PreTesti • Occasioni di letteratura digitale • Aprile 2012 • Numero 4 • Anno II

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| Aprile 2012 pretesti 1 La festa dei giorni d’erba di Roberto Piumini 11 scene per un film sulla vita di Tonino Guerra di Salvatore Giannella Jane Austen, maestra di vita di William Deresiewicz Alzare le pareti di Davide Longo Occasioni di letteratura digitale pretesti Aprile 2012 • Numero 4

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La festa dei giorni d’erbadi Roberto Piumini

11 scene per un film sulla vita di Tonino Guerra di Salvatore Giannella

Jane Austen, maestra di vita di William Deresiewicz

Alzare le paretidi Davide Longo

Occasioni di letteratura digitale

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Aprile 2012 • Numero 4

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Nel mese di marzo ci hanno lasciato due figure fondamentali della letteratura e del cinema ita-liano degli ultimi cinquant’anni: Tonino Guerra il 21, Antonio Tabucchi il 25. A distanza di pochi giorni, ma con grande differenza di età, perdiamo due scrittori che tutto il mondo ci ha invidiato e che hanno esportato l’Italia nella sua forma più elevata al di là delle Alpi e oltreoceano. Tonino Guerra sceneggiatore per Fellini, Rosi, Antonioni, Tarkovskij e altri, e Antonio Tabucchi scrittore italiano del Portogallo, della sua storia, dei suoi odori, dei suoi poeti. Insieme hanno in comune, oltre al nome di battesimo, un altro grande nome del cinema mondiale che è quello di Marcello Mastroianni, protagonista di tanti film di Tonino Guerra e di Sostiene Pereira tratto dal romanzo di Tabucchi. Proprio con Tonino Guerra abbiamo inaugurato la rubrica “Anima del mondo” di PreTesti e ancora conserviamo gelosamente il manoscritto che ci diede sui “luoghi dell’anima”. Ad Antonio Tabucchi non abbiamo fatto in tempo a chiedere nulla, e per questo ora lo ricordiamo nella rubrica “Buona la prima” con Il libro dell’inquietudine del suo amato Fernando Pessoa.E siccome i giganti della letteratura devono essere di esempio per le nuove generazioni, questo numero, che dedichiamo a Tonino Guerra e ad Antonio Tabucchi, è in gran parte rivolto alla let-teratura per l’infanzia. La copertina di Roberto Piumini e il suo racconto inedito, la riflessione di Daniela De Pasquale per “Il mondo dell’ebook”, i paesaggi di Jules Verne raccontati da Luca Bisin per “Anima del mondo” e le ricette per la rubrica “Alta cucina” di Francesco Baucia tratte dai libri dell’autore della Fabbrica di cioccolato Roald Dahl vanno esattamente nella direzione di una scoperta della rilevanza universale della letteratura per i bimbi e per i ragazzi. Non di poco conto è la scrittura per i bimbi, semmai essa rappresenta uno stato di purezza primigenia da raggiun-gere affinché la scrittura si universalizzi al massimo grado. Così i dialetti possono considerarsi l’infanzia di una lingua ‒ e di dialetti e vernacoli leggeremo nella rubrica a cura dell’Accademia della Crusca ‒, così i libri a poco prezzo e di piccolo formato studiati da Roberto Dessì rappresen-tano un grado minimo della diffusione della cultura che è forse massima sapienza nell’istruire le masse. I bimbi portano con sé la semplicità del mondo che è armonia della natura e bellezza del creato. È più difficile raggiungere con le parole il loro cuore che quello dei grandi colmi di pregiu-dizi frutto degli stratagemmi tipicamente adulti di resistenza alla vita. A tale stadio di originaria disponibilità tendono in fondo tutte le parole; alla purezza di gesti, di disegni, di istanti innocenti hanno guardato gli scritti di Tonino Guerra e di Antonio Tabucchi. Tra le macerie di un mondo spesso devastato da violenze e brutture, essi ci hanno preso per mano e ci hanno fatto sognare luoghi innocenti. Ci hanno preso per mano come bambini. Ci siamo seduti, li abbiamo ascoltati. Forse abbiamo pianto pensando al “dovremmo essere così” ma “c’è qualcosa che ci trattiene”. Ora che i maestri sono usciti dall’aula, continuiamo a stare in silenzio. Se facciamo attenzione, essi stanno continuando a raccontarci le loro storie.

Buoni PreTesti a tutti.Roberto Murgia

editoriale

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42-44Buona la primaFernando Pessoa “Il libro dell’inquietudine” (1982)di Luigi Orlotti45-47Sulla punta della linguaVernacolo o dialettoin Toscana?di Annalisa Nesi48-51Anima del mondoLe geografie del possibiledi Luca Bisin52-55Alta cucina Incantatore, affabulatore, gourmand di Francesco Baucia56 Recensioni

57Appuntamenti

58Tweets / Bookbugs

rubricheTesTI

05-11RaccontoLa festa dei giorni d’erbadi Roberto Piumini16-22Saggio11 scene per un film sulla vita di Tonino Guerradi Salvatore Giannella23-26AnticipazioneJane Austen, maestra di vita di William Deresiewicz27-33Racconto Alzare le paretidi Davide Longo

il moNdo dell’ebook

34-38Gli eBook per ragazzi non hanno ancora il lieto finedi Daniela De Pasquale39-41Breve (ed economico) è bellodi Roberto Dessì

Indice

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di Roberto Piumini

racconto

La festa dei giorni d’erba

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a Tribù fermò il cammino nelle vicinanze del fiume oggi chiama-to Elkhorn, e allora Acqua del Sole nascente, perché scorreva verso il

punto in cui, al mattino, il sole usciva come un frutto di fuoco dalla pianura.La Tribù lasciò andare un po’ avanti la ster-minata mandria di bisonti, a settentrione, come una bassa e scura foresta mobile. I bi-sonti, chiamati Fratelli del Cibo, non si fer-mavano mai, ma il loro cammino era lento, perché pascolavano di giorno e di notte dormi-vano, così si avanzava solo dieci lanci di freccia ogni giorno.La Tribù, quella volta, si sarebbe fermata tre-mano-giorni, perché era il tempo della Festa dei giorni d’Erba, e bisogna-va ringraziare gli Spiriti della Terra, dell’Acqua e della Luce, innalzando un totem, purificando il corpo, bruciando grasso di bisonte misto a fiori, raccontando storie attor-no al fuoco, ballando e cantando di giorno e anche di notte, sotto la luna, i canti sacri del popolo. Dopo la Festa avrebbero smontato le tende, rimesso il totem sulla slitta trascinata dal cavallo più forte, e ripreso il cammino die-tro l’immensa mandria dei bisonti.La Tribù non era grande. Da Lepre di due Co-lori, che quasi non camminava più, alla pic-cola Fiore dell’Alba, che ancora non sapeva camminare, il numero era mano-mano-ma-no-mano-mano, cioè venticinque, o venti-

sei, o ventiquattro, con la differenza che un numero è uguale e secco, fermo e freddo, mentre le dita sono diverse, calde, mobili e piene di sangue.

“Mio padre oggi ha ucciso due bufali,” dis-se Piccola Pioggia, muovendo la testa su e giù, come Lepre di due colori quando parlava nel cerchio dei grandi. “Il grasso dei bufali che ha ucciso sarà bruciato nella festa.”“Tuo padre è un bravo cacciatore,” disse

Coltello Pulito, seduto vi-cino a lui, e lo guardava, e muoveva la testa su e giù, come Piccola Pioggia.“Mio padre ha ucciso l’altro bufalo, quello più grosso,” disse Mano Chiu-sa aggrottando la fronte. “Il grasso di quel bufa-lo, da solo, è abbondante come quello dei due che tuo padre ha ucciso.”“Anche tuo padre è un grande cacciatore,” disse Coltello pulito. “Tuo padre, Piccola Piog-gia, ha ucciso i due bu-

fali, perché il suo cavallo è molto veloce,” disse Rana del Canneto.“È vero,” disse Coltello Pulito, che ammira-va molto sua sorella, cinque anni più gran-de di lui.Tutti nella Tribù erano più grandi di lui, tranne Fiore dell’Alba, che ancora beveva il latte dalla madre e non camminava.Dei sei bambini della Tribù, Coltello pulito e Rana del Canneto erano fratelli, e avevano due sorelle più grandi. Anche Fiore dell’Alba e Mano Chiusa erano fratelli.

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era il tempo della Festa dei giorni d’erba, e

bisognava ringraziare gli spiriti della Terra,

dell’Acqua e della Luce

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Piccola Pioggia non aveva fratelli o sorelle, perché sua madre era morta quando lui era nato. Pietra con Tana, che non parlava quasi mai, aveva due fratelli più grandi, che già ave-vano cambiato il nome.“Vento Caldo, madre di mia madre, dice che il totem, quest’anno, ha la faccia catti-va,” disse Rana del Canneto. “Vuol dire che la caccia dei bisonti non sarà buona come l’anno scorso.”“Mio padre ne ucciderà tanti come l’anno scor-so,” disse Mano Chiusa con disprezzo. “Anche quest’anno mio padre sarà un bravo cacciatore!”Piccola Pioggia aprì la bocca per dire la sua, quando dal cerchio delle tende uscì Cavallo Nero, uno dei fratelli grandi di Pietra con Tana, agitando le braccia.“Via, cuccioli chiacchie-roni!” gridò. “Che fate lì, seduti? Basta il vento della prateria a muovere l’erba! Credete di essere il consiglio della Tribù? Andate ad aiutare le donne! Pietra con Tana, hai portato il puledro a bere?”Senza alzare la faccia i bambini si alzarono e corsero via, ciascuno in una direzione di-versa.Piccola Pioggia rivolse un’occhiata scura al fratello, prima di sparire nella tenda.Rana del Canneto stava di fronte al totem, che era alto più di un uomo. Nella metà supe-riore c’erano figure dipinte con i colori che si trovavano nelle Terre di Tramonto. Quan-

do la Tribù passava di là le vecchie racco-glievano le terre, le mettevano in sacchetti di pelle e le conservavano per colorare il to-tem e la faccia dei guerrieri durante le feste.Sul totem, c’era la figura di un coyote, e so-pra c’era una faccia, e sopra ancora il muso di un bisonte. La ragazzina guardava attentamente. Quel-lo che Vento Caldo aveva detto era vero: la faccia era diversa, la bocca era cattiva, face-va spavento.

Rana del Canneto guar-dando, si avvicinò al to-tem di un passo. Anche gli occhi della faccia era-no diversi, ma non pro-prio cattivi: erano tristi.Perché la faccia del to-tem era insieme cattiva e triste? pensò Rana del Canneto. Se uno è cattivo non è triste. Quando uno è triste, non è cattivo. Ma forse le facce dei to-tem non sono come quel-le degli uomini. I totem sono sacri, e hanno la magia.

Rana del Canneto fece un altro passo. Ora, se avesse allungato la mano avrebbe potuto toccare il totem: ma non lo faceva, perché un totem non si doveva toccare senza un buon motivo. I grandi lo toccavano duran-te le preghiere, cantando le canzoni sacre, invocando gli Spiriti Amici o ricordando i nomi dei morti, nelle feste all’inizio d’in-verno.Poi la ragazzina si accorse di una cosa: non era vero che la bocca del totem era cattiva, e gli occhi tristi. Era successo che la verni-

sul totem, c’era la figura di un coyote, e sopra

c’era una faccia, e sopra ancora il muso

di un bisonte

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ce si era sciolta. Forse il totem non era sta-to ben protetto nel viaggio. Forse le piogge abbondanti del mese avevano imbevuto le pelli in cui era avvolto, e la vernice rossa della bocca scivolava agli angoli, e la boc-ca sembrava cattiva. La vernice blu degli occhi scivolava verso le guance, e gli occhi sembravano tristi.Il totem non era triste né arrabbiato, pen-sò Rana del Canneto. Togliendo la vernice colata, la faccia sarebbe tornata serena, e la caccia sarebbe stata buona come gli altri anni. Rana del Canneto pensò che adesso po-teva toccare il totem, perché aveva un buon motivo. Si sputò tre volte sulle dita, alzò la mano e cominciò a pulire un angolo della bocca. La vernice si scioglieva facilmente, e in breve metà della bocca tornò serena. La ragazzina sputò sulle dita dell’altra mano e l’alzò per completare il lavoro, ma non ci riuscì: uno schiaffo forte, da dietro, la colpì e la mandò a ruzzolare sull’erba.Tenendosi una mano sulla faccia guardò in su. Vide contro il sole l’alta figura di Acqua dei Monti, e sentì le sue dure parole:“Ti ha morso il serpente pazzo, Rana del Canneto? Non sai che il totem può essere toccato solo dai grandi? Non sai che una bambina non può disegnare figure?”Lei si alzò, e a faccia bassa disse:“Acqua dei Monti, io ho visto che…”Un altro schiaffo la colpì, facendola tacere. L’uomo la guardava con occhi terribili. Rana del Canneto fece due passi indietro e scappò dietro la sua tenda. S’inginocchiò nell’erba, si piegò in avanti, e strinse i pugni, mentre Pelo Dritto e Zanna Forte, due dei sei cani della Tribù, l’annusavano e uggiolavano, girandole attorno.

Il vento della prateria soffiava da setten-trione. Portava l’odore dei Fratelli del Cibo che pascolavano a migliaia, quietamente, a mezza giornata di cammino, verso l’Acqua del Sole Nascente. Il vento portava anche il canto dei giovani cacciatori, che danzavano lontano dalle tende, nella stessa direzione, per prepararsi alla Festa: mancavano due notti alla luna piena.I bambini della Tribù si erano riuniti a un tiro di freccia dall’accampamento, a meri-dione, così che il vento portasse le loro voci verso l’Acqua del Sole Nascente e non verso le orecchie dei grandi. I giovani cacciatori danzavano in lontananza, e si sentivano i loro canti e i colpi dei piccoli tamburi.I grandi erano nella tenda degli anziani a fumare e parlare. Le donne erano al centro dell’accampamento, a preparare la focaccia vicino al fuoco.I bambini erano sdraiati nell’erba alta, in modo che nessuno li potesse vedere. Aveva-no le teste vicine, e si guardavano negli occhi.“Ho pensato molto,” disse Piccola Pioggia, muovendo la testa su e giù. “Volevo dirvi il mio pensiero.”“Tu sei un grande pensatore, Piccola Piog-gia,” disse Coltello Pulito, sdraiato vicino a lui, muovendo la testa su e giù.“Dì il tuo pensiero, Piccola Pioggia,” disse Rana Del Canneto.“Il mio pensiero è di andare, adesso, dove i giovani cacciatori stanno danzando, e dire: ‘Noi siamo i bambini della Tribù. Insegnate anche a noi la danza, così, nel giorno e nella notte della luna piena, danzeremo con voi e con le donne, e gli Spiriti ci vedranno e sentiranno.’”I bambini rimasero in silenzio per un mo-mento, spaventati dalla proposta.

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“Se facciamo questa cosa, Cavallo Nero ci prenderà tutti a calci,” disse Coltello Pulito.“Non c’è solo Cavallo Nero, là a ballare” dis-se Piccola Pioggia. “Io la danza la so già fare” disse Mano Chiu-sa. “L’ho imparata guardando e ascoltando i cacciatori di nascosto, e l’ho danzata mol-te volte.”“Anch’io so battere già il tamburo, come le donne,” disse Rana del Canneto. “Ma danza e musica si fanno insieme. Un cavallo con una zampa sola non corre.”“Lo dice sempre anche mia madre!” disse Coltello Pulito, e rise.“Io vi ho detto il mio pensiero,” disse Picco-la Pioggia con una smorfia di sdegno.“Io penso che il tuo pensiero è buono” dis-se Rana del Canneto. “Andiamo dai giovani cacciatori, a chiedere di danzare con loro. Io, se vogliono, posso suonare il tamburo.”“Andiamo” disse Mano Chiusa alzandosi in piedi nell’erba. “Io non ho paura.”

“Anch’io non ho paura” disse Coltello Pu-lito. “Però parlerai tu ai giovani cacciatori, vero, Piccola Pioggia?”“Parlerà chi avrà la voce” disse Rana del Canneto, ridendo.“Anche questo dice mia madre!” disse Col-tello Pulito, e rise anche lui.Tutti guardarono Pietra con Tana. Non aspet-tavano che dicesse qualcosa, ma desse un segno.Il piccolo alzò la mano chiusa, poi allungò l’indice e il medio uniti, in segno di appro-vazione.

