piena (dagli orbitali 3s) perché questa "sale" a coprire parte della banda 3p.

Non sono conduttori i solidi refrattari in cui l'ultima banda contenente elettroni è completamente piena e non è sovrapposta alla banda successiva. Questa è la configurazione che caratterizza gli isolanti e i semiconduttori. L'ampiezza della zona proibita è definita banda proibita, o energia di gap, o con l'espressione inglese band gap.

Con questo parametro è possibile definire i semiconduttori come quei solidi la cui banda proibita è abbastanza piccola da far sì che ad una temperatura inferiore al punto di fusione si possa osservare statisticamente una conduzione non trascurabile (comunque inferiore a quella dei conduttori, ma superiore a quella degli isolanti) dovuta al passaggio dei portatori di carica dalla banda di valenza (piena) a quella di conduzione per eccitazione termica.

Semiconduttori intrinseci

Nel silicio e nel germanio l'energia di gap a temperatura ambiente (300 K equivalenti a 27 °C) è di E = 1.12 eV per il silicio, E = 0.42 eV per il germanio. Questi solidi si comportano come isolanti a temperature prossime allo zero assoluto (a T=273 K equivalenti a 0 °C il gap è 1.17 eV per il silicio e 0.74 eV per il germanio). Quando la temperatura aumenta non è trascurabile la probabilità che gli ultimi elettroni, presenti nella banda di valenza, possano passare alla banda di conduzione, per eccitazione termica. Gli elettroni passati alla banda di conduzione sotto l'azione di un campo elettrico esterno danno luogo a una densità di corrente je Ogni elettrone che passa dalla banda di valenza alla banda di conduzione, lascia un livello vuoto definito lacuna.

La presenza delle lacune rende disponibili altri livelli che possono essere occupati da altri elettroni della banda di valenza e quindi si può avere un moto ordinato di cariche, sotto l'azione di un campo elettrico anche nella banda di valenza. Si parla quindi di una densità di corrente nella banda di valenza jh In un semiconduttore in presenza di un campo elettrico esterno abbiamo un flusso di carica negativa dovuto agli elettroni nella banda di conduzione, sia rispetto alla nuvola stazionaria degli elettroni di valenza, un flusso di carica positiva dovuto alle lacune nella banda di valenza. Chiamando ne ,nh le concentrazioni degli elettroni e delle lacune e ve , vh le velocità di deriva, una opposta e una concorde al campo elettrico esterno, la densità di corrente totale è data da

e considerando le mobilità (le mobilità sono diverse tra di loro perché descrivono due condizioni fisiche diverse)

abbiamo che

Nei semiconduttori descritti sin qui, le cariche sono quelle fornite esclusivamente dagli atomi del semiconduttore stesso.

In questa condizione ; questa uguaglianza definisce i semiconduttori intrinseci per i quali abbiamo che

dove σi si chiama conduttività del materiale.

La concentrazione ni dei portatori di carica dipende dalla temperatura secondo la

funzione dove C è una costante che dipende dal materiale e è la costante di Boltzmann. Questa formula è valida quando verificate sempre quando il materiale è solido.

Semiconduttori estrinseci

I semiconduttori estrinseci o drogati sono quei semiconduttori ai quali vengono aggiunte impurità tramite il processo di drogaggio. Piccole percentuali di atomi diversi aumentano le proprietà di conduzione del semiconduttore: per quanto detto sui legami dei semiconduttori intrinseci, sappiamo che questi hanno legami tetravalenti cioè ogni atomo è legato ad altri quattro atomi dello stesso tipo nel reticolo cristallino, ciò è dovuto all'esistenza di quattro elettroni di valenza degli atomi (silicio, germanio) del semiconduttore. Aggiungendo atomi pentavalenti cioè che hanno cinque elettroni di valenza entro il conduttore (fosforo, arsenico, antimonio) si ha un aumento di elettroni di conduzione: questo tipo di drogaggio viene chiamato drogaggio di tipo n.

Se invece aggiungiamo atomi trivalenti al semiconduttore cioè atomi che hanno tre elettroni di valenza nei livelli energetici più esterni (boro,gallio, indio), questi creano delle cosiddette trappole per gli elettroni, cioè creano legami che non sono stabili entro il conduttore e attraggono gli elettroni liberi in modo da stabilizzarsi. A tutti gli effetti, l'assenza di elettroni all'interno del reticolo cristallino di un semiconduttore può essere considerata come una presenza di una carica positiva detta lacuna che viaggia entro il conduttore esattamente come l'elettrone (ovviamente tenendo conto della carica). Questo tipo di drogaggio viene chiamato drogaggio di tipo p.

Statisticamente un semiconduttore drogato tipo n o tipo p segue la legge di azione di massa, cioè in un semiconduttore estrinseco:

cioè il prodotto delle concentrazioni (numero elettroni o numero lacune per metro cubo) rimane costante.

Siano ND,NA le concentrazioni di impurezze rispettivamente degli atomi pentavalenti e trivalenti: esse sono il numero di atomi droganti per metro cubo immessi nel semiconduttore, D sta a significare che gli atomi sono donatori cioè forniscono elettroni, A che sono accettori cioè forniscono lacune. In un semiconduttore tipo n, :

cioè il numero di elettroni di conduzione in un semiconduttore tipo n è circa uguale a quello delle impurità pentavalenti presenti (o meglio, la concentrazione di elettroni liberi è approssimativamente uguale alla densità di atomi donatori). Dalla legge di azione di massa deriva che:

.

Ovviamente relazioni analoghe valgono anche per i semiconduttori drogati tipo p.

. Corrente nei semiconduttori

La corrente nei semiconduttori può essere dovuta sia all'azione di un campo elettrico esterno sia alla presenza di un gradiente di concentrazione di portatori di carica. Il primo tipo di corrente è la classica corrente elettrica detta corrente di deriva o di drift, la seconda avviene per il fenomeno della diffusione elettrica.

La densità di corrente di diffusione per le lacune e per gli elettroni sono:

dove q è ovviamente la carica, Dp,Dn sono costanti di diffusione e le frazioni rappresentano esattamente i gradienti delle concentrazioni (p, n) in funzione della lunghezza.

La corrente totale in un semiconduttore sarà allora la somma di queste due correnti e sarà descritta dall'equazione detta equazione di drift-diffusion:

dove µp,µn sono le mobilità dei portatori di carica.

I coefficienti D,µ sono fenomeni termodinamici e quindi non sono fra loro indipendenti ma vale l'equazione di Einstein:

dove VT è l'equivalente in tensione della temperatura e vale , dove k è la costante di Boltzmann e T la temperatura assoluta in kelvin. Materiali semiconduttori

Germanio Silicio Semiconduttori composti

Arseniuro di gallio Arseniuro di gallio e alluminio Antimoniuro di indio Antimoniuro di gallio Fosfuro di indio Nitruro di gallio Carburo di silicio

UNITA’ 2

IL DIODO A GIUNZIONE

Il diodo a giunzione è un diodo a semiconduttore molto diffuso nell'ambito dell'elettronica a stato solido. Esso è stato il primo dispositivo a semiconduttore reso disponibile commercialmente, negli anni quaranta del XX secolo.