I quattro giovani cacciatori danzavano, bat-tendo con ritmo regolare sui piccoli tambu-ri che tenevano sotto il braccio, e lanciando le invocazioni agli Spiriti della Terra, dell’Ac-qua e della Luce.Nella notte della Festa dei Giorni D’Erba, avrebbero danzato insieme ai grandi caccia-tori. I tamburi sarebbero stati suonati dalle

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donne, così i giovani cacciatori avrebbero potuto muovere anche le braccia: adesso erano loro a dover suonare, come avevano fatto i padri e i nonni quando erano stati giovani cacciatori.Ai giovani cacciatori piaceva molto danza-re. Erano contenti ed eccitati. Cavallo Nero e Lancia Veloce alzavano le gambe più in alto, battevano i tamburi con più violenza, e gri-davano le invocazioni con più voce. Si sen-tivano forti come bi-sonti. Presto avreb-bero chiesto agli an-ziani di andare nella prateria a visitare le altre Tribù, e cercarsi una moglie giovane e forte.Dopo la Danza della Buona Pioggia, i quat-tro giovani parlaro-no fra loro, ridendo, e fu proprio allora che nell’erba spuntò la piccola processio-ne di bambini.Cavallo Nero spen-se il suo sorriso e si alzò. “Che fate qui?” dis-se brusco. “Stiamo preparando la danza sacra, e non voglia-mo cuccioli fra i piedi!”Lancia Veloce, Braccio Levato e Falco in Attesa risero tutti insieme, battendo forte i tambu-ri per spaventare i bambini. Ma i bambini non si spaventarono. Davanti a tutti c’era Piccola Pioggia, poi Mano Chiusa, poi Rana del Canneto, poi Pietra con Tana, e poi Coltel-

lo Pulito, che si nascondeva dietro gli altri. “Cosa volete, allora? Perché venite a distur-barci?” chiese aspro Cavallo Nero, guardan-do Piccola Pioggia negli occhi.Il bambino rispose, cercando di tenere gli occhi fermi in quelli del giovane cacciatore.“Siamo venuti a chiedervi di insegnarci la danza. Così potremo danzare anche noi, quando ci sarà la luna piena, e gli Spiriti ci sentiranno. Rana del Canneto potrebbe suo-

nare il tamburo.”Cavallo Nero si vol-tò verso gli altri tre giovani cacciatori, che lo guardavano, incerti. Poi si mise a ridere forte, e anche gli altri risero.“Avete sentito?” disse ai compagni. “I cuccioli di coyo-te drizzano il pelo e mostrano i denti! Vo-gliono danzare come noi nella notte della luna piena! Forse vo-gliono anche venire a cacciare il bisonte e domare i cavalli! Tu, Piccola Pioggia, che parli tanto, vuoi anche scendere lun-go il fiume, a cercarti

una sposa? Cosa darai in dono a suo padre? Il cane della tua tenda?”I giovani cacciatori ridevano e battevano piano sui tamburi, come se le parole di Ca-vallo Nero fossero una canzone. I bambini fecero un passo indietro.Quando le risate finirono, Cavallo Nero si

Ai giovani cacciatori piaceva molto danzare.

erano contenti ed eccitati. cavallo Nero e lancia

veloce alzavano le gambe più in alto, battevano i

tamburi con più violenza, e gridavano le invocazioni

con più voce.

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voltò verso i piccoli e sputò per terra vicino ai loro piedi.“Tornate alle tende, piccoli serpenti! Anda-te, prima che vi prendiamo a calci! Dove-te crescere, prima di fare la danza! Chissà come rideranno i vostri padri, quando rac-conteremo quello che avete detto! Via!”Il primo a scappare fu Coltello Pulito, che si mise a correre verso le tende a grandi balzi. Gli altri quattro si voltarono e camminaro-no in fila, come erano venuti, in silenzio.Il vento portava le risate dei giovani caccia-tori. Poi ricominciarono i colpi di tamburo, e gli scoppi delle voci nel canto.Coltello Pulito, correndo, si voltò, e vide che i compagni erano indietro. Si fermò ad aspettarli.Passarono davanti a lui. Piccola Pioggia te-neva la faccia bassa e i pugni stretti davanti al petto. Mano Chiusa si tirava i capelli vici-no all’orecchia come se volesse strapparli. Rana del Canneto aveva le labbra che trema-vano. Pietra con Tana era molto pallido.Coltello Pulito si mise in coda, e abbassò la testa, guardando i piedi di Pietra con Tana che pestavano l’erba davanti a lui. Cercò di mostrarsi molto scontento.

Pietra con Tana andò al fiume, a guardare i cavalli che bevevano. I cavalli della tribù erano mano-mano, uno per ogni cacciatore, due per le slitte pesanti e un puledro pezza-to bianco e nero. Il padre di Pietra con Tana, Aquila che Stringe, l’aveva catturato con l’aiuto di Cavallo Nero da pochi giorni, pri-ma di guadare il fiume. Era troppo piccolo per essere domato, ma abbastanza grande per correre come gli altri cavalli. Era molto giocoso, e Pietra con Tana lo guardava spes-so, pensando che, anche se lui non sapeva

ancora domare i cavalli, quando suo padre o Cavallo Nero, o Lancia Veloce, lo avessero domato, lui avrebbe potuto cavalcarlo.I cavalli, dopo la bevuta, si staccarono dal fiume e si raggrupparono vicino alle tende per la notte. Solo il puledro pezzato restò indietro, annusando l’acqua quieta vicino alla riva. La luna, che sarebbe stata piena la notte dopo, si rifletteva nell’acqua, tremo-lando, fra sue le zampe. Ogni tanto l’ani-male alzava la testa e guardava il bambino seduto sulla sponda, come per fargli capire che si era accorto di lui, poi abbassava di nuovo il muso nell’acqua.Il vento era calato, come sempre di sera in quella stagione, ma dalle tende arrivava a tratti, più forte di quello del fiume, l’odore delle piccole frittelle che le donne stavano preparando per la Festa.Il puledro uscì dall’acqua, spezzando con gli zoccoli il disco argentato della luna.Si sentivano i coyote, lontani e sparsi nel-la prateria. I cani della tribù rispondevano, ma senza minaccia, come per un saluto.D’improvviso, Pietra con Tana ebbe un pen-siero.

Rana del Canneto svegliò i compagni. Lei po-teva svegliarsi quando voleva, e così poco prima dell’alba uscì e andò a picchiare con le dita sull’esterno delle tende, nel punto in cui sapeva che i compagni, all’interno, era-no stesi a dormire. Piano piano, senza sfiorare i grandi addor-mentati, ciascuno dei bambini uscì nell’aria ancora fredda di notte.Rana del Canneto, Pietra con Tana e Coltello Pulito rimasero fuori dal cerchio delle ten-de, nascosti nell’erba. Un velo di latte saliva dall’erba, ad oriente.

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Il tamburo era sotto la slit-ta di Lepre di Due Colori, il più anziano della Tribù, e veniva usato solo due o tre volte all’anno, quando c’era da prendere un’im-portante decisione. Era grande come una testa di puledro, legato con lacci a un largo anello di strisce di pelle intrecciate.Il suo nome era Grande Ri-chiamo, e il suo suono era sacro e indiscutibile.Toglierlo da sotto la slit-ta non fu difficile, anche perché non c’era nessuno in giro, così presto. Picco-la Pioggia e Mano Chiusa, silenziosi come volpi in caccia, sollevarono le pel-li, slegarono i lacci che te-nevano Grande Richiamo e lo portarono al totem. Poi, mentre Mano Chiusa teneva il tamburo sotto un braccio, Piccola Pioggia, appoggiandosi al totem, si arrampicò sulle spalle del compagno, che era più robusto. In cima, tenendosi al totem con un braccio, abbassò l’altro e Mano Chiusa, cercando di non spostarsi, gli passò il tamburo. Piccola Pioggia infilò l’anello di pelle intrecciata in-torno alla testa di bisonte, lo fece scorrere in basso, sopra la faccia dalla vernice sciolta, fino al muso di coyote. Poi saltò giù dalle spalle di Mano Chiusa. Alzando le braccia sistemarono insieme l’anello di pelle nella scanalatura che, come un collare del coyo-te, correva tutto attorno al totem, e lo fecero scorrere fino a quando il tamburo pendette verso il centro dell’accampamento.

C’era luce, ormai, in cielo: un immenso latte rosato allargava di minuto in mi-nuto lo spazio e svelava verdi lontananze.Solo allora, camminando piano, seguiti dai cani del-la tribù, silenziosi e incu-riositi, Rana del Canneto, Pietra con Tana e Coltello Pulito entrarono nel cer-chio delle tende, e si ag-giunsero ai compagni.Sedettero tutti attorno al totem, rivolti a oriente. Coltello Pulito porse a Pietra con Tana il bastone corto e grosso con cui sua madre Luna del Giorno conciava le pelli: portare quel bastone era il suo compito, e lui lo aveva eseguito. I cani,

accucciati attorno, aspettavano in silenzio, con il muso fra le zampe, soffiando ogni tanto dall’umido naso nero.Il primo colpo di vento mosse i capelli dei bambini e i peli delle bestie. Poi, in un ros-so barbaglio, il sole spuntò sopra l’erba, tin-gendo di luce le cinque facce attente.Pietra con Tana si alzò in piedi, alzò il brac-cio, e con tutta la sua forza colpì tre volte Grande Richiamo.

Strano fu il risveglio della Tribù, quella mattina. Tre colpi profondi, dal centro dell’accampa-mento, scacciarono il sonno dalle teste dei giovani, delle giovani, delle madri, dei pa-dri, delle vecchie e dei vecchi. Tutti si sve-gliarono, tranne la piccola Fiore dell’Alba,

si sentivano i coyote, lontani e sparsi nella prateria. i cani della tribù rispondevano, ma senza minaccia, come per un saluto.

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che continuò a dormire sotto le pelli. La Tribù uscì dalle tende, vide i bambi-ni seduti attorno al totem, e rimase sor-presa. Tutti guardarono Lepre di Due Co-lori, che osservava i bambini in silenzio.Poi l’anziano andò a prendere nella tenda il Bastone del Giudizio, e tornò fuori, camminò verso il totem, e sedette di fronte ai bambi-ni. Allora tutta la tribù andò a sedere attor-no a loro, in un largo giro completo.Lepre di Due Colori parlò.“Vedo una mano di bambini,” disse il vec-chio con voce consumata, ma ancora sicura. “Ho sentito tre forti colpi di tamburo. C’è qualcosa da decidere, nella Tribù. Parlate.”“Padre della Tribù,” disse Piccola Pioggia a voce alta, “I bambini vogliono parlare di cose accadute, e fare una domanda.”Lepre di Due Colori mosse appena il capo,

con serietà, perché il piccolo continuasse.“Qualche giorno fa eravamo riuniti a par-lare,” disse Piccola Pioggia. “Parlavamo dei nostri padri, Lupo Ardente e Aquila che Strin-ge, e della caccia dei bisonti. Parlavamo in-sieme, fuori dal cerchio delle tende. Venne Cavallo Nero, ci sgridò, disse che stavamo facendo vento all’erba, e ci fece scappare.”Piccola Pioggia tacque. Lepre di Due Colori chiese:

“Solo questo è accaduto?”“No” rispose Rana del Canneto. “Qualche giorno fa, guardando il totem, vidi che la vernice della faccia si era sciolta, e dava al totem una faccia cattiva e triste. Pensai che potevo toccare il totem, perché avevo una ragione per farlo, e cominciai a pulire la faccia. Fui colpita da Acqua dei Monti, che mi sgridò perché avevo toccato il totem, e avevo disegnato figure. Volli dire cosa sta-vo facendo, ma lei mi colpì di nuovo, e mi scacciò.”Nel silenzio, Lepre di Due Colori fece segno di continuare.Parlò Mano Chiusa.“Ieri, Padre della Tribù, siamo andati dove i giovani cacciatori danzavano e cantavano, e abbiamo chiesto di imparare la danza e il canto, per fare la Festa, e chiamare gli Spiri-ti. Siamo stati derisi da Cavallo Nero, e dagli altri. Cavallo Nero ha chiesto se volevamo anche cacciare i bisonti o cercare spose nel-le altre Tribù, e ha sputato per terra verso di noi.”Mano Chiusa tacque.Il cerchio della Tribù stava immobile, in si-lenzio.Lepre di due Colori si voltò verso Cavallo Nero, che sedeva dietro di lui, un po’ verso destra.“I cuccioli della Tribù hanno parlato di te, Cavallo Nero,” disse. “Hanno fatto un rac-conto. Il racconto è falso o vero?”“È vero, Padre della Tribù,” rispose il gio-vane cacciatore a faccia alta.Il vecchio si voltò verso un’altra parte del cerchio, di fronte a lui.“Rana del Canneto ha parlato di te, Acqua dei Monti. Ha fatto il suo racconto. Il suo rac-conto è falso o vero?”

“vedo una mano di bambini,” disse il vecchio con voce consumata, ma ancora sicura. “ho sentito tre forti colpi di tamburo. c’è qualcosa da decidere,

nella tribù. Parlate.”

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“È vero, Padre della Tribù,” rispose la donna. Il vecchio tornò a guardare Cavallo Nero, e disse: “Cavallo Nero, giovane cacciatore, figlio del valoroso Aquila che Stringe, che è figlio mio, sembra che tu sappia molto su quello che possono o non possono fare i cuccioli della Tribù. Puoi dirci quale Spirito te lo ha rive-lato?”“Nessuno Spirito, Padre della Tribù” rispo-se Cavallo Nero, meno sicuro di prima. “Io ho detto le cose dell’uso della gente, per quello che io sapevo.”

Il vecchio chiese ad Acqua del Monte:“Anche tu, donna, hai detto le cose dell’uso della gente?”“Sì, Padre della Tribù,” rispose lei, a bassa voce.Il vecchio si rivolse ai bambini:“Ora dite, cuccioli, qual è la vostra doman-da?”Coltello Pulito aveva un altro compito, quel giorno. Disse:“Possono i cuccioli della Tribù riunirsi a parlare, fare figure, danzare e cantare?”“Questa è anche la domanda del piccolo Pietra con Tana?” chiese il vecchio.Pietra con Tana inghiottì, strinse i pugni, e disse:“Sì, Padre della Tribù.”Lepre di Due Colori appoggiò il Bastone del Giudizio alle gambe incrociate, alzò le mani, cantando una breve preghiera. Poi prese il bastone, e tenendolo sollevato, disse a voce

alta, guardando il totem: “Saggio è ciò che è giusto. Impariamo dai Fratelli del Cibo, dai Coyote, dagli Uccelli: i loro piccoli, appe-na possono fare una cosa, la fanno. Appena possono correre, corrono. Appena possono cacciare, cacciano. Appena possono volare, volano. Se i cuccioli sanno parlare, parlino fra loro, e parlino ai grandi, nel rispetto. Se i cuccioli sanno fare figure, le facciano, nel rispetto. Se i cuccioli sanno danzare e can-tare, danzino e cantino, nel rispetto. Questo è il buon uso della gente, che toglie il danno e non ne fa. Ho detto.”

Poi Lepre di Due Colori si alzò, e andò a sfi-lare Grande Richiamo dal totem, e lo riportò sotto la slitta.

Il fuoco era acceso davanti al totem, il gras-so dei bufali sacri era tutto bruciato, la Tri-bù aveva mangiato e bevuto, erano comin-ciati i canti e le danze, le mani delle donne battevano i tamburi.La luna era tonda e bianchissima nel cielo fitto di stelle. Non c’erano nuvole, e il vento si era calma-to da un poco. I cani della Tribù, impauriti dal fuoco, dal rumore e dal movimento, si erano accuccia-ti dietro le tende, dove iniziava il silenzio della prateria.Il fuoco mandava lampi gialli sui danzatori e sul totem, e ombre sulle tende e sull’erba. Due bambini, nel cerchio dei cacciatori, danzavano e cantavano. Altri due, che non

“saggio è ciò che è giusto. impariamo dai Fratelli del cibo, dai coyote, dagli uccelli: i loro piccoli, appena

possono fare una cosa, la fanno.”