Esso viene attualmente realizzato utilizzando prevalentemente cristalli di Silicio drogati ad un'estremità (chiamata zona p) con atomi di Boro ed all'altra (chiamata zona n) con atomi di Fosforo. Tra la zona p e la zona n vi è una relativamente piccola zona di transizione dove il tipo deldrogaggio del semiconduttore varia bruscamente, per cui questa area del cristallo viene usualmente definita giunzione p-n.

Nella figura precedente è schematizzato il cristallo di Silicio, con la zona n, drogata con gli atomi di Fosforo, a destra e la zona p, drogata con gli atomi di Boro, a sinistra; nel contempo, è possibile fare un parallelo con il simbolo circuitale del diodo: la zona n corrisponde alla parte a destra, quella con la sbarra orizzontale, ed il terminale corrispondente viene chiamato usualmente catodo, mentre la zona p corrisponde alla parte a sinistra, quella con il triangolo, ed il corrispondente terminale viene chiamato usualmente anodo.

Giunzione p-n

Diagramma della giunzione p-n

Come si vede dalla figura il diodo a giunzione tipo p-n crea intorno alla regione di carica spaziale un gradiente di carica: le lacune dalla zona tipo p tenderanno a spostarsi verso la zona n e viceversa gli elettroni tenderanno a spostarsi verso la zona tipo p, questo fenomeno è chiamato Diffusione. Nel punto di giunzione avviene il fenomeno della ricombinazione: le lacune e gli elettroni si ricombinano e quindi si ha una piccola regione di svuotamento o regione di carica spaziale. Lo spessore di questa regione è dell'ordine di 0,5µm. Immediatamente a destra e a sinistra di detta regione vi è un accumulo di cariche come indicato nel primo diagramma della figura.

Il secondo diagramma mostra il campo elettrico in modulo, che si crea nella regione di carica spaziale: esso è dovuto al doppio strato che si viene a formare per la presenza delle densità di cariche positive e negative accumulate in vicinanza del punto di giunzione. Questo campo elettrico ha direzione da n a p ed è negativo in modulo. Esso si oppone ad un ulteriore passaggio di cariche da una zona all'altra, cioè si oppone alla diffusione di carica e si ha equilibrio.

dove ρ è la densità di carica ed ε la costante dielettrica assoluta del materiale.

Nel terzo diagramma della figura si vede l'andamento del potenziale elettrostatico nella regione di carica spaziale: esso è l'integrale del campo elettrico:

che crea una barriera di potenziale che si oppone alla diffusione di cariche entro la giunzione. Giunzione p-n polarizzata

Le due polarizzazioni del diodo a giunzione

Applicando una tensione V con il morsetto negativo alla zona p e con il morsetto positivo alla zona n il diodo è polarizzato inversamente. La presenza di questa tensione provoca un aumento della barriera di potenziale V0 + V, si ha dunque una riduzione del flusso di cariche maggioritarie, cioè gli elettroni dal lato n e le lacune dal lato p, sono impediti ad attraversare la barriera. Non sono influenzati invece i portatori di carica minoritari, cioè le lacune dal lato n e gli elettroni dal lato p, che quindi contribuiscono a creare una corrente indicata in figura, chiamatacorrente di saturazione inversa I0.

Nella seconda figura invece i morsetti vengono ribaltati, il morsetto positivo del generatore di tensione viene collegato al lato p e quello negativo al lato n: si ha polarizzazione diretta. In questo caso la tensione V viene sottratta V0 − V abbassando la barriera di potenziale non sussiste più l'equilibrio e gli elettroni della zona n (portatori maggioritari) tendono a spostarsi verso la zona p e viceversa le lacune dalla zona p si spostano verso la zona n: la loro somma crea una corrente diretta nel diodo.

Giunzione p-n in Corto circuito

Se in entrambi i casi di polarizzazione si pone la tensione V = 0 succede che la giunzione va in corto circuito: in questa situazione non vi è passaggio di corrente I = 0 (eccetto che per un breve periodo transiente durante il quale si raggiunge l'equilibrio) e la tensione rimarrebbe quellaV0.

Giunzione p-n come circuito aperto

Consideriamo ora solo il caso di polarizzazione diretta: se la tensione di polarizzazione diretta V diventasse uguale a V = 0 cioè V = V0, la barriera di potenziale si annullerebbe e la corrente potrebbe viaggiare attraverso il circuito liberamente aumentando indefinitamente fino alla rottura del diodo. In realtà questo non succede perché la corrente circolante viene limitata da un certo punto in poi dai contatti ohmici ai lati del diodo e dalla resistenza intrinseca del diodo. In tal caso la tensione di polarizzazione applicata non è più relazionata alla corrente presente nel diodo ma è il risultato di componenti come i contatti ohmici ai lati del diodo e della resistenza di massa del diodo. In questo modo il diodo si comporta come se fosse a circuito aperto, diventando assimilabile a un componente lineare.

Caratteristica tensione-corrente

Caratteristica tensione-corrente del diodo reale a giunzione

William Bradford Shockley trovò una relazione per modellizzare in termini matematici un'approssimazione ideale della caratteristica tensione-corrente di un diodo a giunzione p-n, denominata quindi in suo onoreequazione del diodo ideale di Shockley.

I diodi a giunzione p-n realizzati con cristalli di silicio ed approssimabili tramite l'equazione di Shockleyvengono costruiti per presentare una perdita di potenziale pari a circa 0,7 V a temperatura ambiente quando polarizzati in diretta, per cui viene detto che la loro tensione di lavoro è pari appunto a 0,7 V. In corrispondenza della tensione di lavoro, vi è ovviamente un'unica intensità di corrente di lavoro, il che implica che il diodo deve essere correttamente dimensionato quando utilizzato nei circuiti elettronici, per far sì che l'intensità di corrente ai capi del dispositivo non superi mai la massima intensità di corrente prevista per quello specifico diodo, parametro spesso denominato intensità di corrente nominale.

I diodi a giunzione p-n reali hanno una caratteristica tensione corrente molto simile a quella di quelli ideali, con una sola maggiore differenza: quando polarizzati in inversa, presentano un valore di fabbrica chiamato tensione di rottura o tensione di breakdown (Vmax) oltre il quale si formerebbero delle scariche elettriche tali da provocare la distruzione del diodo poiché la corrente aumenterebbe (in valore assoluto) in modo brusco e la giunzione si comporterebbe in modo simile ad un generatore ideale di tensione.