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Roberto Piumini, nato in provincia di Brescia nel 1947, è uno degli autori più amati dai giovani e dagli adulti. Ha scritto fiabe, poe-sie, filastrocche, romanzi, racconti, testi per il teatro, la televisione e i cartoni animati, e tradotto opere di Browning, Shakespeare, Milton e Plauto. Ha pubblicato libri presso oltre settanta editori italiani. Nella sua ricchissima bibliografia ricordiamo, tra le opere più recenti, Volare alto. La gioia delle piccole cose (con illustrazioni di Marco Somà, Giunti 2012), il romanzo L’amatore (Barbera 2011) e l’autobiografia L’autore si racconta (Franco Angeli 2012). Il suo libro La gazza Rubina (con Giulia Orecchia, Feltrinelli 2010) è di-sponibile in ebook da Biblet.

disponibile su www.biblet.it

roberto Piumini

sapevano danzare, battevano vicino al to-tem dei bastoni al ritmo dei tamburi, e gri-davano le invocazioni.Rana Del Canneto batteva con la sua mano leggera sul tamburo di una delle sorelle che erano andate in altre Tribù. Batteva con la mano e con le dita. Danzava con la mano e le dita sul tamburo. Battendo, faceva invisi-

bili disegni, segreti e veloci, sulla pelle tesa del bisonte.Lepre di due Colori e gli altri due anziani se-devano con le spalle al totem, e cantavano le invocazioni con le vecchie mani alzate verso la luna.Nella tenda, Fiore dell’Alba dormiva. •

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saggio

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11 sCene Per Un fiLM sULLa Vita di tonino gUerraimmagini e parole di un amante della bellezza

di Salvatore Giannella

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1. Lugano, casa di via Motta 33. Sulla targhetta: Giuseppe Prezzolini. Interno notte. Un uomo scri-ve una lettera:“Caro Valentino Bompiani, presidente di tutti gli Autori ed Editori… Non conosco personal-mente Antonio Guerra, autore de Il polverone, ma ho il coraggio di affermare che il Guerra scrive come un classico, pensa come un moderno e conclude con spirito; la sua chiave di casa sta sul pianerottolo della porta d’uscita. Inizia i suoi raccontini in versi liberi con qualche battuta che sembra una scemenza e finisce con una chiusura che vi fa pensare. È un coraggio-so ‘umorista’, non si dà delle arie. Pare che dica: ‘Senti que-sto scherzo’. È proprio con-temporaneo. Cito: ‘Un con-tadino quando si accorse che la moglie lo aveva tradito, fece ap-parecchiare per tre. E mangiaro-no tutta la vita guardando il ter-zo piatto vuoto davanti a loro’. È un breve, sintetico, profon-do racconto: un capolavoro…Di passata osserverò che alcune delle ‘vignet-te’ del Guerra furono concepite in dialetto ro-magnolo; ma mi dispiace di non avere familia-rità con quella parlata, e non credo che i para-goni tra le due versioni giovino molto a capire l’una e l’altra. Il senso è chiaro, tanto nell’una che nell’altra. Cito ancora: ‘La prima parola che ho sentito / nella mia vita / è stata: «Dove vai?» / Eravamo in un camerone. Io e la mamma, / seduti su dei sacchi / di granoturco. / Avevo un anno in tutto / e non sapevo / che cos’erano le parole / e dove andavano a finire’.Vedete come ci possa stupire un bimbo di un anno, con quattro versi in dialetto. Furono versi scritti in dialetto? E poi tradotti? O prima furono in lingua? E che cosa importa? Piutto-sto ci vorrebbe un lapis di un Longanesi per ri-fare i gesti, pieni d’infinito, come certe poesie dell’Ungaretti e del Leopardi?

Altre volte la storiella non è così semplice, e anzi penetra in quei più riposti antri dell’ani-mo umano che capita a molti di scavarsi nel proprio intimo. Sentite questa: ‘Due donne mangiano un panino su una panchina ai giardini pubblici, perché sono state abbandonate dai rispet-tivi amanti. Si sentono così sole che pensano di an-dare a dormire assieme. Quella delle due che aveva offerto la casa per la notte vide l’altra così appeti-tosa che pensò di farla dormire dalla parte del letto che abitualmente occupava lei tenendo per sé quel-

la dell’uomo che amava. E soffrì di gelosia, perché sentì di guardare l’amica come l’avrebbe guardata lui’.Mi direte: ‘Beh, che cosa c’è di straordinario? Saprei scriver-ne una anche io, altrettanto carina’. E io risponderei: ‘Non lo so’. Scrivere semplice pare facile, ma invece è molto più difficile di quanto pensiamo… Non conosco personalmente il Guerra e ci siamo scambiati

forse una cartolina. Ho scritto questo articolo per lui, ma più che per lui per il principio del-la semplicità, della verità, della concretezza, delle molte cancellature; e del genio che a esse s’affida. Suo, Giuseppe Prezzolini.”

2. Roma, piazzale Clodio. Interno giorno.Guerra scrive a Prezzolini: “Pazienza, vorrà dire che dovrò esserle riconoscente per tutta la vita”. È la frase che ricalca i suoi grazie man-dati già a Carlo Bo, che nel ’46 ha voluto arric-chire con una preziosa prefazione un libretto di poesie in dialetto pubblicato a sue spese (I Scarabòcc, Gli scarabocchi) “e così mi ha tirato fuori dall’ombra”; è il segno di gratitudine che ha mandato all’amatissimo Elio Vittorini, il quale ha accolto due suoi libri nella collana I gettoni; e la riconoscenza che ha rinnovato a quel “grande uomo” che si chiama Gianfranco Contini, autore di un saggio su I bu, la raccol-

Guerra con Fellini

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ta di Antonio (ribattezzato Tonino da Federico Fellini) di tutte le poesie in romagnolo.

3. Troisdorf, città della Renania-Vestfalia, in Germa-nia. Auditorium comunale. Interno giorno.Che ci fa Tonino Guerra in questa grande cit-tà tedesca, fatta di casette con tetti spioventi a comporre quartieri intorno a strade dai nomi scioglilingua? Lui è tornato perché l’ammini-strazione comunale, mezzo secolo dopo la fine

della seconda guerra mondiale, ha dedicato in suo onore un ciclo dei suoi migliori tra i 120 film sceneggiati per i maggiori registi del No-vecento, Fellini e Antonioni in primo luogo, e che gli meriteranno nel 2011 il Jean Renoir Award, premio alla carriera assegnatogli in doppia cerimonia, a Hollywood e a New York, dalla Writers Guild of America, associazio-ne degli sceneggiatori statunitensi. Tornato a Troisdorf, perché in tempo di guerra, nella fo-resta confinante, qui Tonino finì in un campo

di lavoro e di concentramento. Non uno dei più terribili, ma certo costruito con lo stesso proverbiale stampino con il quale furono for-giate le varie Dachau. Qui quel piccolo italia-no, arrestato dai fascisti in un rastrellamento a Santarcangelo di Romagna mentre portava da mangiare ai gatti su ordine di suo padre, era ai lavori forzati più deprimenti in una fab-brica di esplosivi. Lavorava e sognava la casa in Italia. Sul volto del borgomastro tedesco c’è una leggera tensione quando Tonino prende la parola. Che dirà? Riporterà alla luce quell’an-tico scheletro nell’armadio della città? Avrà parole aspre? Saranno sufficienti le scuse uf-ficiali e postume avanzate dalla città? Il poe-ta presto scioglie la tensione con le sue paro-le. Quel periodo di internato non è stato mai da lui maledetto, anzi spesso indicato come sorgente della sua vena creativa nel cinema e nella letteratura. Era nato in quelle baracche, acceso dalla sofferenza, il suo talento poetico. Qui Gioacchino Strocchi, medico ravennate, suo compagno di prigionia, annotava i testi poetici che Tonino recitava ai compagni per-ché non perdessero l’allegria neanche nei posti più bui. Così, al ritorno in Romagna, fiorirono “I scarabocc”. “Se non ci fosse stata la guerra, io non sarei diventato qualcuno. Quei giorni drammatici che ho passato in prigionia a Troi-sdorf, avevo 23-24 anni, ogni giorno con l’idea della morte, mi hanno fatto diventare uomo, scrittore, poeta. Ancora adesso quei momenti mi sembrano i più avventurosi della mia vita. I miei primi versi sono nati a Troisdorf per i miei compagni di prigionia romagnoli. La sera mi chiedevano di dire qualcosa in dialetto che li aiutasse a distrarsi e a dormire. Io, non aven-do carta e penna, cercavo tutto il giorno di im-parare quelle poesie a memoria mentre lavo-ravo. A guerra finita il dottor Strocchi, che era riuscito a trascriverle, me le portò. Carlo Bo, il rettore dell’università di Urbino, le lesse, gli piacquero e così decisi di pubblicarle.” Fu con il sale del dolore che Tonino condì la “cucina

“le faccio una proposta: venga a vivere da noi.

l’aria è buona. e il paese, tutta la valle bagnata dal

marecchia, ha bisogno di un poeta, dell’arte e della regia

di un poeta.”

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astratta”, preparando ai compagni di sventura le ta-gliatelle unicamente con la fantasia e con la sua innata arte di raccontare le storie facendole sembrare realtà.

4. Napoli, un bar storico all’angolo di via Chiaia, tra la nuova e la vecchia città. Ester-no giorno. Tonino sta collaborando alla sceneggiatura del film Matrimonio all’italiana, di Vittorio De Sica. Il regista, in una pausa dei lavori, lo invita a bere un caffè. Lo stanno gustando quando entrano due persone che chiedono quattro caffè, li pagano ma ne bevono soltanto due. “E gli altri due?”, chiede Tonino a De Sica. La risposta che ottie-ne è questa: “Gli altri due caffè sono rimasti sospesi, cioè a disposizione di chi non può permettersi la taz-zina”. E infatti, qualche minuto più tardi, un uomo povero entra e domanda: “Scusate, c’è un caffè sospeso?”. “Come no”, e gliel’hanno servito. Sul diario, Tonino annota: “Gesti così, a Napoli, ce ne sono tantissimi”.

5. Santarcangelo di Romagna. Piazza Grande, da-vanti al Caffè Centrale. Esterno giorno.Tonino è seduto al tavolino sotto casa. Sta gu-standosi un caffè prima della consueta pausa dopo pranzo. Gli si avvicina uno sconosciuto, alto, senza tempo. “Scusi, sto cercando il poeta Guerra. Mi hanno detto che frequenta questa piazza…” “Sono io, sono Tonino Guerra. De-sidera?” “Sono Gianni, vengo da Pennabilli, a trenta chilometri da qui. Lì faccio il barbiere

e presiedo la fiera dell’anti-quariato. I suoi genitori co-noscevano bene questo bor-go dell’Appennino, culla dei Malatesta. Le faccio una proposta: venga a vivere da noi. L’aria è buona. E il pae-se, tutta la valle bagnata dal Marecchia, ha bisogno di un poeta, dell’arte e della regia di un poeta.”

6. Pennabilli, Casa dei Man-dorli, esterno giorno. Un uomo scrive una pagina di diario:“Da anni cerco delle rispo-ste, voglio sbarcare da qual-che parte per vivere in modo diverso. Ho pensato a Tbili-si e anche a New York, a Pa-rigi e anche a Mosca, in quel pianeta Russia che mi ha re-galato mia moglie Lora. La Russia è una terra che mi ha dato moltissimo, mi ha re-galato il modo di capire e di inventare delle cose. Mi ha riportato a dipingere, come

facevo da ragazzo. Mi ha fatto sentire la grande musica che non stava nelle orecchie. E invece un giorno, lasciata Santarcangelo, ho attraver-sato con Gianni un ponticello sul Presale, che è un affluente del Marecchia, e sono arrivato a calpestare le foglie di un orto disordinato e accogliente… A molti farebbe bene arrivare in un orto di campagna. Mescolare i pensieri tra le foglie dell’insalata e l’aria pulita sventolata dalle foglie dei cavoli. Gli anni Novanta ormai li abbiamo sulla punta della lingua. Credo che saranno gli anni in cui noi, vuoti di ideologie, avremo gli occhi sulla natura, con gli alberi, con la pioggia, con la neve. Dobbiamo riallac-ciare i fili di seta con il prossimo, altrimenti il ghiaccio della solitudine ci chiuderà nella tri-

“se ci capiterà di incontrare un albero fiorito, ormai sarebbe

ora di salutarlo incantati togliendoci

il cappello”

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stezza della sua morte. La natura non è inqui-nata, è l’uomo che lo è. Lavoriamo sull’uomo, dunque. Impareremo a tagliarci le unghie per non graffiare? Potrebbero essere gli anni della spiritualità e della poesia; una poesia non solo

di parole ma soprattutto di gesti. Per esempio: se ci capiterà di incontrare un albero fiorito, ormai sarebbe ora di salutarlo incantati to-gliendoci il cappello.”

7. Strada Marecchiese, tra la Riviera romagnola e Pennabilli. In un’auto che avanza sotto la pioggia, tra dirupi e picchi in miniatura che ricordano gli sfondi dei quadri di Piero della Francesca e di Leo- nardo da Vinci, due uomini dialogano. Hanno volti noti: Federico Fellini, venuto a trovare per l’ultima volta l’amico e collaboratore Tonino Guerra, con il quale ha vinto l’Oscar a Los Angeles per Amar-

cord. Il grande regista parla delle storie che sta in-ventando ma che è diventato difficile mandare in porto e farne dei film.TONINO: “La Valmarecchia è una valle piena di storia. Ma io la grande storia, i grandi ca-stelli li lascio alle spalle. Io voglio consigliare ai viaggiatori, con i miei luoghi dell’anima e le mie invenzioni poetiche, di vedere la valle in un altro modo. Tappeti di mosaico, alberi d’acqua, orti dei frutti dimenticati, musei con un quadro solo. Posti che poca gente ha visto, trascurati, dove poter incontrare se stessi. Po-sti che potrebbero fare da cornice a film…”FELLINI: “Tonino, ma non ti rendi conto che noi continuiamo a fare gli aeroplani ma non ci sono più aeroporti?”

8. Roma, Palazzo del Quirinale. Interno giorno.Tonino, premiato con il David di Donatello, parla al capo dello Stato Giorgio Napolitano: “Signor Presidente, quando sono venuto a Roma, cinquant’anni fa, un mio amico pittore, Renzo Vespignani, mi ha portato a vedere le cose più belle della città. Era un giorno molto caldo, piazza San Pietro era deserta. Gli chiesi come mai non ci fosse nessuno. ‘Guarda me-glio’, mi rispose. Pian piano vidi che tutta la lunga ombra dell’obelisco era piena di gente. Signor Presidente, noi siamo la sua ombra, con-tenti se tiene in tasca la nostra Costituzione!”.

9. Santarcangelo, casa Guerra, esterno giorno. To-nino è a letto, nuovamente aggredito dalla malattia. Dal cronista amico ha appena ricevuto la copia staf-fetta dell’ultimo, nuovo libro (Polvere di sole. 101 storie per accendere l’umanità) pubblicato dalla sua prima casa editrice, la Bompiani. Si rivolge al giornalista, diventato nonno, con consigli di laurea-to in pedagogia com’è.“Ai tuoi nipoti rendi sapienti le mani. Meglio insegnare a un ragazzo dove mettere le luci nella casa e il tavolo e l’armadio e le se-die da comprare, piuttosto che ripetergli che la Cappella Sistina è fatta da Michelangelo.”

“Non parlare di memoria”, mi ha raccomandato l’ultima volta che l’ho visto, il giorno

prima che nella sua casa entrasse il silenzio.

“Parla di progetti e di futuro.”

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10. Pennabilli, giardino della Casa dei Mandorli. Esterno giorno. Il cronista amico parla alla moglie Lora, al figlio Andrea e a chi ha voluto bene a To-nino. Sono davanti al suo corpo senza vita, spira-to (beffa del destino) nella Giornata mondiale della poesia, il 21 marzo 2012.“Non c’è bisogno che vi parli dello sceneg-giatore di 120 film con i più grandi registi del mondo, del poeta Omero della civiltà conta-dina, dell’architetto del paesaggio e dell’uni-co regista di una valle. Lo conoscete tutti, e quindi non vi parlerò di quest’uomo tenero e rude, ironico e generoso, geniale maestro e umile ascoltatore, fustigatore e consolatore. Un uomo che è una colonna della cattedrale laica della civiltà.Né vi parlerò di memoria, quel continente da cui lui traeva linfa vitale. ‘Non parlare di memoria’, mi ha raccomandato l’ultima vol-ta che l’ho visto, il giorno prima che nella sua casa entrasse il silenzio. ‘Parla di proget-ti e di futuro. E ai sindaci della Valmarecchia dì di restare uniti.’ Ma è della sua più vitale sceneggiatura che voglio parlarvi, del suo principale progetto dei suoi 23 anni vissuti a Pennabilli, da quel 1989 in cui Gianni Gianni-ni lo avvicinò nella Piazza Grande intuendo che poesia fa rima anche con economia. È il progetto della Valmarecchia come Valle Dipin-ta: questa valle dell’Appennino centrale (che Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vatica-ni e già ministro dei Beni culturali italiani, si è spinto a definire “la più bella d’Italia”) va arricchita di numerose altre invenzioni poeti-che e colorate, come i suoi luoghi dell’anima. Questo sforzo comporterà creatività e unità (ri-cordiamoci che i mandorli della valle fiorisco-no tutti insieme). Comporterà una connessio-ne inedita tra cittadini e sindaci. Per esempio, mi piace pensare che presto, uscendo dall’au-tostrada al casello di Rimini Nord-Santarcan-gelo, si possa leggere questo ulteriore cartello: Valmarecchia, la Valle Dipinta di Tonino Guerra.