La relazione per modellizzare in termini matematici un'approssimazione ideale della caratteristica tensione-corrente di un diodo a giunzione, denominata così in onore di William Bradford Shockley, è l'equazione del diodo ideale di Shockley:

dove:

iD è l'intensità di corrente sul diodo; vD è la differenza di potenziale tra i due terminali del diodo; I0 è la intensità di corrente di saturazione, che dipende dalle caratteristiche

costruttive del diodo, direttamente proporzionale alla superficie della giunzione p-n, assumente quindi valori variabili tra i 10-10, quando le dimensioni del diodo sono grandi, ed i 10-15, quando le dimensioni del diodo sono piccole, Ricordiamo che I0 = Js*A, con J s pari alla densità di carica e A all'area del dispositivo;

q è la carica di un elettrone (carica elementare) k è la costante di Boltzmann; T è la temperatura assoluta sulla superficie di giunzione tra la zone p ed n;

η è il coefficiente di emissione, anch'esso dipendente dal processo di fabbricazione e vale circa 2 per il Silicio per grandi valori della corrente (dovuto alla resistenza serie e all'alto livello di iniezione) e circa uno per bassi valori.

Il termine kT/q viene spesso definito come tensione termica, ed indicato con VT vale tra i 25 ed i 26 mV a temperature ambiente.

Quando η è pari ad 1 e vD è maggiore di 100 mV, l'equazione si semplifica in questa maniera:

Applicazioni circuitali del diodo

Determinazione dei parametri I0 ed η

In genere la corrente di saturazione inversa I0 non è nota a priori, perché essa varia da modello a modello e inoltre varia al variare della temperatura e neanche η è noto a priori a meno che non sia assunto a priori. In genere si può determinare la corrente di saturazione inversa e il coefficiente di emissione confrontando i valori della corrente iD1,iD2 in corrispondenza alle tensioni vD1,vD2 e graficare in un grafico semilogaritmico la retta che passa attraverso questi due valori. Ebbene la retta è la formula inversa dell'equazione del diodo:

oppure in scala log10

e la differenza tra i valori dati diventa:

dove a questo punto si può ricavare η. Infine si ricava I0 dalla (1) o dalla (2).

Determinazione del punto di lavoro

Una volta definiti i parametri del diodo, è possibile inserire il diodo come elemento circuitale. Il problema diventa la caratteristica non lineare del diodo, che non permette di conoscere immediatamente la tensione vD e la corrente iD del diodo. Per tale scopo si usa spesso utilizzare il metodo grafico. Basandosi sul circuito a diodo semplice nella prima figura, la caratteristica tensione-corrente in zona di conduzione è data dal grafico della seconda figura.

Applicando la legge di Kirchhoff delle tensioni all'unica maglia:

vD = vi − iDRL

dove RL è la resistenza di carico. Questa equazione rappresenta la retta di carico, individuabile per i punti i = 0,vD = vi e v = 0,iD = vi / RL. L'intersezione tra la retta di carico e la caratteristica del diodo fornisce il punto di lavoro Q che identifica la tensione vD e la corrente iD del diodo.

Modello lineare a tratti

Spesso per le applicazioni si usa anche il modello lineare a tratti. Poiché il diodo ha due stati, cioè permette la conduzione in un solo senso, quando è polarizzato direttamente v > Vγ, si assume per il diodo un circuito equivalente costituito da un generatore di tensione di valore Vγ cioè del valore della tensione di soglia e da una resistenza detta diretta, Rf, di pochi decimi di Ohm, cioè molto bassa. Quando il diodo è in interdizione cioè nello stato in cui presenta resistenza alla conduzione v < Vγ, si assume il circuito equivalente

formato da una resistenza inversa Rr molto grande, almeno centinaia di kOhm o addirittutra infinita.

Applicazioni circuitali

Per le sue caratteristiche il diodo è utilizzato in molte applicazioni. Esso è utilizzato per modulare la forma d'onda di ingresso come limitatore di ampiezza, e come comparatore rispetto ad una tensione di riferimento. L'uso più comune è quello di raddrizzatore a una o a doppia semionda, cioè premette di raddrizzare la forma d'onda periodica come quella sinusoidale.

UNITA’ 3

TRANSIZIONE BIPOLARE

Il transistor, o transistore (acronimo di transfer-resistor, «trasferitore di resistenza»), è un dispositivo a stato solido formato da semiconduttori. Esso è comunemente usato per amplificare o modificare segnali elettronici. Un transistor è costituito da un materiale semiconduttore, con almeno tre terminali per il collegamento ad un circuito esterno. Applicata una tensione o corrente a una coppia di terminali, risulta modificata la corrente che fluisce attraverso un altro paio di terminali. Dato che la potenza dell'output è maggiore della potenza dell'input, il transistor è un amplificatore segnale. Il suo funzionamento è basato sulle proprietà fisiche della giunzione P-N, che era stata scoperta casualmente da Russell Ohl il23 febbraio 1939, esaminando la differenza di conducibilità tra due lati di un cristallo di siliciosemiconduttore con una crepa. Storia

Il primo transistor era del tipo a contatti puntiformi (dall'inglese point-contacts) perché realizzato con due elettrodi le cui punte molto sottili e distanti tra loro solo alcuni centesimi di millimetro (per la precisione da 127 a 50 micron), erano premute sulla superficie di una piastrina di un cristallo di germanio molto puro, policristallino e di tipo n. La tecnica del contatto puntiforme era già nota ed utilizzata per la costruzione dei diodi rivelatori utilizzanti materiali semiconduttori e tra i quali si ricorda la galena, uno dei primi ad essere impiegati. Provvisoriamente, dato che il transistor funzionava in modo analogo ad un triodo, venne chiamato triodo a stato solido, il nome definitivo deriva dall'unione dei terminiTRANSconductance e varISTOR. Il primo prototipo funzionante fu realizzato nel 1947 da tre ricercatori dei laboratori Bell Labs, (John Bardeen,Walter Brattain e William Shockley). Nel 1956 i tre ricercatori furono insigniti del Premio Nobel per la Fisica, con la motivazione «per le ricerche sui semiconduttori e per la scoperta dell'effetto transistor».

I transistor vengono impiegati in ambito elettronico, principalmente, come amplificatori di segnali elettrici o come interruttori elettronici comandati da segnali elettrici ed hanno sostituito praticamente quasi del tutto i tubi termoionici. Le innumerevoli tipologie prodotte attualmente, permettono di trattare correnti di centinaia di ampere, migliaia di volt e operare a frequenze dell'ordine dei GHz, ovviamente un dispositivo progettato per lavorare ai valori estremi di una di queste grandezze, è necessariamente limitato sulle altre due. Col passare del tempo si sono moltiplicate anche le forme dei contenitori (case), per questi viene usata ceramica,

metallo, plastica o assemblaggi misti di questi. Negli anni 60 venne usato anche il vetro, il produttore europeo Philips, racchiudeva i propri dispositivi di piccola potenza, ad esempio quelli siglati OC70, OC71, in un'ampollina cilindrica in vetro verniciata in nero, riempita di grasso al silicone, nel caso il dispositivo avesse dissipazione maggiore, come l'OC72, il dispositivo era ricoperto semplicemente da un cappuccio in alluminio. Nel tempo molte tipologie di contenitori sono andati in disuso a favore di geometrie piu efficienti nello smaltimento del calore prodotto; i dispositivi di potenza attuali per bassa frequenza, compresi alcune tipologie di diodi e di IC, vengono assemblati nel contenitore standard definito TO3, provvisto di due flangie forate, adatte al fissaggio suldissipatore tramite una coppia di viti, realizzato in acciaio, rame, o alluminio, con temperatura ambiente di 25 °C è in grado di trasferire al dissipatore, 300 watt di potenza termica generata dal Die.

Il primo tipo di transistor sperimentato e poi prodotto fu il transistor bipolare o BJT (Bipolar Junction Transistor), in cui sia elettroni che lacunecontribuiscono al passaggio della corrente. In seguito furono creati altri tipi di transistor, in cui il passaggio di corrente avveniva grazie ad un solo tipo di portatori di carica (o elettroni o lacune), detti FET, acronimo di Field Effect Transistor, o transistor a effetto di campo. Sia i FET che i BJT, nel tempo, hanno dato origine a molti tipi diversi di transistor, usati per gli scopi più vari. Lo strumento di misura utilizzato per la verifica e la caratterizzazione dei molteplici parametri dei transistor nonché dei diodi, si chiama curve tracer (traccia curve), dall'aspetto simile ad unoscilloscopio, questo tipo di strumento è storicamente prodotto dalla società Tektronix.

Transistor bipolare (BJT)

In un transistor BJT (transistor a giunzione bipolare) una corrente elettrica è inviata nella base (B) e modula (controlla) la corrente che scorre tra gli altri due terminali noti come emettitore (E) e collettore (C).

Per fare questo, il transistor sfrutta la vicinanza di due giunzioni P-N opposte: quando la giunzione base-emettitore viene polarizzata direttamente, i portatori di carica (elettroni e lacune) che transitano attraverso di essa diffondono verso la vicina

giunzione collettore-base, dove vengono in gran parte catturati dal campo elettrico interno alla giunzione stessa, che in questo modo viene percorsa da corrente anche se polarizzata inversamente. Tanto maggiore è la frazione di corrente catturata dalla giunzione di collettore, tanto migliore è il transistor: in un transistor ideale, perfetto, tutta la corrente che entra dall'emettitore dovrebbe essere deviata verso il collettore senza raggiungere mai il contatto di base. In pratica, in un normale transistor per usi generici la corrente uscente dal collettore è il 98-99% di quella che entra nell'emettitore, e dalla base esce solo l'1-2% di essa. Il rapporto fra corrente di collettore e corrente di base è detto del transistor, ed è uno dei parametri fondamentali di questo dispositivo.

L'ordine delle giunzioni non è importante: si possono usare sia una coppia di giunzioni P-N e N-P (ottenendo un transistor P-N-P) oppure due giunzioni N-P e P-N (ottenendo un transistor N-P-N, complementare al primo): un transistor e il suo complementare funzionano in modo quasi identico, ma le tensioni ai loro capi devono essere invertite di polarità (da positive a negative e viceversa).

Transistor FET

In un transistor FET (Field Effect Transistor - transistor ad effetto di campo) i tre terminali sono chiamati gate G (porta), source S (sorgente) e drain D (pozzo) rispettivamente, e l'effetto transistor si ottiene tramite il campo elettrico indotto dalla tensione applicata al terminale gate che respinge i portatori di carica del silicio del canale fra source e gate, variandone la resistenza elettrica: più la tensione fra gate e source è grande, più ampia diventa la regione svuotata non conduttrice, priva di portatori, e più cresce la resistenza elettrica fra source e drain.

Rispetto ai transistor bipolari i FET presentano il vantaggio di avere il terminale di controllo (gate) isolato, in cui non passa alcuna corrente; lo svantaggio invece è che un transistor FET non è in grado di offrire molta corrente in uscita, in genere i circuiti con transistor FET hanno una alta impedenza di uscita, cioè erogano correnti molto deboli.

Anche i FET come i transistor bipolari possono essere realizzati in due versioni complementari, a canale P fiancheggiato da regioni N o acanale N fiancheggiato da

regioni P (come quello nella figura a lato); come nei bipolari il funzionamento è identico, ma a polarità invertite.

È talvolta chiamato J-FET (FET a giunzione) per distinguerlo dal MOS-FET

Transistor MOS-FET

I transistori MOSFET (Metal Oxide Semiconductor Field Effect Transistor) sono dei FET in cui la tensione applicata sul Gate non solo crea una zona svuotata priva di portatori, ma se cresce oltre una tensione detta "di soglia", provoca una inversione di popolazione nel silicio a ridosso dello strato di ossido: nella figura a lato, le due regioni dei terminali di source e drain sono ricavate da silicio P, e sono in comunicazione elettrica tramite il "canale P" creato per inversione nello strato N che le separa, grazie alla tensione applicata al gate sulla barriera superficiale di ossido. Anche qui, è possibile invertire le regioni: in figura è riportato un MOSFET a canale P (P-MOS), il suo complementare (N-MOS) si ricava con un substrato P su cui sono inserite le regioni N di source e drain. Come nel caso dei bipolari, anche il funzionamento dei P-MOS e degli N-MOS è (quasi) identico, ma a polarità invertite.

Mentre i transistor BJT sono principalmente usati per il loro alto guadagno come amplificatori nell'elettronica analogica, i MOSFET sono largamente utilizzati nell'elettronica digitale, soprattutto per la loro struttura molto semplice che li rende facili da costruire e di economico impiego nei circuiti integrati: un ulteriore vantaggio è il basso consumo di energia che si traduce in minori problemi di dissipazione termica, mentre il principale svantaggio è che sono più lenti nel cambiare stato rispetto ai transistor bipolari. I moderni circuiti integrati a MOSFET (microprocessori, DSP, microcontrollori, etc...) usano tutti la tecnologia CMOS (Complementary MOS), in cui si usano transistor P-MOS e N-MOS accoppiati, oppure la sua evoluzione BiCMOS.

Altri tipi di transistor

Con l'evolversi della tecnologia sono stati creati anche altri tipi di transistor, dotati di caratteristiche diverse o adatti a usi particolari: per esempio il transistore unigiunzione (UJT) è un generatore di impulsi e non può amplificare né commutare. Gli IGBT (Insulated Gate BipolarTransistor) invece sono dispositivi ibridi fra i transistor bipolari e i Mosfet, adatti a gestire correnti elevate. Esistono anche transistor sviluppati per applicazioni di ricerca; questi transistor sono sviluppati per ottenere prestazioni estreme come elevate correnti o elevate frequenze di funzionamento. Nel giugno del 2006 un transistor al silicio-germanio ha raggiunto in laboratorio la frequenza di commutazione di 500 GHz.

Radio a transistor

Nel linguaggio comune venivano chiamate transistor anche le piccole radio AM portatili a pile, che furono la prima applicazione di questi dispositivi a raggiungere il mercato di massa, negli anni '50.