Abbiamo una grande responsabilità: trasferire la nostra linfa vitale perché le opere e i pro-getti di Tonino possano continuare a produrre altra linfa, altra bellezza, altra vita. Siamo uni-ti, state uniti nel nome di Tonino. Nell’ultimo incontro Tonino mi ha incitato: ‘Ricordaglielo anche tu alla gente e ai sindaci. Devono essere legati dallo scorrere dell’acqua di un fiume che non conosce la geografia politica se non quella che potrebbe essere disegnata dalla Bellezza, che è il petrolio della nostra Italia. Per esem-pio, dai fiori che, ansa dopo ansa, dalla riviera fino alla sorgente del Marecchia, potrebbero con una manciata di semi segnare con profu-mi e colori diversi, nel cambiare delle stagio-ni, il viaggio dell’acqua del fiume. Perché in questa Valle Dipinta un frutto possa dissetare un viaggiatore. E perché si possa tornare a sa-lutare, incantati, un albero fiorito togliendosi il cappello.”

11. Lugano, Biblioteca cantonale, sezione Archi-vio Prezzolini. Il cronista sfoglia le pagine di dia-rio dello scrittore. Affiora una pagina scritta dalla sua terrazza sul mare a Vietri, nell’amata Costiera Amalfitana.“Ora quando vedete una nuvoletta che attra-versa lentamente il cielo, s’attarda a guardare il mondo… pensate che forse mi son trasfor-mato in quella, son fuggito dalla porta o dalla finestra di casa o da una fessura come un fumo di sigaretta e sto recuperando una innocenza lontana come se mi fossi tuffato in quel mare sotto la mia terrazza.” •

Ciao Tonino, il tuo amico e discepolo, Salvatore Giannella

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Salvatore Giannella, giornalista, ha diretto “Genius” (1984), “L’Europeo” (1985), “Airone” (1986-1994) e ha curato, dal 2000 al 2007, le pagine di cultura e scienza del settimanale “Oggi”. Ha scritto libri e sceneggiato documentari per “La Storia siamo noi”.

salvatore giannella

1920 Antonio Guerra nasce a Santarcangelo di Romagna. 1938 Si diploma maestro elementare. 1944-45 È prigioniero nel campo di concentramento di Troisdorf

(Germania). 1946 Ritorna a casa. Nello stesso anno si laurea in Pedagogia a

Urbino. Pubblica a sue spese il suo primo libro, I scarabocc. 1952 Pier Paolo Pasolini pubblica Poesia dialettale del Novecento, dove si sofferma

a lungo sul romagnolo Guerra. Inizia il fortunato viaggio di Tonino poeta e scrittore. L’equilibrio e L’uomo parallelo, editi da Bompiani, saranno i libri tra le sue prime prose che amerà di più.

1953 Scrive la sua prima sceneggiatura per il film di Aglauco Casadio Un ettaro di cielo. È l’avvio della sua prolifica attività di sceneggiatore (oltre cento film).

1960 Firma L’avventura, con Michelangelo Antonioni. Comincia un sodalizio arti-stico che dura fino alla scomparsa del regista.

1973 Esce Amarcord, prima sceneggiatura scritta con Federico Fellini: il film ha un successo strepitoso. Vince l’Oscar a Los Angeles.

1977 Si sposa in seconde nozze, a Mosca, con Eleonora Kreindlina. 1981 Dà avvio con Il miele alla stagione dei poemi, sempre in dialetto. 1984 Lascia Roma per trasferirsi in Romagna, a Santarcangelo prima e poi, dal

1989, a Pennabilli, nel Montefeltro storico, tra Romagna e Marche. Qui indi-rizza il suo talento creativo per valorizzare la Valmarecchia.

2012 Muore a Santarcangelo il 21 marzo, Giornata mondiale della poesia.

una vita in 13 tappe

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Anticipazione

Jane aUsten, Maestra di Vitaemma, un romanzo che può cambiare l’esistenza

di William Deresiewicz

Pubblichiamo, in esclusiva per i lettori di PreTesti, un brano del libroLa vita secondo Jane Austen (TEA, 258 pagine, 13 €), in libreria dal 19 aprile.

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restare attenzione ai “piccoli parti-colari” significa notare la vita che scorre, prima che finisca; e non solo. Ponendo l’ac cento sulle loro

piccole attività quotidiane, non limitandosi a discuterne, ma ripetendole e riprendendole più volte (rac contando la stessa storia ora in sintesi ora per esteso, ora in un salotto, ora in un altro) ‒ i personaggi di Emma in effetti non fanno che aggrapparsi alla vita. Tessono la trama della comunità, un filamen-to di conversazione alla volta. Creano il loro mondo parlandone. Ancora una volta in dif-ficoltà è proprio Emma. Ama spet tegolare con la sua migliore amica, la signora Weston, ma, quando interviene la si-gnorina Bates, non vede l’ora di allon tanarsi e ritiene che le lettere di Jane Fairfax siano un destino peggiore del-la morte. È la perso-na più intelligente e di bell’a spetto della sua cerchia, oltre che la più ricca e di buona fami-glia, eppure pensa di meritare una vita più interessante di quel-la offerta da Highbury. Al pari di un cattivo lettore, è alla ricerca di intrighi e avventure, eppure finisce solamente per isolarsi da tutti quelli che la circondano, e di conseguenza per estraniarsi da se stessa. L’aspetto diverten-te del romanzo è dato dal fatto che l’eroina,

a causa dell’estrema fiducia che ri pone nel proprio giudizio, ingarbuglia sempre tutto, anche se per motivi tutt’altro che dilettevoli. Questo però accade per ché in realtà la sua coscienza è intorpidita, come lo era la mia. Non riesce a sentire ciò che sente, né a sape-re ciò che vuole.Comunque alla fine Emma impara che la vita di ogni gior no non solo è più gioiosa ‒ e più drammatica ‒ di quanto pos sa im-maginare, ma è anche più gioiosa e dram-matica di quan to avesse immaginato, di tutte

le sue macchinazioni e dei suoi sogni a occhi aperti. Lei giocava coi sentimenti, tuttavia la monotona, bana-le, vecchia vita quoti-diana è il luogo in cui i sentimenti esistono realmente. Quando lo scopre, comprende an-che qual è l’uomo che dovrebbe sposare, e allo stesso modo io ho capito infine che que-sto è l’obiettivo a cui il romanzo mirava fin dall’inizio. Il libro sa fin dalle prime pagine

qual è il romantico futuro dell’eroina, ma lo rivela molto lentamen te, è un segreto cela-to nel profondo. Non è vero che Emma di fetta nell’intreccio; anzi, è talmente ingegnoso da riuscire a rimanere celato fino all’ultimo, quando tutti i pezzi prendono improvvisa-mente il loro posto, richiamati da una forza

La vita per emma diviene finalmente reale,

e leggendola io sentivo che lo stesso stava accadendo a me

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invi sibile, come la limatura di ferro attirata dalla calamita.La vita per Emma diviene finalmente reale, e leggendola io sentivo che lo stesso stava accadendo a me. Vivere i miei giorni da sonnambulo non mi soddisfaceva più. Leg-gere Emma, sentirmi chiedere di prendere sul serio la vita di personaggi come Harriet Smith e Jane Fairfax ‒ non le vite eccitan-ti di eroi ed eroine, con le quali è tanto gra-tificante identificar si, né quelle affascinanti delle celebrità, così divertenti da leg gere, e nemmeno le vite impressionanti delle per-sone autore voli che mi era capitato di cono-scere da lontano e che mi face vano sentire tanto importante, ma le vite quotidiane di perso ne comuni, degne di nota per l’uni-ca ragione di essere vite ‒ alla fine mi ha portato a cominciare a prendere sul serio la mia stessa vita. Non che non avessi mai considerato seriamente i miei pro getti e le

mie grandi ambizioni, certo che l’avevo fat-to. Quello di cui non avevo mai tenuto con-to erano i piccoli avvenimen ti, quei minu-scoli frammenti di emozione di cui la vita è pie na. Io non ero Stephen Dedalus, né il Mar-low di Conrad. Ero Emma. Ero Jane Fairfax. Ero la signorina Bates. Non ero un ribelle, ma un buffone. Non fluttuavo in uno splendido isola mento a un milione di miglia sopra la massa. Ero parte della massa. Dopotutto, ero una persona normale. Soprattutto, ero una persona. Cominciando per la prima volta a prendere sul serio la mia vita, cominciai an-che a prendere sul serio il mondo. Di nuo vo, mi sorprese l’idea di non averlo mai fatto davvero. Non mi ero sempre preoccupato dei grandi problemi: la politica, la giustizia sociale, il futuro? Non avevo passato un sac-co di tempo a discuterne con gli amici, a de-cidere come risolverli? Ma in definitiva tutti quei discorsi erano soltanto teorici, non più

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William deresiewicz

William Deresiewicz, professore associato di inglese presso l’Università di Yale fino al 2008, ha pubblicato numerosi saggi e collabora come cri-tico letterario per alcune tra le principali testate statunitensi, “The New York Times”, “The New Republic”, “The Nation”. È autore anche di Jane Austen and the Romantic poets, saggio letterario dedicato alla grande scrittrice inglese.

reali nei sentimenti che li riguardavano dei progetti di Emma di mettere ordine nelle vite di chi le stava intorno. La Austen mi aveva insegnato cosa significa serietà morale nel senso profondo del termine: assumersi la re-sponsabilità delle piccole cose, non di quel-le grandi. Essere responsabili di se stessi. A mano a mano che procedevo nella lettu-ra di Emma, la mia vita cominciò ad assume-re un senso di gravità mai speri mentato pri-ma. Era uno di quegli sbalorditivi momen-ti in cui ti guardi intorno e vedi il mondo come se lo vedessi realmente per la prima volta; a un tratto ne percepisci la presenza co me una realtà anziché come un insieme di

concetti: l’acqua è davvero bagnata, il cie-lo è veramente azzurro, il mondo è l’u nico che abbiamo. Come disse Virginia Woolf, la più intuitiva tra le lettrici della Austen, a proposito di Clarissa Dalloway: “sempre aveva l’impressione che vivere, anche un solo gior no, fosse molto, molto pericoloso”. Non perché la vita sia così pericolosa, ma perché è tanto importante. •

La Austen mi aveva insegnato cosa significa serietà morale nel senso profondo del termine: assumersi la

responsabilità delle piccole cose, non di quelle grandi. essere responsabili di se stessi.

Tratto da La vita secondo Jane Austen di William Deresiewicz (TEA)Traduzione di Claudio Carcano© William Deresiewicz, 2011© 2012 TEA S.p.A., Milano

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lzare le pareti gli era parsa la fac-cenda più seria affrontata in vita sua, fino a quando non si era trat-tato di mettere mano al tetto.

Era stato a cavalcioni di una trave, afflitto da problemi di inclinazione e trigonometria, che la vita gli aveva palesato, con la chiarez-za di un croco in un campo polveroso, una di quelle verità di cui fa sporadicamente dono ai suoi viandanti: saper entrare in una casa e costruirne una non sono la stessa cosa. Detto questo, non si era perso d’animo; occorreva solo pensarci due volte prima di piantare ogni singolo chiodo, e quando il martello era pronto ad abbattersi, pensarci

ancora una volta. Il che avrebbe significato tempi più lunghi. Niente di grave: la stagio-ne buona sarebbe durata un altro mese e ter-minata la copertura avrebbe lavorato al ripa-ro per tutto l’autunno. Talvolta, nel tardo pomeriggio, quando il cie-lo restituiva i vapori della giornata in rapidi e furiosi acquazzoni, Thomas guardava at-traverso i vetri del furgone la casa immobile sotto la pioggia, come un’arca in costruzione: qualcosa di biblico e profondamente morale. Cercava allora una stazione che trasmettesse un pezzo per clavicembalo solo (il che non accadeva mai), quindi abbassava il sedile e restava a fissare le pareti e lo scheletro del

di Davide Longo

aLZare Le Pareti

racconto

a

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tetto prendere confidenza con il temporale. Una volta che le nubi si erano avviate verso la pianura, usciva dal furgone e si accendeva una sigaretta. Era stato un fumatore accani-to, ma ora non lo era più. Quando si accende-va una sigaretta ora sapeva esattamente cosa stava facendo e perché.La schiena poggiata al cofano, soppesava con lo sguardo il legno chiaro del tavolato con-tro quello compatto e selvaggio del bosco. ‒ Pace! ‒ gridava agli alberi, al lago e ai ven-ti chilometri quadrati senza anima viva attor-no alla sua piccola pro-prietà. Nel pomeriggio arrivò il camion con le tego-le. Aveva avvertito che c’erano alcuni chilome-tri di sterrata da percor-rere, ma quando i due operai scesero non avevano comunque l’aria contenta. ‒ Cristo Santo, ‒ sentì dire al più giovane ‒ credevo non sarebbe finita più!Il più vecchio, un uomo che sembrava pen-dere da una parte, gli venne incontro e gli porse la mano. Masticava qualcosa che pote-va essere un pezzo di cuoio.‒ Problemi? ‒ domandò Thomas.‒ Abbiamo visto di peggio – fece quello con l’aria di uno che dice di una donna grassa che è semplicemente un po’ in carne. – Dove scarichiamo?‒ Ho fatto un po’ di spiazzo – indicò Thomas. ‒ Volete una mano?

‒ Facciamo tutto con il braccio meccanico – disse l’uomo, che nel frattempo aveva por-tato lo sguardo sulla costruzione alle spalle di Thomas. Anche il giovane, fermo accan-to alla portiera del camion, fissava la casa. Le guance butterate e gli occhi grandi face-

vano pensare a uno di quei ragazzi le cui an-tenne non riescono a captare troppo lonta-no. Thomas ne aveva conosciuti e alcuni li aveva voluti a lavorare con sé: in una squadra ci vuole sempre qual-cuno che non abbia la tentazione di esse-re creativo; gente che pensa di saperla più lunga degli altri e del destino ce n’è anche troppa.‒ Ottimo – disse. – Al-lora, se non vi spiace, io continuo con il tetto.

Arrivato alla scala, si voltò: i due erano nella stessa posizione in cui li aveva lasciati. Il più vecchio aveva alzato la visiera del berretto da baseball, come gli servisse altro campo vi-sito per rendersi conto della cosa. ‒ Giù al lago – fece Thomas ‒ c’è una cassa di birra al fresco. Per quando avrete finito, se vi va.‒ Ci va eccome! ‒ dissero, ma nessuno dei due mosse un passo. Quando si decisero non gli ci volle molto: il braccio meccanico sollevava con disinvoltu-ra le tegole imballate e le posava a terra con la delicatezza di una balia.

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- Pace! - gridava agli alberi, al lago e ai venti

chilometri quadrati senza anima viva attorno alla sua piccola proprietà

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Alle cinque i due gettarono nel cassone gli elastici che avevano trattenuto le tegole. Tho-mas scese dal tetto, infilò i guanti da lavoro nella tasca posteriore e si diresse al lago che ciondolava mansueto una trentina di metri più in basso. Mentre i due sedevano, Tho-mas prese le birre. Sul terreno intorno c’era-no qualche torsolo di mela, una buccia di ba-nana e alcuni tozzi di pane: avanzi dei pasti che aveva consumato godendosi lo sciabor-dio dell’acqua. Erano due settimane che non tornava nella stanza presa in affitto in paese. I due presero le birre e ringraziarono con il capo. Il più vecchio diede un altro lungo sguardo alla casa.

‒ Si è preso una bella gatta da pelare, eh? Thomas sorrise.‒ Con calma si fa tutto – disse.L’uomo si studiò le dita intorno alla lattina. Il ragazzo giocava con un rametto cercando di farci salire una formica guerriera. Di tanto in tanto sbirciava anche lui la casa, ma come si guarda e non si guarda la donna di un ami-co quando si spoglia.‒ Come si chiama quel tale che abita appena dopo il ponte? – chiese l’uomo. ‒ Il vecchio Luther – disse il ragazzo.‒ Il vecchio Luther! – disse l’uomo. ‒ Potreb-be farsi dare due dritte da lui. Un tempo ci sapeva fare con le costruzioni. ‒ Ci sono stato ‒ annuì Thomas. ‒ Ha det-to che è un quadrato con quattro stanze:

posso cavarmela benissimo da solo.L’uomo e il ragazzo guardarono Thomas ri-dacchiare. Nei minuti che seguirono bevve-ro in silenzio: sorsi brevi e frequenti, finché l’uomo non si mise in piedi.‒ Abbiamo un bel po’ di strada – disse.‒ Sì – fece Thomas – mi dispiace di non avere di meglio…‒ Anche troppo – disse l’uomo – anche troppo.Il ragazzo si diresse a lunghe falcate verso il camion con l’evidente scopo di arrivare per primo. Vedendolo arrancare lungo il pendio, Thomas pensò a un uccello preistorico rima-sto impantanato a metà del guado evolutivo.

‒ Posso guidare? – domandò non appena Thomas e l’uomo l’ebbero raggiunto. ‒ No, – fece l’uomo ‒ mi fai venire la nausea quando guidi. In sette anni di marina non ho mai avuto la nausea come quando tu ti metti al volante per cinque minuti. E poi ti ho già detto che ci sono cose che non si chiedono, una ha a che fare con il guidare e l’altra con le donne. O si capisce quando è il momento oppure è meglio lasciar perdere. Chiedere è l’ultima cosa da fare.Il ragazzo scivolò imbronciato sul sedile del passeggero. Quando si accorse che Thomas lo fissava toccò qualcosa sul cruscotto, come ci fossero dei tasti che era suo compito tenere sotto controllo e premere al momento giusto.‒ È mio nipote – disse l’uomo. – È un po’ len-

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e poi ti ho già detto che ci sono cose che non si chiedono, una ha a che fare con il guidare e l’altra con le donne.

o si capisce quando è il momento oppure è meglio lasciar perdere.

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to, ma prima o poi il lavoro gli entrerà in te-sta e allora lo farà meglio di molti altri.Thomas annuì.‒ Alcune persone sono l’ideale per certi la-vori – disse. ‒ Una volta che hanno capito di cosa si tratta.‒ Il concetto è proprio questo! – disse l’uo-mo lasciando intravedere per un momento il pezzo di cuoio che non aveva mai smesso di masticare.‒ Sembra un pezzo di cuoio quello che ha in bocca – disse Thomas.‒ Ormai non ci faccio più caso. Lo metto in bocca la mattina e la sera mia moglie deve ri-

cordarmi di buttarlo prima di andare a letto. Lo tengo anche quando mangio. ‒ Immagino servirà a qualcosa.L’uomo si accarezzò le reni.‒ Qualche mese fa sento dire in tv che i do-lori alla schiena derivano quasi sempre da una cattiva masticazione: mandibole poco allenate. Il tale dice di tagliare a pezzi vec-chie scarpe di cuoio o una borsa. Cuoio vero, roba animale, niente roba sintetica o trattata. Farne dei dischetti e masticarli. Io mi dico: “Abbiamo provato tutto, proviamo anche questa”. Ed eccoci qua. ‒ Sta meglio la sua schiena?

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‒ Una bellezza.‒ Ottimo.‒ Già – disse l’uomo, quindi afferrò la mani-glia della portiera per salire sul camion, ma poi si bloccò. Riportò a terra il piede che sta-va ormai sul predellino e guardò Thomas.‒ Posso farle una domanda? Quanti anni si è fatto alla fine?‒ Dodici.‒ Niente sconti?‒ Niente sconti.‒ Deve averli fatti incazzare parecchio! ‒ ri-dacchiò l’uomo soffiando fuori l’aria con il suono che fa la vescica natatoria di un pesce quando viene forata.

Thomas pensò fosse un caso. Non aveva l’a-spetto del pescatore e nemmeno di uno che se ne sta seduto a guardare documentari sui pesci. Il fatto che fosse stato in marina non voleva dire niente. La maggior parte dei ma-rinai non sa pescare, come la maggior parte della gente che è nata su un’isola non sa nuo-tare.‒ Da quanto è fuori? – chiese l’uomo. ‒ Tre anni, più o meno.‒ E cosa ha fatto? Prima di capitare qui, in-tendo. ‒ Sa tenere un segreto?‒ Non mi capita spesso di doverlo fare. Mia

moglie me lo chiede ogni tanto, ma sono fac-cende che non interessano a nessuno, anche se lei pensa il contrario. Dunque non faccio nessuna fatica a tenermele per me.‒ Fa lo stesso. Ho fatto consulenze per siste-mi di sicurezza: gente con molto denaro che cerca di tenerselo stretto.‒ Un bel lavoro.‒ Di giorno non è male, ma poi la sera ti ritro-vi da solo e in mutande in una camera d’al-bergo, con i pedalini afflosciati alle caviglie e l’aria stanca. Ci ho messo un paio d’anni, ma ho capito che non era il modo di invecchiare che faceva per me.L’uomo guardò il lago, l’azzurro del cielo ri-flesso sull’acqua e l’enorme aureola nera de-gli abeti.‒ Certo qui è un’altra cosa – disse. – Ha intenzione di viverci solo?‒ Non sono questi i programmi.‒ Una donna?‒ Proprio così.‒ Spero non abbia intenzione di cercarla da queste parti. L’unica che valesse qualcosa era Margit, la figlia del borgomastro, ma ha fini-to col farsi ingravidare da un rappresentante di Zurigo. Le altre o sono brutte o non sono di grande compagnia. E per lo più entrambe le cose. ‒ Ho intenzione di pescare fuori zona.‒ Per la gente della nostra età quelle dell’Est sono la cosa migliore. Anche quelle asiatiche, ma soffrono troppo il freddo e sono silenzio-se. In un posto così le sembrerebbe di avere in casa un fantasma.‒ Carolin è abituata alla vita in campagna. Siamo cresciuti nello stesso paese. Quando lei faceva l’università siamo stati insieme tre anni, poi però io presi un’altra strada…

carolin è abituata alla vita in campagna. siamo

cresciuti nello stesso paese. Quando lei faceva

l’università siamo stati insieme tre anni, poi però io presi un’altra strada…

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‒ Quant’è che non la vede?‒ Trentadue anni – disse Thomas. – Ora però ha divorziato, ha un figlio grande che lavora all’estero, finito il tetto conto di andarla a tro-vare con qualche fotografia della casa e chie-derle di trasferirsi qui con me.L’uomo sfregò una scarpa sull’altra e duran-te l’operazione tenne gli occhi fissi sui piedi, come non fosse del tutto certo che fossero i suoi. ‒ Lei che ne dice? – chiese Thomas.L’uomo alzò le spalle.‒ Prese alla sprovvista le donne possono fare cose molto avventate. Credo che con la figlia del borgomastro sia andata…‒ Intendo della casa – lo interruppe Thomas.‒ La casa?L’uomo sollevò lo sguardo su quelli che avrebbero dovuto essere i solidi montanti per il tetto.‒ Quando proverà a metterci le tegole verrà giù all’istante – disse.‒ Perché? Cos’ha che non va?‒ Non saprei da dove cominciare, ma è quel-lo che succederà.‒ È messa così male?‒ È la casa più brutta che io abbia mai visto e quel che è peggio è pericolosa. Le cadrà in testa e se non succede, cosa di cui dubito, le verrà qualche accidenti per via dell’acqua e degli spifferi. ‒ Qual è il suo consiglio? ‒ Faccia una bella fiammata, sporga denun-cia all’assicurazione, compri altro legna-me e chieda a Luther di darle una mano. È molto avido, le basterà tentarlo con un po’ di denaro.

Il suono del clacson frantumò il silenzio e ogni cosa intorno per qualche secondo sem-brò raccogliersi in se stessa nel tentativo di resistere all’urto. Anche Thomas e l’uomo incassarono la testa tra le spalle facendosi piccoli.Poi il frastuono cessò e quel che ne rimane-va si allontanò ondulante, come una serpe che senza fretta svanisce fra gli sterpi. Allora l’uomo fece un passo indietro e guardò il ra-gazzo che, rimessosi al suo posto, li fissava con grandi occhi primordiali. ‒ Non credi basti bussare sul vetro? – gli dis-se – Oppure chiamarmi e dire: “Zio Johan, mi sono stufato, portiamo a casa il culo!”. Lo so che sei tonto, ma cerca di metterci del tuo, Cristo Santo! Ci sono mille modi per at-tirare l’attenzione, ma quando io e questo si-gnore siamo a due passi, suonare il clacson è l’ultimo che ti deve passare per la testa. Lo capisci? Il ragazzo lo scrutava attento.‒ Lo capisci o no?Il ragazzo annuì.‒ Devi dire “Sì, zio”, altrimenti non sono si-curo che tu abbia davvero capito.‒ Sì, zio – disse il ragazzo.‒ Bravo ragazzo.Una volta sul camion, con la retromarcia già ingranata e il motore che sbuffava, l’uomo si sporse dal finestrino.‒ Quella alla banca di Berna comunque fu la migliore. Conservo ancora l’articolo del gior-no dopo.‒ Fummo fortunati – fece Thomas.‒ Sempre e solo fortuna? Anche le altre volte?

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Davide Longo è nato a Carmagnola, non lontano da To-rino. Nel 2001 ha pubblicato per la Marcos y Marcos il romanzo Un mattino a Irgalem con il quale ha vinto il Pre-mio Grinzane opera prima e il Premio Via Po. Dello stes-so anno è il libro per bambini Il laboratorio di Pinot. Nel 2004 è uscito il suo secondo romanzo il Mangiatore di pietre (Marcos y Marcos), Premio Città di Bergamo e del Premio Viadana. È regista di documentari (Carmagnola che resiste,

Memorie dell’altoforno), autore di testi teatrali (Pietro fuoco e cobalto, Il lavoro cantato, Bal-lata di un amore italiano, About Fenoglio) e autore radiofonico per RadioRai (Centolire, Luoghi non comuni). Ha scritto per “Repubblica”, “Avvenire”, “Slow Food”, “Donna”, “GQ”, “Travel” e il quotidiano olandese “Ncr.next”. Del 2006 è La vita a un tratto (Cor-raini). Nel 2007 ha curato per Einaudi l’antologia Racconti di montagna, e pubblicato per Corraini il libro E più non dimandare, realizzato con il pittore Valerio Berruti. Nel gennaio 2010 è uscito per l’editore Fandango il suo terzo romanzo L’uomo verticale, vincitore del Premio Lucca. Nell’estate dello stesso anno, il volume Il signor Mario, Bach e i settanta (Keller Editore). È ora nelle librerie con il suo ultimo romanzo, Ballata di un amore italiano, edito da Feltrinelli. Vive a Torino dove insegna scrittura presso la Scuola Holden. I suoi libri sono tradotti in molti paesi.

davide Longo

‒ Quali altre volte? – scosse la testa Thomas.L’uomo sorrise mostrando il suo pezzo di cuoio.‒ Per la casa segua il mio consiglio – disse iniziando a retrocedere piano. ‒ Vada da Lu-ther con qualche centinaio di franchi in una busta. Risolverà un sacco di problemi e nes-suno si farà male.Thomas levò in alto la birra come a dire “Ok”.

‒ E in bocca al lupo con quella sua…‒ Carolin!‒ Carolin – disse l’uomo.L’ultima cosa che Thomas vide, quando il ca-mion era già in fondo al vialetto, fu il ragaz-zo che inclinava la testa e la poggiava sulla spalla dello zio, come un cane che una volta seduto cerca la gamba del padrone, per avere qualche contezza di sé. •

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Il mondo dell’ebook

gLi ebooK Per ragaZZi non Hanno anCora iL Lieto finei “nativi digitali” sono già pronti a leggere gli ebook, ma il libro elettronico sta ancora sperimentando modalità e contenuti adatti ai più piccoli.

di Daniela De Pasquale

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bambini sono il futuro. Anche dei li-bri. L’editoria sotto il metro e cinquan-ta è una sineddoche dell’editoria tout court: un pianeta in miniatura, perché

piccoli sono i destinatari, le dimensioni del mercato, il numero di editori e titoli in cata-logo, ma che ci può dire molto dell’univer-so di cui fa parte. Innanzitutto perché rap-presenta il più conveniente investimento di lungo periodo per un editore: far appassio-nare un bambino ai libri significa fidelizzar-lo fino a quando sarà vecchio. Basti pensare al fenomeno Harry Potter, che ha avvicinato alla lettura tanti ragazzi accompagnando-li verso l’età adulta o a tanti personaggi diven-tati protagonisti di saghe e libri seriali, soprattutto fantasy. Inoltre si tratta di un settore ad alta in-novazione dove nascono e si sperimentano nuovi prodotti editoriali. Sono proprio i più giova-ni a trascinare le vendite di libri: secondo i dati Istat elaborati dall’AIE per la Children’s Book Fair di Bologna, l’edi-toria per ragazzi van-ta per il 2011 un 2% di crescita. Il 56,9% dei ragazzi tra i 6 i 17 anni ha letto almeno un libro, dato inferio-re rispetto al 2010 ma più alto della media nazionale che raggiunge appena il 45%. Il merito va ai genitori che fanno crescere una domanda più qualificata anche nella fascia prescolare, a soddisfare la quale tro-viamo 197 editori che hanno immesso sul mercato 2.317 novità.

I bambini oggi si avvicinano prestissimo alla lettura. Il progetto “Nati per leggere” vede pediatri e bibliotecari promuovere la lettura ad alta voce non per far addormen-tare i bambini ma per svegliarne la mente, meglio di un videogame. Paragone azzecca-to, dal momento che si tratta di “nativi di-gitali”, come Mark Prenski ha definito nel 2001 la generazione dei nati dal 1990: per loro le tecnologie sono scontate, come lo era l’acqua in casa per i loro genitori e faticano a immaginare un mondo senza internet.Eppure i dati che riguardano l’editoria di-gitale per ragazzi non seguono la logica del

discorso e rimango-no delle dimensioni di una nicchia che fatica a decollare. Escludendo i classici liberi da diritti, siamo passati dai 420 tito-li di gennaio 2010 ai 1.182 a febbraio 2012: meno del 5% del cata-logo digitale italiano. A contendersi questa piccola fetta c’è solo il 42% degli editori attivi nel segmento: 82 competitor, ca-pitanati dal gruppo

Giunti che detiene il 30%, seguito da Salani (12%) e Piemme (11%).Per vedere cosa succederà entro cinque anni, possiamo sbirciare nel mercato americano, ma solo per scoprire che, percentuali a par-te, la situazione è simile: Scholastic, princi-pale editore di settore, registra un ricavo da digitale pari a al 7,4% laddove case editrici per adulti raggiungono il 20%.

Nel 2001 mark Prenski ha definito “nativi digitali” la generazione dei nati a

partire dal 1990: per loro le tecnologie

sono scontate, come lo era l’acqua in casa per i loro genitori, faticano a immaginare un mondo senza internet, hanno un innato rapporto di simpatia con i tablet

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Come mai? A quanto riferisce il “New York Times”, una motivazione è legata al costo dei device (il 44% dei bambini vive in fa-miglie a basso reddito), ma più in genera-le sono proprio i genitori a non comprare eBook per i loro figli. Ha fatto il giro della rete il video di una bimba che clicca inva-no sulle pagine di un magazine. La mamma scrive: “Per mia figlia di un anno le riviste di carta sono iPad rotti. Sarà così per il resto della sua vita, Steve Jobs ha codificato parte del suo sistema operativo”. Ironia non col-ta dagli immancabili detrattori che l’hanno addirittura accusata di non essere una buo-

na madre per non aver insegnato a sua figlia a riconoscere la carta nella sua immutabile, odorosa e sfogliabile tangibilità. Anche chi è più propenso a leggere eBook e lavora con eReader o tablet fa fatica a pensare alla let-tura digitale come supporto nell’educazio-ne dei figli: un intruso digitale catturerebbe troppo l’attenzione del bambino, rovinando l’intima atmosfera della lettura di una favo-la della buonanotte.Considerazione supportata anche da psi-cologi e specialisti. Per Junko Yokota (Cen-tro per la didattica presso la National Louis University di Chicago), forma e dimensio-ne di alcuni libri sono fondamentali per l’e-sperienza emotiva legata alla lettura, e non si prestano a una conversione digitale. Per Anna Oliverio Ferraris, docente di psicolo-

gia dell’età evolutiva alla Sapienza, mentre la conoscenza dei bambini si basa su tutti i sensi, l’eBook coinvolge solo la vista e crea distacco tra se stessi e il testo.Giuste considerazioni, se si accetta che l’e-Book non nasce per soppiantare la lettura classica, ma le si affianca, offrendo l’oppor-tunità di sperimentare nuovi linguaggi e forme di apprendimento. Non è stato neces-sario coinvolgere psicologi quando furono inventati i libri pop-up o quando sul merca-to comparvero i librigame o i mangiadischi che introducevano i bambini nel mondo delle fiabe sonore.