UNITA’ 4

GLI AMPLIFICATORI

Un amplificatore è un dispositivo che modifica l'ampiezza, di un fattore moltiplicativo, del segnale che lo attraversa. Viene caratterizzato dalguadagno A, a volte espresso in dB. Più specificamente un generico amplificatore (lineare) ha un ingresso in cui entra il segnale da amplificare ed una uscita da cui esce il segnale amplificato, che è pari a A volte il segnale originale. Se il guadagno dell'amplificatore non è costante ma varia in base a determinate caratteristiche del segnale si parla di amplificatore non lineare.

Di solito si parla di amplificatori in elettronica, considerando come segnale una tensione o una corrente: la casistica degli amplificatori elettronici (vedi) è molto vasta.

Una caratteristica fondamentale degli amplificatori è quella di essere dei componenti attivi, cioè l'energia utilizzata per fornire il guadagno dell'uscita proviene da una sorgente differente dall'ingresso: in altre parole viene sfruttata una fonte esterna (in genere di energia, ma non necessariamente) per conferire al segnale in ingresso la maggiore ampiezza necessaria. Se non c'è una fonte di energia esterna, l'aumento della grandezza da amplificare viene ottenuto a spese di qualche altra caratteristica del segnale, e quindi l'apparecchio sarebbe untrasformatore ma non un amplificatore in senso proprio: per esempio una leva non può essere considerata un amplificatore.

Gli amplificatori non sono limitati al campo dell'elettronica: anche il servosterzo di un'auto è un esempio di amplificatore di determinati "segnali" in ingresso.

Un tipo di amplificatore è quello operazionale.

Amplificatori elettronici

Gli amplificatori elettronici hanno un vasto campo di applicazioni, dal pilotaggio di dispositivi elettromeccanici al pilotaggio di motori elettrici, dai sistemi di trasmissione radiotelevisiva e telefonia mobile alle apparecchiature per amplificare la musica; quest'ultima è forse la tipologia più diffusa e conosciuta, quella presente in tutti gli impianti stereo, piccoli, medi e grandi. Nell'alta fedeltà di classe elevata, l'amplificatore può essere composto da due apparecchi distinti collegati insieme: il preamplificatore e il finale di potenza. Il primo si incarica di aumentare di una certa misura il livello in tensione del segnale da amplificare, mentre il secondo ne aumenta ulteriormente il livello, fornendo al segnale anche una corrente adeguata, che si

tradurrà in potenza elettrica (watt) se ai morsetti di uscita del finale è collegato un altoparlante o un diffusoreacustico.

Blocco amplificatore

Nella progettazione di apparecchiature elettroniche complesse, costituite da molteplici funzioni circuitali interagenti fra di loro (pensiamo ad unoscilloscopio o ad un hard disk), il costruttore, per agevolarne il progetto, l'ingegnerizzazione ed i successivi interventi di manutenzione, usa suddividere l'intero schema elettrico dell'apparecchio in blocchi distinti fra di loro, ognuno preposto a svolgere una precisa funzione. Fra questi possono esserci uno o più circuiti di amplificazione ognuno dei quali, nella documentazione tecnica fornita dal costruttore, sarà denominatoBlocco amplificatore A-B-C et....

Un esempio di apparecchio complesso contenente più circuiti amplificatori è il televisore; uno di questi serve ad amplificare il debole segnale proveniente dall'antenna, un secondo serve ad amplificare il segnale audio necessario per gli altoparlanti, un terzo serve ad amplificare il segnale costituente l'immagine, prima di essere inviata al tubo catodico. Sono circuiti che funzionano con tensioni, correnti e frequenze diverse, ma sono tutti degli amplificatori.

Amplificatori di portata Efficienza

Ogni amplificatore, a seconda della sua classe di funzionamento ha un'efficienza teorica massima, determinata nel seguente modo: si applica in ingresso il massimo segnale sinusoidale tale che in uscita si abbia la massima potenza senza distorsione; si misura la potenza sul carico; si misura la potenza erogata dall'alimentatore. Si calcola il rapporto fra la potenza ricevuta dal carico e la potenza erogata.

UNITA’ 5

AMPLIFICATORI OPERAZIONALI

L'amplificatore operazionale come circuito integrato è uno dei circuiti lineari maggiormente usati. Grazie alla produzione in larghissima scala, il suo prezzo è sceso a livelli talmente bassi da renderne conveniente l'uso in quasi tutte le possibili aree applicative. L'amplificatore operazionale è un amplificatore in continua: ciò significa che esiste una continuità elettrica fra ingresso e uscita; il nome di "operazionale" è dovuto all'uso per cui era nato tale amplificatore, e cioè il funzionamento all'interno di elaboratori analogici per l'esecuzione di operazioni matematiche. Nella sua forma più semplice (figura 1), un amplificatore operazionale è composto essenzialmente da uno stadio d'ingresso, da un secondo stadio amplificatore differenziale e da uno stadio di uscita in classe AB, del tipo "emitter follower".

figura 1 - schema di base di un amplificatore operazionale

Un amplificatore operazionale ideale dovrebbe avere, in particolare, amplificazione e resistenza d'ingresso elevatissime (praticamente infinite) e resistenza di uscita

bassissima (uguale a zero); gli amplificatori operazionali reali si avvicinano in parte a tali caratteristiche, per cui hanno una resistenza d'ingresso molto grande, una resistenza di uscita molto piccola ed una amplificazione, ovvero un guadagno in tensione, moto alto ma pur sempre limitato. A titolo di esempio, uno dei più usati, il µA741, ha un guadagno di 200000, una resistenza d'ingresso di 2 Mohm ed una resistenza di uscita di 75 ohm. La corrente che un amplificatore operazionale può fornire in uscita in genere non supera i 25 mA. Senza approfondirne ulteriormente il funzionamento, passiamo adesso a considerare l'aspetto esterno di un amplificatore operazionale, vale a dire la forma in cui esso si presenta pronto all'uso. Uno degli amplificatori operazionali più conosciuti, come già detto, è il 741, disponibile abitualmente in contenitore metallico tondo oppure in contenitore plastico DIL; la sua sigla cambia a seconda dei costruttori, diventando LM741, oppure µA741, o altro ancora.

figura 2 - l'amplificatore LM741 nelle vesioni in contenitore metallico tondo ed in contenitore plastico Dual In Line

Per l'identificazione dei vari piedini si fa riferimento agli schemi della figura 2, dove i piedini sono raffigurati visti da sopra; nel caso del tipo tondo, il numero 8 corrisponde alla tacca presente sull'involucro metallico. Per tener fede all'indirizzo soprattutto pratico di questo corso, non ci dilungheremo sulle equazioni caratteristiche e sulle problematiche progettuali degli amplificatori operazionali, ma li tratteremo come un'unità funzionale, dotata di ingressi e uscite, con determinate caratteristiche.