Più che di una rivoluzione si tratta di un’e-voluzione della lettura, in cui i confini tra apprendimento e gioco, computer e giocat-toli si fanno più sfumati. Per Allison Druin (Università del Mary-land), più le tecnologie permetteranno di riprodurre la lettura su carta più l’attenzio-ne si sposterà sul contenuto. Nel frattempo, c’è chi prova a percorrere la strada dei con-tenitori, proponendo tablet baby-friendly, indistruttibili e dal prezzo contenuto come l’iXL di Fisher Price o il Nook Kids. Se non li avete mai sentiti nominare è forse perché gli stessi bambini non si accontentano di un giocattolo e preferiscono l’eReader di mam-ma e papà, a cui sono in grado di spiegare funzionalità sconosciute, come già avviene con i cellulari. Si può azzardare l’idea che

Gli ebook per i più piccoli rappresentano un’evoluzione più che di una rivoluzione della lettura, in cui i confini tra

apprendimento e gioco, computer e giocattoli, consumo e produzione si fanno più sfumati

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il momento in cui si usa il tablet insieme ai bambini sia un’ottima occasione per fa-miliarizzare con le tecnologie, e limitare il digital divide tra genitori e figli.Le numerose app per bambini in com-mercio aprono l’importante capitolo degli enhanced eBook. Si tratta di eBook arricchi-ti che possono essere letti e sfogliati come un libro, ascoltati come audiolibro, studia-ti grazie a funzionalità aggiuntive che abi-litano ricerca, evidenziazione, annotazione ed esplorati grazie a elementi interattivi e

di condivisione. In questo modo la lettura diventa un’esperienza multisensoriale che può stimolare le competenze linguistiche. La giornalista e redattrice Laure Deschamps (L’enfant et la tablette. Genèse du livre numéri-que jeunesse) analizza i vantaggi della lettu-ra digitale per le diverse fasce d’età e parte dagli apprendisti lettori: quando si incontra una parola difficile si può attivare l’audio o il dizionario, si può scegliere di leggere o ascoltare la storia, mentre le parole vengono evidenziate per seguire il testo.

Ci sono poi i bambini che non amano leg-gere: per loro esistono app che prevedono uno storytelling interattivo con un interven-to sulla struttura narrativa molto simile a quello del gaming: per esempio, alla fine di ciascun capitolo il bambino può proseguire la lettura solo se guadagna punti giocando.Nella fascia di età 7/10 torna utile la distinzio-ne fra libro arricchito e libro digitale, da pro-porre in base alle abilità di lettura acquisite. Come fa notare Judy Newman, presidente di Scholastic Book Club, “intorno agli 8 anni

si comincia a perdere interesse per la lettu-ra. I media digitali sono in competizione per attirarsi l’attenzione dei ragazzi. È molto importante per noi, come editori, l’impegno nella produzione di contenuti che spinga-no i bambini a leggere per divertimento”. A supporto, una ricerca inglese rivela che i bambini sotto i dieci anni sono più bravi a navigare in rete e a usare le nuove tecnolo-gie che a leggere e vestirsi da soli. In questo processo, allo scrittore è richiesto uno sforzo notevole per rivedere il suo ruolo, e l’edi-

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tore deve ricorrere a nuove professionalità per garantire una qualità elevata ai prodotti digitali, che non renda passiva la fruizione e trovi quell’equilibrio tra testo immagine che caratterizza i migliori libri pop-up. Brut-te illustrazioni, testi scritti o tradotti male, animazioni inutili possono stimolare un’attività ludica, ma non invogliare alla lettura. Le spe-rimentazioni model-lo non mancano: è il caso del neo premio Oscar The Fantastic Flying Books of Mr Morris Lessmore, o Timbuktu, newsma-gazine su iPad che propone l’attualità ai più piccoli unendo le potenzialità delle app gio-co e quelle educative. Ottimo anche perché è realizzato da una donna italiana under 35 e laureata in Comunicazione che ha vinto il contest “Mind the Bridge” per volare a San Francisco e far decollare la sua startup. Un duro colpo ai luoghi comuni che si annida-no in almeno cinque concetti di questa frase. Si aprono dunque enormi prospettive per

un genere rimasto fino ad oggi appannaggio del cartaceo per esigenze di qualità e fruibi-lità. Joe Wikert di O’Reilly sostiene che così come le prime trasmissioni televisive erano la mera ripresa di trasmissioni radiofoniche, anche l’editoria digitale oggi non sta sfrut-

tando tutto il suo po-tenziale. Resta il pro-blema della compa-tibilità dei formati, al momento lontani da un modello aper-to multidispositivo e multipiattaforma.Chi realizza eBook per ragazzi non può fare a meno di Apple e dell’iPad per man-

canza di alternative concrete. È stato proprio Steve Jobs a creare il nuovo mercato e anco-ra lo domina. Uno dei più grandi autori per bambini, Gianni Rodari, scriveva nella sua Grammatica della fantasia che a vedere per primi le cose si può passare da sognatori. Ma ora che il sogno è quasi realtà, l’eredità non va tralasciata: tocca ai grandi per primi usare fantasia e immaginazione per propor-re ai più piccoli novità da favola. •

Gianni Rodari

Gli ebook arricchiti devono mantenere il giusto equilibrio tra testo e immagine, e ogni animazione deve essere

funzionale al racconto, per rendere il lettore non fruitore passivo ma coprotagonista

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era una volta il millelire. Il li-bretto tascabile che si com-prava per pochi spiccioli, ri-nunciando al caffè o al resto

del quotidiano, dapprima in edicola e più in là nel tempo anche nelle librerie. Letture bre-vi e a buon mercato, ma non per questo pri-ve di piacevolezza e interesse. D’altronde, autori come Epicuro, Stendhal e Shakespea-re non sono proprio degli ultimi arrivati. Sono passati più di venti anni da quan-do il pioniere Mar-cello Baraghini die-de vita, con la sua creatura controcor-rente Stampa Alter-nativa, a ben più che un prodotto letterario: i millelire sono più una filosofia, un’idea. Tanto forte da essere ripresa e imitata negli anni a venire, addirittura citata in un’enci-clopedia, divenuta sostantivo a memoria presente e futura. Idea ben presto seguita da un’altra casa editrice di occhio molto lungo:

Newton Compton. Erano certo altri tempi, con telefoni a gettoni al posto di ultrasofisti-cati smartphone. Con Internet ancora mon-ca delle tre “w” che l’hanno resa celebre. Tempi in cui i libri profumavano di carta e inchiostro, si compravano in libreria e al più in edicola. Quelli elettronici a noi tanto cari erano dei pupi, prototipi in fasce sconosciu-ti al grande pubblico e senza adeguati sup-porti hardware: il primo rozzo eReader sa-

rebbe arrivato giusto un paio di anni dopo. La storia però è ci-clica, e le buone idee ‒ soprattutto quelle premature per i loro tempi – sono Fenici

pronte a rinascere adattate ai nuovi conte-sti: benvenuti nel XXI secolo, quello della Rete con la “r” maiuscola che manda gambe all’aria giornali e le tv in crisi di identità e credibilità, dove gli eBook rappresentano il presente e il futuro dell’editoria, necessitan-do tutt’al più di una ulteriore spintarella per

breVe(ed eConoMiCo) È beLLoI libri millelire risorgono e si trasformano in ebook: per una lettura breve ma intensa, per riscoprire un classico d’annata, per dare una chance al libro digitale

Il mondo dell’ebook

di Roberto Dessì

C’

I millelire sono una filosofia, un’idea. tanto forte da essere ripresa e imitata

negli anni a venire.

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spiccare definitivamente il volo. Sarà forse il millelire a dargliela? Ah già, anche le mille lire non ci sono più da un pezzo, sostituite dagli euro più di un de-cennio fa. Basta però un rapido calcolo per la conversione: zero e 51 centesimi, commer-cialmente arrotondati a zero e 49. Che, guar-da caso, è anche il nome scelto da Newton Compton per riproporre in formato digitale la serie dei Gialli Economici, tanto celebri ne-gli anni ’90. Tornano a mietere successi sotto nuove insegne il te-mibile Abate Nero di Wallace, il pacato de-tective Charlie Chan di Biggers, e i Trenta-nove scalini di Buchan da cui trasse ispirazio-ne il maestro della su-spense Alfred Hitchcock. Dall’oblio rispun-tano anche i fantasy e la letteratura classica, moderna e contemporanea. 200 nuove usci-te previste per il 2012, tutte rispettanti ‒ di nome e di fatto ‒ l’antica equivalenza “100 pagine uguale mille lire”. Bisogna però essere realisti: il tasso di cam-bio reale è quello più mnemonico, ma assai meno conveniente, uno a mille, un euro per ogni banconota Montessori. Prezzo su cui ha deciso di attestarsi un altro prodotto edi-toriale digitale diretto discendente dei mille-lire. Con la collana Zoom, Feltrinelli rispol-vera pezzi da novanta del proprio catalogo quali Benni, Yoshimoto e De Luca, lancian-do nel contempo, non senza sapienti scelte di marketing, le nuove leve della letteratura italiana. Banduna, di Alessandro Mari, è il case study perfetto di come un editore pos-sa sfruttare il doppio canale di prezzo con-tenuto e sintesi, declinandolo ulteriormente

in feuilleton. Sulla scia di Newton Compton e Feltrinelli, anche le Edizioni Piemme han-no recentemente tenuto a battesimo una propria striscia di eBook brevi ed economi-ci. Gli Shots sondano i sette vizi capitali con sette brevi saggi a 99 centesimi l’uno. E chis-sà che i peccati non diventino presto più dei canonici sette.Oltreoceano il dono della sintesi ‒ o chissà, l’indolenza dello scrittore ‒ è stato spunto

per l’ennesima riusci-ta iniziativa editoriale Amazon, che ne ha ri-battezzato i frutti sin-gles. Un chiaro omag-gio ai singoli musica-li, anch’essi retaggio di un passato lontano fatto di juke box e vi-nili 45 giri, e un pa-

rallelismo musical-letterario quanto mai azzeccato: gli eBook pubblicati come single sono più brevi di un romanzo ma più lunghi di un semplice racconto, adatti a sviluppa-re nel dettaglio una buona idea, un piccolo saggio o un reportage giornalistico. Anche in questo caso venduti a prezzo tanto bas-so da indurre all’acquisto d’impulso: finora, stando ai numeri dichiarati dalla società, gli impulsi sono stati più di 2 milioni. Successo presto emulato anche alle nostre latitudini: i piccoli ed economici libri han-no fatto un trionfale ingresso nelle classi-fiche dei best seller digitali, bivaccandovi con impressionante regolarità. Oltre a Ban-duna, una menzione d’onore spetta all’ine-dito Super Santos di Roberto Saviano che ha rapidamente conquistato critica e pub-blico, ma ben si stanno comportando an-che gli altri eBook della collana Feltrinelli, e le proposte low cost di Newton Compton.

I piccoli ed economici libri hanno fatto trionfale ingresso nelle classifiche

dei best seller digitali, bivaccandovi con

impressionante regolarità

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Le performance di questi eBook stanno ro-vesciando i tradizionali paradigmi commer-ciali anche tra gli editori più conservativi. Il “Wall Street Journal” di qualche settima-na fa registrava l’inversione di tendenza di Simon & Schuster, membro del famigerato cartello delle six sisters of publishing, getta-tasi nella mischia per sfruttare gli eBook in versione “assaggio letterario” come Caval-lo di Troia, banco di prova per testare auto-ri emergenti o di prodotti sul cui successo non si scommetterebbe più di un dollaro. In questo caso, a copia digitale. A favore degli scettici del low cost, si può dire che

proprio la forza degli eBook millelire ne costituisce anche la principale debolezza. La sensazione trasmessa dal discount è sì di convenienza, ma parallelamente di bassa qualità; un fattore già messo in luce, tra gli altri, da un’inchiesta sull’“Huffington Post”. Parafrasando un Bill Gates d’annata, occor-re però ricordare che “the market is king”: è il mercato a decidere, a decretare il succes-so o il fallimento di un’iniziativa editoriale. In questo caso, oltre agli autori e alle loro storie, parlano e raccontano i numeri. E tutti hanno il segno “più” davanti. •

Le performance di questi ebook stanno

rovesciando i tradizionali paradigmi commerciali anche tra gli editori più

conservativi

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ernando Pessoa non avrebbe mai immaginato che prima di vedere pubblicato il pro-prio Libro dell’inquietudine sarebbe dovuto trascorrere esattamente lo stesso numero di anni, dopo la morte, del suo soggiorno sulla terra. Fernando Antonio Nogueira Pessoa, nato a Lisbona il 13 giugno 1888 e morto nella stessa città il 30 novembre 1935,

è l’autore-non autore del Livro do Desassossego, scritto da Bernardo Soares, eteronimo-semiete-ronimo, autore falsamente vero dell’immaginazione assolutamente falsa di Fernando Pessoa. Ci sarebbero voluti esattamente quarantasette anni perché Jacinto do Prado Coelho, con Ma-ria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha, riuscissero a venire a capo di quanto aveva dissemi-nato qui e là quell’impostore di un contabile portoghese che rispondeva al nome di Fernando Pessoa. Si potrebbe anzi dire che con la morte del poeta-romanziere abbia avuto inizio per gli studiosi portoghesi un viaggio nell’al di là simile a quello compiuto da Dante Alighieri “nel mezzo del cammin di nostra vita”, che li avrebbe sottoposti alle stesse prove terribili e faticose per riuscire a far emergere dall’altro mondo quel mirabile capolavoro tradotto poi in più di quaranta lingue nel nostro mondo. Pessoa si esclissa a quarantasette anni nell’altra dimensio-ne della vita, quella esoterica dalla quale si era sempre lasciato affascinare con gli esperimenti

di Luigi Orlotti

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buona la primastorie di libri ed edizioni

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“iL Libro deLL’ inQUietUdine” (1982)

fernando Pessoa

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medianici e l’interesse per l’occultismo, e per recuperare il suo romanzo incompiuto tre ricercatori affrontano il viaggio dei viaggi, quello nell’al di là, facendone ritorno però con un manoscritto inedito, sensazionale, straordinario: il Livro do Desassossego.Nel 1982 appare dunque la prima edizione mondiale del Livro do Desassossego. Nel 1986 esce la prima traduzione italiana a cura di Antonio Tabucchi e Maria José de Lancastre: si parlerà quindi di Libro dell’inquietudine. Scrive Antonio Tabucchi nella sua introdu-zione alla traduzione italiana a proposito della parola desassossego: “Desassossego, de-rivato regressivo di desassossegar, indica in portoghese una perdita o una privazione: la mancanza di sossego, cioè di tranquillità e di quiete. Ma Soares allarga le frontiere del desassossego fino a zone assai remote: dalla connotazione vagamente decadente di cer-ti testi in cui il desassossego appare associato al tedio, fino allo snervamento, all’ansia, al disagio, alla pena, al turbamento, all’inade-guatezza e alla ‘incompetenza verso la vita’”.E più avanti, sempre nell’introduzione di Ta-bucchi, leggiamo quanto ci saremmo imma-ginati, visti gli elementi cronologici di con-tatto fra tutti i protagonisti di questa vicenda umana e editoriale: “Bernardo Soares non sogna, perché non dorme. Egli ‘sdorme’, per usare una sua parola; frequenta cioè quello spazio di iper-coscienza o di coscienza libe-ra che precede il sonno. Un sonno che tutta-via non arriva mai. Il libro dell’inquietudine è un’enorme insonnia”. Ecco allora condensa-to in questa primigenia intuizione un caso clamoroso nella storia della letteratura: il ro-manzo di un autore-non autore morto-non

morto che vive e si tramanda nel lavoro dei suoi interpreti.Poco importa allora se la prima edizione ita-liana del Libro dell’inquietudine sarà all’incir-ca la metà dell’edizione portoghese di Jacin-

to do Prado Coelho e che verrà tradotta per intero da Piero Ceccucci soltanto nel 2005. A cosa serve infatti un libro di frammenti, un testo incompleto, se non abbiamo altro modo di leggerlo che quello con il quale si affrontano i pensieri anonimi dei “baci peru-gina”? In fondo è a questa accusa di super-ficialità, di estemporaneità, di provvisorietà, spesso rivolta a tutta l’opera di Fernando Pessoa (perché la maggior parte di quest’o-pera è stata pubblicata postuma da altri), che risponde il genio di lettore e studioso di Antonio Tabucchi e di Maria José de Lanca-stre. Il libro dell’inquietudine diventa allora paradigmatico per avvicinarsi a tutta l’ope-

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Antonio Tabucchi

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ra poetica di Fernando Pessoa, che è opera di insonnia, o di veglia per altri sogni, come accade nel Marinaio, tradotto sempre in una memorabile edizione da Antonio Tabucchi.Così accade che il plurimo Pessoa dorma nel-la veglia del suo interprete italiano più noto: Antonio Tabucchi. E accade che un grande editore come Feltrinelli, grazie a un altrettanto grande, e mai abbastanza ricordato, diretto-re editoriale come Franco Oc-chetto inseriscano nel 1986 in una collana di allora recente ideazione da parte dello stes-so Occhetto, Impronte, questo “libro dell’al di là”, che diven-ta in pochi anni il nuovo rife-rimento mondiale della lette-ratura portoghese. Fu la rina-scita di un nuovo interesse da parte del grande pubblico per gli scrittori di lingua porto-ghese del secondo Novecento, dopo gli anni di oscurantismo della dittatura salazarista. Antonio Tabucchi sarà tanto capace di veglia-re il sonno del poeta Pessoa da diventare lui stesso un altro Fernando Pessoa, eteronimo tra gli eteronimi del poeta. È un destino raro per i cultori di Pessoa, sicuramente il destino

al quale tutti ambiscono. E ora che Tabucchi non c’è più non dobbiamo abbatterci. Baste-rà sognare il sonno degli studiosi, di Franco Occhetto, di Antonio Tabucchi, di Luciana Stegagno Picchio per citarne alcuni, di tutti coloro che hanno contribuito a tramandare l’opera dell’ortonimo Pessoa, e che oggi non

sono più tra noi, per diventare noi stessi testimoni di un ide-ale chiamato letteratura, che si inserisce a sua volta in quella corrente di equivoci di identità fra autori reali e personaggi in-ventati che ha radice in Omero e passa per Shakespeare. A noi lettori non resta che chiedere in dono la speciale sensibilità del poeta di Lisbona e di tut-ti i suoi eteronimi sparsi per il mondo: “Sentire tutto in tutte le maniere; saper pensare con le emozioni e sentire con il pen-

siero; non desiderare molto se non con l’im-maginazione; soffrire con civetteria; vedere chiaramente per scrivere correttamente; co-noscersi con finzione e tattica, naturalizzarsi differenti e con tutti i documenti; in definiti-va, utilizzare dall’interno tutte le sensazioni, sgranellandole fino a Dio”. •

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a maggior parte dei toscani rispon-derebbe alla domanda afferman-do che in Toscana l’italiano è “di casa”, cioè endemico, e il parlare

quotidiano, familiare, se ne discosta per po-chi tratti. Dunque non si può definirlo dia-letto, ma vernacolo. Nella regione, esclu-dendo la Lunigiana e la Romagna Toscana linguisticamente appartenenti ai dialetti settentrionali, si distingue «il parlar bene»,

cioè sorvegliato e aderente alle regole della lingua (per quanto possa essere obbiettivo non sempre e facilmente raggiunto nel caso della caratteristica pronuncia spirante: casa, ma la hasa, per citare un esempio classico) e «il parlar male», con meno attenzione alla pronuncia (sono andaho per sono andato) o a certe forme del verbo o dell’articolo o del

possessivo (piacciano per piacciono, si va a i’ cine per andiamo al cinema, i’ mi hane per il mio cane).De Amicis, nell’Idioma gentile, non esenta certo i toscani e i fiorentini, nati e cresciuti nella culla della lingua, dal dovere di una maggior cura nell’evitare i “dialettismi”, a maggior ragione perché riconosciuti dagli altri italiani “maestri dalla nascita”. L’auto-re del libro Cuore non è l’unico ‒ nel perio-

do fra Otto e Novecento ‒ a riconoscere la presenza del dialetto in Toscana, sono però gli stessi toscani a non valutare come tale lo scarto dalla lingua che considerano, a ragione, minimo in confronto alla distanza dei «veri» dialetti. In realtà anche tutti i dialetti dell’area cen-trale d’Italia (umbro, marchigiano, laziale)

sulla punta della lingua come parliamo, come scriviamo

Rubrica a curadell’Accademia della Crusca

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VernaCoLo o diaLetto in tosCana?di Annalisa Nesi

Tutti i dialetti dell’area centrale d’Italia (umbro, marchigiano, laziale) distano meno dalla lingua e anche a

questi viene spesso attribuito la statuto di vernacolo,a sottolineare un diverso o minor grado di dialettalità

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distano meno dalla lingua e anche a questi viene spesso attribuito la statuto di verna-colo, a sottolineare un diverso o minor gra-do di dialettalità.La consultazione dei dizionari storici per-mette di mostrare come vernacolo sia stato usato in modo generico per dialetto anche in riferimento ad aree non toscane come tro-viamo negli autori (ad esempio in Fosco-lo o in Pascoli) o nei titoli di dizionari che presentano in realtà il lessico dialettale o in raccolte di poesie e racconti, soprattutto di area toscana, umbra o laziale, ma anche per i dialetti triestino, pa-vese o napoletano. Ma al di là dell’uso o del significato visti attraverso il tempo, oggi vernacolo (aggettivo e sostantivo) e vernacolare (aggettivo) sono da riferir-si all’uso scritto dei dialetti toscani in testi soprattutto poetici (la poe-sia in vernacolo pisano di Renato Fucini, ad esempio) e in testi teatrali (il teatro verna-colo fiorentino, livornese). Dialetto, secondo la definizione scientifica, è un sistema linguistico presente in un’area territoriale di estensione variabile, ma co-munque circoscritta, che viene impiegato in ambiti sociali e culturali ristretti. Di fatto il dialetto si definisce in rapporto o in con-trasto con la lingua: dunque, secondo un criterio spaziale, la lingua si distribuisce su tutto il territorio nazionale, è impiegata – seppure secondo varietà e gradazioni – da tutti, permette una comunicazione a largo raggio in tutti gli ambiti culturali e istitu-zionali. Quanto all’origine sia la lingua che

i dialetti del territorio italiano (fatta ecce-zione per le lingue minoritarie) hanno una base comune nel latino e ne rappresentano l’evoluzione con le diversità proprie del-le differenti aree geografiche. Nella storia linguistica del nostro paese assistiamo alla formazione dei volgari – così si denominano le realtà linguistiche conseguenti ai muta-menti subiti dalla lingua latina parlata luo-go per luogo – che possiamo considerare tutti sullo stesso piano finché uno fra i tanti non emerge e viene prescelto come modulo espressivo della lingua letteraria. Si tratta

del fiorentino dei grandi autori del Trecen-to e dunque lingua scritta sulla quale si fon-da la norma. La forma scritta fissa e rende stabile il fiorentino di quel periodo che nel parlato cambia, si evolve, come del resto gli altri dialetti toscani e non toscani. Si pensi a buono, tuono che portano alla lingua il ca-ratteristico dittongo che si chiuderà in bono e tono nel secolo successivo. Le forme senza dittongo sono fuori dalla lingua, dunque dialettali.La parola dialetto e l’aggettivo dialettale, pur con le opportune differenze di sostanza ri-spetto al resto d’Italia, sono da impiegare dunque anche per le varietà toscane. Infat-ti, soprattutto in base a fenomeni fonetici, di pronuncia, la Toscana presenta diverse

La parola dialetto e l’aggettivo dialettale, pur con le opportune differenze di sostanza rispetto al resto d’Italia, sono da impiegare anche per le varietà toscane

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varietà dialettali: accanto a quella fiorenti-na (certamente la più nota e generalizzata ad orecchio non toscano) si hanno quelle senese, pisano-livornese, lucchese, elbana, aretina, amiatina, garfagnina, massese. Citando dal fiorentino, frasi come la hosa he t’ha’ fatto ‘la cosa che hai fatto’ o come i’ che tu fa’ poi? ‘che cosa fai dopo’ si collocano a livello di dialetto, così come penzare, in-zieme per ‘pensare’ e ‘insieme’ (tipica pro-nuncia del pistoiese o del senese), i’ cane per ‘il cane’ (fiorentino o pratese), andonno per ‘andarono’ (certamente oggi meno diffuso e avvertito come arcaico o rustico), èramo per ‘eravamo’ (senese e elbano, ad esem-pio). Anche il lessico toscano, che pure si è riversato largamente nella lingua, mostra il lato dialettale con significative differenze interne alla regione. Si pensi al frutto denominato cachi per il quale si hanno sia varianti che denomi-nazioni altre; per citarne solo alcune e prescindendo dalla loro appartenenza ai diversi dialetti toscani: cachì, caco, cacco,

diòspero, lòto e lóto, pómo, pomocaco e pomo-cacco. Ancora, quelle che con parola tecni-ca chiamiamo efèlidi ‒ e con parola italiana corrente lentiggini ‒ sono in Toscana anche crusca e frusca, sémbola e sémbela, sémmola e sémola, lenticchie, per citare i più diffusi. Per ‘bambino, ragazzo, figlio’ e in certe aree anche ‘fidanzato’ si ha citto, senese e areti-no, bimbo, pistoiese, lucchese, pisano-livor-nese, bambino, fiorentino e pratese. A volte la regione ‒ intesa nei confini linguistici ‒ risponde compattamente, acquaio ‘lavandi-no da cucina dove si lavano le stoviglie’, ma non concorda certamente col resto d’Italia.Resta tuttavia l’idea comune che in Tosca-na non ci sia un dialetto anche se quel che si parla in Toscana è riservato – come per quelle parlate che anche intuitivamente de-finiamo dialettali ‒ ad un livello di comuni-cazione familiare, amicale, tendenzialmen-te informale. Ecco dunque che la parola ver-nacolo è stata a lungo riservata alla toscanità linguistica, proprio per questa condizione speciale determinata dalla storia. •

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Anima del mondo

Paesaggi della letteraturaLe geografie deL PossibiLei viaggi (non troppo) immaginari di Jules verne

di Luca Bisin

l signor Jeorling è soprattutto un uomo di scienza, non cede facilmente alle seduzioni della fantasia e tutta-via non si può certo dire che lo spirito

d’avventura gli faccia difetto: i suoi studi di geologia e mineralogia valgono bene una spedizione fino alle estreme latitudini meri-dionali del mondo e una lunga permanenza sulle isole Kerguelen, gli ultimi scorci di ci-viltà prima che il deserto antartico distenda i suoi ghiacci inospitali e ancora largamente incogniti. Ma anche quando, avendo ormai concluso le proprie ricerche e non trovan-do più grandi attrattive nel lungo e buio in-verno di quelle regioni sempre sferzate dal vento gelido, si risolve finalmente a fare ri-torno nel natio Connecticut, egli non man-ca di assecondare il proprio gusto per l’im-previsto: l’occasione di un passaggio sulla goletta Halbrane, sotto l’esperta conduzione

del capitano Len Guy, offre la lusinga irre-sistibile di un viaggio del quale sia fissata la meta ma restino incerti la durata e l’an-damento, secondo il fatidico avvertimento di Edgar Allan Poe, di cui Joerling oltre che conterraneo è assiduo lettore: “fare sempre i calcoli con l’imprevisto, l’inatteso, l’in-concepibile”. L’inconcepibile, in effetti, non tarda a palesarsi proprio nella figura del capitano Guy, che dello scrittore americano si rivela essere non soltanto un estimatore altrettanto entusiasta, ma persino un fe-dele adepto: la storia fantastica di Gordon Pym, imbarcatosi di nascosto su una bale-niera in partenza dall’isola di Nantucket, e di lì trascinato nel vorticoso concatenarsi di eventi straordinari fino all’epilogo tragi-co e incerto, proprio nei territori misteriosi del continente antartico, questa storia che Poe ha consegnato alla finzione letteraria di

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un diario tenuto dallo stesso Gordon Pym, rappresenta per il capitano Guy la fedele esposizione di eventi realmente accaduti, tanto indubitabili da spingerlo a condurre la Halbrane e il suo equipaggio alla ricerca dei presunti superstiti di quelle avventure immaginarie. Progetto troppo audace an-che per lo spirito ardito del signor Jeorling, il quale non può che risolversi a tenere per folle il capitano Guy e a manifesta-re discretamente il proprio scetticismo: “Così voi non crede-te, signor Jeorling…” “Né io, né alcun altro vi crederebbe, capi-tano Guy; siete il pri-mo che io abbia udi-to sostenere che non si tratta di un sem-plice romanzo…” Ma quello con l’in-concepibile è un con-to che, per quanta cura ci si è messa, spesso non torna. Sulla rotta per l’isola di Tristan da Cunha – la medesima rotta che nel suo romanzo Poe fa seguire alla goletta Jane prima che questa s’inoltri verso il polo sud, verso i mari ine-splorati dell’Antartide e verso un destino inesorabile e misterioso – l’avvistamento di un iceberg alla deriva scompagina i piani e incrina le certezze, quando lo sciogliersi del ghiaccio lascia lentamente affiorare la presenza inquietante di un corpo umano. Issato a bordo, questo si rivela essere, senza possibilità di dubbio, il cadavere di un ma-

rinaio della Jane, l’ufficiale Patterson, il per-sonaggio secondario di un’avventura che così, dalle pagine fantasiose del romanzo di Poe, irrompe improvvisamente nella realtà gettando nello scompiglio la lucida mente del signor Jeorling: “Tutto ciò era dunque vero!... Edgar Poe, dunque, aveva appron-tato un’opera da storico e non da roman-

ziere!... Per un mo-mento credetti che la testa mi scoppiasse, che diventassi paz-zo, io che accusavo il capitano Len Guy di esserlo!... Ma alla fine dovetti arrendermi all’evidenza dei fatti. Len Guy si girò verso di me e guardando-mi disse: ‘Ci credete ora?...’ ‘Ci credo… ci credo!’ balbettai”.Ciò che spinse so-prattutto Jules Ver-ne a pubblicare nel 1897 La sfinge dei ghiacci non è forse il proposito di dare un

compimento e una spiegazione alla storia che Poe, sessant’anni prima, aveva invece voluto lasciare sospesa all’incertezza e al mistero, quanto piuttosto il bisogno di rac-contarci questo cedere balbettante della ra-gione di fronte a una fantasia che si fa realtà sotto ai nostri occhi smarriti. A Edmondo De Amicis, che gli fa visita nel 1895, Ver-ne svela questa regola segreta della sua im-maginazione letteraria: nella scrittura dei propri romanzi egli non inventa anzitutto i personaggi e i fatti, non escogita gli avveni-

“Tutto ciò era dunque vero!... edgar Poe, dunque,

aveva approntato un’opera da storico

e non da romanziere! ”

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menti, gli intrecci, le peripezie per collocar-li poi nell’allestimento meticolosamente ac-curato dei luoghi più esotici e fantasiosi. Al contrario, egli crea dapprima questi stessi luoghi dando loro la plastica esattezza di un personaggio nella meticolosa dedizio-ne alle regole della scienza, della tecnica, della storia, della geografia, dà una forma e una logica ai mondi prossimi o distanti,

reali o immaginari, lasciando poi che siano essi stessi a ispirare i Phileas Fogg, i Nemo, gli Otto Lindenbrok, i Michele Strogoff, i Michel Ardan, a suggerire i viaggi e le av-venture, a disporre i margini del possibile e del fantastico. E potrebbe essere proprio questo il cruccio che Verne insegue lungo i suoi Viaggi straordinari nei mondi conosciuti e sconosciuti, attraverso l’infaticabile affa-stellarsi degli abissi, dei deserti, delle iso-

le, dei fiumi, degli astri, dei cieli, delle città: non semplicemente lo sfogo di una fanta-sia sfrenata, temeraria, spesso preveggente, bensì la trepidazione di spingersi là dove il confine tra la geografia del reale e quella dell’immaginario si fa liquido e incerto. Forse, allora, Roland Barthes mancava il segno quando, commentando L’isola miste-riosa, notava che l’intenzione fondamentale di Verne sarebbe quella di ridurre il mon-do a uno “spazio noto e chiuso”, il bisogno, borghese e ingenuamente positivista, di appropriarsi, chiudersi, installarsi; e nella quasi maniacale dedizione dello scrittore

per l’invenzione tecnologica, lo scrupolo scientifico, la precisione geografica ricono-sceva il puntiglio un po’ pedante dell’en-ciclopedista o la smania di ridarci, quasi al modo di un pittore fiammingo, l’imma-gine dettagliata di un mondo senza vuoti e incertezze, finito e minuzioso, “mentre fuori la tempesta, cioè l’infinito, infuria va-namente”. Perché, invece, proprio lungo i margini di ciò che è noto, o che potrebbe diventarlo un giorno, Verne vede affacciar-si il profilo di un altrove che, anche quando si presenta nella figura improbabile di un viaggio al centro della terra o di un mondo sottosopra, non smette tuttavia di offrirci l’appiglio di una regola e una decifrazione, lo spazio di una comprensione possibile

se una storia è inverosimile dobbiamo forse concludere

che non è vera?, domanda lo scrittore all’inizio de Il castello dei carpazi

Jules Verne

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che non ce lo rende però meno inquietan-te. Se una storia è inverosimile dobbiamo forse concludere che non è vera?, domanda lo scrittore all’inizio de Il castello dei Carpa-zi. E l’avvertimento a guardarci da questo abbaglio non rilancia tanto la provocazione del fantastico, la minacciosa incombenza di una dimensione imperscrutabile e recondi-ta, ma ci annuncia piuttosto l’insondabile vastità del mondo che già abitiamo: “Se il nostro racconto non è verosimile oggi, può esserlo domani, grazie alle risorse scientifi-che che sono patrimonio del futuro”. Forse, è proprio dalla loro persistente plau-sibilità, da questo bisogno di un’invenzione che esige anzitutto di essere creduta e di un luogo che, sia pure il più irraggiungibile e incerto, reclama tuttavia per sé uno spazio e un tempo, che i viaggi di Verne traggono

la loro potenza simbolica, la forza di una seduzione che, come accade a tutti i grandi scrittori per ragazzi, scansa la facile lusinga del bizzarro e del sensazionale per assurge-re alla dimensione del mito. Perché l’ignoto che ha una longitudine e una latitudine, che può essere indicato su una carta geografica, realizzato in un inge-gnoso esercizio della tecnica, esposto nella precisa pertinenza a un ordine della scienza non ci riesce per questo meno grave e ango-sciante. Esso, invece, reca in sé la promes-sa inquietante di poter farcisi incontro, un giorno, per reclamare il nostro credito, so-praffare la nostra titubanza, imporci, come al signor Joerling, l’ammissione di uno stra-ordinario che ci stava già sempre davanti agli occhi: “Ci credo… ci credo!”. •