In figura 3 vediamo il nostro amplificatore operazionale, per esempio un LM741, inserito in un circuito che consente di sperimentarne il funzionamento. Osserviamo che l'operazionale ha due ingressi, contrassegnati con un "-" (piedino 2) e con un "+" (piedino 3); ci sono poi un'uscita, indicata con OUT (piedino 6), e due terminali per l'alimentazione dell'integrato (piedini 7 e 4). Perchè gli ingressi sono due? Perchè l'almplificatore operazionale è prima di tutto un amplificatore "differenziale"; ciò vuol dire che il segnale presente in uscita non

dipende solo da uno o dall'altro degli ingressi, ma da tutti e due, ed esattamente dalla differenza che esiste fra il segnale applicato su un ingresso ed il segnale applicato sull'altro. E' proprio qui che si evidenzia la principale caratteristica di un simile circuito: è sufficiente che fra i due ingressi vi sia una differenza di tensione anche di pochi µV, perchè l'uscita cambi completamente il suo stato, passando per esempio da zero al massimo valore della tensione di alimentazione.

Supponiamo di alimentare il circuito con 10 V, e che le due resistenze R1 ed R2 abbiano lo stesso valore: la tensione di alimentazione sarà allora presente per metà ai capi di R1 e per metà ai capi di R2; in altre parole, al centro, e quindi sul piedino 3 dell'integrato, ci saranno esattamente 5 V. Il piedino 2 è collegato invece ad RV1, che è una resistenza variabile: possiamo quindi far variare a piacere la tensione che risulta applicata sul piedino 2 dell'amplificatore operazionale.

figura 3 - circuito test

figura 4 figura 5 Spostiamo il cursore di RV1 in modo da portarlo verso il positivo (figura 4), applicando così al piedino 2 una tensione senz'altro superiore a 5V, e quindi leggiamo, con un tester, la tensione presente in uscita: troveremo un valore molto vicino allo zero.

Spostiamo adesso il cursore di RV1 in modo da portarlo in basso (figura 5), verso la tensione zero, applicando così al piedino 2 una tensione senz'altro inferiore a 5V, e quindi leggiamo la tensione in uscita: troveremo un valore molto vicino alla tensione di alimentazione (che è 10 V).

Quello che abbiamo appena constatato ci permette di formulare la regola basilare del funzionamento del nostro amplificatore operazionale: quando la tensione sul piedino "-" è maggiore della tensione sul piedino "+" l'uscita è a livello basso (cioè prossimo a zero); quando la tensione sul piedino "-" è minore della tensione sul piedino "+" l'uscita è a livello alto (cioè prossimo alla tensione di alimentazione). Ma, come già si è detto, non occorre che la tensione sul piedino 2 vari di alcuni volt: sono sufficienti pochi milionesimi di volt per provocare la "commutazione" dell'uscita. Se vi divertite ad osservare la tensione indicata dal tester mentre ruotate RV1, vedrete che ad un certo istante, di colpo, la tensione in uscita passa da zero al massimo, o viceversa; potete tornare indietro, spostare il cursore di RV1 quanto volete, ma non riuscirete mai a trovare una posizione tale che permetta di avere in uscita un valore intermedio, vicino alla metà della tensione di alimentazione. Poichè, come si è visto, quando l'ingresso "-" è a tensione più alta, l'uscita è a livello basso, si dice che tale ingresso è "invertente".

Se invece avessimo collegato a tensione fissa il piedino 2, variando la tensione del piedino 3, avremmo riscontrato le stesse variazioni della tensione di uscita, ma con

verso corrispondente alla tensione applicata sull'ingresso "+"; per tale motivo, l'ingresso "+" viene chiamato "ingresso non invertente". Usato come amplificatore, l'operazionale presenta la caratteristica di amplificare qualsiasi segnale applicato in ingresso: sia un normale segnale variabile, caratterizzato da determinate frequenze, sia una tensione con fluttuazioni lentissime o, addirittura, di valore costante. Parlando in termini di frequenza, si dice quindi che l'amplificatore operazionale lavora con frequenze da zero (corrente continua) fino ad un valore massimo, determinato dalle caratteristiche specifiche dell'amplificatore stesso. A questo proposito, è opportuno accennare brevemente ad un parametro caratteristico degli amplificatori operazionali: si tratta del prodotto guadagno x larghezza di banda, che per ogni amplificatore operazionale ha un preciso valore, fisso ed immutabile. Tale parametro ci dice, in pratica, che se noi utilizziamo l'amplificatore in modo da ottenere una maggior amplificazione, perdiamo proporzionalmente in larghezza di banda, e cioè possiamo amplificare segnali in un campo di frequenze più limitato. Il µA741, per esempio, ha una larghezza di banda di 1Mhz quando il guadagno è uguale a 1; se viene usato in modo da amplificare 100 volte, la larghezza di banda si riduce di 100 volte, e passa quindi a 10Khz. Il guadagno più alto è utilizzabile quando l'amplificatore lavora con frequenze bassissime o con tensioni continue: in tali casi il guadagno può essere uguale o superiore a 100.000.

Ma come si determina l'amplificazione di un operazionale? L'amplificatore operazionale, come amplificatore in continua, può essere utilizzato in diverse configurazioni, di cui adesso vedremo le più comuni.

figura 6 - amplificatore invertente

Amplificatore invertente: lo schema è quello di figura 6. La tensione Vi viene applicata all'ingresso invertente attraverso la resistenza R1; Vu è la tensione amplificata che si ritrova in uscita. La resistenza R2 riporta all'entrata parte del segnale in uscita, realizzando in tal modo quella che viene detta "controreazione"; senza R2, l'operazionale non potrebbe funzionare come amplificatore lineare, poichè la sua uscita commuterebbe con estrema rapidità fra un valore minimo (prossimo a zero) ed un valore massimo (prossimo alla tensione di alimentazione). L'amplificazione del circuito di figura 6 dipende dalle due resistenze R1 ed R2, secondo la formula Av = R2 / R1 (ciò significa che se R2 è di

valore più basso, si ha più controreazione e quindi il guadagno è minore). Vediamo un esempio pratico: R1 = 100 Kohm (cioè 100.000 ohm) R2 = 1 Mohm (cioè 1.000.000 di ohm) Vi= 1mV L'amplificazione Vu/Vi sarà: Av=1.000.000:100.000=10 Poichè l'amplificazione è 10, con 1 mV in entrata avremo in uscita 10 mV Osserviamo che il segnale in uscita è invertito, ovvero è di segno opposto a quello in entrata; se Vi aumenta, Vu diminuisce, e viceversa.

Amplificatore non invertente: nello schema di figura 7 vediamo che il segnale d'ingresso viene applicato all'ingresso contrassegnato col "+", ovvero a quello non invertente. In questo caso, infatti, il segnale in uscita ha lo stesso segno di quello in entrata. In questo caso, l'amplificazione è data dalla formula: Av = (R1 + R2) / R1 Anche per l'amplificatore non invertente, come si vede dallo schema, la resistenza R2 determina una certa quantità di reazione negativa (o controreazione), che diminuisce il guadagno dell'amplificatore ma gli consente di lavorare linearmente.

figura 7 - amplificatore non invertente

figura 8 - buffer a guadagno unitario

Buffer a guadagno unitario: il circuito di figura 8 mostra l'utilizzo dell'operazionale come "buffer". Col termine "buffer" si intende un circuito che svolge una funzione di separazione o di adattamento; nel caso specifico, il circuito presenta la più alta impedenza d'ingresso ottenibile con gli amplificatori operazionali. Per ottenere tale risultato, si applica il massimo valore possibile di controreazione, collegando direttamente l'uscita con l'ingresso invertente. Per tale motivo, il guadagno di questo circuito è uguale a 1, il che vuol dire che il circuito non

amplifica (essendo il segnale di uscita uguale a quello di entrata); in altre parole, non si ottiene un guadagno di tensione, ma un guadagno di impedenza.

L'uso pratico degli amplificatori operazionali è descritto in un'altra pagina di questo sito.

UNITA’ 6

CIRCUITI LINEARI CON AMPLIFICATORE OPERAZIONALE

Analisi di circuiti con amplificatori operazionali A. Amplificatore invertente Considerare l'amplificatore operazionale ìA741 (in Spice nella libreria EVAL con il nome uA741) in configurazione invertente (R1 = 1kÙ, R2 = 10kÙ). Porre come tensioni di alimentazione +10V e -10V. Segnale sinusoidale (VSIN) in ingresso di frequenza 1kHz ed ampiezza 10mV. - + VR2 R1 + - V+ + - Vsin out a) Visualizzare tutte le tensioni e le correnti di polarizzazione. b) Visualizzare il segnale al morsetto + ed al morsetto - dell'operazionale rispetto a massa, ed il segnale tra il morsetto + ed il morsetto - verificando il concetto di terra virtuale. c) Visualizzare il guadagno ottenuto e confrontarlo con quello calcolato teoricamente. d) Che cosa accadrebbe se l'ampiezza del segnale di ingresso fosse 1V? Come si potrebbe risolvere questo problema se fosse comunque necessario amplificare con il medesimo guadagno un segnale di ampiezza 1V? (Si ricordi che la massima tensione di alimentazione applicabile al ì A741 e' di ±18V). B. Amplificatore non invertente Considerare l'amplificatore operazionale ìA741 (in Spice nella libreria EVAL con il nome uA741) in configurazione non invertente (R1 = 1kÙ, R2 = 10kÙ). Porre come tensioni di alimentazione +10V e -10V. Segnale sinusoidale (VSIN) in ingresso di frequenza 1kHz ed ampiezza 10mV.

- + VR2 R1 + - V+ + - Vsin out a) Visualizzare tutte le tensioni e le correnti di polarizzazione. b) Visualizzare il segnale al morsetto + ed al morsetto - dell'operazionale rispetto a massa, ed il segnale tra il morsetto + ed il morsetto - verificando il concetto di contatto virtuale. Visualizzare il segnale in ingresso ed il segnale in uscita. c) Visualizzare il guadagno ottenuto e confrontarlo con quello calcolato teoricamente. d) Che cosa accadrebbe se l'ampiezza del segnale di ingresso fosse 1V? Come si potrebbe risolvere questo problema se fosse comunque necessario amplificare con il medesimo guadagno un segnale di ampiezza 1V? (Si ricordi che la massima tensione di alimentazione applicabile al ìA741 e' di ±18V). C. Amplificatore sommatore Considerare l'amplificatore operazionale ìA741 (in Spice nella libreria EVAL con il nome uA741) in configurazione amplificatore sommatore per quattro ingressi sinusoidali (VSIN) identici di frequenza 1kHz ed ampiezza 5mV. (Resistenza al morsetto - 1kÙ, Resistenza in retroazione 10kÙ). Porre come tensioni di alimentazione +10V e -10V. a) Visualizzare tutte le tensioni e le correnti di polarizzazione. b) Visualizzare il segnale al morsetto + ed al morsetto - dell'operazionale rispetto a massa, ed il segnale tra il morsetto + ed il morsetto - verificando il concetto di contatto virtuale. Visualizzare il segnale in ingresso ed il segnale in uscita. c) Visualizzare il guadagno ottenuto e confrontarlo con quello calcolato teoricamente. d) Che cosa accade impostando la frequenza di uno degli ingressi a 10kHz e lasciando inalterate le ampiezze di tutti gli ingressi e la frequenza degli altri tre. (Suggerimento: vedere anche la FFT del segnale di uscita)

D. Integratore Considerare l'amplificatore operazionale ìA741 (in Spice nella libreria EVAL con il nome uA741) in configurazione invertente (R1 = 1kÙ, R2 = 100kÙ, C = 100 nF). Porre come tensioni di alimentazione +10V e - 10V. Segnale sinusoidale in ingresso di frequenza 100Hz ed ampiezza 10mV. - + VR2 R1 + - V+ + - Vsin out C a) Visualizzare tutte le tensioni e le correnti di polarizzazione. b) Visualizzare il segnale in ingresso ed il segnale in uscita. Verificare che l'uscita e' l'integrale del segnale in ingresso. c) Effettuare l'analisi in transitorio (Analysis - Setup - Transient) nell'intervallo di tempo 0 - 600ms con un segnale (onda quadra) caratterizzato dai seguenti parametri: V1=0; V2=1mV; TD=0, TR=2ns; TF=2ns; PW=10ms; PER=20ms. Visualizzare la tensione di uscita e la tensione di ingresso e giustificarne l'andamento.

UNITA’ 7

CONVERTITORI A/D

Convertitore D/A

Un convertitore D/A o digitale/analogico è un dispositivo che ha lo scopo di

trasformare un dato digitale in una grandezza analogica, in generale una tensione.

Naturalmente vi deve essere una corrispondenza di proporzionalità fra il valore

espresso nel dato numerico ed il valore assunto dalla grandezza analogica. E’ un

dispositivo indispensabile per inserire un controllore numerico come un

microprocessore, all’interno di un sistema di controllo di un processo analogico. Il

controllore numerico deve acquisire informazioni sul processo da controllare, il che

vuol dire che queste informazioni che sono contenute nelle uscite analogiche di

apposti trasduttori, devono essere trasformate in dati digitali comprensibili da parte

del microprocessore stesso, e questo è compito del convertitore Analogico/Digitale

che illustreremo dopo. Dopo aver elaborato le informazioni il microprocessore deve

inviare comandi agli attuatori, per cui i dati numerici che invia devono essere

convertiti di nuovo in digitale.

Ritorniamo al problema del D/A. il microprocessore genera un numero N, espresso

da una stringa di n bit, l’uscita del convertitore sarà una tensione V=Q*N dove Q è

una tensione detta quanto che ovviamente corrisponde alla tensione che avremmo in

uscita quando N=1, ed è la minima differenza che vi può essere fra due valori di

tensioni di uscita del D/A. supponendo, ad esempio che Q=10mV, si ha ad esempio

N V

0 0

1 10 mV

2 20 mV

3 30 mV

4 40 mV

Come si vede, la differenza fra due valori successivi della tensione non può essere

inferiore a 10 mV. Il convertitore D/A può dunque, ricostruire un segnale analogico a

scatti, con un grado di finitezza che non può essere inferiore al quanto Q. La struttura

di principio di un DAC è quella di figura.