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di Francesco Baucia

inCantatore, affabULatore, goUrMandRoald Dahl: favole, avventure e ricette di una vita straordinaria

Alta cucinaLeggere di gusto

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ell’introduzione ai suoi corsi sui capolavori della letteratu-ra Vladimir Nabokov era so-lito ricordare ai suoi studenti

che ogni grande scrittore associa in sé tre qualità fondamentali: l’affabulatore, l’inse-gnante e l’incantatore. Sarebbe difficile non riconoscere questi tre profili in Roald Dahl, l’autore britannico di origine norvegese che è largamente riconosciuto come il benia-mino dei giovani lettori di tutto il mondo. E altrettanto difficile sarebbe immaginare una figura più adatta della sua ‒ un uomo sornione e imponente con le fattezze dei giganti scandinavi ‒ per sedersi accanto a un fuoco e intrattene-re con la magia della parola e del raccon-to un’ideale tribù di bambini curiosi. Già la vita stessa di Dahl, senza l’intervento del-la sua ingegnosa fanta-sia, basterebbe a tene-re incollati alla serie di avventure che ne com-pongono la sequenza: un’infanzia difficile, segnata dalla morte prematura del padre, e trascorsa tra le mura di inquietanti isti-tuti scolastici; il lavoro in Africa orientale per una compagnia petrolifera, poco dopo i vent’anni; lo scoppio della seconda guerra mondiale e il servizio nella Royal Air Force come pilota di caccia; le numerose missioni nel Mediterraneo e in Africa, alcune segna-te da drammatici incidenti che lo portano a un passo dalla tomba; l’attività di spio-naggio svolta per conto del servizio segre-to britannico (di cui forse fa tesoro nel 1967 quando si trova a scrivere la sceneggiatura

di Agente 007 - Si vive solo due volte, uno dei più riusciti film della serie di James Bond). E dopo queste vicende, una fortunata car-riera di narratore di favole, sia per ragazzi che per adulti, caratterizzate da ampie dosi di humour e di un apparente cinismo che nasconde uno sguardo disincantato sulle virtù, ma soprattutto sui vizi, del mondo che lo circonda. Ma se appunto l’intento di “correggere i costumi ridendone” (soprat-tutto se si tratta dei costumi che riguardano i rapporti tra il mondo dei bambini e quel-lo degli adulti) costituisce la spinta inizia-le della sua scrittura, Dahl non mette mai da parte il proprio talento di incantatore.

E così, da buon mago, dà fondo ai materiali che la sua inseparabi-le valigetta (in questo caso la memoria e l’au-tobiografia) gli mette a disposizione per ri-cavarne incanti nuovi e divertenti per il suo giovane pubblico; illu-sionismi che tuttavia i

genitori farebbero bene a non liquidare con sufficienza come l’ennesima distrazione. Come tutte le favole degne di rispetto, an-che le sue hanno una morale. Ne è l’esem-pio perfetto uno dei suoi libri più famosi, La fabbrica di cioccolato (1964). Vi si racconta la visita-premio in una industria dolciaria offerta a cinque bambini dal suo proprieta-rio, l’eccentrico e gigionesco Willy Wonka. La fabbrica in questione non è però un ordi-nario stabilimento. È piuttosto un labirinto, un’immensa giostra, un universo che sem-bra uscito dalla fantasia di Lewis Carroll, dove una tribù di omiciattoli canterini (gli

n

Già la vita stessa di dahl, senza l’intervento

della sua ingegnosa fantasia, basterebbe a

tenere incollati alla serie di avventure che ne

compongono la sequenza

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Umpa-Lumpa) lavora indefessamente alle strampalate invenzioni di Wonka: i confet-ti senza confini (che si possono leccare per più di un anno senza comprometterne la di-mensione), i croccantini che fanno crescere la barba, le caramelle a cubetto che si gira-no da sole come tante picco-le facce, la teletrasmissione delle barrette di cioccolato. Ma anche la visita-premio non è proprio quello che si direbbe una passeggiata: è invece un percorso a ostaco-li, una gara a eliminazione attraverso cui Wonka inten-de selezionare il fortunato tra i bambini che meriterà di ricevere in eredità il suo impero dolciario. Questi sarà il poverissimo Charlie, l’unico tra i suoi simili a es-

sere portatore sano di valori infantili, men-tre gli altri incarnano i vizi che l’opulenza carica sulle spalle dei piccoli maleducati: la teledipendenza, l’obesità, la masticazio-ne compulsiva di chewing gum, il capric-cio. Ma Wonka, come Dahl, conosce bene la massima qualis pater, talis filius, e così anche i genitori dei giovani mostri saranno vitti-ma, alla stregua dei figli, dei trabocchetti della fabbrica di cioccolato, mentre l’unico a scampare sarà il nonno di Charlie, Joe, in-cantato da tutto almeno quanto il nipote, e forse di più. Anche per i villains, Wonka ha

comunque in serbo, al termine dell’avven-tura, una scorta a vita di dolci, in un perfet-to lieto fine.Scritto sulla scorta di un ricordo d’infan-zia ‒ l’azienda alimentare Cadbury invia-va agli alunni della scuola frequentata da

Dahl i propri prodotti da as-saggiare e votare ‒, questo libro ha al centro un tema frequentissimo nelle pagine dell’autore: il cibo. Si trat-ta di una cucina fantasiosa, alla pari delle ingegnose creazioni di Wonka, un ri-cettario fantastico disegna-to per suscitare il riso, la meraviglia e, a volte, anche il disgusto dei piccoli letto-ri. Lo stesso Dahl, insieme alla seconda moglie Felici-ty e a Josie Fison, ha cerca-

to di renderle realizzabili (e in alcuni casi più appetibili) nel libro Le rivoltanti delizie di Roald Dahl (Ugo Mursia Editore). Di cibo, di pietanze predilette e di ricordi, l’autore ha raccontato anche in Memories with food at Gypsy House (Viking Press), scritto sempre con Felicity e pubblicato postumo nel 1991. Dal momento che questo libro non è mai stato tradotto, i lettori italiani si potranno consolare ottimamente con il saggio di Ele-na Massari I bravi bambini mangiano cioccola-ta. Il cibo e gli affetti nella vita e nei racconti di Roald Dahl (Cleup). Oppure ancora potran-

come tutte le favole degne di rispetto, anche le sue hanno una morale. Ne è l’esempio perfetto uno dei suoi libri più

famosi, La fabbrica di cioccolato

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Ingredienti per 4 persone

350 gr di riso integrale (o basmati)1 costa di sedano1/2 cipollaolio d’oliva800 ml di brodo vegetale2 banane verdi2 cucchiaini di curry1 manciata di prezzemolo fresco tritato

risotto Alle bANANe

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no sfogliare i due godibilissimi (non solo da parte dei ragazzi) volumi autobiografi-ci di Dahl, Boy e In solitario (entrambi editi da Salani), a caccia di suggestioni culinarie. Ne presentiamo qui una tratta dal secondo libro, e precisamente dall’episodio in cui al giovane Roald, allo scoppio della guer-ra, viene affidato dall’esercito britannico il comando di un plotone per tenere d’occhio la colonia tedesca di Dar es Salam. Il ser-gente della truppa improvvisa con i pochi ingredienti a sua disposizione quello che Dahl definisce: “il miglior risotto che aves-si mai mangiato”, anche se gli ingredienti sono solo riso integrale e banane. “Le fette di banana erano calde e dolci e facevano da

condimento al riso, come il burro”, scrive Dahl. Senza sposare l’austerità della cuci-na militare, si può riprodurre questa ricetta dalle ascendenze indiane arricchendola con una presa di curry. Una volta preparato un soffritto con sedano e poca cipolla si fa to-stare il riso e lo si cuoce versando poco per volta del brodo vegetale. Nel frattempo si fanno dorare nell’olio le fette di banana, poi a cottura del riso ultimata si uniscono, me-scolando per bene, il curry e le banane, e si guarnisce con una manciata di prezzemolo fresco tritato. Un bicchiere di Gewürztra-miner fresco si accompagna ottimamente a questo risotto, singolare almeno quanto il suo “narratore”. •

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È ormai arcinoto l’aneddoto secondo cui Mar-tin Amis, recandosi in visita dal premio Nobel Saul Bellow, si sia sorpreso intravvedendo sugli scaffali delle librerie dello scrittore “laureato” numerosi volumi di Elmore Leonard. La do-manda spontanea potrebbe essere: cosa ci fan-no i libri del decano dei crime novelist nella bi-blioteca di un autore “alto” come Bellow? Ma la domanda è mal posta e, soprattutto, ammanta-ta di una snobistica diffiden-za. Che tanto Amis quanto Bellow sono disposti a rispe-dire al mittente, dal momen-to che si trovano d’accordo su questa affermazione: “Per una credibile e generosa in-fusione di piacere narrativo in una prosa miracolosamen-te purgata da ogni falsa qua-lità, non c’è davvero nessuno al pari di Elmore Leonard”. Per i lettori che ancora non abbiano sperimentato il pro-digioso cocktail letterario di marca Leonard, si presenta in questi giorni una nuova occasione per assaporarlo. È uscita, in libreria e in ebook per Einaudi, la traduzione di Gibuti, penultima fatica dell’ottantaseien- ne autore originario di New Orleans. Dopo le atmosfere western e noir dei due precedenti ro-manzi usciti in italiano (Su nella stanza di Honey e Road dogs), Leonard sorprende i suoi fans con una storia ambientata nell’Africa orientale, tra pirati, terroristi e registi di documentari. È pro-prio una filmaker sexy e intraprendente, Dara Barr, la protagonista di Gibuti: in compagnia del suo cameraman di fiducia, il settantenne afroa-mericano Xavier LeBo, dall’aspetto di un wa-

tusso, si aggira per il golfo di Aden inseguendo le gesta dei corsari contemporanei, per trovarsi invischiata in una ragnatela di doppi giochi e trame che celano la complicità di malavita, ter-rorismo, finanza e servizi segreti. Inconsape-volmente emulo di Emilio Salgari, Leonard ha scritto Gibuti senza muoversi dagli States, come ha confidato in una recente intervista a “Re-pubblica”. Non risente tuttavia di profondità

descrittiva l’intreccio, che come al solito ha per fiori all’occhiel-lo piuttosto il montaggio delle scene e le impareggiabili pagi-ne di battute scambiate dai per-sonaggi, per merito delle quali Leonard si è meritato, da parte di Stephen King, l’appellativo di miglior dialoghista della let-teratura americana (battute che peraltro hanno profondamen-te influenzato anche le sceneg-giature di Quentin Tarantino). E sempre sorprendente risulta poi l’artificio che da tempo co-stituisce una delle cifre stilisti-che dell’autore: quell’abilità di avvincere i lettori agli eventi narrati non raccontandoli diret-tamente, ma facendoli apparire

proprio attraverso i dialoghi dei protagonisti, a fatti avvenuti. Leonard crea così un incastro di prospettive che, invece di annacquare, incre-menta la suspense permettendo al contempo ai lettori di penetrare più fondo nella mente dei personaggi in scena. Così nel romanzo seguia-mo gli eventi di Gibuti insieme a Dara e Xavier mentre visionano il girato del loro documenta-rio, provando la sensazione, pagina dopo pagi-na, di stare sperimentando un’esperienza uni-ca: quella di “leggere” un film.

Leggere un film

gibUtidi elmore Leonard

recensioni

disponibile su www.biblet.it

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loNdoN book FAire gli altri eventi del mese

Appuntamenti

LONDON BOOK FAIR Giunta alla quarantunesima edizione, la London Book Fair apre i battenti il 16 aprile e si conferma un appuntamento irrinunciabile per operatori e appassionati. Il ricchissimo programma della tre giorni londinese dedica quest’anno una particola-re attenzione alla Cina, mercato emergente dalle straordinarie potenzialità, ma anche fucina di im-portanti talenti letterari. Più di 180 editori e 21 au-tori provenienti dalla Cina parteciperanno a una serie di iniziative in cui verranno approfondite le dinamiche attuali del mercato editoriale cinese, i possibili scenari di sviluppo dell’industria edi-toriale, le tendenze più recenti del panorama let-terario, le problematiche legate alla traduzione. Ospiti d’onore saranno lo scrittore inglese Peter James, creatore della serie di thriller che ha per protagonista l’ispettore Roy Grace, giunta al suo ottavo capitolo con il romanzo Not Dead Yet (in Italia sono uscite le prime quattro avventure); lo scrittore e sceneggiatore cinese Bi Feiyu, vincitore del Man Asian Literary Prize del 2010; lo scritto-re per ragazzi Patrick Ness, di cui sono apparsi in Italia Il buco nel rumore (2008) e il recente Sette minuti dopo la mezzanotte (2012). Tra gli altri autori presenti alla kermesse Anthony Horowitz, Sarah Hall, Jung Chan.Dal 16 al 18 aprile

INCROCI DI CIVILTÀ - INCONTRI INTER-NAZIONALI DI LETTERATURA A VENEZIASarà il neuroscienziato e scrittore portoghese An-tonio Damasio a inaugurare la quinta edizione del festival letterario veneziano dedicato all’in-contro tra le culture. Organizzata dal Comune di Venezia e dall’Università Ca’ Foscari, la manife-stazione accoglierà in varie sedi della città lagu-nare scrittori, saggisti, intellettuali da 17 paesi, tra i quali lo scrittore olandese Cees Nooteboom, gli svedesi Steve Sem-Sandberg e Per Olov Enquist,

la giallista spagnola Alicia Giménez-Bartlett, gli italiani Roberto Calasso e Andrea Molesini. La scrittrice egiziana Ghada Abdel Aal, l’algeri-na Malika Mokkedem e la libanese Alawiya Sobh discuteranno della letteratura araba al femmini-le; lo scrittore russo Vladimir Sorokin presenterà un testo inedito ispirato alla città di Venezia; Wim Emmerik e Giselle Meyer, poeti olandesi della lin-gua dei segni, offriranno un saggio del loro sug-gestivo e particolarissimo linguaggio poetico. Dal 18 al 21 aprile

SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBROIl Salone Internazionale del Libro di Torino com-pie venticinque anni: la prima edizione si inau-gurava infatti il 18 maggio 1988. Per festeggiare l’evento l’edizione del 2012 chiuderà una serie di manifestazioni, in corso già da febbrario, che sotto il titolo “La Città Visibile. Torino 1988-2012” intendono approfondire il rapporto simbiotico tra il Salone del Libro e la città di Torino, riper-correndone le vicendevoli influenze e il dinamico evolversi delle rispettive identità nel corso degli ultimi venticinque anni. Il motivo conduttore del Salone di quest’anno è “Vivere in rete: le mutazio-ni indotte dalle tecnologie digitali”, in cui autori, editori, lettori torneranno a interrogarsi sugli sce-nari prevedibili o auspicabili che ci riserva l’inar-restabile evoluzione delle tecnologie digitali, con la loro ricaduta sui modelli dell’industria edito-riale, ma anche e soprattutto sulle pratiche stesse della scrittura, della lettura, dell’apprendimento. I Paesi ospiti di quest’anno sono la Spagna e la Romania, cui saranno dedicati incontri, dibatti-ti, presentazioni, e che saranno rappresentati da autori come Norman Manea, Mircea Cartarescu, Fernando Savater, Javier Cercas, Ildefonso Falco-nes, Antonio Soler.Dal 10 al 14 maggio

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Tweets

Bookbugs

@theincipit

Chi legge gli ebook

legge di più.

@Pianeta_eBookAbbonamento a riviste digitali “a sazietà” per 10 dollari al mese. È il futuro del commercio dei contenuti digitali?

@sgnaccherogli ebook avranno sicuramente tutti i pregi del

mondo, ma io sono attratto

dai difetti.

@giuliopasseriniEbook - Tutti a piangere i colo-ri e il profumo della carta. E ai poveri reggilibri chi ci pensa?!@melamela

Buongiorno. Una si sveglia

la mattina e, bevendo il

caffè, si compra tre ebook.

@lastradabreveCioè, uno si legge un eBook Kindle Edition e non può aggiungerlo su Anobii. Motivazione? “Perché no.” Come far scappare gli utenti.

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PreTesti • Occasioni di letteratura digitaleAprile 2012 • Numero 4 • Anno II

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Redazione:Sergio BassaniLuca BisinFabio FumagalliPatrizia MartinoFrancesco Picconi

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