Come si può notare, da una rete resistiva si possono prelevare n correnti, tante quanti

sono i bit che compongono il dato digitale in ingresso al DAC. Le correnti che

fuoriescono dalla rete resistiva sono determinate in modo che ognuna sia di intensità

doppia della precedente e di intensità pari alla metà della successiva. I bit del numero

da convertire sono utilizzati per comandare degli interruttori analogici, in modo che

se, un determinato bit ha valore nullo, la corrispondente corrente non può passare al

nodo sommatore successivo e viceversa. La corrente complessiva passa ad un

convertitore corrente/tensione che restituisce in uscita la tensione voluta.

Facciamo un esempio per chiarirci le idee,. Supponiamo, per semplicità, che la

stringa digitale in ingresso da convertire sia costituita soltanto da 4 bit

B3 B2 B1 B0

Scegliamo un quanto di 0,5 volt. Ciò vuol dire che avremo la seguente

corrispondenza

B3 B2 B1 B0 N V0=N*Q

0 0 0 0 0 0

0 0 0 1 1 0.5

0 0 1 0 2 1

0 0 1 1 3 1.5

0 1 0 0 4 2

0 1 0 1 5 2.5

0 1 1 0 6 3

0 1 1 1 7 3.5

1 0 0 0 8 4

1 0 0 1 9 4.5

1 0 1 0 10 5

1 0 1 1 11 5.5

1 1 0 0 12 6

1 1 0 1 13 6.5

1 1 1 0 14 7

1 1 1 1 15 7.5

Il convertitore I/V è caratterizzato da un legame lineare per cui a 1 volt in uscita

corrispondono ad esempio 20mA in ingresso, ciò vuol dire che la corrente di base I

corrispondente al bit meno significativo B0 deve essere di 10 mA, quella

corrispondente al bit B1 deve essere di 20 mA e così via. Se, ad esempio, si presenta

in ingresso al DAC il dato

0 1 1 0

Avremo che gli interruttori corrispondenti ai bit B0 e B3 saranno aperti mentre gli

interruttori corrispondenti ai bit B1 e B2 saranno chiusi, per cui al convertitore

confluirà una corrente totale

Itot=I1+I2=2*I+4*I=6*I=6*10mA=60mA che il convertitore trasformerà in una

tensione V=3 volt (visto che abbiamo ipotizzato che 1 volt in uscita corrisponde a 20

mA in ingresso).

Ricordiamo che, essendo il numero in ingresso costituito da n bit (nel nostro esempio

n=4) , il massimo valore che si può esprimere è 2n-1 (nel nostro esempio 24-1=15).

La tensione data da Q*2n (nel nostro esempio 0,5volt*16=8volt) viene detta tensione

di fondo scala. La tensione massima sarà pari alla tensione di fondo scala meno un

quanto. Nella tabella dell’esempio notate che la massima tensione corrispondete al

numero 15 in ingresso, è di 7,5 volt.

Il rapporto fra la variazione minima della tensione in uscita al DAC (cioè il quanto) e

la tensione di fondo scala

definisce la risoluzione del DAC.

la figura qui sopra rappresenta il grafico della curva di trasferimento di un dac a 3 bit.

In laucni DAC si può variare il valore della tensione di fondo scala. Essi sono dotati

di un ingresso a cui i può applicare una tensione VR di riferimento che in generale

coincide con la tensione di fondo scala. In sostanza

V0=

Poiché, in sostanza la tensione di uscita è pari alla tensione di riferimento,

moltiplicata per il numero N, questi DAC vengono detti anche DAC moltiplicatori.

Se la tensione di riferimento può assumere anche valori negativi il Dac si può vedere

come un circuito che attenua il segnale VR visto come un ingresso. Infatti per la

formula che abbiamo scritto prima V0<VF: s ha allora un attenuatore controllato

digitalmente.

Vi possono anche essere DAC che accettano in ingresso dati in codici particolari: ad

esempio possono accettare in ingresso dati rappresentati in complemento a due, per

cui N può assumere anche valori negativi.

Convertitore con rete a scala R-2R

Uno schema di principio di un convertitore DAC è quello a rete ladder R-2R

Abbiamo una rete resistiva contenente resistenze di valore R e 2R. La resistenza di

valore 2R rappresenta la resistenza offerta dal convertitore I/V in uscita. Il generatore

di tensione in basso a sinistra rappresenta la tensione di riferimento. I bit del numero

da convertire comandano degli interruttori che collegano le resistenze verticali a

massa o alla tensione VR.

Per capire il funzionamento del convertitore consideriamo la seguente figura

supponiamo di avere un DAC a 4 bit per semplicità. Supponiamo che B3=1 e tutti gli

altri bit siano a zero. Come possiamo vedere dalle figure da 3 a 7, il generatore risulta

alla fine collegato ad una resistenza complessiva di valore 3R, per cui eroga una

corrente I’3=VR/3. Ma sempre dal disegno di destra della figura 7 si nota che tale

corrente si deve dividere in due parti uguali poiché si deve dividere fra la rete a

sinistra del ramo corrispondente al bit B3 e il carico a destra, per cui la corrente che

va nel carico è I3=VR/6R=IR/2=IR/2N-3 dove IR=VR/3R.

la figura 8 si riferisce al caso in cui sia il bit B2 ad 1 e gli altri a zero. Anche in questo

caso il generatore erogherà una corrente pari ad IR=VR/3R. dalle figure 9-11 si nota

come tale corrente si deve dividere fra i vari rami, finchè la corrente che passa nel

carico è I2=IR/4=IR/22. così via per i casi successivi. Si nota allora che abbiamo

ottenuto l’effetto di fare in modo che le correnti siano scalate di un fattore 2 cioè

I1=2I0, I2=I1 e così via. Naturalmente, grazie al principio di sovrapposizione degli

effetti possiamo affermare che se più bit sono ad 1, la corrente sul carico sarà la

somma delle correnti che si avrebbero se vi è un bit ad uno e gli altri a zero.

Parametri per la valutazione di un DAC

La curva caratteristica di trasferimento di un DAC è naturalmente ideale. Ad esempio

nel DAC a rete ladder si presuppone che le resistenze siano perfettamente identiche e

che gli interruttori abbiano resistenza infinita se aperti e nulla se chiusi. Vediamo i

vari tipi di errore che si possono riscontrare.

Errore di offset

Idealmente se il numero in ingresso è nullo anche la tensione in uscita deve essere

nulla. Può accadere invece che l’uscita sia diversa da zero. La caratteristica in

generale risulta traslata verso l’alto rispetto a quella ideale

errore di guadagno

ricordiamo che V0= , se la tensione di riferimento presenta una tolleranza, la

curva che otteniamo ha una pendenza diversa da quella ideale.

Non linearità

Come abbiamo detto inizialmente vi deve essere un rapporto di proporzionalità fra il

numero N e la tensione di uscita, per cui la curva di trasferimento ideale è una retta.

Se i punti reali della caratteristica si discostano da tale retta si ha un errore di linearità